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Autore: avalon9    21/06/2015    3 recensioni
“Cazzo” impreca, le mani sulla faccia. “Cazzo. Cazzo. Cazzo.” “Dick.” “Sei un bastardo” ride fra le lacrime. “Un fottuto stronzo bastardo” e non si chiede neanche da dove gli venga il coraggio per parlargli così, per parlare a Batman, a Bruce, a mio padre, in quel modo. “Mi spieghi come fai ad avere sempre ragione tu? Anche se sei nel torto, hai comunque ragione tu. Dio. Dio. È irritante. Non te l’ha mai detto nessuno?”
Dopo il Sindacato del crimine; dopo la morte di Richard Grayson, di Nightwing. Dopo il #30 di Nightwing.
Un finale alternativo; quello che mi sarebbe piaciuto leggere.
Batman e Nightwing; o meglio ancora: Bruce e Dick.
Loro: aspettative, delusioni, speranza.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bat Family, Batman, Dick Grayson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Slice of live, Missing Moments

Personaggi Principali: Dick Grayson; Bruce Wayne

Altri Personaggi: vari, citati qua e là

Rating: giallo

In proposito: Cazzo” impreca, le mani sulla faccia. “Cazzo. Cazzo. Cazzo.” “Dick.” “Sei un bastardo” ride fra le lacrime. “Un fottuto stronzo bastardo” e non si chiede neanche da dove gli venga il coraggio per parlargli così, per parlare a Batman, a Bruce, a mio padre, in quel modo. “Mi spieghi come fai ad avere sempre ragione tu? Anche se sei nel torto, hai comunque ragione tu. Dio. Dio. È irritante. Non te l’ha mai detto nessuno?”

Disclaimer: i personaggi presenti sono proprietà di DComics e dei loro creatori. L’idea no. È tutta mia.

Note: one shot; missing moments

Cose: Ok. Ci ho messo un secolo a finirla, questa fanfic. Ed è la cifra di quanto, davvero, ho bisogno di sfogarmi in questo periodo. L’idea però è semplice: non mi è piaciuto granchè com’è finito Nightwing. Oddio. L’idea di fare di Dick una specie di superspia non è così brutta; e nemmeno che tutti lo credano morto e sepolto. Nono. La cosa brutta, ma brutta brutta, è che hanno messo in scena un bel pestaggio, con salti di quelli proprio da fumetti (quando, di Nightwing, avevo apprezzato quel sottile legame con la realtà, e le leggi della fisica e della medicina, che aveva creato. Almeno nei termini concessi ad un fumetto), un dialogo che va per i cavoli suoi e giusto due scene, ma due di numero, su quello che è il risvolto emotivo.

Non pretendevo certo fiumi di lacrime e funerali in pompa magna, ma almeno un accenno, quello sì. Soprattutto dopo aver visto le tavole preparatorie di quell’ultimo episodio e poi scartate. Ecco: lì si vedeva cosa Nightwing fosse, cosa avesse rappresentato. E cosa rappresentasse Dick.

Così ho deciso di scrivermelo io, un finale. Non perché sia migliore, ma perché è quello che mi sarebbe piaciuto vedere. Un confronto fra Dick e Bruce, sì. Quello c’è. Ma non tanto un confronto sul piano fisico, quanto piuttosto emozionale. E visto quanto questi due sono bravi e abituati a confrontarsi con le loro emozioni…

Insomma: Bruce è Batman. E sappiamo tutti che è un pezzo di granito con dentro taaaanto gesso. Ma Dick. Dick è ed è sempre stato un’altra cosa. Dick ha attraversato varie fasi, ed è diventato un eroe con i suoi tormenti e una sua cupa insicurezza che nasconde dietro a un bel sorriso.

Quindi. Mi piaceva l’idea. Di metterli a confronto.

E alla fine è diventata una storia infinita. Forse la più lunga one shot che abbia mai scritto. Di certo esula dalle canoniche misure della shot. È piuttosto una novel. Un racconto lungo, troppo corto per diventare una long, e troppo lungo per essere una shot. Anche perché proprio non ci riesco, a dividerlo in capitoli. L’ho creata in modalità fiume, e così penso che debba essere letta.

C’è un po’ di tutto, qui dentro. C’è davvero un po’ di tutto. Ma insomma. Siamo arrivato a un punto di svolta, inutile negarlo. Dick deve fare i conti con una vita senza maschere e Bruce. Bruce deve fare i conti con un ragazzino che scopre essere un uomo. E cui deve affidare una missione che rasenta quasi il suicidio. Minimo psicoemotivo. Ho condensato, triturato, calibrato, aggrovigliato e accennato, qui dentro.

Quindi, ormai, a voi i giudizi e la stroncatura!

P.S.

Lo so. Lo so.

Sentire Dick che da del bastardo a Batman non è proprio all’ordine del giorno. Forse è più da Jason. Ma che ci volete: fra fratelli ci si influenza. E comunque penso che possa essere un modo. Un modo per sottolineare quanta strada Dick abbia fatto e quanto si sia emancipato da Bruce, che resta sì il modello e il mentore, ma è prima di tutto un uomo e un partner. Uno alla pari.

 

 

 

Parkour

 

 

 

Gli sembra di avere un palo, su per il culo.

E la faccia gli fa così male che tentare di aprire l’occhio, gonfio e tumefatto, è un’impresa. Di quelle titaniche. E lui, in quel momento, non è decisamente il tipo delle missioni impossibili. Bruce ha detto che ci vorranno due settimane ancora. Due settimane prima che l’emorragia interna si riassorba e riesca a vedere di nuovo qualcosa. Normalmente.

Non che il resto del corpo sia messo meglio, per carità. Non ricorda un’altra volta in cui si è ritrovato conciato così male. E in situazioni disperate da cui si è cavato fuori più per culo che per abilità ne ha vissute tante.

Era a pezzi dopo che aveva scavato mezzo cimitero perché lo avevano sepolto vivo. Quasi. Era conciato male anche quella volta con Carol, e aveva mandato tutto a puttane. Quasi. Ma era ancora accettabile; perlomeno riusciva a sentirsi un corpo. Non come in quel momento, in cui il massimo che riesce a fare è imprecare contro l’assurda necessità di alzarsi che gli è venuta. Dio. Dio. Non riesce nemmeno a stare in piedi decentemente. Dovrà strisciare, lo sa. E no, non ricorda una sola fottuta volta in cui si sia ritrovato nella stessa situazione. Nemmeno quando Dent lo aveva pestato a sangue fino ad ammazzarlo. Quasi.

Sbuffa.

I quasi sono diventati la costante della sua vita. Una vera merda.

Cazzo.

Prende un respiro profondo e mastica un’altra imprecazione. Ha mancato il corrimano e un volo di tre metri. Quasi. E nelle condizioni in cui è, basterebbero cinque centimetri ad ammazzarlo. Definitivamente.

Cazzo. Cazzo. Cazzo.

Restarsene lì, aggrappati a quel fottuto corrimano, a piangersi addosso però non servirà a granchè. Non serve mai a un granchè, e lo sa bene, visto che di calci in culo ne ha già presi molti. Anche se questo è stato bello forte e, cazzo, credeva che ce l’avrebbe rimesso davvero, il culo.

E può anche spararsi la stronzata che ci è abituato, a quella vita. Può anche raccontasi la balla che, con la vita che si è scelto, di morire te lo aspetti. Ma sono tutte cazzate. Perché anche i soldati hanno paura. E lui ha avuto una fottuta paura. Del dolore; delle grida; della disperazione.

E della morte.

Cazzo se ha avuto paura.

Perché una cosa è trovarsela di fronte all’improvviso, la morte, una pistola alla tempia o una scarica di mitra che non avevi calcolato. Una cosa è sentire bang e poi. Poi appunto non sentire più nulla. O almeno sperare di non sentire più nulla.

Di morire per la strada, davanti a un figlio di puttana che è stato più furbo, più intelligente o solo più fortunato di te, lo ha sempre messo in conto. Lo hanno addestrato per affrontarlo, quel momento. Per guardare la bocca di una pistola e calcolare la traiettoria in pochi decimi di secondo; per intuire dove gli avrebbero sparato. Per quello è stato addestrato. E no, non sempre gli è servito.

Perché di pallottole che non si aspettava se ne è prese anche lui; perché di ossa rotte e punti di sutura ne ha così tanti che è un miracolo se il suo corpo non lo ha ancora mandato a cagare inchiodandolo da qualche parte. Magari mentre se ne sta saltando da un cornicione all’altro.

Ma, ehi, quelli sono gli incerti del mestiere.

E se sei tu quello che ha deciso ti mettersi addosso un costume e di infischiarsene della fisica, della gravità e di tutto il resto. Allora, se proprio vuoi prendertela con qualcuno, te la devi prendere con te stesso. Sempre ammesso che tu riesca a trovare la voglia, e il tempo, per farlo.

Altrimenti. Punto a capo. Si ricomincia. Fino al prossimo stronzo che sarà un po’ più furbo intelligente e fortunato di te.

Questo; o sei un coglione che non ha ancora capito come fare il proprio lavoro.

Ma Dick il suo lavoro ha imparato a farlo. A pugni in faccia, calci in culo e cicatrici addosso. A furia di delusioni e rabbia e insicurezze, ma ha imparato a farlo. Con l’ironica leggerezza di un ragazzo e la lucida disillusione di un uomo.

Perché quando a nove anni ti crolla il mondo davanti agli occhi; quando a nove anni scopri che il mondo non concede sconti, a nessuno, e che se vuoi sopravvivere l’unica cosa che ti rimane da fare è cacciare indietro le lacrime e nascondere il dolore. Se a nove anni decidi che più della vita ti importa la vendetta, allora sai che non ti resta nulla.

Perché quella che era la tua realtà se n’è andata con la sabbia impastata di sangue e bile di un circo; perché i ricordi sono un dolore sordo in fondo allo stomaco e la certezza che nulla potrà mai farti dimenticare il rumore delle ossa che si spezzano e il terrore di sentirsi impotenti.

Perché quando la morte la guardi negli occhi, e di anni ne hai nove, ti convinci che per batterla basta essere più stronzi di lei. E non guardarla mai davvero in faccia.

Ma un conto è la morte dei vicoli di Gotham; un conto è la morte delle fogne di Bludheven; un conto è la morte nelle strade di New York. Un conto è la morte di qualche pazzo che si diverte a prenderti per il culo e crede di essere solo più forte di te. È la morte di uno che si diverte ad ammazzare giusto per riempire una serata di noia, o che è solo un po’ più matto di te, che lo vai a cercare in un qualche buco melmoso. Anche andarsele a cercare, certe situazioni, sono un tipo di morte.

E a quella morte Dick è stato abituato.

Sono un soldato. Un fottuto soldato di merda, ma un soldato.

E i soldati, alla morte, sono avvezzi.

Una pallottola in testa; e tanti saluti. O almeno speri che sia una pallottola.

Rapido; veloce. E semplice. Maledettamente semplice.

Anche una bomba andrebbe bene. Uno di quei congegni pieni di sensori di pressione, equilibratori al mercurio e gingilli elettronici ultimo modello che tanto sei bravo a disattivare. O che speri proprio di esser tanto bravo a disattivare. O ka-boom e fine della storia.

Vallo a dire a Jay.

Già. Jay.

Lui ci ha rimesso la pelle, per una di quelle bombe che lui si proclama tanto bravo e veloce a disattivare. Nei computer lo batte Tim; nel corpo a corpo Bruce. Per le armi è Jason il massimo e per precisione Damian. E lui? Lui è quello delle acrobazie, quello che parla parla e non sopporta i silenzi; lui è quello che non se ne resta mai fermo. E che disattiva in fretta le bombe.

Dio. Dio santo.

Non credeva. Non pensava. Adesso, se potesse vedere Jay, gli direbbe di aver capito. Che ce ne sono voluti, di anni, di cazzotti e insulti, ma che finalmente l’aveva capito. Che sapeva cos’era quella punta di terrore che gli vedeva negli occhi, quando maneggiava dell’esplosivo. Era meno di un tremito, meno di un millesimo di istante, ma quella paura c’era. E gli direbbe che se la sente nelle mani, nelle vene. Se la sente in ogni fottuta cellula del suo corpo anche solo se ci ripensa. E che, se riuscirà di nuovo a prendere in mano un detonatore, non sarà né per coraggio né per stupidità. Ma sarà solo perché, quando ti trovi un detonatore in mano, o lo disattivi o ti fai saltare. Ma la paura ci sarà; la paura c’è . Ed è piombo che ti corre nelle vene e ti inchioda a terra. E quando c’è quella, di paura, sei fottuto.

Sei davvero fottuto: e puoi avere tutta l’agilità la bravura e l’intelligenza che vuoi, ma se ti va in pappa il cervello, sei un fottuto coglione. E sai che non ne uscirai mai vivo, da quel ginepraio in cui ti sei andato a cacciare.

E ti verrebbe da ridere. Quasi. Perché dopo tanti anni passati a intossicarti le vene con le porcherie del Cappellaio e le tossine di Crane, c’è voluta una telecamera, un megaschermo e una maschera strappata dalla tua faccia a pezzi, per farti capire davvero cos’è la paura.

E se mai capitasse che lo rivedrai, glielo spiegherai per bene. Al Cappellaio; a Crane; anche al Jocker se lo avrai fra le mani. Spiegherai loro che la paura, quella vera, quella che ti fa pisciare addosso e ti inchioda lì, quella che non sai, non osi nemmeno provare ad affrontare non sono le fobie né le ossessioni.

La paura più grande è l’impotenza. E la propria consapevolezza di essere nulla.

E Jay.

Cazzo. Jay l’ha provata che aveva sedici anni. Sedici. E addosso tante belle speranze; tante illusioni. L’ha sentita stritolargli le viscere, con lenta spasmodica calma. L’ha sentita risalire con il respiro che vomitava sangue. E l’ha vista deflagrare, quella fottuta paura. L’ha vista e l’ha sentita sulla sua carne; probabilmente ci sono notti in cui ancora la sente. Assieme a un timer gigante e alla disperata certezza di non poter scappare.

Dio. Dio.

Lui lo vede ancora, quel timer; e l’occhio della telecamera e sente la stessa rabbia, la stessa angoscia. Anche la stessa umiliazione.

Perché cazzo era Grayson quello incatenato alla bomba. Perché era il corpo di Grayson quello pieno di innesti e terminazioni giroscopiche che tanto lo facevano assomigliare al dottor Octo dei fumetti di Spider-man. Quelli che leggeva di nascosto sotto alle coperte, prima di. Prima di tutto. Cazzo. Prima che tutto andasse a puttane e lui sognasse di diventare un eroe invece che un trapezista.

Bel risultato.

Perché come lo spighi, a uno che te lo chiede, che sì, sei nato davvero in un circo e che il trapezio è qualcosa che hai nel sangue, anche dopo tanti anni. Come lo spieghi a uno che ti guarda che la presa un po’ meno salda, il respiro un po’ più pesante sono tutta una finzione e che tu, di notte, per trapezio hai cornicioni e per predelle i gargoyles di una città che ti sta divorando?

Come glielo spieghi, alla ragazza che hai fra le braccia, che no, non sei un violento né sei finito in un brutto giro. E che la storia del Fight club è solo una leggenda metropolitana e che la realtà è il cemento che ti ritrovi in bocca quando cadi ed ematomi e cicatrici non te li vai a procurare per autolesionismo?

Babs lo capiva. Babs sapeva l’origine di metà della cartina geografica che è il suo corpo; e dell’altra metà poteva intuirla. Qualcuna gliel’ha anche procurata lei, di quelle cicatrici.

Ma con Babs era diverso. Diverso; e complicato.

Ho avuto paura anche di quello.

Ma la paura. Quella vera. Oh, quella. Quella gli resterà conficcata nel cervello finchè avrà vita, e saranno gli occhi di Bruce sotto la maschera. Sarà il modo in cui Bruce lo aveva chiamato, la voce impastata di disperazione e furore e di qualcos’altro. Qualcosa che Dick non ha ancora avuto il coraggio di affrontare. Ma che c’era; e gli è rimasto incastrato nella pelle con la durezza del metallo che gli premeva nelle carni.

Già; adesso glielo potrebbe dire. A Jay.

Gli potrebbe dire di aver capito cos’è quel pulsare sordo nelle viscere che ti inchioda davanti a quattro cifre e del perché non riesci a muovere nemmeno un muscolo. Gli potrebbe dire di aver capito cosa significa stringere i denti e sentirli stridere per trattenere un grido, un rantolo, una bestemmia che se ne sta lì, incastrata in fondo alla gola e non vuoi lasciarla uscire. Perché, cazzo, quella maschera che porti deve pur averti insegnato qualcosa e se proprio devi crepare, almeno vorresti farlo con un minimo di dignità.

Anche se la dignità è una fottuta bastarda sopravvalutata.

E l’unica cosa che vorresti è non aver lasciato tante questioni in sospeso.

Ma forse, probabilmente, non gli direbbe niente. Perché non puoi andare da uno è dirgli Ti ricordi quando sei saltato in aria? Ecco. Io ci sono andato vicino. Ti va se…? Col cazzo. Non glielo direbbe; non glielo dirà mai. Perché è qualcosa che non puoi dire; è qualcosa che non si può raccontare. Altro che disturbo da stress post-traumatico. Con una cosa del genere o crepi o impazzisci o la metti via e vai avanti. O forse tutte e tre. Non che ci sia chissà quale differenza, in fondo.

Però vorrebbe offrigli una birra; e stringergli una spalla. Perché a volte, con Jay, le parole sono davvero di troppo. E certe cose è meglio non provare nemmeno, a dirle, e lasciare tutto come sta.

Ma, Cristo, quella sensazione non la dimenticherà finchè avrà vita.

Perché se non impazzisci in quel momento, allora sei pronto a tutto. O sei già pazzo. E Dick ha la scomoda sensazione di aver supera una linea, in quei mesi, per cui davvero non riesce più a trovare il confine fra lucidità e follia.

E ho paura.

Una fottuta paura del cazzo.

Ma è saltato in aria. Quasi. E ha rischiato di morire lo stesso. Quasi. E anche quando il suo mondo si è trasformato nella flebile penombra di un soffitto poroso pieno di stalattiti, Bruce gli ha sussurrato che rischiava di non potersi più muovere. Che forse non avrebbe più avuto la forza nemmeno per pisciare, da solo.

E quando a dirtelo è Bruce Wayne, è Batman, è uno che è tornato a saltare dai grattacieli anche dopo che gli hanno spaccato la schiena. Quando a dirtelo è uno così, uno che, a modo suo, ti ha sempre rimesso in piedi, cazzo se gli credi. E hai solo voglia di piangere.

Fanculo all’addestramento, alla dignità e all’orgoglio.

Quando Bruce gliel’ha detto, Dick ricorda solo il dolore sordo alla gola e qualcosa di viscido sulla faccia. Perché gli occhi di Bruce erano quasi neri, in quella penombra. E avevano qualcosa, dentro, intrappolato in fondo alla retina. Qualcosa che Dick ha intravisto per un istante, ma che se ne resta annidato lì, in fondo in fondo. E che gli ha fatto più paura del mondo da affrontare senza maschera, della bomba e della voce di Bruce che lo rassicurava mentre cercava di toglierlo dalla trappola cui l’avevano inchiodato. Perché Bruce farà anche schifo a incoraggiare, e ancora di più a consolare, ma quando ti guarda in quel modo tu sai che ha aggiunto una nuova tacca alla sua personalissima lista di colpe. E sai anche che quella tacca ce l’hai incisa tu; e vorresti solo poter tornare indietro.

Dick li vede ancora, gli occhi di Bruce, e risente l’abisso che gli si era spalancato nella pancia. Avrebbe voluto che Bruce lo abbracciasse, in quel momento. Avrebbe voluto che gli dicesse qualcosa; qualsiasi cosa. Anche che gli vomitasse addosso tutte le stronzate che aveva fatto per finire in quel casino. Sarebbe andato bene tutto; ma Batman non è mai stato granchè con le parole. E se ne era rimasto lì, nella luce fioca con il tic tic dell’elettrocardiogramma a mescolarsi al suo respiro basso e ai rantoli di pianto.

Perché sì, cazzo: aveva pianto.

Come un poppante; come uno stronzo; come un coglione. Ma anche gli eroi hanno diritto ad essere dei coglioni in lacrime, se dicono loro che probabilmente passeranno il resto della vita a mangiare gelatine a guardare il mondo da una finestra.

Fanculo anche all’onore.

E, cazzo, ovvio che ha paura.

Ha paura di svegliarsi e sentirsi ancora addosso i cavi di quella bomba; ha paura di aprire gli occhi e vedere un display con i suoi bei numeri verdi che saltellano indietro. Dio. La faccia di Jocker fa paura; gli ha sempre fatto una fottuta paura. Ma la faccia di Jocker la puoi massacrare.

Un display no. Un display lo puoi solo fissare. E pregare che il respiro ti strozzi prima di sentire il bit bit bit diventare un sibilo e avere una manciata di microsecondi per dire addio a quella vita di merda.

Che mi sono scelto io, tra l’altro.

Ma i rimpianti sono una cosa; la disperazione e la rabbia sono tutt’altro.

Dick di rimpianti ne ha tanti. Una lista lunga e vecchia come la sua vita; una lista che è la zavorra che ha scelto per finire a fondo. E che si limita ad aggiornare di tanto in tanto. Giusto per restare con i piedi ben piantati a terra anche quando la missione finisce come dovrebbe e una birra o un frappè sono il modo migliore per festeggiare.

Ma la lista se ne resta lì. Cose che non ha mai fatto; cose che avrebbe potuto fare diversamente; cose che non avrebbe mai voluto fare. E delusioni. Tante. Così tante che ormai ne ha perso il conto e non sa più se è lui a prendere a calci la vita o piuttosto la vita che si diverte a prenderlo a calci in culo.

Ha imparato a conviverci, con i rimpianti.

Ha reimparato a salire sul trapezio, nonostante tutto. Ha imparato a parlare con Babs anche se, a volte, la voglia più grande è quella di baciarla e farci l’amore. È anche riuscito a guardare Kori negli occhi, e a lasciarla andare. Anche se ha fatto male.

Cazzo se ha fatto male. Un male fottuto.

Ma l’ha fatto. Come ha fatto male mandare a quel paese Jay e spaccargli la faccia per farlo ragionare. O provarci almeno. O come è stato doloroso diventare Bruce ed essere per Tim e Damian un riferimento, quando lui per primo si sentiva affogare. O come si è sentito di merda quando Damian gli ha salvato il culo, finendo ammazzato.

Ma lo ha fatto. Ha sempre fatto quello che tutti si aspettavano che facesse.

Ha sempre fatto il bravo ragazzo anche quando la voglia era quella di mandare tutto al diavolo e ricordare a tutti chi era lui, chi era davvero Richard Grayson. Ricordare a tutti, anche a se stesso, che era solo un ragazzo. E che le buone maniere e le belle parole le aveva imparato a dieci anni. Le aveva imparate per essere degno di un uomo che gli aveva offerto una risposta al nulla che gli si apriva dentro.

Ma, cazzo, lui era nato in un circo. Lui era sempre stato parte di un circo. E nel suo sangue pulsava l’insofferenza e la ribellione. Nel suo sangue c’era l’adrenalina e la voglia di spaccare il mondo. Nel suo sangue c’era la sconsideratezza e la folle insana idea di essere invincibile.

Quando aveva nove anni; e la sua vita era un trapezio, le luci dello spettacolo e i suoi genitori.

Ma adesso. Adesso sa di non essere invincibile. E quella sensazione, stupenda profonda euforica sensazione di onnipotenza è diventata un rantolo che agonizza in fondo al suo cervello. È diventata una scintilla, un guizzo inatteso nelle acrobazie del combattimento. È diventata l’accozzaglia di parole che vomita quasi in ogni situazione, per nascondere l’impaccio, la timidezza e la paura. Soprattutto la paura.

Perché Dick Grayson ha sempre avuto una fottuta paura.

Di scoprire di non avere la forza, per farcela. Di scoprire di aver deluso Bruce, i suoi genitori, tutto il suo mondo. Di rendersi conto, un giorno o l’altro, di aver buttato la sua vita in qualcosa che non condivideva, per qualcosa che non gli apparteneva.

Si passa una mano sul petto, fra i rilievi delle cicatrici. Lì dove i tentacoli del detonatore sono stati collegati al suo apparato vascolare.

Dio. Dio se ha fatto male.

Non tanto per il dolore in sé. Ma la consapevolezza. Quella è stata. È stata qualcosa di assoluto; e incontrollabile. In quel momento. In quel fottuto momento, quando la maschera gli è stata strappata a forza, l’unica cosa che ha desiderato, desiderato sul serio, è stato morire.

E mi sono sentito una merda

Perché Jay aveva voluto vivere. Perché Jay si era aggrappato alla vita con i denti, anche con l’ultimo respiro, odiando il Jocker come ultimo disperato viscerale istinto di sopravvivenza.

Perché Babs aveva desiderato camminare. Perché Babs non si era rassegnata a darla vinta al Joker, e per fotterlo si è anche fatta impiantare uno dei suoi adorati congegni elettronici nel cervello.

Perché Tim aveva agognato la normalità. Perché Tim non si era fatto corrompere da belle promesse, e ha stretto i denti nonostante tutto quello che gli è stato strappato.

Perchè Damian era solo un ragazzino, incazzato con il mondo e affamato d’affetto. E la vita l’aveva finita infilzato sulla lama di uno stronzo senz’anima. E lui era lì a due passi.

Sì. Si è sentito una merda.

Perché gli era stato insegnato a non arrendersi; a crepare piuttosto che a rassegnarsi. Gli era stato insegnato che i bravi soldati vanno fino in fondo, a testa alta. A qualunque prezzo. Anche quando hanno una fottuta paura del cazzo. E allora aveva riso. Aveva riso in faccia alla telecamera che mostrava a tutti, al mondo intero, il suo vero volto.

Aveva riso e aveva commentato, ironico e sprezzante. Ma dietro. Dietro c’era stata la paura. La solita fottuta bastarda paura. Quella che rendeva i muscoli sempre più stanchi; quella che appannava lucidità e speranza. Quella che gli stringeva lo stomaco in conati che ingoiava a forza, soffocandosi nel suo respiro, nel sangue e nel vomito.

C’era sempre stata la paura. Dietro ogni più piccolo istante, c’era sempre stata la paura.

Perché quando cresci al fianco di Batman, quando ogni giorno sono pane e punti di sutura, quando la paura le respiri in ogni maledetto istante, da ogni poro della pelle, allora impari a ignorarla e a dirti che fa parte del gioco come il beccarsi un proiettile o farsi fottere da qualcuno più in gamba.

E alla fine scopri che la paura, quella vera, è solo una gran puttana che ti si vende in modo sempre diverso, anche se non cambia poi tanto.

Anche di Bruce ha avuto paura. Per tanto tempo.

Una paura diversa, più sottile, più simile alla diffidenza. Però l’ha avuta; e non gli è mai davvero passata. Perché ci vogliono le palle per guardare Bruce in faccia. Ci vogliono le palle per sputargli in faccia tutto quello che ti costringe a macerare dentro, e non sai mai come potrebbe ancora finire.

Perché con Bruce i se e i ma non esistono; perché Bruce non accetta compromessi e allora: o sei con lui o sei contro di lui.

Quando ha iniziato è andata così: sue le regole; suoi gli ordini; sue le vere battaglie. O così o niente. Lì c’è la porta e tanti saluti.

Poi. Poi alla porta Bruce ce lo aveva messo veramente; e poi c’è stata Babs. E Jay. E Tim. E loro hanno ricominciato a parlarsi, a grugnirsi contro come due pitbull in cattività. E hanno anche rischiato di ammazzarsi, quando alla fine Dick le ha trovate davvero, le palle per parlargli. Quando Bruce voleva mollare tutto e diventare solo Batman. Quando Dick si è trovato a fissare una maschera e non più un uomo, un amico, un mentore. Quando Dick ha sentito sgretolarsi davvero, per sempre, quel noi cui continuava ad aggrapparsi ciecamente.

Quella volta, Dick le palle le ha trovate. E colpire Bruce; colpire Batman e farsi pestare con la rabbia e la delusione e la furia in corpo è stato tanto idiota quanto necessario. Perché se vuoi costruire qualcosa, prima devi mandare tutto in mille pezzi.

Solo che Dick, di mettersi a raccogliere qua e là pezzi di rapporti e ricominciare tutto da capo, non ne ha mai avuto davvero la forza. Perché un bambino che ha visto esplodere i corpi dei suoi genitori si aggrapperà con le unghie e con i denti alla prima certezza che gli viene offerta. E non accetterà di lasciarla andare, perché vorrebbe dire ricominciare da capo. Vorrebbe dire rivivere quel senso viscerale distruttivo di annullamento.

E allora preferisce scappare, lasciando le cose come stanno. Con tutti quei sottintesi che sì, devi avere le palle per affrontarli davvero.

“Non dovresti sforzarti.”

Cazzo.

Odia quando Bruce fa così. Odia quando gli arriva alle spalle senza che se ne accorga, sbattendogli in faccia la distanza che ancora li separa. E in quel momento lo odia ancora di più, perché in quella situazione di merda ci si è ficcato proprio perché ha pensato, idiota, di poter fare come Bruce. Ha sperato per una volta, per una sola fottuta volta, di poter essere lui la differenza.

Giusto perché la prima linea dei supereroi era finita chissà dove e le riserve erano un manipolo di ragazzini o un trio di disadattati. Ma ehi ci si è ficcato da solo, nella tana del lupo. E adesso ne deve portare le conseguenze. Lividi e ossa rotte compresi.

“Sto bene” mastica fra i denti.

“Davvero?”

Dick si sforza di sorridere, e se non avesse paura di svenire, alzerebbe anche gli occhi al cielo. Perché Bruce ha sorriso in quel modo, quel modo tutto suo che ha di piegare le labbra di traverso. E potrebbe giurare che ha anche inarcato un sopracciglio, sotto la maschera. Come fa sempre le volte, poche, che c’è una qualche cosa che lo attira. Assolutamente assurda; e assolutamente innocua. Com’è lui in quel momento. Addirittura inerme.

“Davvero davvero” cantilena, e prega che il pavimento della caverna la pianti di ballare il fox-trot e lui possa lasciare il corrimano e darsi un contegno. Dio. Gli sembra di essere su una nave in alto mare. E lui ha sempre detestato le navi e il mare. Soprattutto quando ballano tanto che neanche riesci a capire se sei ancora in piedi o se quello che stai guardando è il pavimento che si è rovesciato.

Cazzo.

Sta da cani. Sta davvero da cani. Gli sembra di morire solo a respirare. Le costole dovrebbero essere quasi a posto. Ha contato i giorni; è sicuro che sono a posto. Quasi. Il problema è che loro sembrano non volerne sapere, di piantarla di massacrargli i polmoni. Quindi: no, non sta bene.

Ogni respiro crede che possa essere l’ultimo e sta considerando che pesterebbe volentieri quello che lo ha costretto a quella corroborante passeggiata per la caverna, se il deficiente di turno non fosse lui stesso. E pestarsi da soli, quando si è appena riusciti a togliere un piede dalla fossa, non è certo la migliore delle idee

È peggio di tutte le volte che ci è finito, su quel letto. È mille volte peggio. E Bruce non aiuta, dal momento che sembra aver deciso che, per una volta, il suo volto pesto è più interessante delle centinaia di file aperti sul computer.

Dio.

Se Bruce non ci fosse, striscerebbe fino al letto. E non si muoverebbe da lì neanche scoppiasse le sesta guerra mondiale. Ma no. Troppo facile. Troppo facile sperare che Bruce, o meglio Batman, visto che non si decide a togliersi quel fottuto mantello, lo ignori e si incolli ai suoi monitor.

Bruce se ne resta piantato lì. E lui ostenta indifferenza, sorreggendosi o forse sarebbe meglio dire aggrappandosi a quel corrimano come fosse l’unica cosa al mondo che ancora lo tenesse in piedi.

È l’unica cosa al mondo che ti tiene in piedi, cretino.

E forse lo farà davvero. Di strisciare fino al letto. Non sente più le gambe; e se è ancora in piedi è solo perché da qualche parte, giù nello stomaco, ha ancora una fottuta dignità che gli impone di restarsene ritto come un manico di scopa, con i muscoli che gli si stanno strappando per il dolore e un sorriso da idiota stampato in faccia.

Perché solo un idiota, anzi un coglione, farebbe il sostenuto in quel momento, con il vomito che cerca di ricacciare nello stomaco e la faccia più bianca della tovaglia di lino che Alferd tira fuori per le grandi occasioni. Quella inamidata con due gocce di limone che ripone sempre sotto tre strati di carta velina.

Peccato che lui un coglione lo sia davvero.

Jay lo dice spesso. E cazzo. Ha ragione.

Perché solo un coglione può immaginare, nelle sue condizioni, di ritornarsene a letto come nulla fosse. E per una volta ringrazia il cielo che Bruce non se ne sia andato e che sia lì, quando le forze lo tradiscono e lui si lascia semplicemente andare.

Perché in fondo, di cadute rovinose, ne ha fatte così tante nella vita, che ormai. Una più una meno. Ma quella è di certo la più stupida della sua lunga lista di stupide cadute.

“Bruce” biascica, la bocca contro il klevar della tuta. “Io.”

“Tu te ne torni a letto” gli sibila Bruce, un ginocchio come unico sostegno prima del pavimento. “Adesso.”

“No.”

Bruce. Ti prego. No.

E sì, non gli importa se sta piagnucolando. Non gliene frega un cazzo se Bruce lo prenderà per un idiota e se quel poco di stima che ancora ha di lui andrà ‘fanculo. Se ne avesse la forza, gli stringerebbe anche le braccia; così, giusto per fargli capire che è stato solo un incidente, una stronzata di nessuna importanza.

Stronzata un cazzo.

Non riesce nemmeno a sollevarla, una mano. Figurarsi fermare Bruce da fare qualcosa che si è messo in testa. Come se poi uno potesse toglierle dalla testa di Bruce di fare qualcosa. Fosse anche un’immane cazzata.

Forse Alfred.

Forse Alfred è l’unico che riesca a mettere Bruce alle strette; o che almeno si prenda la libertà di sbattergli in faccia le sue idiozie. Per poi lasciarlo a macerare nel suo brodo.

Ma Alfred non c’è.

E Bruce ce lo riporterà di peso, in quel letto. Ma anche a costo di mettersi a piangere come un poppante lui sa che non ci vuole tornare. Non subito.

“Dick” sussurra Bruce. E lui trema.

Trema come quando era Robin e sapeva di averne combinata una grossa; ma davvero grossa. Trema come quando Bruce riusciva a inchiodarlo lì, in piedi, solo pronunciando il suo nome. E lui sapeva che lo aveva deluso. E che lo stava esasperando, con quel suo atteggiamento da bambino. Ma, Dio, lui era un bambino, a quel tempo. Uno stupido moccioso che credeva di poter raddrizzare il mondo; un ragazzino innamorato di maschere e mantelli e acrobazie nei cieli di Gotham.

Adesso non è più un ragazzino, ma trema allo stesso modo. Trema pensando che, se solo riuscisse ad alzare la testa, vedrebbe la faccia di Bruce. Con quell’espressione che, Dio, gli manda il sangue alla testa. La mascella stretta e la bocca ridotta a una linea sottile, con un ringhio cupo che gorgoglia nella gola. Sì: vedrebbe la faccia incazzata di Bruce e si sentirebbe ancora peggio.

Perché sarebbe la conferma dell’ennesima delusione che gli ha dato. Sarebbe peggio che un cazzotto in faccia o un calcio nei coglioni. Sarebbe. Sarebbe tutto. E sta già abbastanza di merda senza bisogno di aggiungere l’incazzata indifferenza di Bruce alla lista.

Perché quando Bruce è incazzato, ma incazzato nero, non dice niente. Niente. E ti ignora. Cristo. Si sono ignorati per anni, loro due. Da perfetti coglioni, ma lo hanno fatto. Troppo cocciuti; troppo orgogliosi. O forse solo troppo idioti per capire che quello che sentivano, quel crampo che prendeva lo stomaco ogni volta che si trovavano faccia a faccia non era né rabbia né risentimento. Non erano cazzate del tipo bassa autostima e necessità di metabolizzare la situazione. Perché, cazzo, quando la vita la passi a pestare drogati di Venom o pazzi deliranti affetti da sindromi schizzoidi, di metabolizzare qualcosa non ne hai di certo il tempo. E allora ti abitui a pensare in fretta. Molto in fretta. O sei fottuto e allora, davvero, di quello che dovevi pensare e metabolizzare non deve più fregartene niente.

No. Quel crampo nello stomaco, quel dolore lancinante era solo la voglia matta di gettarsi tutto alle spalle, e ricominciare come quando tutto era iniziato.

Ma un uomo è un uomo, anche con maschera mantello e calzamaglia. E degli errori e dei buoni propositi non sa che farsene. Soprattutto se sono sensati. E Dick non si è mai sentito tanto uomo e tanto idiota come in qual momento, mentre cerca disperatamente di non piangere, la faccia premuta sul petto di Bruce e quel terribile senso di nausea che gli farebbe desiderare di rimettere anche lo stomaco, se fosse certo servisse a qualcosa.

Sì. Ci vorrebbe Alfie.

Alfred e uno di quei suoi disgustosi intrugli, quelli che preparava per le occasioni speciali. Quando doveva ricucirlo o erano due giorni che non chiudeva occhio. Facevano schifo, e ogni volta ti chiedevi come fosse possibile che, invece di rivoltarti gli intestini, in qualche modo ti rimettesse in piedi. Almeno quel tanto sufficiente a rispedirti per strada e chiudere il lavoro. Qualunque esso fosse.

Dio. Adesso se ne berrebbe anche due di fila, di quei rimedi miracolosi. Adesso sarebbe disposto anche a sopportare senza un commento il sarcasmo di Alfred mentre depreca lo stato miserevole delle sue condizioni e lo invita, con quel suo aplomb che maschera la più spietata delle minacce, a darsi una regolata e non rovinare il suo elegante lavoro di rammendo e restauro del suo corpo disastrato.

sorride appena. Ci vorrebbe Alfred.

Ma Alfred non c’è.

Non c’è nemmeno Tim, per dargli una mano. O Babs.

C’è solo lui; e Bruce.

“Richard” tenta ancora Bruce.

E lui sa che, quando usa il suo nome per intero, vuol dire solo una cosa: ha perso davvero la pazienza. Perché deve essere esausto anche lui, e probabilmente si è prefissato di farsi una qualche endovena di caffeina e tirare fino a mattina o alla notte successiva, se fosse necessario. E quindi no, non ne ha proprio la voglia di starsene a discutere con lui per una cazzata da mocciosi.

Ma Dick non molla. Sfrega appena la testa, avanti e indietro, ricacciando nello stomaco il vomito e la nausea e cercando di non pensare alle stelline che vedrà quando solo cercherà di aprire gli occhi. Fanculo alla frustrazione di Bruce, alla sua debolezza e alla figura di merda che sta facendo.

Fanculo al mondo.

“Mi serve” biascica a denti stretti, un rantolo di aria e malessere. “Bruce. Ne ho bisogno.”

Perché sì, non è un capriccio da bambini quel trascinarsi in giro in modalità zombie. È qualcosa di più profondo, di viscerale; qualcosa che gli preme nella testa con l’insistenza di un martello pneumatico e rischia di farlo impazzire. Letteralmente. Più di quanto la tortura e quella fottuta bomba non abbiamo giù fatto. Più di ogni cosa che abbia già provato. E Bruce lo capisce; Bruce deve capirlo.

È necessità.

Di sapere di non essere finito. Di avere ancora uno strascico di quello che lo ha sorretto fino a quel momento. E no, non si tratta di motivazioni, morale o stronzate fisiche. Non è neanche volontà. È proprio bisogno. Qual disperato istinto di sopravvivenza cui si è aggrappato fin dal suo primo vagito.

E Bruce. Bruce lo capisce. Deve capirlo.

Bruce sa cos’è quella sensazione, quella rabbia a volte impotente altre devastante che ti afferra gli intestini e sembra volerteli maciullare. Sa cosa vuol dire agognare qualcosa e non riuscire ad afferrarla. E soprattutto sa cosa significa sentirsi così di merda.

Con il corpo andato a puttane, la testa che non ragiona e lì, proprio lì in fondo, ficcato giù nel profondo dello stomaco, quel bisogno che non vuole lasciarti andare. Quel fottuto desiderio di rimetterti in piedi e dimostrare al mondo, a lui e a te, soprattutto a te stesso, che no, non sei ancora sconfitto. Perché sì, è vero che stai sputando sangue e denti; è vero che ti stai trascinando e non ti guardi indietro solo perché, altrimenti, hai la certezza che vedresti i tuoi intestini; perché è da coglioni non capire quando è ora di piantarla e fermarsi; ma, Cristo, c’è quella cosa. Quella cosa che ti brucia dentro e non ti lascia respirare, anche se hai i polmoni collassati e il respiro, in realtà, è un grumo di sangue che scivola dalla bocca. Ma c’è. Cazzo se c’è. E fa male. Un fottuto male del cazzo.

E allora sai che non ti resta che imprecare e strisciare, perché di mollare tu non ne hai voglia. Non ne hai mai avuto voglia. Perché a mollare non ti hanno insegnato. Ma ti hanno insegnato a combattere, a stringere la vita con le unghie e con i denti. E se le unghie si fossero spezzate e i denti fossero saltati, ti hanno insegnato che la vita, quella vera, anche quella di merda in cui ogni tanto ti sei trovato ad affogare, quella vita va stritolata anche solo con la volontà. Perché a nessuno piace morire. Nemmeno ad un eroe.

E allora c’è solo la volontà. E il bisogno.

E sì. Bruce lo capisce.

Bruce lo ha provato sulla pelle, nella pelle, cosa significhi davvero avere bisogno. Cosa voglia dire sentirsi strappare qualcosa e volerlo di nuovo indietro, in modo viscerale, totale,in un modo così violento che poco ci manca che ti ammazza per autodistruzione. E poter contare solo sulla propria volontà per strapparlo a quella puttana che è la vita.

Perché, Cristo, Bruce si è trovato con la schiena a pezzi su una sedia a rotelle. Perché Bruce ha sentito il suo corpo esplodere, e poi più niente. Perché Bruce è morto, o ci è andato vicino così tante volte che forse nemmeno lui riesce più a distinguere bene il confine. Ma si è rimesso in piedi. Ogni fottuta volta, Bruce si è rimesso in piedi. Fischiando e ringhiando e imprecando e stringendo i denti, ma si è rimesso in piedi, mettendolo in quel posto a Bane, al Jocker e a tutti quei coglioni che lo davano già per morto e sepolto.

Quindi sì, Bruce lo deve capire. Deve sapere cos’è il bisogno. Quella necessità di non sentirsi impotenti, di trovare da qualche parte la convinzione di poter fare ancora qualcosa. Di poter anche solo fare.

“Hai bisogno di andartene in giro per la caverna in boxer?”

“Che ci vuoi fare?” riesce a sorridere. “I pigiami di seta erano finiti. È il meglio che ho trovato.”

E Bruce sorride, mentre la parete della caverna lo sostiene.

Perché Dick è così. Dick è quello che proprio non ci riesce, a restarsene serio. Dick è quello che, anche adesso che è un uomo, ha bisogno di tirar fuori una di quella sue battutine irriverenti per alleggerire la tensione. E Dio solo sa quanto ne avesse bisogno, di lui e del suo modo disilluso e irriverente di guardare alla vita.

Ha creduto di perderlo. Questa volta ha creduto davvero di perderlo. Perché quando il cuore di Dick si è fermato, Bruce ha sentito anche il suo collassare.

Dio. No.

E gettarsi su Luthor e pestarlo è stato un riflesso.

Non anche lui.

L’unico modo perché la rabbia e il dolore non lo soffocassero; l’unico modo che conoscesse per reagire a quel qualcosa che non voleva dover elaborare.

Dopo Damian. No. Non di nuovo.

Perché fa male sentirsi impotenti; perché gli ha fatto male trovarselo di fronte in quel modo, agganciato ad un congegno, a quel dannato congegno che lui aveva concepito, e che adesso gli avrebbe portato via anche l’ultima cosa buona che gli restava.

Non Richard.

Richard che gli era sembrato così giovane e indifeso, nudo in quella maledetta trappola di metallo. Richard che respirava appena, nel viso gonfio e tumefatto, con i segni delle torture che gli bucavano il cervello. Richard che soffiava sangue e voce, negli occhi offuscati, all’ombra di alcune lacrime che non si sarebbe concesso, un miscuglio di sollievo e sorpresa. Sei venuto. Dio. Sei venuto davvero. Come se non ci credesse; come se non ci volesse credere che Batman, che lui era lì, lì davvero. E lo era per lui. Che per una fottuta volta avesse messo lui davanti agli altri, davanti alla Lega, davanti al mondo. Davanti a tutto.

Ma Richard. Dick.

Dick per lui è stato tutto. Per molto tempo, per degli anni, Dick è stata l’unica cosa che gli ha impedito di impazzire, l’unica cosa che gli ha permesso di illudere una parvenza di folle normalità.

Dick è stato la sua famiglia, con Alfred. Una famiglia per scelta, e non per sangue. Una famiglia cui aggrapparsi, con cui anche il dolore poteva avere un senso, un significato diverso da un pulsare sordo e ossessivo. Una famiglia con cui condivideva qualcosa, qualcosa di così oscuro e profondo e devastante che non lo puoi descrivere. E che o combatti o muori.

Ma Dick.

Dick aveva negli occhi la stessa disperata rabbia, la stessa profonda devastazione. Dick era lui. Era un lui di nuovo impotente, di nuovo incapace di reagire. Era lui come si era sentito a nove anni, in un vicolo di Gotham, la polvere da sparo nella gola e il sangue sulla faccia. Ed era anche diverso, forse migliore. Perché Dick era andato avanti. Perché Dick non si era lasciato ossessionare da quelle morti di cui si sarebbe sempre sentito responsabile. Dick era solo andato avanti, cullando dolore ricordi e rimorso e trasformandoli in. In altro. In qualcosa che lui, che Batman, non avrebbe mai potuto capire.

“Ehi” mormora Dick, muovendosi appena fra le sue braccia. “Ho combinato un casino. Vero?”

Mh?”

“Con Luthor” sospira. “Sa che sei Batman.”

Luthor non sa niente.”

“Sa che Nightwing è Richard Grayson. Lo sa tutto il mondo. Sa che Bruce Wayne è stato il tutore legale di Richard Grayson. E sa che Bruce Wayne finanzia la Batman Inc. Non ci vuole un genio per fare due più due.”

“Che non sempre fa quattro. Mi sembra di avetelo già insegnato.”

“Bruce” Ti prego. “Mi hanno pestato; non sono rincoglionito. Non del tutto ancora. E Luthor lo sa. Mi ha sentito.”

Luthor ha sentito un rantolo. E basta.”

“Ma.”

Se sa qualcosa; e se farà qualcosa” chiosa Bruce, e il suo sussurro assomiglia davvero a un ringhio.“Ci penserò allora. Non prima.”

E Dick si limita a grugnire un assenso, e ringrazia il cielo quando il computer si mette a suonare come se avesse le convulsioni. Con Bruce che si alza e lui che si ritrova appoggiato alla parete della caverna. È fredda e dà fastidio, premuta nella pelle. Ma almeno. Dio. Almeno lo fa sentire vivo.

Sente le irregolarità della roccia, il sapore di salnitro e lo stridio lontano dei pipistrelli, giù, nella grotta in fondo in fondo, dove non va quasi mai nessuno. E sente freddo. Un dannato freddo che, se potesse, pregherebbe per una coperta. O almeno un paio di pantaloni.

Ma anche il freddo va bene. Perché quel freddo è vita. Dio. Dio. Anche in quella dannata macchina aveva freddo. Un fottuto freddo del cazzo. E avrebbe dato non sa cosa, per poter anche solo sfregare le mani sulle braccia, come sta facendo il quel momento. Anche solo guardarsi le mani e osservare il lieve colore bluastro sui polpastrelli. Invece, le mani, ce le aveva ben legate dietro la schiena, a sfregare sulle abrasioni e sui tagli che gli ricamavano la pelle di sangue vecchio e fitte lancinanti. Ma andava bene anche quello. Andava bene tutto, pur di sentirsi ancora vivo. Pur di avere la certezza di essere ancora vivo e forse. Forse.

Col cazzo.

Forse un cazzo. Se Bruce non fosse venuto a tirarlo fuori, lui ci sarebbe morto, attaccato a quella macchina. Inutile raccontarsi cazzate. E Olwman avrebbe potuto berciare finchè avesse voluto, ma lui, per il Sindacato, stava per esaurire il suo scopo. Lo avrebbero ammazzato. Come un cane.

“Devi andare?”

“No. Non è necessario” gli risponde Bruce. E lo fissa. Lo fissa da sotto la maschera come se lo stesse valutando, come se stesse cercando le parole per dirgli qualcosa. Qualcosa che sanno entrambi che non dirà mai. Lo continua a guardare anche mentre si tira in piedi graffiando la schiena contro la parete ruvida della caverna. Anche mentre strascica i piedi e annaspa verso l’altra poltrona, davanti ai monitor secondari. Dio. È così lontana. E le gambe sono così deboli e il respiro fa così male. E poi c’è Bruce. C’è Bruce che non accenna ad aiutarlo, che lo lascerà cadere e resterà a fissarlo.

Perché Bruce è fatto così. Bruce è convinto che, quando cadi, solo tu puoi rimetterti in piedi. Bruce è stramaledettamente convinto che, se cadi e ti rompi l’osso del collo, è perché eri tu, a non essere pronto. E se devi dare la colpa a qualcuno puoi solo darla a te stesso.

Cazzo. No.

Dick impreca e stringe i denti. Lo spigolo del tavolo nel fianco, sulla piaga da ustione ha fatto un male cane. Non vede più Bruce, il computer o quella maledetta sedia che si è ficcato in testa di raggiungere. Ma, Dio, sa solo che non vuole mollare. Che questa volta, per una fottuta volta, vuole mostrare a Bruce che il casino in cui si è ficcato non lo rimpiange. Che rifarebbe tutto daccapo, se significasse di nuovo offrire anche solo un istante in più, un secondo di speranza cui afferrarsi.

Se devi crepare, almeno crepa in piedi.

Roy. È stato Roy a insegnargli quell’idea, a insegnargli che, per quante volte uno possa cadere, deve solo trovare la forza per rimettersi in piedi. E la deve trovare da solo, in fondo allo stomaco, nelle viscere. E deve farcela, se davvero vale anche solo un briciolo di quello che ha sempre pensato di valere.

E Roy. Cazzo. Dick lo a visto precipitare, Roy. E lo ha visto rimettersi in piedi, trascinarsi fuori dalla merda che lo aveva sepolto e stamparsi in faccia quel suo solito sorriso idiota e irritante che ti fa incazzare ancora di più. Perché Roy ha l’irritante dono di far apparire semplici anche le cose più assurde e complesse.

Forse è per quello che va d’accordo con Jay. Forse è perché, in fondo, sono due idioti che non vogliono rassegnarsi allo schifo che è la vita. Soprattutto perché la conoscono troppo bene.

Lui invece.

Lui non sa più nemmeno cosa aspettarsi, dalla sua vita. Ma ha una sicurezza, la sola immane cazzata cui si è sempre aggrappato: che per ogni giorno di merda, per ogni sconfitta e per ogni osso rotto, per ogni dente saltato e punto di sutura, c’è un giorno che ne vale la pena. C’è un istante, una mattinata, un sorriso. C’è un fottuto qualcosa che ti fa capire che sì, hai fatto la scelta giusta.

Come il ghigno di Bruce.

Come quel maledetto mezzo sorriso che gli concede quando riesce a cadere sulla poltrona davanti ai monitor, il corpo che gli urla dal dolore e i polmoni in affanno. Cristo. Gli sembra che stia per scoppiarli il cuore. E fa male. Cazzo se fa male. Ogni centimetro, fibra, muscolo, poro del suo corpo si è risvegliato e provvede doverosamente a ricordargli che è da coglioni deficienti tentare le maratone per la caverna quando si è appena in grado di restare in piedi. Ma in fondo non è lui quello delle situazioni impossibili? Soprattutto quando ci si va a ficcare di sua iniziativa?

“È lui?” soffia Dick, quando riesce a respirare di nuovo e la caverna ha smesso di girare come una trottola. Non sa se sono passati cinque secondi o cinque giorni. Gli sembra di esserci rimasto una vita, su quella poltrona a cercare di mettere insieme i pezzi dei suoi pensieri sconclusionati. E quando il bianco dello sforzo e i rantoli si sono dati una calmata, si è reso conto di avere addosso un mantello di Bruce e che lui sta tranquillamente lavorando al monitor principale, mezzo metro più in là.

“Hm.”

“E vuoi che lo segua” soppesa, cercando di allungare una mano fino al mouse e far scorrere le informazioni. Non ce la fa, e la mano ricade sulle gambe, le nocche sbucciate e sull’avambraccio, ben evidente, la cicatrice che la spada di Damian gli ha lasciato, al loro primo incontro. Quando, per impacchettarlo e riportarlo alla caverna, ha dovuto dar prova di tutta la sua abilità acrobatica.

Perché Damian era pronto ad ucciderlo, in quel momento. Era pronto a eliminare quello che, probabilmente, considerava un ostacolo, una brutta imitazione.

“No. Non proprio” sospira Bruce, massaggiandosi gli occhi.

Dio. Lo sapeva che non sarebbe stato facile. Lo aveva già messo in conto quando ha scelto di fargli quella proposta. Ma non credeva. Non pensava. Non ha immaginato che sarebbe stato così difficile dirglielo, dirgli quello che adesso si aspettava da lui, quello che Dick poteva fare. L’unica cosa che gli restava da fare.

“Non voglio che tu segua Cappuccio” scandisce piano, il sapore del caffè mescolato a qualcos’altro. Qualcosa che ricorda il disinfettante che Alfred usa da sempre. Quel sapore pungente che ti resta in bocca e ti fa raschiare il palato ad ogni respiro, ad ogni parola.

“Voglio che tu diventi suo alleato.”

“Come Nightwing?”

“Come Richard Grayson.”

Cos’è la consapevolezza?

Per Bruce è sempre stato un vicolo sporco di pioggia, il riflesso di perle rosa e l’odore della polvere da sparo mischiata al sangue. Per Bruce la consapevolezza è quel dolore sordo che pulsa in fondo allo stomaco in ogni momento, e che appena ti distrai è pronto a divorarti.

Sono stati gli occhi di Dick sotto il tendone di un circo, la rabbia, l’impotenza e la disillusione di un mondo improvvisamente crollato, di una vita in frantumi. E lo sono ancora. Solo gli occhi di Dick, di Richard. Sono gli occhi dilatati di un ragazzo, di un uomo che ha cresciuto, che ha addestrato e che adesso deve lasciar andare, chiedendosi se sia pronto per quello cui vuole sacrificarlo, chiedendosi se tutto quello che gli ha dato basterà, un giorno, a riportarlo indietro.

Cos’è la consapevolezza?

Per Dick sono tre parole sbattute in faccia, un mantello di klevar fra le mani e il ricordo di una maschera strappata dal viso. Per Dick è la coscienza di non essere più niente, di aver perso tutto e dover ricominciare da capo. Come uomo, e non come eroe. Come un ragazzo che ha sempre corso sul filo di problemi e insicurezze; come un ragazzo che è scappato tante volte da quello che non accettava, da quello che non riusciva a comprendere. Come il ragazzo che si è lasciato alle spalle nei resti della Torre di Guardia, quando dalle ceneri di una missione suicida è ritornato solo il corpo martoriato di un uomo, senza maschere e senza costume.

Come il ragazzo, l’uomo che deve imparare ad essere dopo la morte di Nightwing.

“Potrei” tenta, cercando nel viso di Bruce, nel riflesso elettrico del monitor, una soluzione, una via di fuga. Un istante ancora che non lo precipiti in una realtà fatta di normalità, di una concretezza che è fuori da quella caverna, da quel mondo, dalla realtà che lo ha cresciuto. “Una nuova identità. Potrei cambiare costume. Forse.”

“Non funzionerebbe.”

“Con Jay ha funzionato” prova a protestare. “E anche con Roy. E con Tim e.”

Cazzo. Chi è che sta cercando di convincere? Bruce? O forse se stesso? Chi è che deve trovare una soluzione ai casini in cui si è ficcato? Lo sapeva, cazzo. Quando ha scelto di affrontare da solo il Sindacato, sapeva che poteva finire male, molto male. Dio. Era pronto a finire morto stecchito fra le mani di Ultraman. E no, non aveva previsto di trovarsi vivo e senza maschera. Vivo, dolorante e senza una fottuta identità segreta da difendere. Ma forse.

Forse. Facendo passare un po’ di tempo.

“Dick. Non funzionerebbe.”

“Perché no?”

Cazzo. Perché per lui no? Perché Jay può tornare dalla morte e trasformarsi da pazzo scatenato in discutibile giustiziere? Perché Tim può raccogliere un’eredità e riscrivere la sua vita? Perché Bruce deve dare una possibilità, una fottuta opportunità a tutti e non a lui? Perché?

“Perché sei morto. Ufficialmente.”

Nightwing è morto.”

“Anche Richard Grayson.”

Ok. Si è perso qualcosa. È assolutamente certo di essersi perso qualcosa.

Perché, cazzo, va bene che gli sembra di essere appena uscita da un tritacarne; va bene che, in quel momento, il massimo delle sue possibilità è restarsene seduto alla meno peggio su una poltrona in fondo ad una caverna. Ma, Cristo, è vivo. In un modo doloroso e ridicolo, ma è vivo. Punto. È un dato di fatto; e tutta quella conversazione sta assumendo i toni dell’irreale.

“Non credo di aver capito.”

“Dovevo fare una scelta, Dick” sospira Bruce, e in quegli occhi stanchi e rassegnati, nella piega amara della bocca e nella disillusione della voce Dick comprende. Comprende che Bruce, di nuovo, ha scelto per lui e che no, davvero, questa volta la scelta non gli piacerà. Perché, cazzo, una cosa è sentirsi dire che sei fuori da un caso. E ti puoi incazzare finchè vuoi, quando Bruce decide che tu sei di troppo e che la faccenda riguarda solo lui. Ti puoi incazzare e mandare tutto a puttane, o puoi intestardirti e andare avanti per la tua strada, ‘fanculo a Bruce, ai suoi ordini e alle sue paranoie. Un conto è fregarsene degli ordini di Bruce, mettere maschera e costume e decidere che i guai in cui vuole andarsi a cacciare sono anche cazzi tuoi.

Un conto. Un contro è sentirsi dire che sei fuori dalla tua vita. Che non ce l’hai più neanche, una cazzo di vita. E che quello che resta di te è un nome su una lapide.

“Dovevo proteggerti.”

“E mi hai messo in una tomba” sorride senza allegria, la rabbia e la confusione che si mescolano al disappunto e. E a qualcosa che Dick non vuole neanche definire, qualcosa che lo fa sentire, di nuovo, un ragazzino di dieci anni smarrito in una villa sconosciuta e silenziosa. “Bella protezione davvero. Grazie tante.”

“Stavi male. Non sapevo nemmeno se ce l’avresti fatta. E non c’era tempo” tenta ancora Bruce, la mano a disegnare un gesto vago, indefinito. Perché lo sa di averlo deluso; lo sa che si è arrogato un diritto, una libertà che Dick ha sempre combattuto per tenersi stretta. Dio. Si sono insultati, picchiati, ignorati per anni per quella libertà, per quel maledetto diritto che Dick ha sempre voluto avere di poter fare di testa sua. Di essere qualcosa che collabora con Batman, e non un’appendice di Batman. Qualcosa che decide, pensa, ragiona, sbaglia e fa una cazzata da cui bisogna tirarlo fuori. E Bruce sa di avergli appena detto che quella libertà di scelta lui se l’è presa senza tante cerimonie, stabilendo la sua vita da quel momento in poi. Come se fosse un burattino, come se la sua, di opinione, non contasse nulla. Non avesse mai contato nulla.

“C’erano due opzioni: dire a tutti che eri vivo e farti curare in una delle cliniche della Wayne. E rovinarti la vita da lì in poi, trasformandoti in un fenomeno mediatico.”

“Oppure?”

“Oppure” sospira Bruce, imponendosi di non distogliere lo sguardo, di fissare bene negli occhi la rabbia e l’irritazione di Dick. Di Richard. Di mio figlio. “Oppure dire a tutti che eri morto; e curarti qui, nella caverna, con una delle capsule di riabilitazione di Diana. Ho scelto la seconda possibilità.”

“Hai protetto Batman. Bruce Wayne. La tua identità” e c’è amarezza e delusione in quella voce. Un’amarezza e una delusione che a Bruce fanno male.

“Ho protetto te, dannazione. La tua vita.”

“Non ce l’ho più una vita, cazzo!”

Dick prende fiato, il pavimento che ondeggia e la testa che fa un male d’inferno. Dio. Dio. Non riesce a crederci; non vuole crederci. Sono morto. Sono un fottuto morto che cammina. E Bruce. Bruce tenta di rifilargli quella palla immane, quel ti ho protetto e bla bla bla. Col cazzo. Bruce non ci ha pensato nemmeno per un secondo, a lui e alla sua vita. Bruce ha intravisto un’opportunità, la possibilità di averlo a disposizione per qualcosa. Per un qualcosa che ancora non gli ha spiegato, ma che è sicuro che presto o tardi gli chiederà di fare. Per saldare il conto; o sarebbe meglio dire pareggiare il debito. Come se glielo avesse chiesto lui, di andare a tirarlo fuori da quel casino in cui era andato a cacciarsi. Come se fosse stato lui, quello testardo che non voleva lasciar perdere nemmeno quando lo implorava di lasciarlo crepare e di salvarsi.

“Quando?” soffia Dick, un ringhio trattenuto fra i denti. “Quando pensavi di dirmelo?”

“Quando fossi stato pronto.”

“Per cosa?” ansima Dick. Il mantello è scivolato a terra e, se ne avesse la forza, Dick si alzerebbe in piedi. E prenderebbe a pugni Bruce. Lo pesterebbe per bene. Perché gli fa rabbia, e soprattutto gli fa male. Gli fa un fottuta male del cazzo. Quel suo modo di fare; quel decidere sempre per gli altri senza chiedere opinioni e consensi. Senza immaginare che forse, ma proprio forse, qualcuno potrebbe aver qualcosa da ridire. Che lui potrebbe aver qualcosa da ridire. Cazzo. È pronto a morire, per lui. È sempre stato pronto a crepare piuttosto che vederlo distruggersi. E sperava. Dio. Dio. Dopo tutti quegli anni, sperava che un minimo di fiducia, un briciolo di sicurezza fosse riuscito a fargliela capire. Sperava. Cosa? Cosa cazzo speravo?

“Per cosa cazzo dovevo essere pronto, Bruce?”

Dove vuoi mandarmi? Per cosa vuoi usarmi?

“Per ascoltarmi. E…” Bruce inghiotte piano, masticando le parole che non ne vogliono sapere di uscire, restandosene lì, incastrate fra la gola e la lingua.

“E?”

…e forse perdonarmi” riesce a sputare alla fine, alzando la maschera che gli nasconde il viso. E il volto che Dick vede è quello di un uomo. Quello di un uomo cui la vita ha strappato molto, forse troppo. Il volto dell’uomo che gli ha insegnato che la vita è una gran bastarda, che è follia, disordine, dolore. E che è anche splendida. Come può esserlo solo una vita che ti costruisci passo dopo passo, nelle miserie e nelle aberrazioni, nelle soddisfazioni e nelle speranze.

Sembra quasi vecchio, il volto di Bruce. Con gli occhi scavati e gli zigomi in vista. Sembra quasi vecchio, con quell’ombra di barba di tre giorni e i lividi di qualche recente pestaggio. E sembra rassegnato. Rassegnato alla sua rabbia e al suo rifiuto, forse al disprezzo e forse alla disillusone.

E allora Dick ricorda.

Ricorda che quello che ha di fronte non è solo Batman, non è solo Bruce Wayne. Ma è un uomo. Un uomo che nel giro di pochi mesi ha rischiato di perdere la sua famiglia e ha seppellito la donna che non avrebbe dovuto amare e un figlio. Un piccolo irritante moccioso che voleva dimostrare al mondo e a suo padre che era degno di essere accettato, era degno di essere amato. Un irritante ragazzino che, Dick lo ricorda con una smorfia di nostalgia, non riusciva a capire cosa significasse sorridere davvero, che per giocattoli aveva avuto campi di battaglia e per nenie i ritornelli della Lega degli Assassini. Un petulante irritante bambino di dieci anni che, quando Bruce era scomparso, lo aveva abbracciato forte e aveva pianto contro il suo stomaco.

Dio. Bruce.

E allora capisce. Capisce perché ha preferito farlo morire per il mondo, ma garantirli una vita, una vita vera fuori da quel mondo. Capisce cosa ha voluto assicurargli, cosa ha voluto proteggere.

Non sono Damian. Non puoi pensare.

Ha protetto Batman. Certo. E a protetto Bruce Wayne, la sua identità e il suo essere umano. Ma prima di tutto ha protetto lui: ha protetto Richard Grayson. Ha protetto la sua vita e il suo desiderio di vivere. Il suo bisogno di poter agire, di poter di nuovo, ancora, fare. Di poter essere ancora utile, ancora presente in un mondo, in quel mondo che lo ha visto crescere e che, adesso, all’improvviso, è costretto a rifiutarlo. Come un traditore. Per proteggersi. Per conservarsi. Come se lui all’improvviso fosse diventato un cancro, un pericolo, un male che, se non fosse fermato, porterebbe all’autodistruzione.

Sono una bomba a orologeria. Dio. Sono ancora una bomba a orologeria.

Quanto ci metterebbero?

Quanto tempo impiegherebbero i servizi segreti, i governi dei paesi stranieri, i loro nemici di sempre? Quando ci metterebbero a collegare lui, Richard Grayson, a Bruce Wayne? E poi. Poi a Tim. E a Wally. E a Jay. E a Roy. E poi ancora a Quenn e a Dinah. E poi avanti. Una catena infinita. Barry. Hal. Vic. E infine. Infine si arriverebbe lì. A Superman. A Clark.

Perché, cazzo, li conosce. Li conosce tutti da quanto era un poppante. Li conosce e sa come annientarli. Conosce punti di forza e debolezze di ognuno. Conosce i codici; conosce la Lega e i suoi sistemi di criptaggio. Conosce la Torre di Guardia, ci è cresciuto in quell’ammasso di ferraglia che gira attorno alla Terra. Conosce troppo. E sarebbe pericoloso. Sarebbe troppo pericoloso.

Perché. Perché se capitasse nelle mani di qualcuno. Dio. Qualcuno che sa cosa chiedere; e sa come fare per chiederlo. Dio. Dio. È stato addestrato alla tortura. È stato addestrato a resistere alla tortura e a crepare piuttosto che parlare. Ma è un uomo.

Cazzo. È un fottutissimo uomo, fatto di carne e di sangue. E, che Dio lo perdoni, ma potrebbe farlo: potrebbe parlare. E sì cazzo. Anche se Bruce non avesse detto a tutti che era crepato, dove cazzo l’avrebbe avuta, la sua vita? Quale vita gli sarebbe rimasta? Avrebbe dovuto trascorrere le sue giornate recluso nella caverna; avrebbe dovuto comunque tagliare i ponti con tutti. Per paura. Per timore che un briciolo di esitazione, che un gesto casuale potessero rivelare troppo. Potessero rivelare quello che nemmeno lui avrebbe voluto.

“Cazzo” impreca, le mani sulla faccia. “Cazzo. Cazzo. Cazzo.”

“Dick.”

“Sei un bastardo” ride fra le lacrime. “Un fottuto stronzo bastardo” e non si chiede neanche da dove gli venga il coraggio per parlargli così, per parlare a Batman, a Bruce, a mio padre, in quel modo. “Mi spieghi come fai ad avere sempre ragione tu? Anche se sei nel torto, hai comunque ragione tu. Dio. Dio. È irritante. Non te l’ha mai detto nessuno?”

Bruce stiracchia un sorriso. Perché Dick è fatto così. Dick non riesce proprio ad odiarlo; per quanti errori lui commetta, per quante idiozie e delusioni possa collezionare, Dick ci sarà sempre. Dick accetterà sempre quello che lui gli offre e sarà sempre pronto a scendere con lui all’Inferno. Bruce a volte ne ha paura. Ha paura di quella fiducia, di quella dedizione cieca che Dick gli ha sempre mostrato e che lui non riesce a scalfire di un millimetro.

“Clark lo dice spesso” concede Bruce, tornando a rilassarsi contro lo schienale della poltrona. “Non ci ho mai fatto attenzione.”

“Dovresti iniziare, invece” mugugna Dick, cercando di risistemare il mantello attorno al corpo nudo e allungando una mano ad accarezzare il muso di Tito. “Allora. Chi altri lo sa?”

“Solo noi due.”

“Nemmeno Alfred?”

“Nemmeno Alfred” annuisce Bruce. “Ho. Mentre stavi male. Ho sigillato la caverna. E messo in loop le telecamere. Ti rilevano, ma non ti riprendono.”

“Fico. Sono un fantasma” ridacchia Dick, cercando una posizione più comoda sulla poltrona. Dio. Avrebbe voglia di appollaiarsi come fa sempre, ma non crede che i suoi muscoli sarebbero d’accordo. Non riesce nemmeno a sollevare una gamba e mettersela sotto il culo, figuriamoci acciambellarsi su quella maledetta poltrona in modalità instabile. “E con Salina come farai?”

“Non capisco.”

Dick ride piano, la mano fra le orecchie di Tito. Quando si tratta di Selina, Bruce è sempre sul chi vive. Anche con una domanda ovvia come quella. Ma Selina è Selina, Dick lo sa. E sa anche tutta la storia che c’è dietro. Cristo. È cresciuto spiando sul viso di Bruce un’ombra di sorriso e di eccitazione quando incrociavano la gatta.

Da ragazzino non ci aveva fatto caso. Da ragazzino, se Bruce non lo portava con sé, non ci pensava nemmeno che il motivo potessero essere due occhioni irriverenti e le movenze sinuose di una donna. Da ragazzino, Selina era solo Catwoman, un nemico, un avversario. Forse nemmeno il peggiore di tutti; forse quello che gli stava più simpatico. Poi. Poi ha iniziato a cogliere i segnali: la scia di un profumo, il mantello spiegazzato, lo sbuffo di un rossetto dimenticato fra le pieghe delle labbra. Ma aveva ormai sedici anni, di donne non ce ne capiva ancora granchè, ma conosceva Bruce e riconosceva i suoi mugugni e la sua impazienza. E Selina è sempre stata qualcosa di speciale, per Bruce. Qualcosa che non vuole condividere e ha il terrore di portare avanti. Ma c’è e probabilmente ci sarà sempre. Forse come nemica; forse come amica. Dick spera magari come amante, che di immaginare Bruce sposato, non ci riesce. Nemmeno con una gatta anarchica e seducente come Selina.

“Bruce. Ti prego. Selina non è stupida. E mi ha visto” sbuffa allargando le braccia qual tanto che i muscoli glielo consentono. “Non proprio al meglio, ma mi ha visto. Vivo. Lo sa. Lo capirà.”

“Terrà il segreto. Se dovesse capirlo, terrà il segreto. Lo sai anche tu” mormora Bruce. “Ha sempre avuto un debole per te” e sembra esserci come gelosia, in quella considerazione soffiata a mezza bocca.

“Come no?” ride Dick. “Il debole del gatto che vuole papparsi l’uccellino.”

Selina è una bella donna. E bacia da Dio. Cristo, quella volta che l’ha baciato, quella sola volta che ha abbassato la guardia, lei ne ha approfittato. E gli ha regalato un bacio da fargli andare il sangue al cervello. Certo, era per cercare di fregarlo e sfuggirgli, ma cazzo, lo ha baciato. E Dio solo sa fin dove si sarebbe spinta se non avessero iniziato a piovere proiettili. Perché per Selina il suo corpo è una delle sue armi migliori, e sotto a maschere e costumi Dick resta sempre un uomo. Anche se allora lui aveva poco più che vent’anni e Selina dieci in più di lui.

Cazzo. Le donne sono sempre state il suo punto debole. Le rosse di solito, e quelle con gli artigli in alcune occasioni.

Babs.

È un lampo, un sorriso imbronciato e capelli rossi nel vento della notte. È un lampo che gli attraversa la testa e, Dio, gli stritola il cuore. Babs avrebbe sofferto. Avrebbe sofferto fino a strozzarsi nel suo dolore. La conosce; la conosce bene e sa anche una cosa importante, una cosa fondamentale. Babs non accetta di perdere. Non accetta di perdere qualcosa cui tiene. Non accetterà di aver perso lui, di non esserci stata quando lui aveva avuto bisogno. Di aver preferito la sua squadra, la sua missione, alla possibilità di accompagnarlo. Ma è passato troppo tempo. Sono passati anni da quando si rincorrevano nei cieli di Gotham. Lui un ragazzino pieno di acrobazie, e lei. Cazzo. Lei. Lei era una ballerina; aveva la grazia di una ballerina. Ed era micidiale.

Dio. Se ne è innamorato subito. Se ne è innamorato a quattordici anni; di una ragazzina irritante più alta di lui che cercava di dimostrare a Batman, al mondo e a se stessa che poteva fare la differenza, che anche lei poteva fare qualcosa. Qualcosa di buono; qualcosa di importante.

Ma Babs combatte per i vivi. Combatte per chi le sta accanto. Ed è disposta a morire per loro. A crepare ringhiando piuttosto che implorare pietà. L’ha amata anche per quello.

“A cosa stai pensando?”

“A Barbara” ammette con un sorriso malinconico. “Sai. Volevo. Sì insomma. Volevo riprovarci. Con lei. Volevo. Non lo so.”

“Barbara è forte” sospira Bruce, un pensiero sfuggito in parole. “Starà bene.”

“E Tim? Starà bene anche lui?”

E Jay? E Alfred?

Dio. Non è facile. Non è per nulla facile. Perché vuol dire far del male. Perché vuol dire prendere in giro la persone che gli sono più care, quella famiglia scalcinata e insicura che non cambierebbe per nulla al mondo. Perché vuol dire mandare a puttane quello che ancora non è stato ricostruito, dopo la bella pantomima del Joker. E dopo la morte di Damian.

Perché significa perdere un altro pezzo di quella normalità che stavano cercando di ricostruire. Significa sapere che Barbara piangerà, e non esserci per stringerla fra le braccia e baciare i suoi singhiozzi; significa sapere che Tim si sentirà tradito e abbandonato, e non potergli dare una pacca sulla spalla o rubargli un woopie per ricordargli che la vita è una merda, ma anche la merda certe giornate può essere spalata via. Significa sperare che Roy e Kori ci siano per Jay, per la frustrazione e la rabbia che gli monteranno dentro, e sapere che non ci sarà per tirarlo fuori dall’ennesima cazzata in cui probabilmente cercherà di ficcarsi, giusto per non sentire il dolore. Significa accettare di nuovo il dolore sul viso di Alfred, il senso di vuoto scavargli il cuore e non poterlo confortate, ma sperare solo che quel suo vecchio cuore stanco sopporti ancora quella nuova disperazione.

Significa.

Cazzo. Significa fare il bastardo. Lo stronzo bastardo figlio di puttana. Significa tradirli tutti e mandare a puttane la fiducia e i legami che ha costruito negli anni. Significa fare come Bruce, come Batman. Significa infischiarsene di quello che gli altri potranno pensare provare soffrire e andare avanti a qualsiasi costo, anche autodistruggendosi.

E Dick. Cazzo. Dick sa che è pronto a farlo. E si sente di merda per questo.

“Se devo iniziare questa cosa” prende fiato, passandosi una mano sul viso ispido di barba.

“Dick.”

“No. Ascolta” lo ferma, sollevandosi meglio a sedere, cercando di recuperare una parvenza di dignità, fregandosene se addosso ha solo un paio di boxer e la sua dignità, al momento, vale meno di un dollaro bucato. “Se devo farlo. Allora. Voglio una promessa, Bruce.”

“Non ti sto obbligando, Dick.”

“Una promessa” scuote la testa, senza ascoltare. Perché con Bruce è così. Bruce è quel tipo di persona che ti mette con le spalle al muro e poi ti offre la possibilità di scappare. Sentendoti una merda. È quel tipo di persona che ti fa pesare un rifiuto fino al parossismo e anche se sei sicuro di aver fatto la scelta giusta, ti fa stare così da cani che mandi al diavolo ogni cosa e torni in dietro. Giusto per non vedergli in faccia quell’espressione impassibile che hai imparato a leggere come delusione.

Quindi no. Non lo sta obbligando. Ma non gli sta nemmeno lasciando altra scelta. Perché, lo sanno entrambi, Dick non accetterà mai di deluderlo e Bruce non riuscirà mai a chiedergli qualcosa in modo diverso da un assurdo ricatto. Perché sono due ostinati, testardi, cocciuti uomini, troppo esperti l’uno dei difetti dell’altro per non sapere su cosa premere, cosa sollecitare. Per Bruce è la sua famiglia, quegli affetti che non ammetterebbe mai e cui si aggrappa con folle disperazione. E per Dick. Per Dick è tutto il suo mondo. E Bruce. Tutto quello che Bruce gli ha dato e che lui è sicuro che non riuscirà mai a fargli capire cosa ha significato.

“Una promessa, Bruce. È tutto quello che ti chiedo.”

“Sentiamo.”

“Non farli soffrire” soffia, le mani strette fra loro e gli occhi bassi. “Lo so. Lo so” lo anticipa, passandosi una mano fra i capelli scarmigliati. “La nostra. La vostra vita. I pericoli. Li conosco. Lo sai. Solo. Non farli rischiare. Non più del necessario.”

Li voglio al sicuro. Ti prego. Bruce.

Non vuole svegliarsi una mattina e sentire al notiziario che. Dio. Non ci vuole nemmeno pensare. Non come è successo con Damian. Con Robin. Non come è successo quando ha riaperto gli occhi, nella hall della Wayne Tower, e tutto quello che ricorda è il corpo di Damian stretto fra le braccia di Bruce. Il corpo di Damian zuppo di sangue. Dio. Sembrava davvero un bambino. Nel suo costume da Robin, all’improvviso così grande e così inutile. Sembrava il bambino, il ragazzino di undici anni che giocava nel parco della villa. Il moccioso petulante e saccente che gli si arrampicava addosso alla sera, dopo le pattuglie. Il bambino dagli occhi grandi e spauriti, quando guardava dalla finestra una città che non conosceva e che gli ordinava: combatti o soccombi.

E Damian aveva combattuto. Dio. Aveva combattuto contro se stesso, contro il suo sangue, contro la diffidenza. Aveva combattuto e aveva strappato con le unghie e con i denti, con la rabbia e la determinazione un posto in quella famiglia, in quella casa.

“Non lo farò. Hai la mia parola.”

Dick annuisce piano, e Bruce si accorge di aver trattenuto un respiro.

È difficile. È difficile e snervante parlare con Dick. Non ci è più abituato, e gli manca. Dio. In tutti quegli anni gli è mancato da morire. Ma ci sono cose che non si possono sistemare, nemmeno con tutti gli sforzi e la buona volontà. E parlare con Dick è una di quelle. Non potrà più essere come quindici anni prima, non potrà più essere come quando lui era più giovane e Dick era ancora un ragazzino. Bruce lo sa bene.

Ha dovuto imparare a trattare Nightwing come un suo pari; ha dovuto imparare che il ragazzo è diventato un uomo e che, quando vuole, fa di testa sua. Ha dovuto imparare ad ascoltarlo, a scontrarsi, a litigare con lui su idee, opinioni, priorità diverse. Per Nightwing gli altri sono sempre stati prima della missione; sono sempre stati la missione. Anche per quello Bruce sa che Richard è e sarà sempre migliore di lui. Lui, che ha sempre messo la propria vita dopo ogni cosa; lui, che ha scelto di essere un eroe, un mentore un giustiziere, prima che essere un amico, un appoggio, un padre. Lui che è disposto a farsi odiare pur di aiutare, che ha costruito il suo nome sulla paura e sul terrore che sa instillare.

Nightwing invece.

Nightwing ha scelto un’altra strada. Ha scelto di essere prima di tutto se stesso. Ha scelto di essere un ragazzo, di essere una rassicurazione. Ha scelto il sorriso e l’ironia all’austerità di un mantello. Ha scelto di andare avanti, come Bruce sa che non riuscirà mai a fare. Ha scelto di esserci, di avere sempre una mano pronta ad aiutare a rimettersi in piedi. Ha scelto di essere un amico, un fratello, un figlio. Ha scelto di essere qualcosa su cui contare, sempre e comunque. Per Jay. Per Tim. Per Damian. E poi ancora. Per i Titani. Per gli Outshider. Dio. Dio. Lo ha quasi ucciso. Quella scelta di vita, quel desiderio viscerale di proteggere. Quante volte l’ha portato a un passo da. Da tutto. Dalla fine di tutto.

Eppure Dick se ne infischiava. Se ne è sempre infischiato. E sorrideva. Sorrideva di quel sorriso che da aperto è diventato una linea sottile di tensione e nervosismo sul viso di un uomo. Quel sorriso che una volta gli illuminava gli occhi, che una volta era l’eccitazione di una vita riottenuta, di una vita con uno scopo. Adesso, il sorriso di Dick è una piega un po’ sorniona un po’ amara, è una lingua caustica che non sta mai ferma, è due fossette fra le piccole rughe d’espressione. È la via di fuga alla paura e alle sue peggiori fobie. Ed è una certezza. La certezza di esserci.

E lui. Dio.

Lui gli ha tolto anche questo. Dopo l’infanzia e la giovinezza; dopo gli affetti, le speranze, la normalità. Dopo averlo addestrato, dopo averlo trasformato in quello che è ora, Bruce sa di avergli tolto tutto ciò per cui Dick ha sempre combattuto, tutto ciò che per Dick è il suo appiglio, il suo cavo di sicurezza ogni volta che sceglie di saltare, senza pensare se c’è o meno una rete di sicurezza.

E non ci ha pensato.

Bruce sa perfettamente che, quando ha dovuto scegliere, ha scelto senza esitare. Ha scelto di sacrificare Dick, di sacrificare Richard a qualcosa. Qualcosa di più grande, di essenziale. A qualcosa di vitale. E, mentre lo osserva, un ragazzo cresciuto troppo in fretta, un corpo rannicchiato e stanco su una poltrona, con negli occhi ancora il terrore e l’umiliazione di torture e sicurezze infrante, Bruce comprende cosa non ha voluto vedere. Cosa si è ostinato a ignorare.

E comprende anche che, ormai, è troppo tardi.

Troppo tardi per cambiare quello che ha fatto; troppo tardi per trovare una nuova soluzione. Voleva Nightwing; per quella missione, per quello che il suo infiltrato dovrà fare, voleva Nightwing. Voleva l’eroe, voleva l’uomo che gli è stato al fianco in missioni suicide, voleva il ragazzo che ha fregato il destino ed è sopravvissuto quando tutti lo davano per spacciato. Voleva Nightwing perché sapeva come gestirlo, sapeva cosa aspettarsi e come convincerlo. Voleva Nightwing perché, di tanti eroi che conosce, solo lui ha le palle per fare quello che deve essere fatto senza andare oltre una sottile linea di moralità che è fragile come il cristallo.

Voleva Nightwing perché è l’unico di cui si fidi. Completamente. Ciecamente.

E ho avuto te, Dick.

Prende un sospiro lento, fra i denti. Voleva l’eroe; e invece ha avuto il ragazzo. Il ragazzo con cui non sa parlare, il ragazzo che a volte trema nel guardare, nella paura di scoprire nei suoi occhi, nella piega della sua bocca, la stessa rassegnazione, la stessa disillusione che vede su se stesso. Il ragazzo che ha cresciuto, il ragazzo che lo ha salvato e che è sempre stato pronto a morire per lui. Che darebbe la vita per lui senza pensarci. E non per riconoscenza o per affetto; non solo per quello. Lo farebbe perché semplicemente lo riterrebbe giusto. Riterrebbe più importante un cocciuto, laconico, asociale piuttosto della sua vita, delle sue ambizioni.

“Ok. Bene” respira Dick, cercando di arrivare alla termos del caffè. Cazzo. Da quando in quella caverna fa così freddo? O forse non è il freddo. Forse è il suo corpo nudo e stanco che non ce la fa ancora, a sopportare quell’aria rasposa di salnitro ed elettricità.

Non ce la fa, e lascia ricadere la mano con uno sbuffo. Basterebbe chiedere. Basterebbero due parole per avere in mano una tazza fumante. Eppure. Cazzo. È difficile. È così difficile parlare con Bruce. Perché con Bruce non sai mai cosa aspettarti, come risposta. Non sai mai cosa gli passi davvero per la testa. Con Batman invece. Con Batman è tutta un’altra storia. Con Batman ha imparato a parlarci, ha imparato anche a scontrarsi. Perché Batman è Batman e lui era un eroe, con la sua città e le sue regole. Perché Batman sarà anche stato il suo mentore, ma Nightwing ha scelto da solo la sua strada. Piena di delusioni, figure di merda e insicurezze, ma ehi questa è la vita, e non te ne risparmia una nemmeno se indossi una maschera e una calzamaglia di klevar.

“Senti” tenta ancora, quando si ritrova fra le mani una tazza calda e Bruce al fianco, l’indifferenza che gli conosce a mascherare un gesto che sa di famiglia.

Mmh?”

“Il costume” e inghiotte caffè e qualcosa. Qualcosa di amaro che pesa nello stomaco. “Non metterlo sotto vetro. Ok?”

“No. Certo” acconsente Bruce. “Te lo terrò da parte. Per tempi migliori.”

Dick ride, una risata che sembra un singulto o i colpi di tosse di un moribondo. Perché sa di nostalgia, quel per tempi migliori. Perché sanno entrambi che è passato davvero troppo tempo, che sono successe troppe cose, perché tutto ritorni semplicemente a com’era una volta. A quei giorni in cui un ragazzino faceva acrobazie nei cieli di Gotham, sorridendo in faccia alla disillusione che la vita voleva offrirgli.

Perché lo sanno entrambi che quel per tempi migliori è la più grande della balle che possono raccontarsi. Perché non ci saranno mai più tempi migliori. Perché quello che Dick ha permesso che venisse spezzato, non può in nessun modo essere riparato. In fondo non è forse stato ufficialmente dichiarato morto e sepolto? Non ha anche lui, adesso, una bella lapide di marmo scuro accanto a quella di Damian?

Damian. Già. Damian aveva ragione.

Prima o poi ti farai ammazzare, Grayson. Sei troppo avventato gli diceva sempre, quando andavano assieme di pattuglia. Quando giocavano a rincorrersi per i cieli di Gotham. Un ragazzino incazzato con il mondo e un fratello maggiore mancato, che il meglio che riusciva a fare era ridere di quelle considerazioni così adulte e serie, così da Damian. Ridere e scompigliargli i capelli corti, ammiccando. Tu, invece, sembri un vecchio. Dovresti ridere un po’, ogni tanto. Ti farebbe bene. O rischi di immusonirti come tuo padre.

Perché Damian aveva sempre quella linea incazzata al posto della bocca; perché Damian era pronto a mandare a cagare il mondo e, se non lo faceva, era solo per rispetto a un padre con cui non riusciva a parlare.

Come se io fossi messo meglio.

Dick si passa una mano sul viso stanco e tirato. Che schifo di fratello maggiore si è ritrovato, Damian, Uno che voleva dare dei consigli e che per primo non sapeva esattamente come gestire la sua, di vita. Uno che gli ricordava ogni istante l’importanza del costruire un rapporto, e che con Bruce non riusciva ad andare oltre qualche grugnito. Mentre con Batman tutto filava via liscio. O quasi. Almeno con Batman le discussioni erano di lavoro. E anche se si incazzavano, non erano i loro sentimenti più nascosti a essere chiamati in causa. Era solo lavoro.

È solo lavoro. Coraggio.

“Allora” tenta di sorridere, ignorando la stanchezza che gli preme sugli occhi e il fastidio e il dolore che ogni parte del suo corpo gli trasmette. Come se i suoi gangli nervosi si fossero messi tutti d’accordo per ricordargli che, dopo due settimane di inattività fisica, mettersi in testa di batter il record mondiale di resistenza lontani da un letto è da coglioni. Anzi: è da re dei coglioni.

Chissenefrega.

“Da dove devo cominciare?”

“Dal letto” lo fulmina Bruce. “Otto ore di sonno. E le ossa a posto. Allora ne potremo riparlare.”

“No. Dai. Ehi!”

E che cazzo! Non può fare così. Non può assolutamente piantarlo lì e mettersi a lavorare come se nulla fosse. Ok che è morto e sepolto e nessuno si sarebbe preso il disturbo di andare a cercarlo; ok che, se non ingerisce al più presto un antidolorifico, rischia di trovarsi a sragionare per il dolore. Ok che ha dato fondo a tutte le sue irrisorie energie e rischia di cadere addormentato come un poppante. Ma cazzo. Bruce non può fare così. Non può assolutamente gettargli un’esca, lasciarlo abboccare e poi mollarlo lì. Ad annaspare attaccato alla lenza.

“Bruce.”

“Ce la fai a tornare al letto?” lo interrompe, senza togliere gli occhi dallo schermo. “O hai bisogno che ti ci porti?”

“Bruce!”

Ok. Ooook.

Spera davvero che le telecamere non lo stiano registrando; spera davvero che quella storia del loop sia autentica e che Bruce non abbia deciso di testare proprio in quel momento le sue capacità di lettura labiale. O Jay si piscerà addosso, quando lo vedrà. Cazzo Cazzo. Cazzo. Ma non era lui, quello del perfetto equilibrio? Non era lui quello che si sentiva a casa anche a cento metri d’altezza, il vento sulla faccia e l’abisso a un passo di distanza?

E allora come cazzo ha fatto a finire addosso a Bruce? A Bruce che, per la cronaca, ha avuto la prontezza di afferrarlo prima che sbattesse la faccia contro la consolle del computer. Almeno ha salvato i denti. Intanto, però, si ritrova ai suoi piedi, senza fiato e con la voglia di rimettere anche l’anima. E, cazzo, lo farebbe anche, se non fosse già abbastanza umiliante trovarsi in lacrime senza un fottuto motivo. Perché sì, cazzo: sta piangendo. Sta piangendo come un moccioso, e non sa nemmeno lui il perché.

“Dick.”

“Dick un cazzo” rantola bocconi, rincorrendo ossigeno e cercando di smettere di tremare. “Posso farcela. Non ho bisogno di una balia. So badare a me stesso. Quindi: sputa fuori questa missione e facciamola finita.”

“Dick” lo chiama ancora Bruce, inginocchiandosi accanto a lui. “Sei quasi morto.”

“Grazie per avermelo ricordato.”

“No” soffia Bruce, e la mano si chiude sul suo braccio, e se lo trascina al petto, fregandosene delle costole incrinate, delle ossa ancora traballanti e dei suoi vuoti tentativi di opporsi. Fregandosene di tutto e per una volta, per una dannata volta in vita sua, sentendo solo il bisogno di stringerlo. Di stringere fra le braccia Richard e ricordarsi ancora, di nuovo, che ce l’ha fatta. Che è lì, vivo e debole e incazzato, ma c’è e non l’ha perso. Dio. Non l’ha perso.

“Sei quasi morto. Davvero” bisbiglia ancora, così piano che Dick ha il dubbio di esserselo immaginato. “Dio. Ho creduto che tu. Che davvero tu.”

“Bruce” sussurra. “Sai. Se non ti conoscessi, direi che ti ho spaventato” tenta di scherzare.

Coglione.

È l’unica cosa che gli viene in mente.

La smorfia di Jason che gli dice sei un coglione. Perché solo un coglione potrebbe provare a scherzare su una cosa del genere. Perché lo sa. Lo sa che in un modo assurdo, contorto e incomprensibile, Bruce tiene a lui. Solo. Cazzo. Solo che sono due cocciuti idioti che non sanno minimamente come fare per ricordarselo. Che si mettono a gridare e insultarsi appena c’è il sospetto che qualcosa di personale, qualcosa che ha anche solo vagamente il sapore dei sentimenti, cerca di fare capolino e. E niente. E tutto va a puttane e sono punto a capo.

Perciò sì: è un coglione.

Perché è ovvio che lo ha spaventato. Perché, cazzo, anche lui ha avuto una paura fottuta. Quindi è inutile che cerchi di fare il disinvolto, visto che neanche dieci minuti prima era in lacrime, con la voglia matta di piangere fino a non aver più lacrime. Con il desiderio di urlare e singhiozzare senza ritegno; di qualsiasi cosa per scaricare quell’ansia che gli rimesta lo stomaco e che il solo pensiero di ributtarsi in una missione gli ha provocato. Maschere e non maschere.

Perché, cazzo, quando la morte la guardi in faccia; quando la morte l’aspetti e ha la faccia di un fottuto display sul tuo petto, allora sì che scopri cosa vuol dire averne paura. Allora sì che ti ricordi che tu non vieni da un qualche mondo esploso, che non sai respirare sott’acqua e nemmeno correre a velocità mach10. No cazzo. Ti ricordi che sei solo un pezzo di carne e che se riesci a far qualcosa è solo perché qualcuno ti ha insegnato a non arrenderti e che la volontà può essere tutto. Anche la disperata volontà di non morire. E allora quello che puoi fare è impedirti di tremare, impedirti di implorare e fissare la tua morte che si avvicina con tutta la sfacciataggine che possiedi.

Quindi sì: è un coglione.

Perché Bruce non glielo dirà mai, ma Dick lo sa. Lo sa cosa Bruce sta cercando, in quel suo abbraccio disperato. Sa cosa sta disperatamente cercando, mentre lo tiene tanto stretto da fargli male. Una cosa così semplice e così assurda che, Cristo, non ci pensi mai fino a quando non sei crepato.

Bruce sta semplicemente cercando il suo cuore. Quel cuore che pulsa e batte e ha arrancato per due settimane, per trascinarlo fuori da quel coma in cui era caduto. Quel cuore che non si è mai arreso, quel cuore che Bruce ha sentito fermarsi fra le sue mani, assieme all’ultimo rantolo di un respiro.

Quel cuore che, adesso, Bruce sente martellare come un tamburo, forte e giovane.

Così forte e così giovane da mandare ‘fanculo anche la morte.

Se si è spaventato?

Cristo. Ha creduto di impazzire. Quando il cuore di Richard. No. Ancora prima. Quando ha visto Richard in mondovisione, il suo viso senza maschera imbrattato di sangue. Dio. Ha dovuto costringersi. Ha dovuto imporre a se stesso di non muovere un muscolo, di non tradire un’emozione. Ha dovuto ricacciare in un angolino del cervello e dello stomaco il dolore e il terrore che gli stavano montando nell’anima. Violenti. E controproducenti.

Perché forse c’era ancora una speranza. Perché forse Richard poteva ancora essere salvato. E, quando lo aveva realizzato, Bruce aveva anche deciso che quella era la sua priorità. Che era disposto ad allearsi anche con l’Infero pur di strappare Richard, pur di strappare Dick al Sindacato e riportarlo a casa. Da Barbara; da Tim; da Jason; da Alfred. E da lui; soprattutto da lui.

Non gli sarebbe importato il prezzo. Per una volta, era davvero disposto a sacrificare tutto, la Terra, la missione, la Lega, pur di riaverlo. Pur di vederlo di nuovo nelle stanze della Villa, con quel suo orribile giubbotto da bikers e i capelli sempre in disordine.

“Bruce” mormora Dick. “Mi spieghi che ti prende? Lo sai. Lo abbiamo sempre saputo. Non siamo immortali. Oddio. Io l’ho sempre saputo. Tu non lo so. Però. Insomma. Cioè. Sappiamo che può succedere.”

“Richard” soffia Bruce, stringendolo più forte, facendogli male. Perché capisca cosa sta provando, perché riesca almeno a intuire quello che gli si agita dentro, profondo e devastante come un buco nero, come il nulla.

“Un minuto. Ti prego. Stai zitto per un minuto.”

Lasciati abbracciare.

Come quando era un ragazzino. Come quando aveva nove anni e la notte si riempiva delle sue paure e delle sue lacrime. Come quando aveva nove anni e le notti le passava in strada, il cappuccio di una felpa in testa e il bisogno spasmodico di fare, di agire. Di provare a dare un senso al vuoto che rischiava di divoragli la vita. Come quando era un ragazzino, e Batman era al suo fianco. In quelle notti. In quelle notti fatte di pioggia, pugni e sangue. In quelle notti di rabbia e acrobazie, Dick aveva solo cercato uno sfogo, una liberazione, una salvezza. Ma più combatteva, cercava, incassava; più finiva a terra e si rialzava; più la rabbia mutava in rassegnazione e la disperazione in dolore; più il bambino spariva e lasciava posto al ragazzino, più di tutto Dick cercava un abbraccio, un conforto. Qualcosa. Qualcosa che lo stringesse che gli dicesse che no, non era colpa sua. E che la sua vita, da quel momento in poi, non sarebbe stata solo un susseguirsi di pensieri interrotti, una lunga scia di assurdi accostamenti solo per alimentare il ricordo e il dolore.

E c’era stato Bruce.

In quel pulsare sordo, Bruce si era insinuato con arroganza, quasi con prepotenza. Obbligandolo ad ascoltare le sue emozioni, a convivere con le sue emozioni. Obbligandolo a guardare in faccia la realtà e accettare che sì, fa schifo. Ma comunque vale la pena di andare avanti. Come lui non è mai stato davvero in grado di fare; come lui non si permette di fare. E dopo Damian.

Dio. Dopo Damian, Richard è ciò di più prezioso che possiede. Perché vuole bene a Tim, e anche a Jason. E ha amato suo figlio al punto da voler uccidere chi glielo ha portato via. Ma Richard. Richard è stata la sua salvezza, è stato il primo abbraccio da un uomo tornato bambino, il primo abbraccio ad un ragazzino di nove anni, con negli occhi il terrore dello smarrimento e nelle mani un braccialetto sporco di sangue. È stato come abbracciare se stesso, come raccattare da terra il bambino che ha visto cadere sotto i suoi occhi i suoi genitori, e risente nella mente l’eco infinito di uno sparo.

Dio. Dio. Richard.

Richard è stato tutto, per Bruce. E ha scelto di insegnargli a combattere, per insegnarli a vivere. Ha scelto di gettarlo nell’arena, perché nell’arena potesse trionfare. Ha scelto di mostrargli la realtà più cruda e violenta, quello che un bambino di nove anni non dovrebbe nemmeno immaginare, perché capisse che c’è sempre qualcosa per cui vale la pena lottare.

Ma rischiare di perderlo. Dio. Dio. Rischiare di perderlo è stato. Lo sa com’è stato. Come con Damian. Come con Jason. È stato un dolore e una rabbia disperata nello stomaco. E, Cristo, non vuole più provarla. Non vuole più riavvertire quel terrore invaderlo.

Come quando Richard aveva diciotto anni. Come quando lo aveva visto precipitare dal ballatoio, gli occhi grandi e la bocca aperta senza respiro. Come quando il Joker lo ha quasi ucciso, e lui ha deciso che non poteva più permettergli quella vita. Che, invece di aiutarlo, lo stava portando sempre più a un passo dalla morte.

Perché Richard è sempre stato uno sconsiderato. È sempre stato un impulsivo scriteriato, con il sorriso sulle labbra e l’allegria negli occhi tristi. Perché Richard è nato acrobata, e morirà acrobata. E gli acrobati sanno che l’unica cosa che interessa al loro pubblico sono le acrobazie e i bei sorrisi. Anche quando avresti solo voglia di piangere.

“Bruce. Ecco” mormora Dick, quando la sorpresa rischia di scivolare nell’imbarazzo. “Senti. Non che non apprezzi il momento hug me. Sia chiaro. Anzi. Ma. Cazzo. Mi si gelerà il culo, se resto qui.”

Effetto Jason.

Perché solo frequentare Jay può avergli insegnato a essere così. Alfred direbbe espansivo; e storcerebbe la bocca chiedendosi che fine possano aver fatto tutti i suoi insegnamenti e le ore spese a migliorare il suo vocabolario. Ma, in fondo, almeno quello può permetterselo. Anche perché Bruce non dice niente; lo sente solo sorridere. Dio. Non sa esattamente perché, ma è sicuro che Bruce stia sorridendo. Forse proprio per quella libertà che si è preso. Ma non importa. Lo sanno entrambi. Possono aver avuto i loro momenti no, i loro dissapori e i loro scontri, ma Dick si è guadagnato il diritto di parlargli così. È l’unico cui Bruce permetta di parlargli così, escluso Alfred ovviamente.

Ma a Dick lo permette. Lo ha sempre permesso, da quando ha scelto un costume e una maschera per continuare quello che Batman gli impediva di fare. Da quando ha scelto di camminare sulle sue gambe, per la sua strada. Fregandosene di quello che Bruce pensasse. Standoci da cani, d’accordo, ma andando avanti comunque a testa bassa.

Ci vuole coraggio, per rivolgersi in quel modo a Bruce Wayne, a Batman.

Jason lo faceva. Jason negli ultimi mesi da Robin; e poi anche dopo. Quando è ritornato. Dio. Jason lo faceva spesso, di parargli in quel modo. Ma non è la stessa cosa; per Bruce non è mai stata assolutamente le stessa cosa. Jason urlava e imprecava anche quando era nel torto, anche quando sapeva perfettamente di essere nel torto. Era un ragazzino arrabbiato, Jason. Un ragazzino incazzato con il mondo e che non sapeva come spiegarlo, come dirlo, agli altri, a lui, quel disagio infinito che gli opprimeva il petto.

Probabilmente, Jason non riesce ancora a farlo. E per questo si incazza, urla e poi spara. Per questo non andava d’accordo con Damian. Perché, Dio, Damian si è sempre comportato come lui. Damian ha sempre reagito come Jason: con rabbia, e con frustrazione. Cercando di dominarsi anche quando non ce la faceva; cercando la ragione anche nel torto; cercando di dimostrare a lui, a Batman, a suo padre, quello che valeva. Quello che gli faceva meritare quel costume e la sua fiducia.

Dick invece.

Dick il privilegio di parlargli così se l’è guadagno sul campo, combattendo al suo fianco. Se l’è guadagnato restandogli fedele anche quanto tutto era contro di lui, anche quando gli altri volevano metterlo contro di lui. Dick non lo ha mai tradito, non si è mai arreso. E anche se lui ha scelto tante volte di abbandonarlo, anche se si racconta la balla della fiducia riposta in Nightwing, Bruce sa bene che non sarà mai capace di ricambiare quella lealtà cieca e totale che Dick ha verso di lui.

Quel sentimento che, anche in quel momento, dopo che gli ha detto cosa gli ha strappato, cosa ha scelto per lui, anche adesso che dovrebbe solo desiderare di prenderlo a pungi, gli fa ricambiare un abbraccio che si sono negati per troppo tempo. Un abbraccio che Bruce ha sentito nella carne, assieme all’urgenza, di nuovo, di avvertire il cuore di Dick battere. Battere forte; vivo.

“Poltrona o letto?” chiede alla fine Bruce, nascondendo un accenno di sorriso.

“Temo che dovrò optare per la seconda scelta” borbotta Dick, una smorfia che gli arriccia il naso mentre tenta di risollevarsi trattenendo un gemito. Dio. Dio. Se arriva vivo al letto; giura, se ci arriva vivo, niente e nessuno lo schioderà da lì finchè anche il più piccolo pensiero non si sarà riattaccato come dovrebbe.

Ci sono 206 ossa nel corpo umano.

E in quel momento ha l’impressione che le sue si siano polverizzare. Assieme ad ogni altro organo sensoriale che gli permette di restare in equilibrio. E, cazzo, non credeva che anche i muscoli potessero. Dio. Potessero fare così male. Una scarica elettrica ad ogni passo, al solo pensiero di farlo, quel fottuto passo.

Ma cazzo no.

Non ha la minima intenzione di farsi mettere a letto come un bambino. Piuttosto se ne resta spalmato sul pavimento, anche se quella poca parte ancora lucida che possiede gli suggerisce che forse, ma proprio forse, passarsi la convalescenza su un pavimento gelido a fissare un soffitto poroso non è proprio la soluzione migliore per rimettersi in piedi in fretta.

E quando Bruce gli passa un braccio attorno alle spalle e lo aiuta a riconquistare una parvenza di posizione eretta, Dick inghiotte un ringraziamento e stringe i denti, chè gli sembra che ogni parte del suo corpo sia stata strappata e se non si concentra, con quel maledetto tremito che lo prende, rischia di battere anche i denti.

C’è sempre la scusa del freddo.

Anche se, cazzo, lo sa bene che con Bruce una scusa del genere non reggerebbe. Ma tanto non regge nemmeno lui, e al primo maldestro incerto passo le gambe cedono ed evita l’ennesima caduta della giornata solo perché, di nuovo, come prima, come sempre, Bruce è lì a raccattarlo e metterlo in piedi.

“Guarda che ce la faccio” tenta, il fiato corto e il sudore freddo in faccia. E sa che, se non lo allontana con una spallata è solo perché, uno: non ne ha la forza; due: sa benissimo che senza il corpo di Bruce a sostenerlo lui non ce la farebbe nemmeno a far restar dritta la caverna.

Ma, Dio, è così. Così. Non è nemmeno umiliante.

E solo che.

Cazzo. Non ci sono abituato. Ecco cos’è.

Perché c’è sempre stato Alfred, quando lui stava male. E c’è stato lui quando a star male era Jason o Tim. Anche fermandosi pochi minuti attorno al letto, perché Dick sa benissimo di odiare quel senso di impotenza e frustrazione che lo prende davanti a loro, davanti alla sua incapacità di fare qualcosa per loro. Però si è sempre imposto di esserci. Come per Barbara; come per Kori. Come per Roy.

Ma per lui. Per lui non ha mai voluto nessuno accanto. Tranne Alfred, ovvio. Ma Alfred è un discorso a parte. Alfred è quello che lo ricuce da quando aveva nove anni e le giornate le passava ad allenarsi per perfezionare le sue abilità. Alfred è quello che lo ha visto vomitare sangue e sputare denti, che lo ha visto con le ossa a pezzi e il dolore stampato in faccia e non si è mai scomodato a consolarlo, preferendo ironizzare con quel modo tutto suo di sdrammatizzare e tenere sotto controllo la tensione.

Alfred è l’unico cui, a dispetto di tutto e tutti, Dick ha veramente permesso di vederlo debole, debole e vulnerabile. Non se l’è mai concesso con Jay e con Roy; ha cercato di nasconderlo a Kori, a Babs, a Tim. Soprattutto a Tim. Soprattutto dopo che aveva perso suo padre e Connor. Soprattutto dopo che Tim gli era caduto fra le braccia, distrutto dal dolore e dalla disperazione.

Ma Alfred.

Alfred è stato il primo. È stato il primo, e avrebbe voluto anche l’ultimo, cui raccontare del peso che gli stritolavano lo stomaco, del rimorso e della paura di Bruce per il casino che aveva fatto con Blockbuster. Per averlo ucciso; o meglio: per non aver impedito che fosse ucciso.

Ma Dio.

Bruce.

Bruce lo ha visto spezzato, piegato, pestato. Bruce lo ha visto disperato e incazzato, lo ha visto stanco, rassegnato, esasperato. Lo ha visto indifferente e lo ha visto risoluto; gli ha conosciuto la determinatezza e l’avventatezza; gli ha insegnato la pazienza e gli ha mostrato la perseveranza. Lo ha conosciuto determinato, ossessionato, massacrato, ironico, serio, ferito e nel pieno della forma.

Lo ha visto in molti modi, Bruce.

Ma non lo ha mai visto debole. Di quella debolezza che ti spezza la volontà. Di quella debolezza che Dick ricorda con terrore di aver provato i primi mesi dopo aver lasciato la Villa, Bruce, il costume. In quei primi mesi in cui nulla aveva più un senso e l’unico pensiero ossessivo era il rumore delle ossa che si spezzano quando cadono dall’alto.

Quindi sì: deve farcela. Da solo.

“Sicuro” sorride Bruce. “Si vede che sei in perfetta forma.”

“Cos’è, sfotti?” mastica Dick, inghiottendo l’ennesimo conato di vomito e chiedendosi perché la sua gamba non si decida ad avanzare di un passo, visto che sta disperatamente cercando di ordinarglielo. “Adesso sono davvero preoccupato.”

Bruce accenna una smorfia.

Perché è vero. Perché non è da lui quella confidenza, quel modo di canzonarlo. È un qualcosa di raro, di pungente. Un qualcosa che sta imparando con Clark, che ha imparato da Alfred. Un qualcosa che con Dick si è sempre limitato a pochi istanti, a poche fugaci allusioni e poi. Poi di nuovo è stato lasciato cadere. È qualcosa che appartiene a Bruce Wayne, alla maschera dell’uomo d’affari e del playboy. E qualcosa che Richard non gli conosce, non come normalità, non come conversazione.

Eppure gli è venuta spontanea. Mentre sorregge il corpo di Dick; mentre si prende il tempo per considerare il peso diverso, la muscolatura che, anche se un po’ giù di tono dopo le settimane a letto, rivela un corpo diverso da quello del bambino di una volta.

Non è la prima volta. Non è la prima volta che Batman sorregge Nightwing. Ma forse. Bruce si sofferma sul pensiero che forse è la prima volta che Bruce Wayne sorregge Dick Grayson. E scopre il corpo di un uomo, le cicatrici sulla pelle e gli occhi cerchiati, il respiro pesante e una scia di barba di alcuni giorni sul viso di un ragazzo e non più di un bambino.

E mentre lo aiuta ad appoggiarsi al tavolo per riprendere fiato, si sfila uno dei guati e gli sfiora il viso, sorprendendosi di sentire quella peluria leggera e ispida, quell’accenno di maturità che non ha mai voluto considerare.

“Ti radi la barba” commenta.

“Gli uomini lo fanno, di solito. O almeno così mi hanno detto.”

Bruce sorride nervoso. Perché è un’idiozia. Un’immane idiozia, quella che ha detto. Lo sa. Ma non ha potuto farne a meno. Perché è la prima volta che il pensiero di Dick, di Richard impegnato a radersi gli attraversa la mente. Dio. È un qualcosa che lui fa ogni mattina, almeno quando gli impegni di Batman non lo assorbono a tal punto da fargli perdere la cognizione del tempo. È un qualcosa che ricorda di aver sempre visto fare, a suo padre. Il viso rasato di fresco e l’odore della colonia maschile nell’aria, di prima mattina.

Gli uomini.

Dick ha detto proprio così: gli uomini. E lui? Lui da quand’è un uomo?

Da quando, si chiede Bruce, il ragazzino dei suoi ricordi si è trasformato nell’uomo che ha di fronte?

Non in Nightwing. A Nighwing è abituato; di Nightwing conosce ogni trucco, ogni acrobazia, ogni fremito; con Nightwing ha condiviso battaglie e appostamenti. Non Nightwing, ma Richard Grayson.

E si chiede chi glielo abbia insegnato, a radersi. Si chiede con chi Richard abbia bevuto una birra per la prima volta, quando si è ubriacato per la prima volta. E si accorge che, nella sua mente, il ricordo di Dick con un succo di frutta in mano passa senza soluzione di continuità a quella di un uomo con un coktail. Un uomo che filtra con le ragazze,che sorride e ammicca. Un uomo che, adesso lo realizza, è cresciuto senza che lui lo realizzasse, senza che lui lo accettasse.

“Bruce” lo richiama Dick, un respiro stanco. Perché ha capito, finalmente. Perché ha capito cosa impedisce a loro due di parlarsi, cosa impedisce loro di comprendersi. Per Dick Bruce è sempre stato un punto di riferimento, un’ancora. Ma ha accettato che anche le ancore possono oscillare. Ha accettato che Bruce non è né infallibile né invincibile. Lo ha accettato e ha accettato l’uomo che c’è sotto la maschera, l’uomo che invecchia e cambia con gli anni; l’uomo che si è trovato con un figlio inaspettato che non sapeva come controllare, non sapeva come amare. Lo ha accettato dopo molta rabbia e molto dolore; lo ha accettato quando Tim è entrato nella loro vita e gli ha ricordato che anche Batman, che anche Bruce è un essere umano. Solo più complicato degli altri.

Bruce no.

Bruce non lo ha accettato. Non ha accettato che lui sia cambiato, cresciuto. Non ha accettato che la lontananza, la rabbia e la solitudine gli impedissero di vederlo crescere ancora, come uomo e non come eroe. Bruce ha accettato Nightwing perché Nightwing è nato adulto, e una versione di lui già adulta. Nightwing è qualcosa con cui Bruce sa rapportarsi, può rapportarsi. È una figura che non cambia, è un’immagine che Dick dà di sé al mondo. Ma è soprattutto quello: un’immagine. Ma Richard Grayson non è mai stato Nightwing, non è mai stato solo Nightwing. Ed è questo quello che Bruce non sa gestire e che ha terrore di dover imparare a fare.

“Bruce” lo chiama ancora, abbassando appena gli occhi. Perché, cazzo, non è facile parlare di certe cose davanti all’uomo che ti ha cresciuto. “Non sono più un ragazzino. La mattina mi rado e alla sera, se ne ho voglia, mi bevo una birra. Ho anche fumato qualche sigaretta, se vuoi saperlo” sorride appena e scrolla le spalle a quell’occhiata. All’occhiata di un uomo, di un padre che sta realizzando che il ragazzino che ha sempre ricordato non esiste più.

“A Jay piacciono le Star, seti interessa. Lo rilassano” aggiunge quasi come scusa, a giustificare qualcosa che non dovrebbe nemmeno dover discutere. “E, giusto per esser chiari: ho anche avuto. Chiamiamole relazioni. Con una donna. Con più di una donna, a essere onesti” ride nervoso, passandosi una mano sulla nuca. “Cos’è? Ti ho sorpreso? Pensavi fossi rimasto all’amore platonico?”

“No.”

. O meglio: non ha mai voluto pensarci. Perché non mi riguarda si è sempre raccontato. Ma forse. Forse è perché non ha mai voluto realizzarlo. Non ha mai voluto immaginare un Richard diverso, un Richard adulto e maturo, un Richard che non guarda più solo a lui, ma sperimenta, prova, sbaglia, ritenta. Vive. Un Richard che, nonostante maschere, costumi e missioni, vive quella vita, la sua vita; quella che lui si è proibito, quella che lui si è negato.

“No” ripete. “Solo. Non me ne hai mai parlato.”

“Qualcuno mi ha insegnato la discrezione” cerca di scherzare. “E poi. Non credevo ti interessasse” replica piano, masticandosi un labbro. E quello non è l’uomo, realizza Bruce. Quello è di nuovo il ragazzino. È il Richard che lui ha conosciuto a nove anni. È il bambino che ha dovuto imparare a chiamare casa una villa in cui si sentiva ospite; il ragazzino che, quando ha rotto un vaso da 50.000 dollari in un esercizio malriuscito, ha visto nei suoi occhi, negli occhi del suo tutore, la preoccupazione per lui. Quel giorno Richard aveva lo stesso sguardo imbarazzato, e si tormentava il labbro inferiore con i denti allo stesso modo. Un qualcosa che Bruce ricorda di aver visto fare a Nightwing. Migliaia di volte. Come sa che non riesce a stare fermo, quando è agitato. O che non ama sedersi composto e preferisce arrampicarsi su un davanzale, una seduta, lo schienale del divano.

Perché non c’è nulla da fare. Richard è e resta un acrobata, uno che si trova più a suo agio sul filo di un funambolo che con i piedi ben piantati a terra. Uno che ha scelto come passione lo skydiving, pur di ricordare a se stesso quello che può fare come uomo. E non come eroe.

“Non è quello” tenta di raccattare. “Solo. L’ho sempre evitato. Perché lo consideravo una mia intrusione. Nella tua vita privata.”

“Forse avrei dovuto essere io a deciderlo. Non credi?”

Sì. Ma non è per quello.

Lo sa Bruce e lo sa anche Dick. Lo hanno capito entrambi. Come entrambi sanno che, probabilmente, non torneranno più sull’argomento. Perché è qualcosa che riguarda Dick tanto quanto Selina riguarda Bruce. È qualcosa che è solo loro, di quella vita che vogliono ritagliarsi. E se c’è una cosa che Dick ha appreso bene dal suo mentore, è la riservatezza nelle sue faccende private.

Sa che non racconterà mai a Bruce di quanto gli piacessero i riflessi del fuoco negli occhi verdi di Raya; o di come detestasse Barbara quando, con il suo bel costume addosso, riusciva a zittirlo con una parola. O di quando le ha dato quel primo frettoloso insipido bacio, nell’odore del gas di scarico di due motociclette pronte a ripartire.

Dio. Quella volta, la prima volta, l’ha baciata da cani. Le ha quasi rotto gli incisivi e aveva paura di baciarle il naso, invece che la bocca. La seconda è andata decisamente meglio, e c’era il profumo della cenere di un fuoco, l’umido di un acquazzone estivo sulla pelle e avevano sedici anni e curiosità mescolate all’affetto. Con Babs Dick ha fatto l’amore per la prima volta. Ma anche questa è una cosa che non dirà mai a Bruce.

Come sa che non gli racconterà mai di Kori e di quella loro vita assieme, della vita passata a giocare alla normalità, dopo che tutto era precipitato e lui vedeva la vita con disperazione. O di Roy. Delle nottate in giro a cercarlo, dopo che Lian è stata uccisa. Come non gli confiderà mai il rimorso per non esserci stato, quando Jay aveva bisogno di lui; e gli incontri strappati a missioni, proiettili e acrobazie, per trovarsi su un cornicione, le gambe nel vuoto e un sacchetto unto fra le mani. Non gli parlerà delle confidenze di Tim né dell’orgoglio per quello che era riuscito a costruire con Damian.

Come non gli parlerà di tante altre cose. Della ferita alla spalla che il Joker gli ha procurato, tanti anni prima, e che ancora gli fa male quando cambia il tempo. Né di come è ridotta la sua spalla e del fatto che, probabilmente, ormai è inutile anche solo sperare che torni come prima. Di come gli manchi il circo, la barra e le acrobazie sotto un tendone, nei barbagli di pailette e nell’odore forte di segatura, sudore e adrenalina. Di quel sogno fatto una notte, della sua morte per mano di Damian. E del dolore che ha visto nel volto di Bruce quando lo portava in braccio fuori da Arkham.

No. Ci sono tante cose che Dick non gli dirà mai, che resteranno per sempre in sospeso, fra loro. Perché non basta una mano sulle spalle e la paura della morte ad aggiustare le cose. Non basta intuire il perché di muri e incomprensioni perché tutto possa andare a posto.

Ma sono due uomini, ormai. E dovranno imparare anche quello. Dick a camminare nel sole senza maschere; a nascondere sotto gli occhi di tutti quello che gli si agita nel cuore. E Bruce. Bruce dovrà capire come comportarsi con lui, come rapportarsi al ragazzino che ha scoperto uomo.

Ci sarà tempo. Deve esserci tempo si convince Dick, mentre tenta di nuovo di conquistare un precario equilibrio e di raggiungere quel dannato letto che, ormai, gli sembra la cosa più bella sulla faccia della Terra e si ritrova a sbuffare esasperato per una debolezza che non vuole accettare e un’incapacità irritante.

“Insieme?”

“Insieme” acconsente Dick, lasciando che Bruce si sistemi meglio addosso il suo peso e lo accompagni in quella corroborante e benefica passeggiata di dieci metri. Dio. Adesso ha anche le vertigini. Faccio pena. Dio. Mi faccio una fottuta pena del cazzo.

“La missione” raschia, arricciando le labbra nel tentativo di costringere i piedi ad alzarsi e non strascicarsi per terra come un perfetto invalido. “Parlami della missione.”

Mmh” mormora Bruce. “Cosa ti dice il nome Spyral?” acconsente, quando Dick gli stringe, o almeno prova a farlo, l’avambraccio, nella patetica minaccia di non provarci nemmeno, a cambiare discorso. Chè per quel giorno di confessioni personali e momenti imbarazzanti ne ha avuti a sufficienza. E che se proprio devono fare dei passi avanti, loro due, nel loro rapporto, non occorre certo mettersi a correre la maratona, visto anche gli anni che hanno lasciato passare.

“Non è il nome di una nuova linea di magliette? Dark magari.”

“Spiritoso. Davvero” commenta Bruce, fermandosi un attimo per fargli riprendere fiato. “È un’agenzia. Di spie internazionali.”

“E da quando ci occupiamo di spionaggio internazionale?”

“Da quando queste spie hanno deciso di smascherare tutti quelli che nascondono la loro identità.”

“Auguri allora” ridacchia Dick nel respiro stanco e con il sudore che gli cade negli occhi. “Non basteranno due vite. Non sono tutti dei deficienti come me” ansima ancora, lasciandosi cadere sul letto in modo scomposto, che tanto, dolore lancinante più dolore lancinante meno, ormai, non sente più nemmeno il pensiero di avere un corpo.

“Davvero sono una minaccia?” chiede poi, quando il respiro si è fatto più regolare e il petto non fa più così male, mentre si alza e si abbassa.

“Hanno mezzi. Conoscenze. Opportunità” elenca Bruce, armeggiando con gli elettrodi che Dick ha lasciato pendenti dall’apparecchio e con una fiala di vetro. “E hanno agganci. Forse pochi. Forse molti. Agganci pericolosi” aggiunge poi, in un sospiro.

“Come Cappuccio.”

“Come Cappuccio” annuisce Bruce. “Sa chi è Jason. Sa che è stato Wingman. E sa che è Cappuccio Rosso” aggiunge poi, in un sussurro, mentre gli volta le spalle per ricercare una siringa.

“Ah. Beh. Se non si riconoscono fra simili” cerca di scherzare Dick, nella voce una punta di allarme che però non riesce completamente a dissimulare. “Jay è in gamba. Sa difendersi. E poi ci sono Roy e Kori con lui. Cazzo. Mi dici chi li riesce a fermare, quei tre? Non ti devi preoccupare.”

Già. Chi li ferma, quei tre pazzi scatenati?

Per Jay sono la miglior cosa che possa essergli capitata. Come per Roy. E per Kori. Sono tre che se ne fregano nelle regole e della morale e fanno quel cazzo che pare loro. Bruce questo non lo capisce, Dick lo sa. Ma sa anche che se ne è accorto. Che si è accorto di come Jay stia meglio. Molto meglio. Di come la rabbia e le delusioni siano cambiate, si siano incanalate. Cazzo. Ci sono volte che cerca Jason solo per parlarci. Dio. Parlarci davvero. Chè una volta, se solo si avvicinavano, l’obiettivo era uscirne vivi. Ok. Jay resta sempre uno stronzo bastardo dal grilletto facile, ma almeno ci pensa su tre secondi prima di aprire il fuoco. E poi sta cercando di dare una mano. Bruce lo sa. Lo apprezza. Non condividerà mai i mezzi, ma non se la sente di dirgli che è sbagliato quello che fa.

Perché cazzo non è sbagliato quello che fa.

“Infatti non sono preoccupato per lui”, ma la mano calca un po’ troppo, mentre inserisce l’ago nella vena. E Dick strozza un gemito e uno sbuffo di risata. Alfred ha decisamente la mano più gentile, ma forse. Forse Bruce lo ha fatto apposta, così impara a insinuare qualcosa e a non tener a freno la lingua.

“Bruce” lo ferma Dick, prendendolo per il braccio.

“Ti ho dato dell’idromorfone. Dormirai per alcune ore. Ne hai bisogno” lo anticipa, mentre sente la presa farsi più incerta. “Al mio ritorno, spero di non trovarti di nuovo a passeggiare per la caverna.”

Nh” annuisce Dick, ma la mano se ne resta lì, cocciuta. “Perché vuoi me? Per questa missione. Perché vuoi proprio me?”

Perché?

Dio. Ci sarebbero diecimila perché, sul motivo per cui l’ha scelto. Perché di lui si fida; ciecamente. Perché Dick è l’unico che possa arrivare al limite e non superarlo. Perché sa che dovrà impugnare pistole e fucili e che Jason sarebbe stato più adatto. Ma sa anche che Jason non esiterebbe a sparare, se lo ritenesse necessario. Mentre Dick. Dick cercherebbe sempre una terza via; una via che lo faccia restare quello che è, anche con una pistola in mano. Anche con la morte negli occhi.

Perché è bravo nel leggere le persone, il linguaggio del corpo e le emozioni. Perché sa interpretare i segnali come forse nemmeno lui riesce a fare; e lo fa in modo naturale, senza rendersene davvero conto. Sa scegliere, in modo istintivo, la mossa giusta. Come un artista. Come quell’artista che è abituato a restare al centro dell’arena e a interpretare gli umori del pubblico. È qualcosa che puoi imparare, ma che non puoi mai padroneggiare perfettamente. È qualcosa che o possiedi o non capirai mai davvero.

E Dick la possiede. Possiede quella dote rara di irriverenza e persuasione che gli scorre nel sangue come un’eredità genetica. Qualcosa che lo rende perfetto per intrufolarsi in un mondo che lo vorrebbe controllare. E, soprattutto, Dick è l’unico che potrebbe imparare a resistere. A resistere all’ipnosi di Spyral, a dominarla forse. A farne parte senza esserne succube.

“J’onn potrebbe. E anche M’gan. Senza problemi” biascica Dick, la bocca impastata dell’antidolorifico, della stanchezza e del sonno e negli occhi opachi un barlume di testardaggine a non cedere senza avere delle risposte. “Perché io?”

“Perché sei il più adatto, Richard.”

“Perché mi hanno smascherato in mondovisione. Chiaro” e la mano ricade pesante oltre il bordo del letto, mentre il respiro assomiglia a un vecchio singhiozzo.

“No” sospira Bruce, recuperando la mano e sistemandogliela meglio, accanto al corpo. “Non è perché ti hanno smascherato. Certo. È un elemento importante. Un’opportunità. Ma non è per quello.”

“E per cosa, allora?”

“Lo avevo già deciso. Avevo già deciso di proportelo” gli spiega paziente. Perché Dick ha diritto di sapere; perché Dick ha bisogno di capire. Perché Dick è pronto a mettere la sua vita nelle sue mani, è pronto ad accettare qualsiasi cosa gli dica di fare, anche se equivale a scendere all’Inferno. Anche se significa tagliare i ponti con tutto e tutti e mandare al diavolo tutta una vita. Quella vita che Dick, che Richard ha sempre difeso strenuamente.

Te lo devo.

“È qualcosa che puoi fare solo tu, Richard” tenta di spiegare alla fine. “Sarà pericoloso. Molto più pericoloso di sempre. Voglio che tu lo sappia. Dovrai fare delle scelte. Scelte che non ti piaceranno. E ti troverai da solo ad affrontarne le conseguenze.”

“Certo che, come convinci tu le persone” ironizza.

“Non voglio convincerti. Voglio farti capire” scandisce piano. “Ci sarà un altro addestramento; altre regole. Un’altra vita. E dovrai odiarci. Tutti noi. Me. Diana. Clark. Tutti. Odiare il fatto che ti abbiamo abbandonato; che non ti abbiamo salvato. E che non ti riaccetteremo mai.”

“Ma sarà una recita, giusto? Insomma. Non puoi pretendere che io. Davvero” si agita, cercando di scacciare la sonnolenza. “Bruce. Non puoi. Non puoi chiedermelo.”

“Sarà una recita. Sì” annuisce, passandogli una mano sulla fronte sudata, sui capelli sempre disordinati.”Ma ci dovrai credere. Sempre e comunque. Se vorrai resistere a Spyral, dovrai recitare alla perfezione. E io non conosco nessuno, nemmeno J’onn, che siano in grado di farlo. Non per tutto il tempo che sarà necessario. Mesi di certo. Forse anni. Non c’è nessuno che prima o dopo non si tradirebbe. Solo tu.”

Dick inghiotte piano. Bruce sta diventando sempre più un’ombra scura e sfuocata nel suo campo visivo. Ma cazzo riesce ancora a ragionare. E ha capito che quello che dovrà fare sarà il più grande spettacolo della sua vita.

Babs mi ucciderà” ridacchia. “E anche Jay. E Tim. Cazzo. Se lo vengono a sapere, sono un uomo morto. Sul serio questa volta.”

“Ti tiri indietro? Puoi farlo. Non te lo voglio imporre.”

“Col cazzo, Bruce” scatta, afferrandogli il braccio e sostenendosi prima che la nausea e i capogiri lo facciano cadere dal letto come un poppante. “Mi ci hai ficcato tu, in questa situazione senza vie d’uscita. Non provare a scaricarla a me, la responsabilità.”

“Io ci sarò” gli risponde calmo, stringe dogli la mano e riaccompagnandolo disteso. “Una linea sicura. Per aggiornarci. Per.”

Per parlare. Se avrai bisogno. Non ti mollo, Richard.

“Ci conto. In quel per” mugugna, rilassandosi di nuovo. “E sarà…?”

“Quando starai bene. Quando io deciderò che tu stai bene” lo ammonisce. Perché glieli conosce, i suoi colpi di testa. Come quello di andarsene in giro per la città a fare il suo lavoro anche con un braccio fuori uso o una bella commozione cerebrale. Dio. In quello ha imparato da lui, è certo. Ma questa volta. Questa volta Richard rischierà tutto. Più del solito; più di sempre. E lo vuole pronto. Lo vuole in forma perfetta. Come mai prima di allora. “Solo allora. Dovrai attirare la loro attenzione. In giro per il mondo. Farti notare. Ma di questo riparleremo. Non preoccuparti. L’Inghilterra è ancora lontana.”

“Inghilterra?”

Spyral ha la sua sede principale vicino a Londra. Non te l’avevo detto?”

“Fico” fischia Dick, sistemandosi meglio. “Pensi che dovrò mettere lo smoking?”

“Non ti montare la testa. Non sei James Bond.”

“Però mi vedresti senza quel giubbotto che ti fa sempre inorridire” ridacchia appena. “Grayson. Richard Grayson. Come suona?” prova, modulando la voce.

“Possiamo lavorarci” concede Bruce, risistemando i guanti e andando a recuperare il mantello dalla zona computer. Quando ritorna, Tito è accucciato ai piedi del letto e il respiro di Dick è lento e pesante.

“Esci?” soffia a occhi chiusi. “Non è un po’…presto?”

“Riunione di routine con la Lega. Dopo. Lo sai” si interrompe, un gesto esasperato e vago. “Dobbiamo fare il punto della situazione.”

Hmm. Non azzannare nessuno. Mi raccomando.”

“Tornerò presto.”

“Bruce. Andiamo” ride socchiudendo un occhio. “Non ho più dieci anni. E anche allora con le promesse del genere facevi schifo” gli ricorda. “Solo. Quando tornerai. Prima del mio esilio. Mi chiedevo.”

“Sentiamo.”

“Ce l’hai qualche 007 nella tua videoteca? Temo di essermi perso alcuni capitolo della serie.”

“Una mancanza davvero riprovevole” lo canzona, sistemandosi il cappuccio. “Credo proprio che potremo provvedere, prima che tu te ne vada per un po’.”

Ma è quando ormai ha un piede sulla rampa che porta ai livelli inferiori, che Bruce si ferma, senza voltarsi. Nascondendo nella debole luminescenza della caverna l’ombra vaga di un sorriso.

“Sai. Sei davvero un ostinato, cocciuto bastardo. Sei il più esigente partner che uno possa avere e a volte mi hai fatto proprio incazzare e quest’ultima è stato davvero un colpo basso. Molto sotto la cintura” mormora Dick, passandosi una mano sul volto stanco e insonnolito. “Eppure. Bruce. Davvero. Grazie.”

No. Grazie a te, Richard.

 

 

 

 

 

  
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