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Autore: ron_    19/06/2015    0 recensioni
In una tranquilla mattinata nelle strade di San Francisco, il cavo d'acciaio che trascina uno dei tipici tram della città, chiamati Cable Car, si stacca. Da far deragliare la carrozza, che per svariati chilometri struscia sul fianco. Così come quel tram, la vita di Amy è appesa ad un filo. Suo marito Mike sta giorno e notte a tenerle la mano in ospedale, ed i loro figli, Beca, Josh e Megan sono costretti a rifugiarsi nella cittadina estiva di Santa Cruz. Nella vecchia casa delle vacanze, che era appartenuta ai loro nonni, con la cugina ventitreenne Marise ad aspettarli. Iniziata come una costrizione, la vacanza si rivela piena di sorprese, nuove esperienze e conoscenze, soprattutto per la, ormai non più piccola, Meggie.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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L’acqua scorreva limpida nel lago ai miei piedi, ed il riflesso del viso di mia sorella coloriva quella piatta distesa di acqua dolce. Rifletteva giusto il chiaro dei suoi occhi che quasi scomparivano infondo a tale limpidezza, e le sue labbra color delle ciliegie spiccavano vivacemente. Di me invece, vedevo solo un qualcosa che odiavo, niente di bello. Persino l’acqua ritraeva solo la mia goffaggine e il senso di enorme inadeguatezza che sempre mi accompagnava. Mio fratello era intento, invece, a pescare con la sua vecchia canna di legno che era stata in passato del nonno. Con la sua solita espressione spavalda, ma che solo con le sue sorelle svaniva e si trasformava in un sorrisetto sempre presente. Eravamo una bella cosa, noi tre assieme. Formavamo un giusto equilibrio. E quell’estate ne fu la prova. Era la lunga estate dei miei quasi sedici anni; Josh ne aveva diciotto e mia sorella Beca, nata dieci mesi prima di lui, ne aveva già diciannove. Difficile da pensare, ma giravamo tutti e tre insieme, in quel paesino chiuso dal mare e dalle colline. I miei genitori erano in ospedale da ormai tre interminabili mesi.

Mia mamma stava su un tram per andare al lavoro, quando una delle funi di acciaio con cui vengono trascinati i Cable Car sulle rotaie, si staccò, all’incrocio con un'altra rotaia. Il veicolo sbandò, ritrovandosi capovolto. Strusciò sul fianco per chilometri e chilometri, lungo la Market Street, la via più importante di St. Francisco. L’incidente causò all’incirca 19 morti. Il resto furono feriti, di cui altri gravi. Mamma era nella fascia dei “molto gravi”. Così descrisse il “Castro Courier”, il giornale locale del nostro quartiere. Papà stava bene invece, ma per modo di dire. In quei tre mesi non si staccò un attimo dalla caffetteria dell’ospedale, la stanza di mamma e la chiesa all’interno della clinica. Avanti e indietro. La situazione della mamma era talmente grave da entrare sveglia, seppur in stato di shock, sulla barella nell’ambulanza, fino ad arrivare in ospedale, ormai in coma. Noi la andammo a trovare molte, molte volte, ma non fu semplice. Nel periodo nero della terapia intensiva, soprattutto. Dovemmo imbacuccarci tutti: con i camici, le mascherine, le cuffiette, i guanti in lattice. Potemmo entrare solo uno alla volta per starci solamente una manciata di minuti. E quel poco tempo non ci bastava. A nessuno di noi. Potrebbe apparire come un gesto egoistico, ma un giorno, io, un guanto me lo sfilai. Volli sentire il mio tocco sulla pelle di mamma, per quanto rischioso per lei potesse essere, ne avevo bisogno. Il resto della mia famiglia ci guardava dal vetro e non disse nulla. Papà piangeva. Mamma era a pezzi, fisicamente e simbolicamente. Non avrebbe sorriso ancora per chissà quanto. E noi tutti con lei.

Avevo insistito per riportarla io, la canna da pesca di mio fratello a casa, anche se lui camminava proprio accanto a me. Portandola in braccio di modo che distogliesse tutta l’attenzione da me, su di lei. La usai come una sorta di scudo. Ed a rafforzare questo mio volere, c’era anche mia sorella. Slanciata e alta, allo stesso tempo con una delicatezza disarmante, si muoveva con i capelli scuri che le fluttuavano ondeggiando nell’aria e i passi leggeri dei suoi sandali. Eravamo appena arrivati nel portico della vecchia villa dei nonni, quando trovammo nostra cugina Marise che sull’amaca leggeva un buon libro, sicuramente, sorseggiando un buon bicchiere di sherry, sicuramente. “Quanto ci avete messo! Sono contenta. Avete conosciuto qualcuno?” “Non direi. Siamo appena arrivati.” Era mio fratello Josh. “Si, siamo appena arrivati, non ti preoccupare. E comunque ci inventeremo qualcosa da fare, noi tre insieme.” Ora era Beca, a cercare di recuperare il tono acido usato da Josh. Ma io sapevo che non era intenzione di mio fratello apparire scortese. Distogliendo lo sguardo da loro, sorpresi la mia cugina ventitreenne scrutarmi, da dietro le sue lenti giallognole oscurate. “Che c’è, zia?” A differenza dei miei fratelli, io la consideravo la cosa più vicina ad una zia, data la differenza di età, ma soprattutto l’atteggiamento con il quale usava comportarsi con me. "Che c’è? Che vuoi?" le domando. “No, no, niente. E’ solo che stai sempre zitta, rospetta.” Anche i miei fratelli la guardarono. “Non ti pronunci mai, su nulla.” Continuò Marise.  “No. Sei tu che sei noiosa.” Intervenne mio fratello, avvicinandosi alla sua postazione sull’ amaca appesa nell'ombra, tra i tronchi di due alberi da frutto, nel posto più fresco e pacioso del giardino. “Non è vero. Se solo usciste con me non lo pensereste.” Non fece in tempo a finire di parlare che mio fratello Josh raggiunse l’amaca, infilò le dita nel tessuto reticolato e fece per capovolgerla, fin quando a suon di urletti di mia zia, Josh smise. Dall’interno della casa provenne lo squillo di un telefono e mi apprestai a raggiungerlo. Lasciai alle mie spalle Beca che mi seguiva con lo sguardo, desiderosa quanto me di sapere chi fosse, e Josh e Marise che si punzecchiavano e scherzavano tra di loro. Trovai la fonte dello squillare ed era il cellulare della zia, così lo presi e sempre correndo glielo portai. Intanto era scesa dall’amaca ed era appoggiata a mio fratello, lui con un indecifrabile, persino per me, espressione sul viso. “Si, ah-a. Si. Capisco. Ok.” Le solite parole che rivolgeva mia sorella quando papà chiamava e ci parlava della situazione della mamma. Tutti e tre desiderosi di sapere chi fosse dall’altro lato della cornetta, aspettammo in silenzio che Marise attaccò. “E’ Greg. Tranquilli. Ha detto dove e quando ci vediamo stasera.” “Anche con noi?” chiesero i miei fratelli, con due toni diversi, come se cercassero in risposta qualcosa di opposto l’uno dall’altra. “Ma no. Io e lui. Beh, oddio, se voi volete uscire fate pure. Ma non con noi di sicuro.” Riusciva a risultare impertinente anche quando non voleva, un po’ come Josh. 

Ciao a tutti, volevo dirvi che questa storia mi sta particolarmente a cuore, dati gli argomenti di cui tratta. Tenevo anche a informarvi quanto io mi sia dedicata a questa storia per cercare di farvi immergere nei luoghi, accanto ai personaggi. Ho passato ore e ore su Google Earth cercando di rendere al massimo l'idea che avevo in mente, riportando vie e luoghi realmente esistenti, in modo da farvi percepire meglio. Sui luoghi e sui personaggi e dei posti, in questo primo capitolo ne narro in grandi linee, dato che ve ne introdurro' nei prossimi. Spero che il tutto vi piaccia e continuiate a seguirmi. Ron.
  
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