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Autore: tsarita    21/06/2015    2 recensioni
"Dio, Clint. Che stai facendo qui?[...] "Lo so... lo so che vuoi affrontarlo. Tutto quanto. Lo so che hai capito che fuggire... dal passato o da ciò che ci ossessiona non è la soluzione. Lo so che stare qui ti rende più forte. E so che sei così ostinatamente fissato con l'idea di dover aggiustare questo posto perché... beh, perché è un po' come aggiustare te stesso. Ma mettere pezze qua e la non ti darà sollievo, Clint. Il sangue non puoi lavarlo via. Questo posto puzzerà sempre di sangue e di lacrime e non c' niente che puoi fare per cambiarlo. Ti stai facendo del male. Non stai espiando il tuo dolore cosi, ti stai infliggendo una punizione. La più tremenda di tutte. Non devi pagare tu per gli errori dei tuoi genitori. Non è colpa tua."
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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We will call this place our home,
The dirt in which our roots may grow

Though the storms will push and pull

We will call this place our home




Smaller than dust on the map
Lies the greatest thing we have
The dirt in which our roots may grow
And the right to call it Home.
{North - Sleeping At Last}

 



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[Vedi note in fondo al capitolo per intro]
 



Era così che finivano i miei weekend liberi: su un SUV, spersa nel Midwest americano, con una capra sui sedili posteriori, a cercare quella testa di minchia che, nonostante fosse in congedo con clausola

*reperibile 24/7*, immancabilmente si era allontanato troppo dal centro dell'ultimo disastro in corso.

Il pro era che oramai sapevo dove cercarlo, era fisso da un annetto a quella parte, da quando aveva rilevato la casa della sua infanzia, senza che dovessi sforzarmi più di tanto per rintracciarlo. Non che fosse mai stato un peso, ma di certo avrei preferito passare i miei giorni liberi in altri modi, senza il dover fare quello che, alla fine, facevo tutti i giorni - per lavoro.

Odiavo il Midwest con tutta me stessa. Non c'era posto più rozzo e cafone, neanche i recessi della Siberia erano così. O il Kazakhstan.

Le 16 ore di macchina che ci volevano per arrivare non mi andavano a genio, neanche. E tanto per finire... pioveva. No, non pioveva - diluviava. Eravamo nel bel mezzo della stagione delle tempeste e quel temporale era degnamente paragonabile ad uno di quelli scatenati da Thor quando gli si insultava la madrepatria.

Speravo vivamente che Barton avesse sistemato il tetto stavolta, perché idea di tornare in quel posto con il soffitto che colava acqua da tutte le parti non era molto rincuorante.

"Dammi 24 ore. Lunedì mattina te lo faccio presentare in ufficio." dissi pigramente, allo speaker gracchiante della console a fianco al cruscotto.

"Abbiamo una situazione..."

"Lo so, Maria. Ho visto Banner di sfuggita l'altra sera. Devo dire che la sua cera era molto più eloquente del rapporto che ho letto su quello che è successo. Ad ogni modo, saprai quale sarà la sua obiezione."

"Appunto l'ho chiesto a te"

"La prossima volta mi servirà un pick-up, non un SUV. I budget-cuts hanno affetto anche i mezzi? Che schifo sto guidando?"

"È un Dodge Journey ed è nuova di zecca. Non dovrebbe darti problemi. Più off road di questo, ti dovevo dare un carro armato."

"Eravate molto meglio equipaggiati prima..."

"Lunedì mattina"

"Dieci in punto."

Era sempre gradevole avere a che fare con Maria Hill il fine settimana. Era decisamente meglio prenderla di venerdì che di lunedì- c'era un abisso di differenza. Da quando era bloccata a lavorare per Stark, poi, era diventata ancora più caustica del solito: su una cosa andavamo d'accordo, la sopportazione di un certo ambiente. Certo, alla fine c'erano anche pro, come il fatto che ora i pettegolezzi si sprecavano: sapevamo per certo (Maria ed io), per esempio, di tutti i vari intrallazzi che si consumavano all'interno di quella Torre, dagli appuntamenti oramai ricorrenti di Cap e Carter al nuovo flagello di Stark, la ex fiamma di Banner. Spettegolare era il contentino dei nostri sabato sera al bar.

La capra. Era una lunga storia.

Mi ero detta, siccome l'ultima volta che ero stata lì, per sbaglio, avevo messo sotto uno dei polli che giravano per la tenuta (recinti no, eh, Clint?)... allora magari la capra avrebbe potuto colmare il vuoto.

In realtà era stata una scelta repentina, un'idea balenata all'improvviso, mentre attraversavo l'Indiana. E non ero stata io a trovare la capra, era stata la capra a trovare me. Probabilmente scappata da qualche allevamento.

Era finita sui sedili di dietro e non mi ero fatta troppi scrupoli a riguardo: tanto la macchina non era mia.

A 16 ore dalla partenza mi ritrovai lungo il vialetto sterrato d'ingresso che dalla strada conduceva su, verso la parte alta della collinetta dove c'era la fattoria. Sì, sterrato ovviamente. E ovviamente i pneumatici del gioiellino dello SHIELD non fecero il loro dovere. Rimasi impantanata a metà strada, nel fango che veniva giù neanche fosse una fontana di cioccolato.

Il momento in cui si sarebbe deciso a chiamare una ditta per fare i lavori di consolidamento a quel terreno sarebbe stato troppo tardi.

Dopo l'ennesima sgommata -invana speranza di liberarsi- sentii l'immancabile, sinistro rumore che mi fece soprassalire - "No. Non di nuovo" brontolai tra me e me, raggelando.

Mi feci forza e aprii lo sportello, saltando giù dalla macchina.

"Ah, merda."

Ed eccola lì. Un'altra gallina, stecchita sotto le ruote posteriori dell'auto. Mi affrettai, un po' per la pioggia, un po' per... la difficoltà nella quale mi ero ritrovata: la presi e la gettai nel bagagliaio.

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"Non guardarmi con quella faccia, Lucky, lo so."- lui, in risposta, guaì e mi lanciò quella sua occhiata scettica, capace di farti saltare i nervi.

"Ti ho detto che lo so. Capisco l'importanza della situazione. So benissimo che Guendalina era l'unica gallina capace di fare uova perfette tutte le mattine. E so che la sua scomparsa è grave, lo so. Sto elaborando un piano per ritrovarla, se solo mi lasciassi lavorare..." - tenevo tra le mani un pennarello mezzo scarico e, davanti a me, avevo ritrovato una piantina della zona e qualche foto delle proprietà nei dintorni. Cercavo di capirci qualcosa, se solo il maledetto cane avesse smesso di fissarmi.

Mi regalò solo pochi istanti di pace, poi, insieme all'ennesimo tuono, nel momento in cui mi avvicinai ad una foto in particolare, arrivò anche l'ennesimo abbaio.

"No. Lucky, no. Lo so cosa pensi, ma no. Saranno anche a chilometri da qui, ma sono tecnicamente i nostri vicini di casa. Sono brava gente e ci hanno portato i pancakes ieri. Mi rifiuto di credere che siano ladri di galline indifese. Tu parli così soltanto perchè ce l'hai su col loro cane che ha il pelo più lucido del tuo."

Un nuovo guaito, stavolta seguito da un mezzo ringhio.

"Io te li compro i croccantini!" - ribattei - "Sei tu che ti ostini a mangiare solo pizza. E ora zitto, ho una gallina da ritrovare."

Onestamente non sapevo ancora di preciso come mi fossi andato ad in filare in una situazione del genere. Quella fattoria neppure mi piaceva. Era tetra, e triste. Non c'era una sola stanza lì dentro che non mi riportasse alla mente ricordi poco piacevoli di un'infanzia ancor meno piacevole. E starci da solo era terribile, specie in giornate come quella, durante le quali la pioggia incessante mi relegava in casa insieme ad immagini sbiadite del mio passato, insieme a vecchi spettri che neppure la compagnia di Lucky riusciva a scacciare. Eppure l'avevo comprata, e ci ritornavo più spesso di quanto avrei mai potuto immaginare, perchè quelle mura, grigi e tristi, in fondo erano state "casa". Non una casa accogliente, non la casa che un bambino meriterebbe, ma lì dentro avevo imparato alcune delle lezioni più importanti della mia vita. E, sorprendentemente, più tempo passavo lì dentro, più scoprivo che qualche ricordo buono, in fondo, c'era; nascosto, dimenticato, ma c'era. Mi sentivo nostalgico. Ultimamente pensavo spesso al mio passato, alla mia vita, a tutto ciò che era andato a rotoli senza una ragione precisa... forse cercavo solo il modo di rimettere in sesto ciò che potevo ancora recuperare, ciò che potevo ritrovare.

"Ehi. L'hai sentito?" - il cane si alzò su due zampe e rizzò le orecchie. Io mi avvicinai alla finestra per controllare che la pioggia battente non mi avesse portato a credere cose che non erano. E invece....

"Aspetta qui."

Corsi fuori, sotto la pioggia, fino a raggiungere l'auto impantanata a metà del vialetto.

"Che diamine----" - mi interruppi, notando un particolare interessante - "Adesso te ne vai in giro con le capre sul sedile posteriore? Tenti di lanciare una nuova moda?"

 

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"Ti pare che sia una fashion victim o roba simile?" risposi scettica, proprio mentre mi ripulivo le mani dal san---fango sui jeans. Il bagagliaio era chiuso, almeno quello. Feci il giro del SUV e finii al suo fianco, addossandomi alla portiera del sedile posteriore, per l'esattezza, quello con l'animale. Aveva il muso spiccicato contro il vetro e per un attimo mi fece senso -senso vero- tant'è che mi ritrassi, con un'espressione schifata in volto.

"L'ho trovata che faceva autostop 30 miglia ad ovest di Indianapolis. Veniva da queste parti, quindi le ho dato uno strappo" risposi, facendomi coraggio ed aprendo la portiera. Non sapevo lui, ma io non avevo intenzione di andare dietro e spingere il SUV. Sarebbe rimasto là, almeno fino a che il terreno non si fosse asciugato e fosse tornato favorevole alla guida in salita. Aprii la portiera e afferrai il cordoncino con cui l'avevo legata (nient'altro che la cinta dei miei pantaloni), facendola scendere.

"Tu uscire con un ombrello no, eh? Chiedere troppo." rimbeccai sorpassandolo, mezza piegata sotto la pioggia, diretta verso la casa.

Un angolo di mondo peggiore non poteva averlo partorito dopotutto, mi dicevo.

"Devi smetterla di prendere il cane ed evadere mentre ci sono crisi di sicurezza mondiale in corso. Uno, è di cattivo gusto. Due, ti fa passare per stronzo. Tre, potresti davvero rischiare di rimpiangere di averlo fatto. Quattro, io finisco qui a riprenderti." elencai, nel momento in cui misi piede sulle scale del portico.

Ci volle per trascinare su anche la capra, ma scalino scalino ce la feci.

"Ti piove in casa?"

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Di capre non ne avevo in giro, per quello mi soffermai più del dovuto sulla novità. A dire il vero per quanto riguardava il reparto animali la fattoria scarseggiava parecchio. Giusto qualche coniglio in gabbia, tre galline (due, al momento) e un paio di pecore prese fresche fresche all'ultima fiera di paese. L'intento era di insegnare a Lucky a radunarle come un cane da pastore coi controfiocchi prima di prenderne di altre. Avremmo potuto fare della gare, anche se prima, magari, avevo bisogno di un recinto sicuro e robusto. Ci stavo lavorando, lavoravo a tutto io.

"Se dovessi rimanere a New York ogni volta che c'è una crisi non muoverei il culo da quella maledetta Torre." - ribattei - Uno, le crisi mondiali sono all'ordine del giorno. Due, che sono stronzo è risaputo. Tre, avevo lasciato detto dove mi trovavo. A Wilson, mi pare. Ma evidentemente è stato troppo preso a fare il broncio perchè Cap non gli dedica più la sua completa attenzione, per ricordarsene. Quattro, avevo un ombrello solo e l'ho usato per tappare l'ultimo buco sul tetto prima dell'arrivo del cataclisma. Quindi no, niente ombrello, ma almeno il tetto è a posto. Ho anche il riscaldamento adesso." - me ne vantai, come fosse una gran cosa, in realtà mi ero limitato a far ripartire i vecchi termosifoni alimentati a caldaia che già c'erano. Ci mettevano un'ora buona a scaldarsi e neppure era detto che partissero al primo tentativo. Avrei potuto chiamare un tecnico, qualcuno...Stark, ma preferivo fare da solo. Volevo, anzi, cavarmela da solo. Quella era diventata la mia assurda fissazione.

L'aiutai con la capra, spingendola da dietro fino al portico, poi su per le scale. Lucky avrebbe avuto compagnia quella sera, io speravo solo che il resto della ciurma non fosse annegata nel frattempo nella stalla.

"Ehi! Di un pò, non è che mentre venivi qui, oltre alla capra, hai visto anche una gallina? Si chiama Guendalina, le avevo messo un fiocchettino viola al collo....

 

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Beh, quelli erano veri passi avanti. Feci una smorfia e spinsi la porta d'ingresso, tirando la capra dentro con me. Neanche il tempo di varcare la soglia che immediatamente il cane abbaiò e mi fu addosso.

"Ew. Stai giù" gli feci, scansandomi appena. L'altro animale, a fianco a me, si era agitato e dava sfogo alle sue doti canore nel peggior modo possibile.

"Dunque, ho pensato di riportarti la capra per via dell'incidente dell'altra volta. Quando ho arrotato Adelina, lì." dissi. Almeno mi sembrava di ricordare che si chiamasse così. O forse mi stavo solo facendo condizionare dal fatto che mi aveva appena chiesto di un'altra gallina chiamata Guendalina -gallina che, tra l'altro, era molto probabilmente quella i cui resti riposavano piùo meno in pace nel mio portabagagli- e quindi avevo fatto l'infelice associazione solo inconsciamente.

Strinsi le spalle. "Non lo so. Ce ne sono parecchie di galline qui in giro. Ma non mi fermo a guardarne il colore del collarino, Clint. Fatti bastare questa capra come pegno del mio cordoglio per la tua situazione faunistica, da queste parti. Sia per una, che per l'altra gallina."

Sì, era meglio così, prenderla sul vago senza dare tanto peso. Le galline morivano ogni giorno, dopotutto. E non solo quelle: anche anziani, donne e bambini - c'erano situazioni ben più gravi e tragiche nel mondo.

Mi resi conto che effettivamente la casa intorno a me aveva fatto parecchi progressi dall'ultima volta: non era ancora esattamente "abitabile", ma c'era un non so che in più che le dava un'atmosfera familiare, più calda ed accogliente (e non solo per via del riscaldamento).

Abbassai lo sguardo su Lucky che stava annusando la capra con parecchia curiosità. Mi tirai via gli stivali infangati lasciandoli lì vicino alla porta.

"Non lo so. Non lo so dove la devi mettere, in tutta onestà. Tieni. Vedi... che farci..." feci, mollandogli in mano la cinta - con annesso capretto.

 

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Dovetti accettare la capra e mettermi a cercare una stanza. Con tutta la fatica fatta non mi andava di ritornarmene sotto l'acqua, col fango alle ginocchia, per spingere.....Cristina (suonava bene per la capra) fino alla stalla. Me la tirai, quindi, verso il retro del primo piano della casa, provai ad incitarla, ma non sembrava avesse voglia di collaborare, quindi mi ritrovai costretto a trascinarla strattonando la cinta fino a quella che era stata la vecchia stanza di Barney, una volta. Stava al piano terra lui, si teneva vicino alla porta sul retro sempre aperta. Mi sembrò in qualche modo giusto piazzare la capra lì dentro, dopotutto capra lo era anche mio fratello.

"Prendiamole della paglia asciutta, Lucky...."- non chiedetemi perché mai avessi della paglia anche dentro casa, vi basti sapere che c'è l'avevo. Punto.

Per quanto potessi saperne di capre -cioè niente- cercai di metterla comoda, poi, passata la pioggia, se fosse sopravvissuta all'ardua impresa di una notte in casa Barton, mi sarei preoccupato di andarmi a cercare un manuale o roba simile per capire che farci.

Tornai da Natasha dopo aver chiuso dentro l'animale, essermi sfilato gli scarponi ed essermi procurato due grossi asciugamani.

"Tieni."- feci, lanciandogliene uno - "Allora? Sto aspettando. Cos' altro è successo che non so e richiede la mia immediata presenza?"

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Non so perché, ma improvvisamente mi sovvenne il fatto che forse non era stata poi così una buona idea. La capra, intendo. Mentre la vedevo trascinata fuori dall'ingresso, lontana dal soggiorno e dalla sala da pranzo, mi dissi che molto probabilmente l'avevo strappata ad una vita molto più felice, nella sua casa, la sua vera fattoria, con le sue compagne e un vero campagnolo che sapeva come gestirla. Feci spallucce tra me e me, annotando mentalmente che avrei dovuto aggiungerla alla lista delle persone (o animali) a cui avevo rovinato la vita.

"Forse non ti è chiara la dicitura "in permesso con riservo di reperibilità”, Clint" replicai afferrando l'asciugamano. Mi sfilai la giacca, anch'essa zuppa e l'appesi a fianco alla porta, sull'appendiabiti, prima di avvolgermi in quello, asciutto e pulito.

"Non è... successo niente di eclatante - ancora. Ma c'è comunque massima allerta." continuai."Dopo il ritorno di Banner dallo spazio... Maria è più nevrotica del solito. Stark non la sta a sentire - non sta a sentire nessuno a dire il vero, è troppo preso dalla sua nuova fiamma. Attraversare il paese non è esattamente il massimo in questo momento. E quindi ecco che mi arriva la telefonata alle 11 di sabato mattina, mentre sono al brunch con Carter che mi racconta delle ultimissime tra lei e le chiappe di Steve Rogers: "Vai a prendere Barton."

Mi mossi, lasciandomi alle spalle il tappetino sull'uscio che mi aveva sostenuta per tutto quel tempo, da quando ero entrata, per farmi avanti verso la sala.

Speravo vivamente che avesse intenzione di cambiare l'arredamento, perché quel divano anni 40 era tremendamente inguardabile. E che togliesse tutte quelle riviste di ristrutturazione, faidate e architettura da dentro il caminetto, perché quello ne valeva la pena di rimetterlo in sesto.

"Quindi, non essere seccato dalla visita. Sappi che per te non ho finito il mio terzo bellini."

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"Avresti potuto finirlo, con tutta calma."- ribattei, sciogliendo l'asciugamano per strofinare i capelli, zuppi e gocciolanti pioggia - "So perfettamente cosa implica la dicitura, di fatti sono reperibile, mi pare. Tu mi hai trovato senza sforzo, o sbaglio? Dovresti dire alla tua bff di darsi una calmata, al momento la situazione sarà anche di merda -come sempre- ma non è di quella merda contro la quale possiamo fare qualcosa, ancora . Neanche Thor può farci niente. E se Stark e Cap se la prendono abbastanza comoda mettendosi ad affinare le loro tattiche di seduzione, non vedo perché io dovrei rinunciare a qualche giorno di bricolage pur di restare lì a far niente."

Non era la prima volta che il mondo si trovava sulla cima di un burrone, tuttavia stavolta era diverso. Quei...Wraith...non erano come tutte le altre dannate creature aliene venute farci la pelle e a cui avevamo mostrato una sana dose di cruenta ospitalità terrestre. Qui avevamo a che fare con qualcosa di diverso, a cominciare dal fatto che non venivano per conquistare, ma soltanto per mangiare. Non sapevamo quando e se avrebbero attaccato ancora, non sapevamo dove né era possibile prevederlo. Fare piani era altrettanto inutile, non c'è n'erano le basi. Dal mio punto di vista avevo ben poco di concreto tra le mani con cui poter lavorare.

"Ho un telefono satellitare da qualche parte. Evidentemente il sistema di archiviazione fatto di biglietti e post it del nuovo SHIELD s' è perso il numero. Ad ogni modo cosa sperava di risolvere mandandoti qui, adesso? Questa pioggia non cesserà prima di due giorni. E quell'auto non tornerà funzionante prima di altri quattro. Inoltre, dubito fortemente delle capacità del "nuovo SHIELD" di mobilitare un'intera portaerei pur di venire a recuperare me, come ai vecchi tempi. Quindi, bell'affare! Prima disperso c'ero solo io, adesso siamo in due, bloccati in campagna per una settimana buona. Sembra la trama per una pessima sit-com..."

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Mi stetti zitta per qualche secondo, col naso arricciato e un'espressione indecifrabile sul viso. Era normale per me elaborare prima di rispondere, o comunque mollare apparentemente i discorsi solo per poi riprenderli minuti dopo, con nuova enfasi ritrovata. Il punto era che... ne passò uno di minuto, poi due, poi tre... e la mia mente ancora non aveva elaborato niente.

"Ma taci." me ne uscii alla fine, all'improvviso, guardandolo. "Tu hai una macchina fuori. Come ci sei venuto qui, sennò."

E come al solito stava costruendo ponti dove non passava l'acqua, perché onestamente la pioggia non mi spaventava, così come non mi spaventava l'idea di lasciare lì ad arrugginire il SUV dello SHIELD. Magari avrebbe potuto smontarlo e trovare i pezzi di ricambio per... che ne so... il trattore. Se usava roba del genere.

"Ho detto che lunedì mattina saremo stati in ufficio." ribadii, per poi avvolgermi l'asciugamano nei capelli.

No perchél'idea di dare buca all'appuntamento non mi spaventava quanto l'idea di ritrovarmi con la segatura tra i capelli, perché quella non mancava mai nei "progettini bricolage". C'era anche una distinta puzza di fieno dentro quella casa. E non so cos'era meglio, se la segatura tra i capelli o fili di fieno in mezzo alle chiappe.

"Uh-uhm..." mormorai, serrando le labbra. "E comunque. Essere reperibile significa che in ogni momento, in 20 minuti, se chiamato, puoi essere alla base. E non mi sembra il caso questo. E il tuo telefono satellitare ti è caduto nella tazza del cesso due mesi fa, Clint. Quindi sei anche irreperibile. E io ti ho trovato perchésapevo dov'eri. Non perché gli altri abbiano gli stessi privilegi di conoscere i tuoi spostamenti..."

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Inarcai un sopracciglio, lasciando che sulle labbra mi si disegnare un ghigno divertito. Quasi mi sentivo deluso, avrebbe dovuto conoscermi meglio, e sapere che nella stragrande maggioranza delle cose che facevo sembrava esserci davvero molto poco senso.

Incrociai le braccia al petto, fissandola per qualche istante.

"Niente macchina. Ho fatto l'autostop. Io e il cane. Abbiamo viaggiato sui trattori, non è stato molto comodo o profumato, ma è stato...poetico, direi. Ci abbiamo messo due giorni per arrivare." - me ne uscii. Non era stato niente di premeditato. A dire il vero c'aveva azzeccato a metà. In macchina ci ero partito, ma quella mi aveva mollato a piedi non appena la strada si era fatta meno liscia. Mi ero fermato in un motel per una notte, poi avevo dovuto arrangiarmi.

"Ce l'ho un telefono satellitare. Nuovo di zecca. Infatti contavo di tornare usando quello. Me lo sono fatto dare da Coulson settimana scorsa, dopo avergli spiegato che il mio era finito nel cesso come "protesta civica" nei confronti delle paranoie del lunedì mattina della Hill."

Mi allontanai verso la cucina. Non era ancora propriamente una cucina, ma c'era qualche vecchio mobile, un tavolo e un fornellino funzionante. Era incredibile di quanto poco riuscissi ad accontentarmi.

Recuperai una caraffa e del caffè fresco da mettere su, sarebbe servito a fare gli onori di casa e a scaldarmi le ossa. Detestavo il freddo, lo detestavo nel profondo, nonostante fossi cresciuto in mezzo al diluvio universale.

"Non ho mai saltato un incontro vis a vis con nessun alieno psicopatico fino ad ora, non comincerò adesso. Ma lo sai che ho ragione, il nostro momento non è ancora arrivato, siamo inutili ora come ora. Quando le cose cambieranno ci sarò, per il momento mi andava di starmene da solo, a pensare alle mie cose, dovresti capirlo, tu più di tutti...."

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L'espressione indecifrabile sul mio viso non fece che accentuarsi. Lentamente alzai un sopracciglio, sentendo salire quanto più di isterico ci potesse essere.

In autostop.

Lo guardai scuotendo lentamente la testa, per poi affondare il viso nel palmo di una mano ed emettere un gutturalissimo verso di frustrazione. Era inutile, per quanto mi dicessi che non potevo che averle viste tutte da lui, trovava sempre il modo per soprendermi - e sconcertarmi.

"Tu sei disturbato..." mormorai mentre il sinistrissimo sentore che fossi bloccata lì mi assaliva.

Mi lasciai cadere su una sedia, ancora pensando a che razza d'uomo mi trovassi davanti: il peggior tipo.

"Non sono qui per spronarti a fare un bel nulla, Clint. Penso io stessa che sia letteralmente ridicolo per me -o te- reggere la candela in attesa che questa bella gente si faccia viva. Non ho mai messo in discussione gli ordini e mi hanno ordinato di venire qui. Lo so. Tempo da soli - serve. Certo, è facile raccontarsi che si è inutili e che non c'è niente che possiamo fare... non c'è scusa migliore per convincersi a rimanere indietro. Parte di me si domanda se sia davvero giusto quello che stiamo facendo o no. Forse dovremmo trovarlo il modo per essere utili a qualcosa. Ma vabbe' - fanculo - oramai è troppo tardi."

Sospirai, girandomi ad osservare il cane che, a sua volta, guardava intento il padrone."Almeno avrei dovuto portare il gatto... magari era la volta buona che si innamorava del posto e dell'aria aperta e decideva per rimanere..."

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"Al diavolo, Nat, io sono il primo che ogni santa volta non fa che chiedersi cosa è più giusto fare e cosa no, ma qui non si tratta di questo. Questi alieni sono qualcosa che non è stato letteralmente mai visto, non siamo preparati, neppure Asgard era preparata. Credevano fossero miti, eppure eccoli qua, in carne ed ossa, venuti a far merenda. E al momento l'unica cosa che possiamo fare è stare a guardare quel parcheggio interstellare di navi Kree che ha trovato Stark e cercare di cavare informazioni a quella ragazzina che preferisce mettercelo bellamente in culo a tutti piuttosto che rivoltarsi contro i padroni. E il peggio sai qual è? Che non possiamo fare nulla, che nessuno riuscirà mai a capirci veramente nulla, se un'idea può funzionare o meno, fino a che quei mostri non scenderanno giù e cominceranno ad attaccare, ma attaccare seriamente. Siamo un pò tardi, abbiamo bisogno di toccare il disastro prima di trovare un'idea che valga la pena tentare. E allora saremo i primi a scendere in campo e a tentare, i primi davanti a tutti, come sempre, ma per adesso restare a reggere il moccolo a Banner mentre rimette insieme la sua dignità dopo l'ennesimo smacco ricevuto personalmente serve a meno di niente."

Il profumo del caffè salì in quel momento e recuperai due tazze. Niente zucchero per lei, versai e basta, lo stesso feci per me stesso e poi le tesi la sua parte di brodaglia calda.

"Poi mi conosci, se devo finire risucchiato da un alieno così sia, ma almeno voglio aver ritinteggiato le pareti. Questo bianco smorto mi urta i nervi. A cercare trovi ancora il sangue incrostato mio o di Barney da qualche parte..." - bevvi in silenzio, senza particolare trasporto per il sapore, al momento mi importava che fosse roba calda e che mi entrasse in circolo. Sfilai via la camicia a quadri, rimanendo in maglietta, decisamente conciata meglio.

"Di quella bestia non ti sbarazzerai mai, non ci provare. Per quanta aria aperta tu possa fargli provare."

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Presi la tazza tra le mani silenziosamente, ripetendo nella mia mente le sue parole, cercando disperatamente un modo per controbattere, ma fallendo. Per quanto mi sforzassi, aveva ragione. Aveva ragione e, peggio ancora, erano esattamente anche i miei più razionali pensieri. La voce di quella parte di me fredda e meccanica che analizzava le situazioni per quello che erano, rifiutando che intervenissero qualsiasi forma di moralismo o etica professionale - o umana.

Sospirai quindi, scendendo con lo sguardo a fissare la tazza e il contenuto scuro al suo interno, standomene per le mie almeno fino a che non continuò, dicendo qualcosa che mi fece chiudere tutto, dallo stomaco alla gola.

Incassai quasi fosse stato un colpo diretto a me, posando la tazza sul tavolo.

"Dio, Clint. Che stai facendo qui?" chiesi - e no, non era una domanda retorica. Lo sapevo benissimo in realtà e sapevo anche che lui sapeva che io sapevo... quindi era ok, era chiaro a tutti e due e nonostante non mi fossi mai ritenuta la persona adatta per andare a mettere in dubbio le sue scelte e i suoi mezzi per esorcizzare il dolore, mi ritenevo un'esperta nel campo con un anno o due di più di esperienza alle spalle, rispetto a lui.

"Lo so... lo so che vuoi affrontarlo. Tutto quanto. Lo so che hai capito che fuggire... dal passato o da ciò che ci ossessiona non è la soluzione. Lo so che stare qui ti rende più forte. E so che sei così ostinatamente fissato con l'idea di dover aggiustare questo posto perché... beh, perché è un po' come aggiustare te stesso. Ma mettere pezze qua e la non ti sarà sollievo, Clint. Il sangue non puoi lavarlo via. Questo posto puzzerà sempre di sangue e di lacrime e non c'è niente che puoi fare per cambiarlo. Ti stai facendo del male. Non stai espiando il tuo dolore così, ti stai infliggendo una punizione. La più tremenda di tutte. Non devi pagare tu per gli errori dei tuoi genitori. Non è colpa tua."

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Mi resi conto con un secondo di ritardo di ciò che mi ero fatto uscire di bocca, ma ormai era tardi per ritrattare o buttarla sul ridere. Sapevo, comunque, che prima o poi quel discorso sarebbe venuto fuori, eravamo due maghi assoluti nel tirarci di bocca cose che avremmo fatto volentieri a meno di dire.

"Io non voglio fare niente, Nat. È questo il punto. So benissimo che non posso esorcizzare questo posto, lo so, nè pretendo di farlo. Io voglio soltanto...renderlo vivibile, renderlo ciò che non è mai stato e avrebbe sempre potuto essere. Questa casa non è in queste condizioni per via del tempo e dell'abbandono, è sempre stata così, anche quando ci vivevo. Capisci? Capisci che spreco?" -sollevai per un attimo gli occhi al soffitto, alle pareti incrostate di sporco e muffa negli angoli e a tutte le crepe nei muri dalle quali sembravano riversarsi nuovi ricordi ad ogni attimo. Ricordi di grida e di pianti, di violenza e di sangue, le uniche cose che avessi mai conosciuto lì dentro. Non c'era felicità, non c'era spensieratezza, non c'era infanzia. Gli unici momenti in cui mi ero mai sentito vagamente felice erano i momenti in cui mio fratello maggiore mi insegnava a menare le mani e a far male, nell'attesa del giorno in cui ci saremmo vendicati di tutto il male che ci era stato fatto. Quel momento non era mai arrivato, nostro padre era morto prima che fossimo grandi abbastanza da ribellarci a lui e con la sua morte anche tutte quelle sere passate da soli, io e Barney, a sognare altro sangue e altri colpi stavolta inferti da noi, erano sgusciate via dalla mente e si erano annidate lì, tra quelle pareti.

Non era sano. Quel posto meritava di meglio. Era un posto avvelenato, ed eravamo stati noi, la mia famiglia, me incluso, ad avvelenarlo.

"L'intenzione non è di viverci. Dio mio, no, non ci riuscirei mai. L'intenzione è di ridarle vita nuova e poi darla via, affidarla a qualcuno che sappia fare ciò che io non posso, che sappia costruire ricordi qua dentro che scacceranno i fantasmi che ci sono adesso. La mia speranza è una sola: che un giorno, Dio volendo tra parecchi anni, rivedendola, rivedendo ciò che sarà diventata nelle mani giuste, io possa guardarla e non riconoscerla."
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"Non c'era solo quello, Clint. C'era anche altro. Tua madre ti voleva bene. Amava te e tuo fratello." replicai, con il groppo alla gola che non decideva a sciogliersi.

Che poi non fosse stata forte abbastanza per farsi valere era un altro conto. Che poi, alla fine, si fosse lasciata andare all'apatia un altro ancora.

Tuttavia, non era mio posto andare a commentare, quindi mi limitai a mordermi la lingua e lasciar correre, un po' come sempre. C'era il rischio che finissimo col discutere e vista la situazione in cui riversavamo non sarebbe stato saggio - almeno per il momento, con quella convivenza semi forzata.

"Il punto è, Clint, che forse in definitiva lo scopo finale di tutto questo non conta. Conta come stai tu. Ora. E quanto dolore ti infliggi per arrivarci a questo obiettivo."

Era una fase pericolosa quella, lo sapevo, c'ero passata. Tuffarsi a capofitto nel passato per affrontarlo. Si riaffiora a stento, alla fine... almeno gente come noi. Mi alzai afferrando la mia tazza, oramai vuota e poi quella sua, portandole fino al lavandino. Schivai abilmente il cane con la pallina in bocca, che andava in cerca di compagni di giochi.

"Ho ucciso la tua gallina." dissi, sotto lo scroscio d'acqua. "No, non quella di due mesi fa. L'altra. Quella che cercavi prima. Si è messa dietro la macchina mentre cercavo di uscire da quelle sabbie mobili che hai nel vialetto."

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Mi ci strozzai con l'ultimo sorso di caffè rimasto in gola. Rimase lì e dovetti sforzarmi per mandarlo giù. Servì un colpo secco di tosse e mezza risata, ma alla fine ne uscii vivo.

"Brava. Come al solito. E abile, davvero molto abile. Confessare l'omicidio anche della povera Guendalina -che riposi in pace-per sviare il discorso da un argomento ancora più incomodo delle sorti di quella gallina. Complimenti vivissimi, sul serio. Non farti sentire dal cane, però, credo che la gallina fosse la sua nuova migliore amica, me escluso. E scordati le uova fresche a colazione: Guendalina era l'unica che le faceva." - se pensavo ad appena mezz'ora prima, stavo per mettere su una squadra tattica pur di ritrovare quella gallina, adesso, invece, non riuscivo neppure a mettere il broncio per ciò che ne era stato. Avevo apprezzato il cambio d'argomento, me ne sentivo sollevato. L'ultima cosa che volevo era finire impantanato su un discorso metafilosofico sul dolore che non avrebbe portato nessuno da nessuna parte. Aveva ragione, naturalmente, ogni giorno in più che passavo tra quelle mura era un altro colpo che mi infliggevo, andando a smuovere sabbia e a rivangare anche cose che, col tempo, ero riuscito persino a dimenticare, o almeno a mettere in un angolo appartato, lontano da me. Tuttavia mi piaceva pensare in grande, mi piaceva pensare alla speranza del dopo piuttosto che alle pene del momento. Se fossi riuscito nel mio intento mi sarei tolto dalle spalle un peso non indifferente, avrei potuto tagliare ponti con un passato che non volevo e magari sarei riuscito a concentrarmi meglio sull'idea di un futuro possibile che, al momento, era sbiadita e confusa. Bastava pensare all'impiccio in cui mi ero messo con Bobbi. Le avevo detto "riprendiamo i rapporti" e poi ero fuggito. Come diavolo pretendevo di chiarire come sarebbero state le cose con gli altri se non erano chiare neppure per me stesso? Già abbastanza avevo vissuto a quel modo, accontentandomi dell'immane caos che regnava sovrano nella mia vita, cercare di mettere un minimo d'ordine partendo dal principio non mi sembrava fatica sprecata, non più almeno.

"Sono arrivate le carte del divorzio qualche tempo fa." - me ne uscii - "Non le ho firmate."

 

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Rimasi lì a guardarlo di sottecchi, mentre mi asciugavo le mani al panno appeso a fianco al lavandino, voltata verso di lui, con la schiena appoggiata al mobile.

Beh, almeno l'aveva presa bene. Mi ero evitata il broncio di cinque giorni, come l'ultima volta. Certo, non era del tutto colpa mia: come ho già detto, era colpa sua, che non si curava di chiudere quei maledetti animali dentro un recinto.

Quindi me la presi la ramanzina, annuendo di tanto in tanto, reprimendo anche qualche risata. Spostai lo sguardo sul cane e piegai le labbra in una finta espressione afflitta. Tanto valeva assecondarlo - anzi, assecondarli entrambi.

Non battei ciglio alla sua successiva uscita e non per il motivo che ci si può immaginare. Era un classico, stava sferrando a sua volta, stava infierendo il colpo, perché gli avevo appena concesso la libertàdi sfogarsi, mio malgrado e sapevo benissimo come quelle cose finivano tra noi: da un dito, lui finiva col prendersi tutto il braccio e il battibecco sfociava in un vero e proprio rogo pronto a divorarci entrambi.

"Lo so." replicai, con la stessa identica espressione e la stessa facilità con la quale lui aveva parlato. "Ho visto Matt l'altro giorno, me l'ha detto lui."

Era vero quello. La notizia mi era già arrivata. Mi era arrivata corredata da un accoratissimo "Ti meriti di meglio, Natasha", che avevo bellamente ignorato. Non mi ero scomodata a dire niente a riguardo perché tecnicamente tutta quella storia non mi riguardava -non mi era mai riguardata-, quindi mi ero limitata a fare spallucce e andare avanti, anche solo per vedere quanto tempo ci avrebbe messo il gran signore qui presente a macinare il coraggio che ci sarebbe voluto per affrontare il discorso. Conoscendolo, era capacissimo anche di non affrontarlo mai - andare avanti come se nulla fosse solo per mancanza di attributi. Non era una novità e non mi dava fastidio - più di tanto. Non ero certa di cosa si aspettasse da me - di cosa volesse che dicessi o come reagissi -, sapevo solo che si era messo sulla difensiva e lo vedevo dalla postura che aveva assunto. Inarcai lentamente un sopracciglio, osservandolo.

"Non so di preciso quanto gli devi ma penso sia un bel po', dato che è raro incontrarlo in un bar e quella sera era lì con brutte intenzioni..."

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Ovviamente. Certo che te l'ha detto.” - era frustrante la cosa, il fatto che ci fosse quell'idiota a spiattellare in giro i fatti miei disponendone come meglio gli piaceva, senza saperne davvero un cazzo, ma il tutto era smorzato dall'improvvisa voglia di ridere. Una risata sarcastica, che abbozzai appena, sebbene il ghigno mi rimase sulle labbra anche dopo, mentre scuotevo la testa, tra me e me.

Mi chiedevo quanto danno gli avrei fatto se l'avessi denunciato ad una di quelle associazioni di avvocati per aver rotto bellamente il segreto professionale che gli imponeva di portarsi i fatti miei fino alla tomba. Fortuna sua che me ne fregava meno di niente.

"Non te l'ho detto perché dovevo. O perché mi sentissi obbligato. Lo so cosa stai pensando, non mi è servito tempo per mettere insieme coraggio, implicherebbe che mi sentissi in colpa è non mi ci sento. Era la cosa più giusta da fare, per svariati motivi che neppure Murdock conosce. Stavo aspettando l'occasione e te l'ho detto perché sei tu, sei mia amica, prima di tutto il resto." -precisai, fino a che un rumore improvviso dal piano di sopra non interruppe il momento. Impresa. C'era sempre qualcosa che collassava lì dentro, speravo solo non fosse di nuovo il tetto appena finito.

La sorpassai per andare a controllare, avrei dovuto imparare a tenere a freno la lingua, ma ero io, imparavo a stento.

"Se vuoi puoi dire al tuo amico sanguisuga che ho l'assegno pronto. Avrà i suoi soldi non appena torno a New York. Certo, a almeno che tu non voglia farlo felice e pagarlo al posto mio. In quel caso stavolta almeno dimmelo, che risparmio soldi per le ristrutturazioni.."

 

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C'era un limite a tutto e lui stava seriamente rischiando di oltrepassarlo - no, cancellate: l'aveva appena passato.

Era diventato abile a mascherare e a nascondere, tutti quegli anni insieme dovevano averlo condizionato abbastanza e avergli insegnato una cosa o due sul manipolare le persone. Peccato per lui, l'esperta nel campo lì ero io e farmela era difficile.

Ero anche abbastanza convinta del fatto che non stesse cercando di farmela per il gusto di farmela, o per altri fini, ma semplicemente perché fosse più semplice per lui crederci lui stesso alle stronzate che si raccontava la mattina per trovare le forza di alzarsi dal letto.

Perché una cosa era certa: erano stronzate. "Sono tua amica..." appuntai con un tono impossibile da discernere, ma lasciai cadere lì, lasciando il resto della frase appesa in aria, senza darle voce. Non serviva.

Il punto era che se fossi stata sua amica allora quella notizia non mi sarebbe arrivata così, con tutto l'impaccio e i ricami del momento, mi sarebbe arrivata un sabato mattina, seduti al tavolo di un brunch. Ci avremmo riso sopra e sarebbe scappato un incoraggiamento o due.

Ma ovviamente non era quello il caso.

Quello era il caso dei colpi sferrati di striscio e, di li a poco, dei cocci che volavano. La ragione? Semplice. Aveva oltrepassato il tacito limite che ci eravamo sempre imposti di non passare durante le discussioni.

Lo bloccai semplicemente facendo un passo avanti, ma non mi scomposi, rimasi con le braccia conserte e lo sguardo fisso su di lui. Il mio tono di voce non si alzò, rimase monocorde.

"Non ti azzardare, Clint. Ti concedo tutto. Ti concedo di fare quello che cazzo ti pare, ti concedo di fare quello che a nessun altro essere umano non concederei mai di fare, ma non ti concedo di darmi della puttana per liberarti del peso sulla coscienza." sentenziai, dura e irremovibile, liscia e fredda come il marmo.

"Ho fatto quello che ho fatto con Matt perché dovevo. Era la mia missione. E non ti riguardava. Ne prima, ne ora, così come non mi riguarda quello che diavolo decidi di fare con tua moglie. Ma sappi che così come non sono stata presente il giorno del tuo matrimonio, non sarò presente ora. Perché prenderci in giro è a dir poco degradante a questo punto."

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"Amica, si. Che altro termine dovrei usare?" - sfidai, sostenendo perfettamente il suo sguardo truce puntato nel mio. Mi rendevo conto di aver esagerato con le parole, me ne rendevo chiaramente conto, ma non ritrattai né supplicai perdono, tantomeno abbassai gli occhi in preda al dispiacere, rimasi semplicemente in silenzio, a fissarla. Forse avrei dovuto dire qualcosa per rimediare a parole dette, ma che non pensavo sul serio, e avrei dovuto farlo subito per salvare il salvabile di quella situazione che si avviava sempre più verso il baratro, ma non lo feci, né mi sfiorò il pensiero, quello sarebbe arrivato dopo, sicuramente, al momento stavo per buttarmi nell'ennesimo volo senza paracadute.

L'ascoltai però, perché era palese a quel punto che chi stava dicendo cazzate non ero soltanto io.

"E a che è servito? No, seriamente, non presentarti al mio matrimonio a cosa è servito? Neppure ha avuto importanza. Perché che ci fossi o meno quel giorno non era importante, ciò che conta è il fatto che tu, comunque, ci sei statadopo. Questo, su una scala di valori, è molto peggio. E se non ha avuto senso allora perché credi possa averne ora? Non importa che tu ci sia o meno adesso, comunque si metteranno le cose con Bobbi. Non conta, non vale niente. Perché sappiamo entrambi che dopo ci sarai lo stesso, che ci piaccia o meno. O tu troverai me o io troverò te, finisce sempre così, no?"

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Aveva appena toccato un nuovo fondo e non ero certa di come mi sentissi a riguardo. No, tecnicamente non c'erano dubbi su cosa provassi al momento - ero incazzata come poche volte -, il punto era che non sapevo come avrei dovuto sentirmi. Era quello il mio problema: avevo passato tanto di quel tempo a far finta di non sentire o a non sentire per niente che adesso, fronteggiata da una situazione del genere, ero incerta quale fosse la cosa migliore da fare. Qual era il modoumano di reagire? Perché c'erano tanti modi nei quali avrei potuto farlo, ma il modo umano era sempre stato quello più pericoloso, perché comportava farti arrivare dentro, al cuore, qualsiasi fosse stata l'emozione che fronteggiavi. Fronteggiare quel marasma, allora, mi faceva paura... perché sarebbe stata una prima volta. Anche per me.

Chiusi gli occhi, tuttavia e le parole poi uscirono da sole.

"Ma ti senti quando parli? Ma che cazz---- Clint. No." abbaiai e si - lo feci, alzai le mani. Feci lo scatto che non avevo fatto poco prima e reagii fisicamente, facendo il giro del tavolo. Gli finii di fronte. "Vaffanculo. Onestamente - con tutto il cuore - vaffanculo."

Eccolo, era lì; era giunto. Era giunto dentro, era arrivato e mi aveva toccata - nel profondo. Non che mi piacesse, anzi... era una sensazione deplorevole e non c'era nient'altro che avrei desiderato di più in quel momento che richiudermi a riccio e repellere qualsiasi tipo di emozione, perché quella era una strada pericolosa.

"È disgustoso. Tutto quello che hai appena detto è disgustoso. Ho fatto quello che ho fatto perché ho visto nel tuo cuore, Clint. Mio malgrado, ti conosco. Tu fuggi. E io non sono la tua scialuppa di salvataggio, testa di cazzo. Non sono la tua fuga. E neanche l'attaccatutto che ti serve per riappiccicare insieme i cocci della tua vita. Non posso esserlo, Clint. Perché sono già menomata di mio. Quindi vaffanculo."

Era strano. Il tutto sembrava... più naturale di quanto avesse dovuto. Perché, per quanto mi facesse incazzare, quella era la prima volta che litigavamo per qualcosa che non fosse "smettila di salvarmi la vita" o "lasciami morire in pace". Qualche recesso del mio inconscio esultava vittoria, perché forse, per una volta, eravamo riusciti a prendere un discorso da esseri umani. Più o meno.

Quindi misurai a grosse falcate la sala e il corridoio per finire verso la porta, afferrai gli stivali che avevo lasciato sull'uscio e la spalancai, facendo slalom tra gli abbai del cane.

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"Io fuggo. Io fuggo." - le tirai dietro seguendola verso l'uscita - "Ma ti sei vista? Ma guardati! Non fare la paternale a me, Nat, qui l'esperta di fughe e sparizioni sei tu." - rimarcai, puntandole gli occhi addosso, mentre fissavo lei e la porta che si era spalancata davanti.

"Davvero? Pensi davvero che non lo sappia? O che ti abbia mai considerata la mia scialuppa di salvataggio? Ma figurarsi, sarò anche idiota, ma a certi livelli non ci arrivo nemmeno io. Tu non sei mai stata un salvagente per me, tantomenoun mezzo per rimettere assieme la mia vita. Cristo santo, no. Bobbi lo era, lei è stata entrambe le cose. Ma tu....tu sei messa peggio di me." - scossi la testa - "Io ti faccio da scialuppa di salvataggio. Io ti sono servito e ti servo per rimettere insieme i pezzi. Non credere che non lo sappia. Hai visto nel mio cuore e hai capito che potevo servirti. C'è più egoismo nel tuo solo stare qui davanti a me che in tutto ciò che abbia mai fatto io."

Sferrai il colpo senza riluttanza. Era assurdo, ma di colpo cominciavo a sentirmi meglio. Più le sbraitavo contro, più incassavo io stesso, più provavo quasi una sorta di sollievo. Una certa vena masochistica era presente, quello era indubbio, ma non si trattava soltanto di quello, c'era altro. Le stavo scaricando addosso pesi che fino ad allora avevo taciuto e tenuto per me, non era carino, forse sì, era disgustoso, ma era catartico.

"Ma tranquilla, eh. Non ti sto recriminando niente. Sto soltanto mettendo i puntini sulle i e chiarendo qualche ipocrisia. Se non avessi voluto aiutarti ti avrei lasciata affogare da un pezzo, invece voglio farlo, continuerò a farlo e va bene così. Ma non pretendere di venirmi a dire che se siamo qua adesso a rinfacciarci il mondo è perchè io mi sono aggrappato a te e basta. Perchè più grossa cazzata non esiste."

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E ora quello.

Lo guardai incredula, con una maschera di disgusto disegnata in viso e tacqui per uno, due, tre, quattro secondi. Tacqui, incassando. Ma quello era semplicemente troppo per poter incassare e basta. Gettai a terra gli stivali per liberarmi le mani, lo afferrai per le spalle e lo spinsi fuori la porta, sul portico, seguendolo a grandi passi.

"Sarò stronza ed egoista, ma non te l'ho chiesto io di aiutarmi. Non ti ho mai chiesto niente. Non ti ho chiesto di aiutarmi, non ti ho chiesto di risparmiarmi la vita, quindici anni fa. Cristo. Perché finiamo sempre così io e te? Perché?"chiesi e sì, il mio tono di voce era leggermente alto, più acuto del solito, spezzato a tratti.

E lo spinsi, di nuovo. Forse aveva ragione. Forse era vero che quella casa non avrebbe mai visto altro che sangue e lacrime.

"È un colpo basso e meschino insinuare che sono stata qui ad usarti per tutto questo tempo, un colpo meschino anche per te. Perché sai che non è vero. Mi conosci meglio di così. Tutto quello che ho fatto l'ho fatto per te, fuggire anche!"

Mi faceva venire un grosso mal di testa tutta quella situazione. Era come sentirsi intrappolati nella propria ragnatela. Più ti dimenavi, più finivi contrito, bloccato, incastrato, soffocato. Ma dal perdere le forze vitali traevi anche un piacere perverso, qualcosa che sai che ti fa male, ma di cui non puoi fare a meno. Forse aveva ragione, forse ero io quella aggrappata contro ogni logica, contro ogni ragione, aggrappata semplicemente per istinto di sopravvivenza, perché così riuscivo a stare a galla, riuscivo a respirare.

Me lo tolsi di mezzo con un altro spintone e scesi gli scalini del portico, sullo sterrato del vialetto.

 

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Incassai lo spintone e pure il resto. Finii sul portico, ma neppure quello riusciva a riparare dalla pioggia incessante. Mi ritrovai ad urlare per farmi sentire, ma avrei urlato comunque, pioggia o meno.

"Sempre?" - feci, cacciando una mezza risata incredula - "Ma quando mai siamo finiti così, io e te. Quando?" - la fissai con insistenza, con intenzione.

Di litigate, in quindici anni, ce n'erano state a migliaia, a milioni, ma mai niente di paragonabile, doveva concedermelo. Litigavamo per altro. O meglio, di solito eravamo bravi a mascherare le reali ragioni di una lite dietro facciate molto meno impegnative, o compromettenti. Era più facile dopo, così, guardarsi in faccia, proteggendo noi stessi. Il che, a pensarci, era assurda anche solo l'idea di riuscire a proteggerci. Quello era un limite che era stato passato da tempo anche senza farne parola e forse sì, forse era quello il vero problema a quel punto, il motivo per cui eravamo finiti così, quella volta, per la prima volta.

"E allora vai! Coraggio." - continuai, seguendola lungo i gradini, sotto la pioggia battente - "Vai. Quella è la strada. Fuggi. Fallo per me. Dimostrami che mi sbaglio, che tutto ciò che ho detto è una pura menzogna, che non è vero niente. Vai e fa come hai detto, mollami qui e smettila di esserci. Perchè è tutto così degradante e così sbagliato."- incalzai, nel tono, nelle parole e coi movimenti, facendo un passo nuovo ad ogni parola contro di lei -"Continua, avanti. Cammina. Non dovrebbe essere un pò di pioggia a fermarti no? Forza! Non lasciare -per l'amore di Dio- che sia io a trattenerti. Vai. Oppure resta qui, guardami in faccia, e ammettilo che non sono il solo quello bloccato, quello aggrappato e che ciò che ne sarà della mia vita adesso ti riguarda eccome, più di quanto non ti riguardasse il giorno in cui decidesti di non presentarti al mio matrimonio, nonostante non avessi motivi concreti per non esserci."

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Mi sentivo instabile. Pericolosamente instabile. Non mi era mai piaciuto sentirmi così come un nervo scoperto, troppo preda delle emozioni, a rischio di commettere errori imperdonabili. Imperdonabili.

Per una come me il controllo era tutto, ed era in quelle situazioni che veniva a mancare, gettandomi nel panico più completo. Non avevo forse sperato in tutto quello? Nel sentirmi umana, per una volta...? Affrontarne le conseguenze - quelle conseguenze - mi sembrava estremo, tuttavia, un modo crudele per ricordarmi che non potevo permettermi certi lussi.

Se essere umana significava arrivare a quel punto - il punto di rottura - e destabilizzarmi tanto, mettendo a rischio ciò che... innegabilmente avevo di piùcaro a quel mondo, allora no - non potevo permettermelo.

Ma oramai era fatta ed era tardi per piangere sul latte versato. Era esplosa, tanto valeva lasciarle fare il suo corso...

Me lo scansai da dosso, perché nonostante non fosse poi così vicino e mi affiancasse solamente, mi sentivo il suo fiato sul collo e se c'era una cosa che odiavo era quella: sentirmi alle strette, in gabbia, braccata, senza via d'uscita. Ed era ridicolo, lo so, perchéintorno a me avevo le vaste distese di campagna del midwest.

Lo afferrai per il petto, per la maglia e lo spinsi indietro, accompagnandolo passo passo, punteggiando ogni passo con una parola. "Si, è degradante. Si,è sbagliato. Si, sono in un fottuto baratro senza ritorno. Si, ci sono da quindici anni a questa parte e, chissà, forse da anche prima. Smettila di darmi per scontata. Smettila di dirmi "ci sarai", perché stai forzando troppo la mano, Clint Barton. Dio, morirei per te, ma non mi farò mettere i piedi in testa. Perché sì, maledizione, io ci sono. Ci sono sempre. E vuoi sapere perché  non c'ero quel giorno? Proprio quel giorno - SOLO quel giorno? Ma chi stiamo prendendo in giro? Lo sappiamo entrambi perché non c'ero. Motivi concreti, dici? Pensi che il mio problema sia nato dal momento in cui sono venuta a letto con te? Il mio problema è nato nel momento in cui mi hai puntato quella freccia in mezzo agli occhi e non hai rilasciato. Allora è iniziato il mio problema, un problema che arriva fino a qui, oggi, a questo faccia a faccia. Quindici anni. Quindici cazzo di anni."

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Ammutolii e nel silenzio realizzai, in un istante di estrema lucidità, quanto in là mi fossi spinto. Non me ne chiesi il motivo, sarebbe stato da idioti. Era chiara la ragione, c'era da chiedersi, piuttosto, perchè avessimo aspettato quindici anni prima di arrivare a quel punto. Forse, se l'avessimo fatto prima, i colpi ci sarebbero stati, ma sarebbero stati di meno e meno forti -o forse quella era solo un'altra cazzata che era bello raccontarsi.

Fatto sta che, nonostante fossi stato io a braccarla e a spingerla fino al punto di rottura, tutto ciò che venne fuori risultò come un cazzotto dopo un altro ben assestati nello stomaco.

Rimasi immobile sotto gli spintoni e mi lasciai afferrare senza opporre resistenza. Incassai ogni cosa, colpevole, perchè lei aveva ragione. Il fatto che non l'avessimo mai detto a voce, non significava che non lo avessimo sempre saputo entrambi. Quei quindici anni erano stati una tortura per entrambi, tutti e quindici, dal primo momento in cui avevo deciso di non ucciderla ad oggi. E potevo ribellarmi e sbraitare e scalciare tutto il tempo che volevo, potevo scappare nella mia decadente casa d'infanzia e ripetermi che avevo bisogno di tempo per capire come affrontare quel nuovo casino che avevo creato io stesso nel momento in cui mi ero rifiutato di firmare quelle maledette carte, ma a chi la davo a bere? Non era niente di nuovo. Io scappavo perchè volevo, perchè ci avevo vissuto per anni a quel modo -sposato con Bobbi, amando lei, ma innamorandomi di Natasha ad ogni giorno che passava- e la sola idea di ritrovarmi di nuovo a quel punto mi mandava fuori di testa. Il matrimonio avrebbe dovuto essere la mia via di fuga e neppure quello era bastato a liberarmi, perchè ritirare un ballo tutto? Per farmi male o per far male a lei? O a Barbara?

Non scacciai via le sue mani che stringevano, ma afferrai i suoi capelli e strinsi a mia volta, tirai, trattenendo il fiato e sforzandomi anche solo a tenere gli occhi aperti.

"Il problema non è solo tuo. E non ho intenzione di dispiacermi e chiederti scusa, per niente. Se rimango bloccato io, allora devi rimanerci anche tu."

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C'era qualcosa che non avevo mai considerato. C'era la mia fobia di essere toccata e il modo in cui lasciavo che lui lo facesse senza poi tanti problemi. Il contatto per me era sinonimo di battaglia e in battaglia ci si faceva male. Erano anni e anni che avevo superato la paura del dolore fisico - era qualcosa a cui il mio corpo era diventato così abituato che a stento lo sentivo ancora -, ma istintivamente mi ritraevo ad ogni forma di contatto umano, anche una semplice stretta di mano, come se fosse un riflesso condizionato.

Il punto era... la maggior parte della gente non poteva farmi male: era sciocco anche pensare che potessero scalfirmi, ma nonostante ciò non mi facevo toccare; lui, lui era l'unico che poteva farmi male -in tutti i modi possibili ed immaginabili- ed era anche l'unico che poteva spingersi oltre e varcare quella soglia. Gliel'avevo sempre concesso. E non aveva senso.

Era un tocco ruvido il suo, un tocco violento. Non che mi avesse mai fatto davvero male, ovvio, ma non c'era dolcezza nel suo tocco, così come non c'era mai stato sentimento nel mio. Se io ero marmo, freddo e liscio, lui era granito, ruvido, grezzo e duro. Era parte di ciò che eravamo, di come eravamo cresciuti, delle esperienze che ci avevano formato. Nessuno dei due aveva conosciuto l'amore nel più  puro e cristallino dei sensi, anche il più banale, il più platonico, e quello ci aveva portati ad essere due esseri rigidi e inaccomodanti, mai piegati.

Eppure eccomi lì -eccoci lì-, piegati sotto il peso dell'altro.

Dicevano che l'amore era una boccata d'aria fresca, una folata di vento leggere e rinfrescante, ma quelle erano le fiamme dell'inferno. Nel mio essere sbagliata, traevo più piacere del consumarmi tra di esse che dal volare libera. Il fuoco mi purificava, era la catarsi perfetta.

Fui io ad allentare la presa. Dal suo petto, le mie dita risalirono fino al suo collo, circondandolo. Era così fragile. La vita stessa lo era.

Non feci pressione, mi limitai a tracciarne i contorni, dal suo mento alla sua clavicola, passando per ogni singolo centimetro di pelle.

"Dove vuoi che vada? Mi hai imprigionata qui, su questa Terra. Non posso nascondermi. Non posso scappare. Posso farlo con tutti. Non con te."

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Non era una bella sensazione quella che stavo provando. Mi sentivo in balia di quella stessa pioggia che ci cadeva forte addosso, col cervello per aria, incapace di riprendere fiato. E quelle sue parole, quello che disse e come lo disse, mi fecero sentire come se fossi stato, fino a quel momento, solo un ragazzino in cerca di rassicurazioni. Il peggio? Sentirglielo dire servì a farmi sentire meglio. Per un fugace momento mi sentii bene. Era da egoisti, era deplorevole e sbagliato sì, tutto quanto, senza ombra di dubbio, ma ne avevo bisogno. Realizzai in quel momento su quanto ero disposto a lasciar correre solo perchè ne avevo bisogno. Come una dipendenza, non c'era altro modo per mettere la questione. Una dipendenza tossica, cattiva, che ti avvelena lentamente, ma della quale non puoi fare a meno e liberartene è impossibile. Alcuni sostenevano che di quello si tratta l'amore, che ti accorgi che ami una persona quando non puoi farne a meno. Ma potevo assicurare che quello non era amore, era ciò che c'era subito dopo, lo step successivo, ed era terribile. Per me, almeno, per noi, lo era. Tornare indietro, però, era impensabile e questo non aveva senso. Scappavamo da così tante cose, da così tante persone, perchè non anche da quello?

Aggrottai la fronte, deglutii e cercai quella risposta nei suoi occhi, ma non la trovai; non c'era oppure non volli capirla. E allora strinsi la presa sulla sua nuca, invece di allentarla e alla fine, inevitabilmente, riversai tutta la frustrazione e tutta la tensione sulle sue labbra.

Sarebbe apparsa una scena da film, se al nostro posto, sotto quel temporale, ci fossero state altre persone, in quel caso ci sarebbe stata dolcezza al posto di tutta quella disperazione; quelle persone si sarebbe abbracciate, non avrebbero tentato di disintegrare l'altro e se stessi in una presa che faceva male; quelle persone si sarebbero arrese volontariamente e col sorriso, noi ci dimenavamo, lottavamo solo per poi soccombere.

In un mondo ideale forse saremmo stati anche noi così, come quelle persone. O forse no. Forse in quel mondo ideale, se fossimo nati diversi, persone ideali, ci saremmo incrociati per strada e avremo tirato dritto, senza un battito di ciglio, ognuno per la sua strada, senza quella continua battaglia nella quale perdere ogni giorno. Ne sarebbe valsa la pena? Non lo sapevo più. E neppure più sapevo se saremmo stati capaci da scambiare tutto quello per una vita felice e libera dall'altro…

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L'enfasi del momento mi fece mettere un piede in fallo e finimmo a terra, in un groviglio di disperazione e fango. Era un classico anche quello, che la terra ci venisse meno da sotto i piedi in certi momenti...

E sì, tutto quello sapeva incredibilmente come di annegare -con tanto di acqua e tutto-, ma per quanto combattessi per riuscire a prendere una boccata d'ossigeno, niente era così importante come quel singolo, unico momento di pace dei sensi.

È una strana sensazione, quella di sentirsi qualcuno aggrappartisi addosso come se la sua stessa vita dipendesse da quello - da te. Ti scava qualcosa nel profondo, nel cuore, un solco -una ferita- che non si rimarginerà mai più; non potrà mai fare altro che espandersi ed espandersi, fino a dilaniarti, inghiottirti tutta. Era probabilmente l'istinto femminile a parlare lì, perché è di noi donne la natura di aprirci e accogliere il prossimo, con il solo fine di nutrirlo e proteggerlo: era lo stesso istinto che riconduceva all'istinto materno, qualcosa che credevo mi avessero strappato via tanto tempo prima. E invece no, era ancora lì, impresso a fuoco nel mio DNA.

Razionalmente parlando, cos'altro potevo fare se non squarciarmi il petto e lasciarlo entrare, lasciargli prendere ciò di cui aveva bisogno (ciò di cui avevo bisogno io stessa), lui che mi aveva dato così tanto con un solo tocco, con un solo sguardo.

Non c'era niente di romantico in quel "prendimi, fammi tua e distruggimi" che sentenziai nella mia mente -solo nella mia mente-, niente dei significati effimeri che la poesia di solito gli affida a certi termini. In essi racchiudevano il loro significato più primordiale, più crudo, più vero.

Non erano sospiri da amanti quelli, erano gemiti d'agonia di un animo che reclamava di essere libero, ma che non poteva - non voleva - essere mai liberato. E tutto quell'egoismo era racchiuso in un bacio.

In tutti quegli anni passati a scoprire nuovi orizzonti, nuovi limiti e nuovi universi, mi ero posta sempre un quesito: forse c'era un universo, in tutta la moltitudine, dove eravamo giusti. Uno su un milione. Magari c'era anche un universo dove ci eravamo solo sfiorati per strada, senza neanche accorgercene... o accorgendocene, ma senza prestare poi tanta attenzione. Oppure un universo in cui ci eravamo sacrificati, dove aveva appiccato fuoco ed io ero perita nelle fiamme. Perché se in quell'universo dove vivevamo le mie mani attorno al suo collo avevano segnato l'epica apoteosi di una saga che era andata avanti da troppo, troppo tempo, allora doveva essercene un altro dove eravamo semplicemente un frammento di eterna armonia.

Per anni non avevo fatto altro che costruire la mia vita -la mia intera esistenza- su quell'ipotesi.

Non mi dispiaceva la pioggia: anche quella in realtà era simbolo di catarsi. Non avrebbe mai ripulito il sangue sulle nostre mani (anche il suo sulle mie e il mio sulle sue), ma poteva servire per cercare di lenire il rogo che era avvampato dentro. Mai placare, mai domare... quello era impossibile. Ma lenire.

Quindi lo spinsi giù e finii con le mani sull'apertura della camicia che si era appena cambiato in casa. L'aprii, senza tante cerimonie, scostandomi dalle sue labbra solo per spingergliela oltre le spalle.

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Cadere così, nel fango, sotto il peso della pioggia e della stanchezza -una stanchezza emotiva, propria di chi non vuole più pensare, di chi non si è mai tirato indietro dal combattere- fu come stendere finalmente balsamo su una ferita sempre aperta, fu come gettare acqua su un fuoco che bruciava eterno e non ti dava tregua. Una parte di me sapeva che non avrei dovuto abbandonarmi a quel modo, lasciarmi andare e cedere senza remore, perchè sarebbe stato peggio dopo, quando quel fuoco sarebbe tornato semplicemente a bruciare dentro e a far male e avrebbe divorato un'altra parte di me, l'ennesima. Eppure c'era così tanta pace nella resa, anche solo per quel breve attimo non c'era più dolore, c'era soltanto sollievo e respiro, un respiro diverso, che non consisteva più nella quantità d'ossigeno che potevo immagazzinare, ma che faceva immensamente più bene; era il respiro che la mia pelle traeva nel toccare la sua, quello della mia bocca che rubava il suo e cedeva il proprio in cambio.

Non opposi resistenza, non ne opposi più. Prima di cedere era solo vaga l'idea di quanto avessi bisogno di toccarla, in ogni modo umanamente possibile ed immaginabile, ma adesso quel bisogno si era moltiplicato per cento, mille...E che importanza aveva adesso il fango sotto la schiena o la pioggia che mi impediva di tenere gli occhi completamente aperti? Che importanza aveva cosa sarebbe successo o meno in un mondo ideale? O se esistesse? Importava soltanto quello, il presente, l'attimo e il fastidio che provocavano gli strati di tessuto che mi impedivano di fare l'unica cosa che volevo davvero e con tutto me stesso: toccarla ed in quel tocco respirare ancora.

Le mani andarono allora alla ricerca dell'orlo della sua maglietta e la spinsero verso l'alto, a sfilargliela, accarezzando ogni centimetro di pelle bagnata risalendo fino alla nuca. Il respiro si fece corto in quegli istanti di concitazione e tornò pieno e regolare solo allora, quando le mie labbra incontrarono il sapore della sue pelle lungo il collo ed il mio corpo smise di ragionare in termini semplici, smise di andare alla ricerca d'aria per cercare solo lei. Era in quei momenti, solo in quei momenti, che realizzavo a che profondità fossi caduto in quel baratro che ci aveva inghiottiti quindici anni prima, ed era in quei momenti che capivo che, ancora ad oggi, pur senza accorgercene, stavamo continuando a cadere. E non c'era paracadute, non c'era appiglio. C'eravamo soltanto noi due ed eravamo l'unica cosa a cui l'altro poteva aggrapparsi, in una caduta senza fine che ci rendeva entrambi prigionieri e vittime l'uno dell'altra.

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Avevo speso tanto del mio tempo da sola a chiedermi perché mai una cosa così perfetta potesse risultare tanto sbagliata. O fare tanto male.

Il punto era... che continuavamo a ripetercelo, che ci facevamo male, però poi in realtà quelli erano gli unici momenti in cui mi sentivo bene - completa, appagata.

Quello doloroso era spesso il viaggio, ciò che attraversavamo per arrivarci a certi momenti.

Eravamo sì l'unico mezzo per scalfirci a vicenda -qualsiasi altro mezzo era considerabile inutile-, ma anche l'unico per rimetterci insieme, pezzo per pezzo. Distruzione e rinascita erano un loop unico e inscindibile, continuo e in moto perpetuo.

Era difficile immaginare il modo in cui lasciare andare tutto quello, ma ancora più difficile era ammettere a se stessi che non ce n'era neanche voglia. Perché per quanto desiderassi il meglio per lui, non sarei mai stata capace di lasciarlo andare. Non fino a che lui non avesse lasciato andare me, almeno. Ma anche in quello non c'era modo di vincere, perché lui ragionava allo stesso identico modo - ognuno aspettava che fosse l'altro a lasciare andare, ma nessuno mai lo faceva - perché nessuno voleva davvero farlo.

Solo la morte avrebbe potuto interrompere quel circolo vizioso, ed era per quello che per anni non avevo sperato in altro. Per quello che non avevo fatto altro che maledirlo ogni volta che mi aveva strappata ad essa.

Mi chiedevo anche come fosse possibile che quello fosse amore. Così crudele. Col tempo non avevo che imparato a darmi una sola risposta: non era amore, era qualcosa che andava ben oltre, che sapeva anche di odio, ma che trascendeva entrambi. Non mi era dato sapere se fosse un sentimento dato da provare agli uomini, ma tutta l'agonia nelle mie ossa non faceva che suggerirmi che no, non era per gli esseri umani. Era per esseri più complessi, sicuramente più forti. Forse meno egoisti.

"Ti voglio" sospirai nella sua bocca, incerta di come potesse sentirsi o meno sotto quel diluvio torrenziale e assordante, come se la terra stessa fosse nella stessa nostra identica agonia. Ma non furono il desiderio carnale o la lussuria a dare voce alle mie parole, quanto la disperazione che deriva dal riversare una preghiera sull'altare di una divinità sorda. Eravamo già irriconoscibili, tra il fango ovunque addosso e il bagnato, ma forse era quella la chiave di tutto - se avessimo spento chi eravamo -ciò che eravamo- allora forse avremmo potuto viverla in pace.

Finii libera anche dei jeans senza sapere come, ma io personalmente lasciai perdere di farmi infastidire da ciò che ancora indossava: volevo lui, dunque mi dedicai a lui. Lo atterrai, finendogli addosso, tornando con le mani a stringere attorno al suo collo, a tracciare le linee del suo mento, della sua mascella, fino alla nuca e la base dei suoi capelli. Mi mossi su di lui, rendendolo partecipe di quanto mi stesse dilaniando quella sete, quel bruciore, che partiva dal basso ventre e si fermava dritta nella gola.

"Voglio tutto"

Sorvolai sullo spiegarmi quelle parole, su cosa mi spinse a dirle o, meglio ancora, cosa davvero intendessi. Non lo sapevo neanche io. Forse solo inconsciamente. Ma non andai a bussare alla ragione e alla razionalità per chiedere spiegazioni in quel momento. Pregai solo di riuscire nell'impresa di sentirmi intera di nuovo.

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Avrei dovuto dirglielo. Avrei dovuto fermarla, guardarla negli occhi e dirglielo. Dirle di stare attenta a cosa desiderava, di non desiderare troppo, soprattutto di non desiderare ciò che nessuno dei due sarebbe stato in grado di gestire. Coscientemente sapevo che quelle erano le parole giuste da dire, le migliori, eppure tacqui, contro ogni logica. Mi lasciai trascinare, in balia delle sue mani che disegnavano oscure forme di fango sulla mia pelle, in balia della sua disperazione che era anche la mia, e annuii. Non la fermai, non ritrattai, mugugnai solo un assenso, un "Anch'io" incomprensibile persino a me stesso, incapace di fare altro. Ma in quel momento non ero più io, non completamente. Si era arrivati a quel punto, di nuovo. E la sentivo, l'anima stessa, squarciata a metà da un Dio onnipotente e crudele, che gridava e graffiava, che rompeva ossa e tagliava muscoli, bruciava vene e nervi con l'unico scopo di farsi largo tra la carne , dilaniare la pelle e lasciare quella prigione rappresentata da me stesso, per lanciarsi su di lei e distruggerla, ricercare ciò che era stato della sua di anima e fondersi con essa. Era quello l'unico vero attimo di pura pace, di completezza, quello in cui sentivo che realmenteavremmo potuto fonderci in un unico essere. Era una ricerca continua, una lotta alla ricerca di quell'unico attimo sacro, che valeva ogni cosa, ogni pena e ogni dolore. Avrei dato tutto, qualsiasi cosa, stavo dando via me stesso e la mia anima, la mia umanità, per quell'attimo, l'attimo in cui era mia ed io suo, nel senso più totale e completo del termine.

Ma non bastava, non bastava mai. L'ingordigia era ciò che ci contraddistingueva in quei momenti e ciò che ci faceva più male e ci aveva portati a quel punto.

A volte me lo chiedevo, come sarebbe stato se non avessimo mai assaggiato quel primo istante di estasi ed armonia. E mai, mai una volta che fossi riuscito a darmi una risposta, che fossi riuscito ad immaginarmi uno scenario plausibile. Perchè sapevo che presto o tardi, volendo o meno, quel primo morso alla mela d'oro l'avremmo dato, poco importavano i vari quando, come, dove o perchè. Sarebbe successo, era l'unica certezza che riuscivo a tenere solida in quei frangenti, quando la sua bocca si infrangeva sulla mia e i vestiti non servivano più a niente. Tutto il resto perdeva importanza tranne ciò che sentivo, tranne ciò che assaggiavo e toccavo.

"Anch'io." - ripetei, più forte, prendendo aria - "Anch'io."

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Non processai immediatamente la sua risposta, lo feci solo dopo, nella tacita quiete che seguì la tempesta, accampata in salotto, ore dopo. Lo feci anche incoscientemente, nel dormiveglia, avvolta da un manto di inerte leggerezza.

Contro ogni razionalità non mi spaventò, non mi sentii braccata né in gabbia o spacciata, mi sentii semplicemente -irrazionalmente- serena.

Era raro che riuscissi a chiudere gli occhi serbando nel petto una sensazione del genere. Era raro e pericoloso. Quel giorno mi dissi di rimandare ogni domanda al momento in cui mi sarei risvegliata. Quelle poche ore di tregua erano troppo preziose per poter essere sprecate.

Le opzioni erano due, a quel punto, di mattina, o avrei deciso di ignorare tutto -sia il detto da lui che il detto da me-, come mille volte avevo fatto prima, o mi ci sarei effettivamente messa, iniziando ad arrovellarmici il cervello, o a farmene un'ossessione. La seconda opzione non mi allettava mai particolarmente, ma mi rendevo conto che a quel punto eravamo arrivati al momento in cui forse era il caso di iniziare a fronteggiare le proprie decisioni.

Ma la mattina era ancora lontana tecnicamente, quindi per il momento decisi di trattenere ogni riserbo che avevo e cedere, cedere rovinosamente -in tutti i modi e in tutti i sensi- sotto il peso di un piacere così grande che a stento poteva essere contenuto dal mio stesso corpo.

Non seppi quanto tempo passammo lì, a distruggerci a vicenda, ma fu lì che venni, sulla terra viva, in un attimo di perfetta sintonia col mondo che mi circondava.
Perché era vero, dopo tutto il sangue e il dolore della lotta, c'era sempre l'estasi che seguiva.

Mi sentii afferrare poco dopo, riportare all'interno. Eravamo talmente ridicolmente sporchi che finimmo sul collassare sul pavimento della sala, ancora ricoperto dal lenzuolo che aveva usato per riparare il legno durante il ritinteggiamento.

E sì, continuammo - una, due volte, fino a che ci ressero le forze.

Non mi addormentai mai, rimasi semplicemente in uno stato di quiete, silenziosa, in dormiveglia, mentre la tempesta fuori scemava e lasciava posto ad una pioggia più stabile.

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Io ero quello che dormiva, sempre. Mi accasciavo privo di forze e mi lasciavo vincere dalla stanchezza, beandomi della momentanea sensazione di leggerezza che seguiva ogni momento in cui ci abbandonavamo ai sensi. Era come raggiungere il culmine, dare un colpo di spugna e ricominciare da capo:un nuovo inizio. Eppure, quella volta, io stesso non riuscii a crollare come avrei voluto. Tenevo gli occhi chiusi e respiravo placidamente, ma non riuscivo semplicemente ad addormentarmi, perchè ad impedirmelo c'era un nuovo elemento, qualcosa che non era mai venuta fuori prima, che ci aveva colto alla sprovvista entrambi nel momento in cui avevamo pronunciato quelle parole. Al momento non mi chiedevo cosa significassero, immaginavo che lo avrei capito e scoperto comunque, in seguito, adesso la priorità -e ciò che non mi lasciava spegnere il cervello- era capire cosa fare, parlarne o meno, affrontare anche quel discorso oppure lasciar perdere e riprendere come avevamo sempre fatto. Se avessi lasciato che a decidere per me fosse semplicemente il mio istinto...temevo ciò che avrebbe scelto di fare.

Sollevai una palpebra non appena percepii un leggerissimo spostamento d'aria a qualche centimetro da me e mi ritrovai a fissarla, voltata anche lei verso di me, mentre disegnavo distrattamente forme astratte sulla pelle di un suo fianco. O meglio....sullo strato di fango asciutto che ricopriva interamente lei quanto me. Eravamo ridicoli. E sporchi, col fango ovunque appiccicato addosso, la segatura nei capelli e qualche filo di paglia attaccato qua e là.

Ritornai a chiudere gli occhi, ma soffocai una risata.

"Meglio di un trattamento alla SPA." - commentai, divertito, sussurrando affinchè la mia voce non rompesse quel momento di pura quiete che aveva seguito la più grande tempesta.

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Mi piaceva guardarlo dormire: c'era sempre una strana pace, una serenità unica e rara ritrattata sul suo viso, qualcosa che a stento vedevi nella vita reale. Clint era il tipo di persona che di notte si concedeva di essere ciò che di giorno si negava. Aveva sempre sfoggiato un'innocenza quasi puerile, solo l'ombra del bambino che non era mai stato.

Era così raro vederlo così che avevo imparato ad apprezzarlo, quindi quando lui collassava io finivo col rimanere lì, intenta a guardarlo. Di dormire per me non se ne parlava neppure. C'erano sempre troppi pensieri per la testa dopo certi avvenimenti, troppi sensi di colpa, troppe domande a cui avevo paura di dare risposta. Mi ritagliavo solitamente un paio d'ore di pace, cercando di assorbire quella stessa serenità che condiva il suo sonno, per poi alzarmi e tacitamente sgusciare via - quando possibile; quando non era possibile, come durante missioni, di solito mi rintanavo da qualche parte isolata, tanto per non farmi ritrovare lì quando si risvegliava. Parlarne dopo, non ne avevamo mai parlato.

Non c'era niente da dire in realtà, o almeno quello avevo continuato a ripetermi per anni.

Il punto era che, volendo, da dire c'era eccome, specialmente quella volta. E non era solo per via di quello che potevo o non potevo aver detto in un momento di perdizione totale, ma anche perché -tecnicamente- non avevamo mai finito la nostra discussione originale. Ora, il rischio era che avessimo potuto riniziato a litigare e in tutta sincerità non me la sentivo affatto. Tuttavia, qualcosa mi diceva che se avessi lasciato correre quella volta, allora sarebbe stato tutto inutile. E che me ne sarei pentita in seguito.

La sua uscita mi strappò un sorriso. "Non ti allargare troppo. Questi sono i fanghi di Waverly, Iowa. Non quelli del Mar Morto." appuntai. Mi scricchiolò qualcosa dentro e sentii una punta di panico. Mi misi seduta, cercando di ritrovare equilibrio e capire se il mondo girasse ancora secondo un moto regolare. "Prego che tu abbia una doccia funzionante. E acqua calda."

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"Quella al piano di sopra. Usa quella. Dovrebbe funzionare. E il riscaldamento l'ho sistemato ieri, dovrebbe funzionare anche l'acqua calda. Altrimenti acqua piovana." - non c'è due senza tre, insomma. I lavori andavano a rilento, verissimo, ma stavo facendo tutto da solo, o almeno ci provavo, questo mi andava riconosciuto. Se avessi potuto trascorrere il mio tempo in modo migliore? Forse si, forse no. Quella casa era la mia nuova ossessione, sicuramente meno tossica di altre, perché per quella casa, almeno per lei, nutrivo speranze, che è molto più di quanto potessi dire, ad esempio, per me stesso, al punto in cui ero arrivato, per come mi ero ridotto e convinto com'ero che non c'è l'avrei mai fatta a tirarmi indietro, anche qualora l'avessi voluto e non era quello il caso.

Mi voltai sulla schiena, ancora ad occhi chiusi, lasciando che si alzasse. E, in quel preciso istante, qualsiasi mezzo sorriso mi avesse increspato le labbra qualche attimo prima scomparve, per fare spazio, semplicemente, al silenzio. Rimasi in ascolto. Sentii l'aria che si muoveva di fianco a me e poi percepii i suoi passi che andavano verso le scale e le salivano. Erano passi inudibili i suoi, eppure creavano lievissime vibrazioni sul legno del pavimento che me li rendeva riconoscibili, e familiari. Erano la cosa più familiare per me a questo mondo, i suoi passi, e ciò che dei suoi passi mi era più familiare era il flebile scemare delle vibrazioni che provocavano a mano a mano che si allontanavano. Perché la sentivo, ogni volta, nonostante non avessi mai pensato di fermarla. Era meglio così, mi ero sempre detto. Tuttavia il fatto che fosse adesso al piano di sopra, in quel preciso momento, mi provocava un brutto vuoto all'altezza dello stomaco. Mi alzai e risalii le scale anch'io fino alla porta aperta del bagno, dove mi fermai a guardarla mentre tentava di regolare l'acqua.

"Perchè sei ancora qui?" - non avevo intenzione di litigare, mi ero stancato di litigare e sperai che il tono tranquillo lo desse ad intendere, tuttavia non ero stupido da credere che si fosse semplicemente lasciata fermare dalla pioggia o dalla momentanea assenza di un mezzo di trasporto non impantanato. Avevo la presunzione, invece, di credere di meritare almeno la possibilità di porla quella domanda.

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Lo sentii con un secondo di ritardo, quando fu troppo tardi per cercare di improvvisare una maschera, qualsiasi cosa che mi permettesse di non apparire colta di sorpresa. Un attimo di troppo che mi impedì di cercare una scusa valida - perchè lo sapevo il motivo per cui era lì, il motivo per cui si era esposto così tanto, fino ad arrivare a seguirmi. Era un gesto estremo e lo riconoscevo, un gesto disperato, testimone della stessa disperazione che provavo io.

Addrizzai la schiena, voltandomi appena, quando lo sentii alla porta e girai le manopole dell'acqua fino a chiuderla di nuovo, per evitare il fastidioso rumore mentre la mia mente lavorava frenetica alla ricerca di parole adatte per spiegare. Ci avrei pensato, mi ero prefissa poco prima, quando mi ero alzata - ci avrei pensato a cosa dire e a come prendere il discorso proprio durante quella doccia. Ma lui aveva fatto prima, battendomi sul tempo. E quella situazione era a dir poco destabilizzante.

Non mi rimaneva che raccimolare le forze e il coraggio che vi volevano per dire la verità: andare a cercare di propinare cazzate a quel punto sarebbe stato più un danno che altro, perchè con quel poco tempo a disposizione avrei partorito solo cattiverie. E non volevo ferirlo... non potevo. Non ne valeva la pena, sapevo che me ne sarei pentita amaramente.

Tanto valeva togliersi il dente e via.

"Ti ho detto... che non vado da nessuna parte." replicai lentamente, cercando equilibrio sulle mie gambe, stabilità. "Non ho dove andare. Sono intrappolata."

Finii col sedermi sul bordo della vasca, trovando stabilità solo in quella.

"Non... non è stato colpo di fulmine, sai? Voglio che questo tu lo sappia. Non è stata una cosa improvvisa, è stata una cosa graduale. Un processo dovuto, inevitabile. Mi sono innamorata a poco a poco, passo passo. Non ho preso una scivolata e via. Mi sono innamorata cosciente di ciò che stava succedendo ad ogni passo, scegliendo anche di farlo quel passo. Sì, è vero, sono fatalista e credo nel destino... ma credo che alla fine ciò che ci accade è ciò che sceglieremmo a prescindere. E non importa quante volte ci chiediamo che cosa sarebbe successo se... fosse stato diverso. Tra noi. Perchè lo so. Sceglierei te. In qualdiasi universo, in qualsiasi vita o versione della realtà... ti troverei e sceglierei te. E ora... rimangiarmi questa verità... sarebbe un crimine efferato. Un'ipocrisia. Un delitto."

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Mi spiazzò. L'avevo sfidata a parlare, ma non mi ero aspettato che cedesse subito a simili dichiarazioni. Cercai di processare, di analizzare come mi sentissi, ma dovetti arrendermi immediatamente al fatto che non ero mai stato capace di fare coscienziosamente nè l'una nè l'altra cosa. Servivano serenità e consapevolezza di chi si era e di cosa si voleva, ma io ero quel tipo di persona che i guai se li andava a cercare anche nel sonno e in quanto a pace l'unica che conoscessi era un diretto derivato della violenza.

"Per me non è stato nulla di graduale, invece. Per me è stato esattamente un colpo di fulmine, dei più classici. Sono scivolato e via. Quindici anni fa.... ti ero stato alle costole per mesi, ma non ti avevo mai guardato dritto negli occhi. E quando l'ho fatto, in quel capannone... tanto è bastato. Credo di essermi innamorato di te all'istante, come un idiota..." - me ne uscii, alla fine, ancora ancorato allo stipite della porta, ma con lo sguardo perso - "La presi alla leggera, pensai che mi sarebbe passata, poi mi resi conto di una verità che mi sono portato dietro per quindici anni: succede ogni volta, ogni volta che ti guardo è come tornare a quel giorno e a quell'istante e mi innamoro di nuovo." - non era nulla di romantico, nulla di infinitamente poetico. L'innamoramento era uno stato di euforia che ti portava a dire e fare le cose più atroci, per questo durava poco, eventualmente scemava fino a svanire oppure si evolveva in un sentimento più stabile, più pacifico. Io avevo vissuto per quindici anni in uno stato di innamoramento perenne dal quale non ero mai riuscito a scappare. Avevo provato a dimenticare, ci avevo provato davvero, in più di un'occasione, ma non potevo, semplicemente non ne ero in grado. Avrei dovuto essere qualcun'altro per riuscirci, una persona diversa, con sangue diverso nelle vene e più freddo del mio, con un cuore diverso e forse più sano, con un'anima diversa, perchè la mia era ossessionata dalla ricerca della sua.

"Non dovrei scegliere te, lo sai. È dal primo giorno che provo a non farlo, ma diventa più difficile a ogni ora che passa...e sono trascorsi anni..."

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Fu strano. Fu come ricevere un colpo in pieno stomaco. Una sensazione spesso associata al negativo, ma a volte anche le più genuine sorprese possono darti la stessa reazione. Sorprese... ma chi volevo prendere in giro?

L'avevo saputa ogni istante, da quindici anni a quella parte, la verità che aveva appena deciso -o trovato la forza- di confessare. Mio malgrado, ero sempre stata cosciente del perché fossimo arrivati a quel punto - di come.

Ma gli avevo strappato una promessa anni prima, una promessa che non aveva mai finito di pronunciare, ma che avevo sperato fino in fondo fosse valida lo stesso.

Il punto era... avevo paura per lui. Avevo paura di ciò a cui la nostra... codipendenza avrebbe potuto portare. Io non ero una persona da amare. Le persone che amavo si facevano male. Per me, contro di me...

Non ero una di quelle dolci colline su cui rotolare giù, a piedi scalzi sotto il sole. Io ero un burrone sulle cui rocce sfracellarsi.

L'avevo saputo da subito cosa l'avesse realmente spinto a risparmiarmi, ma sentirselo dire direttamente mi fece effetto, un effetto che non riuscii a contenere. Lo sentii tutto. Non mi risparmiai neanche un briciolo.

E quel sentire ancora non avevo ben capito se fosse una benedizione o una condanna.

Mi voltai leggermente e riaprii la manopola dell'acqua. Attesi qualche istante, più che altro per trovare la forza nelle gambe. Il bagno era piccolo, mi bastarono un paio di passi per raggiungerlo. Lo presi per un braccio e lo attirai sotto il getto d'acqua. Lo lasciai ambientare per qualche istante, poi portai le mani tra i suoi capelli e iniziai a lavar via tutto il sudicio.

"Dovremmo scegliere il mondo. La Vita." feci "Dovremmo scegliere sempre la vita. Di onorarla e di proteggerla. Quella di tutti su questa terra. Dovremmo scegliere sempre il dovere, perché qualcosa mi dice che qualcuno, alla fine, deciderà per noi. Perché io dovrei respingerti, distoglierti, ma non ne ho più la forza. Ma il mondo continua a girare, nonostante il nostro apparente moto perpetuo, la nostra stasi, il nostro essere intrappolati ancora in un singolo attimo di quindici anni fa. Il mondo va avanti e cambia e prima o poi deciderà per noi il nostro destino. Voglio solo... che in quel momento... vorrei solo potermi guardare indietro sapendo di aver fatto qualcosa di buono nella mia vita. Vorrei girarmi e vederti al mio fianco. Libero dai sensi di colpa. Forse sarò dannata per l'eternità per questo, ma non riesco a rinnegare niente, a rimpiangere niente. Ognuno di quei passi che ho fatto, li rifarei cento, mille volte... perché forse io ti ho condannato, ma tu... oh, tu. Tu non hai fatto altro che salvarmi, pezzo per pezzo e rimettermi insieme. "

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Il getto dell'acqua calda sulla pelle fu rinvigorente, andò ad allentare una tensione sia fisica che mentale che non mi ero reso conto di star ancora provando. E complice l'acqua, le sue mani che massaggiavano i miei capelli e ciò che disse, tirai un sospiro di sollievo e per un attimo mi sentii infinitamente leggero, sollevato da un peso che mi stava schiacciando a poco a poco. Mi godetti ogni secondo di quella sensazione, ad occhi chiusi, senza parlare, lasciando che mi invadesse completamente e fluisse su di me come quell'acqua che stava lavando via tutto quello schifo dalla mia pelle e dalla sua.

Finii con l'abbracciarla. Non ricordavo quando fosse stata l'ultima volta che l'avevo semplicemente abbracciata senza il desiderio di annientare me stesso in lei e lei in me, forse non era addirittura mai successo, non eravamo tipi da abbracci.

"Mi manchi." - mormorai, col viso poggiato contro una sua spalla - "È questo che pensai in quel capannone, che mi mancavi. Ed era assurdo, perchè non ti avevo mai vista prima. Poi solo col tempo ho realizzato che quella che sento di te è un tipo di mancanza diversa, quasi incomprensibile ed eventualmente ho imparato ad accettarla e a conviverci, perchè so che il giorno che se ne andrà sarà il giorno in cui morirò, ma fino ad allora io sarò sempre lì, al tuo fianco, ogni volta che ti volterai, perchè per quanto io abbia più volte tentato di scappare...alla fine torno sempre. E sì, forse questa che mi hai inflitto è davvero una condanna, ma non credere che io non avessi una scelta, perchè ce l'ho sempre avuta e ho sempre preferito questo piuttosto che lasciarti andare, alla deriva." - mi scostai soltanto per prenderle il viso tra le mani e guardarla - "Rifarei ogni cosa anch'io, rifarei tutto. Se ne avessi l'occasione so che non prenderei strade diverse, percorrerei le stesse, quelle che ho percorso fino ad adesso, ma ciò non toglie che sono stanco, Nat, non ne posso più. Delle liti, di tutto il male che ci facciamo a vicenda, di tutto quel nascondere, omettere, rinnegare, aspettando il momento in cui tutto diventa troppo ingestibile e semplicemente esplode nel peggiore dei modi. Io sono innamorato di te, Natasha, lo sono sempre stato, da quindici anni a questa parte.... perchè devo menomare me stesso e costringermi a fare del male a te per dimostrartelo?"

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Sapevo da dove venisse quella mancanza. Era solo la conseguenza di un desiderio irruento portato all'esasperazione, perché mi ero sempre posta come quella cosa che lui non poteva avere. Ero stata io a crearmi quei muri attorno, a rendermi inavvicinabile, inafferrabile... e avevo fatto davvero un egregio lavoro. Lo vedevo ogni volta nel suo sguardo allucinato, quando dovevo aver assunto i contorni dell'ossessione. Ma se all'inizio, durante i primissimi anni, non avevo fatto altro che cercare di farmelo scivolare addosso, col tempo le cose erano cambiate, perché nello stesso momento in cui si era lasciato andare e si era aperto nei miei confronti avevo capito con che tipo di persona avevo a che fare - una gemma rara e preziosa.

Lui era l'altra parte di me, l'altro lato della medaglia, ciò che sarei potuta essere se solo non avessi permesso che il mio animo venisse corrotto da tutta l'oscurità in me. Lui aveva visto e inflitto violenza di egual modo, ma in lui splendeva ancora la luce della speranza... e in tutti quegli anni non si era mai spenta. A poco a poco era diventato la stessa cosa per me: la luce in fondo al tunnel, il simbolo di rinascita, la speranza che esistesse anche in me un io migliore.

Mi spiazzò leggermente quell'abbraccio, perché quello era un livello di intimità ancora inesplorato per noi. Era ok fino a che ero io a toccarlo... ma nel momento in cui mi toccava lui, allora iniziava ad essere destabilizzante. Mi sentii intrappolata e, finalmente, non solo più metaforicamente. Ero intrappolata tra il suo corpo e il muro e le mattonelle fredde contro la schiena mi ricordavano che stavo sentendo, stavo sentendo tutto.

Scivolai con le mani dal suo collo al suo petto, per poi circondarlo delicatamente, titubantemente.

Tacqui, incerta su cosa dire. Forse perché non c'era proprio niente da dire. Aveva ragione, aveva completamente ragione e il suo peso era diventato inesorabilmente anche il mio.

Sospirai, voltando leggermente il viso per poggiargli le labbra su una tempia.

"Per provarmi che è sbagliato... per provarlo a te stesso. Perché sapendolo sbagliato, forse, ti libereresti da me." risposi alla fine. Il problema, tuttavia, era sempre lo stesso: ce lo ripetevamo e basta che era sbagliato. Era pericoloso, sì, ma non sbagliato.

"Ma ho fallito miseramente. Non ho salvato te e ho finito di dannare me. Sono stanca anche io, Clint. Tremendamente stanca. Ma ho paura di abbassare la guardia. Quello è il momento in cui il fato colpisce. E ti strappa via da me."

Come era accaduto a qualsiasi altra cosa nella mia vita.

"Non posso permetterlo."

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"Non ci credo, non ci riesco. Non credo esista niente a questo punto che possa strapparci via l'uno dall'altra,  neanche il nostro stesso libero arbitrio." - feci, in risposta - "Quante volte ci abbiamo provato, a scappare, a respingerci? Ne ho perso il conto. E quante volte ci siamo riusciti?"

Stavo cercando di distoglierla dall'idea che ci separassero, ma sapevo che aveva ogni ragione per temere. La vita stessa e specie quella che facevamo noi ci aveva insegnato che ogni cosa può accadere, anche la più inattesa e che tutto può cambiare da un momento all'altro, il tempo appena di un battito di ciglia e tutte quelle che erano state le nostre certezze fino a quel momento andavano in fumo, svanendo nel nulla. Eppure non riuscivo ad arrendermi all'idea che potesse davvero succedere a noi o che potessimo permetterlo ad altri quando non lo permettevamo neppure a noi stessi. Lasciarci andare, liberarci l'un l'altra... era sempre stato soltanto un pensiero, solo chiacchiere al vento, ma mai una volontà vera. Avremmo potuto farlo in mille modi ed in mille occasioni, eravamo addirittura arrivati a tanto così dal riuscirci ben più di una volta, eppure non avevamo mai fatto l'ultimo passo nè niente l'aveva mai fatto per noi. Se il destino era così crudele, allora non ci avrebbe separati, ci avrebbe, anzi, legati ancora di più, nella più pericolosa delle danze.

"Ma mettiamo che tu abbia ragione. Per quanto ancora credi che potremo continuare senza darci tregua? Ciò che temo di più io è che possa arrivare un giorno in cui ti guarderò e la prima cosa che proverò sarà risentimento e odio. Non voglio che accada, perchè per quanto possa essere destabilizzante quello che sento adesso quando ti guardo... non voglio che cambi. È l'unica certezza che ho, l'ultima che mi è rimasta, e non voglio perderla. Devi venirmi incontro, Nat. Non te l'ho mai chiesto, ma ora sì, ora lo faccio."

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"Shh, no - non dirlo. Non dirlo mai." mi affrettai ad azzittirlo, risalendo con le dita di una mano, per posarle sulle sue labbra. Non ero una persona superstiziosa, ma se c'era una cosa che avevo imparato dalla vita era che dirsi "non puoi accadere a me" era lo sbaglio peggiore che una persona potesse mai fare.

Aveva ragione, andare avanti così senza darci tregua era impensabile, ma non sarebbero state quelle parole a diradare i miei dubbi, le mie paure... i miei demoni.

Annuii debolmente, senza ritrovarmi altra scelta."Troveremo un modo." feci in risposta. Forse avrei dovuto dire "troverò" un modo, perché a quel punto era chiaro che fossi io il problema. Lo scostai da me, posando le labbra sulla sua fronte per qualche istante, poi tornai a spingerlo sotto il getto d'acqua, finendo di lavare via il sudicio, attenuando i suoni tutti intorno, incluse le parole.

Quella sua paura... era anche la mia paura. Da tempo mi ero oramai convinta che non c'era cosa che temevo di più -forse solo il fallire nel proteggerlo fisicamente- che davvero condurlo al punto di odiarmi.

Avevamo passato mesi interi inquieti, mesi in cui -in passato- non ci eravamo rivolti una parola... ma il silenzio potevo sopportarlo, a patto che sapessi non ci fosse di base una rottura definitiva. Il pensiero di ridurlo davvero all'odio, quello più puro, quello dal quale non si torna indietro, implicava che l'avessi ferito profondamente e nello spirito: fargli del male -fisico e mentale- erano le mie due più grandi paure.

"Non mi perderai. Sono ancora qui. È quanto più ti possa provare in questo momento."

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NOTE:


Da svarioni mentali notturni, viene fuori questo pezzo. In realtà non è altro che una ruolata tra me e iosnio90, perché nonostante siano passati anni, ancora non ci stanchiamo di dare vita a questi due personaggi, che sono nostra croce e delizia.
Verso la fine ci siamo accorte che la ruolata in sé avrebbe potuto essere una OS a se stante, quindi ci siamo dette “Mah, proviamo a pubblicarla, chissà cosa ne pensano gli altri”.
Perdonate, quindi, se l’impostazione è un po’ strana: è uno shift costante di POV, tra Clint e Nat.

Piccolo appunto: questa… caratterizzazione, non segue i canoni dell’MCU. Sia io che la mia socia siamo rimaste parecchio amareggiate dal massacro che è stato “Age Of Ultron” in termini di caratterizzazione personaggi, quindi non lo prendiamo neanche in considerazione.
Noi seguiamo le caratterizzazioni dei fumetti e ciò che ne deriva qui è uno strano mix, un ibrido tra MCU e Marvel 616, che segue per la maggior parte il canon dell’universo fumettistico, condendo con elementi da MCU.
I lettori sicuramente coglieranno tanti riferimenti (dal cane ad un certo avvocato…) in più rispetto a chi è a digiuno da fumetti, ma crediamo che risulti possibile da seguire a chiunque.
Ecco i punti fondamentali della realtà in cui questa OS è inserita:
-La fattoria di proprietà di Clint si trova a Waverly, Iowa e non è altro che la sua casa d’infanzia, che ha rilevato negli ultimi anni con proposito di ristrutturarla.
-Per chi non sapesse, sia Clint che suo fratello Barney sono cresciuti in un ambiente estremamente violento - dopo essere rimasti orfani a causa di un incidente stradale vengono affidati ai servizi sociali
-Il Matt citato non è altro che Matthew Murdock, aka Daredevil, l’avvocato di Hells Kitchen che (nella nostra realtà) ha seguito la causa di divorzio di Clint. È raccontato nella mia raccolta di drabble, qui su EFP, che Clint è finito per caso nelle sue mani, perchè il nome Murdock gli viene suggerito da Coulson in persona. All’epoca lo SHIELD stava iniziando a sentire voci del vigilante di Hells Kitchen e, avendo già sospetti della sua vera identità, Coulson usa Clint per avvicinarsi a Murdock. In seguito, all’insaputa di Clint, ci mette Natasha in mezzo per svolgere un’indagine più approfondita e lei finisce con l’averci una relazione - qualcosa che Clint ha ancora legato al dito.
-La Bobbi di cui si parla è Barbara Morse. Sì, perché nel comic-canon è lei l’ex moglie di Clint.
-La Carter che viene menzionata è Sharon Carter, nuova fiamma di Steve Rogers.



Non vi lasciate ingannare dal modo in cui la OS inizia… anche se è parecchio spassosa all’inizio, vi garantisco che il contenuto di angst si alza a man a mano che si va avanti… fino ad esplodere!

Che altro ci resta da dire? Clintasha fandom, questa è per voi.

Hope you enjoy.
 

   
 
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