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Autore: kateausten    22/06/2015    1 recensioni
Giugno 1998
“Il mondo aveva i denti e in qualsiasi momento ti poteva morsicare”.
(La bambina che amava Tom Gordon)
Dean e Sam Winchester avevano imparato questa verità decisamente scomoda ad un’età in cui non si dovrebbe sapere nulla di morsi o di segni o di cicatrici.
(Supernatural/Stephen King)
Genere: Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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A Dean dispiacque che Sam e suo padre dormissero ancora, ma non pensò neppure per un attimo di svegliarsi.
Se ne stava disteso nel giaciglio di foglie ormai umido e guardava il sole fare capolinea pian piano nel cielo, dipingendolo di un azzurro così pallido da far quasi male al cuore. Secondo il suo orologio erano le cinque e mezzo. Era l’alba.
In quel momento gli sembrò di essere l’unico essere umano al mondo, privilegiato rispetto a tutti gli altri nel vedere quello spettacolo; era tranquillo e sensazione stranissima, a causa della vita che conduceva, sereno.
Pensò a Patricia, se fosse ancora viva e soprattutto se avesse visto quello spettacolo anche lei.
“Che pensiero stupido”, si disse un po’ imbarazzato da se stesso.
Si stiracchiò piano, ascoltando il respiro calmo di Sam e quello più pesante di suo padre e decise che era ora di svegliarli.
Tum.
Dean si alzò fulmineamente a sedere e guardò verso la boscaglia.
Tum.
Si alzò in piedi e lentamente, senza fare nessun rumore, avanzò verso il suono che aveva sentito. Sembravano dei passi, quindi poteva essere un animale ma anche qualcosa di molto, molto meno simpatico. Dean aggrottò le sopracciglia avanzando e fermandosi al limite della boscaglia, girandosi verso John; non sarebbe stato molto felice di non trovarlo al suo risveglio, ma Dean non poteva perdere tempo nello svegliare lui e suo fratello.
Magari quello che aveva sentito era la cosa che aveva rapito Patricia e gli altri bambini; si sarebbe spinto solo un po’ più in la, pensò prendendo il suo fucile, solo per controllare bene.
Mentre imboccava un sentiero che sembrava portare a una fitta rete di arbusti, Dean provò una vergognosa sensazione di sollievo nell’allontanarsi da Sam e suo padre per un po’.
Camminò per un po’ seguendo gli scricchiolii che sembravano provenire da tutte le parti: per due volte si girò verso destra, convinto di aver visto qualcosa di enorme, gigante, qualcosa che sinceramente sperava di non dover vedere con chiarezza (ma chi voleva prendere in giro, si sarebbe trovato quello schifo, qualunque cosa fosse, davanti alla faccia prima di mezzogiorno, se lo sentiva).
“Insomma”, borbottò mentre si spiaccicava l’ennesima zanzara sul collo.
Forse doveva fermarsi, pensò mentre le gambe continuavano però ad avanzare. Sembravano esserci solo alberi, foglie, insetti e fango. Soprattutto insetti.
Guardò i fasci di luce che riuscivano a passare dalle fitte foglie degli alberi sopra di lui e si fermò in attesa; adesso il silenzio nel bosco sembrava totale e invece di rassicurarlo, questa cosa gli stava facendo stringere violentemente le viscere.
C’era qualcosa, lo sentiva. Non sarebbe riuscito a spiegare cosa fosse esattamente quello che lo spiava fra gli alberi, ma era sicuro che fosse una cosa che non aveva mai incontrato.
John, la sera prima, aveva elencato ai figli tutto ciò che secondo lui non era il mostro che rapiva i bambini: vampiro, strega, lupo mannaro, mutaforma.
Forse era un Wendigo, aveva detto, e Dean aveva sorriso come se l’alternativa lo avesse reso felice invece di averlo terrorizzato a morte.
Aveva appena deciso di tornare alla base, quando un movimento attirò la sua attenzione. Al movimento seguì uno straziante grido di animale e poi più niente.
Dean deglutì, mentre il sudore gli imperlava la fronte e caricò il fucile, muovendosi lentamente verso il punto dove era sembrato provenire il grido.
Spostò con la mano destra un robusto cespuglio che gli oscurava la visuale e quasi vomitò la cena della sera prima. Un cervo, o quello che ne rimaneva, era sbudellato davanti a lui.
Dean abbassò il fucile, troppo nauseato e stupefatto da ciò che stava vedendo, per avere qualche reazione e fece qualche passo in avanti. Sembrava quasi messo li a posta, quel povero animale, con tutte quelle cose viscide che gli spuntavano fuori dallo stomaco; sembrava messo li proprio per far vomitare, per farti avere paura, per farti provare la sensazione “Ecco cosa posso farti”.
Doveva tornare indietro, suo padre avrebbe sicuramente saputo con che mostro avevano a che fare grazie a quei due elementi: prima gli artigli sulla corteccia, poi il cervo.
Si girò per fare un velocissimo dietro front, ma si bloccò subito senza quasi osar respirare: davanti a lui, con un cappellino sporco dei Red Sox, un faccino smunto ancora più sporco e jeans evidentemente troppo grandi, stava immobile quella che doveva essere Patricia McFarland.
La bambina e Dean si guardarono negli occhi per un tempo che parve infinito.
“Sei vero?”. La voce della bambina era un sussurro vischioso e rauco, ma ebbe il potere di scuotere Dean dalla sorpresa.
“Sono vero, si”, rispose serio.
La bambina continuò a guardarlo, senza manifestazioni di sollievo o felicità.
“Hai visto, Tom?”, disse girandosi verso destra. “Qualcuno è arrivato”.
Dean guardò stupefatto il punto dove la bambina guardava ma ovviamente non vide nulla.
“Ehm.. Piccola, tu sei Patricia giusto?”, chiese per distrarla un attimo da quella che sembrava in tutto e per tutto un allucinazione.
La bambina lo guardò nuovamente, stavolta con un piccolo sorriso.
“Trisha”, lo corresse sempre con quella voce rauca. “Mi chiamano tutti così”.
Anche Dean sorrise e si avvicinò, piegandosi sulle ginocchia.
“Bene, io sono Dean. E adesso ce ne andremo da questo posto, che ne dici?”.
Trisha annuì, sempre in silenzio e poi guardò verso destra con un espressione sorpresa.
“Oh”, disse triste. “Tom se ne è andato nuovamente”.
“Chi è Tom?”.
Trisha lo guardò e per la prima volta a Dean parve scorgere un lampo di lucidità negli occhi della ragazzina.
“Tom Gordon”, disse. “Il giocatore più forte dei Red Sox”.
Dean sorrise.
“Non seguo molto il baseball ma se dici che è il giocatore più forte mi conviene crederci”.
“Oh, lo è”, affermò Trisha convinta. “Mi ha fatto compagnia da quando mi sono persa”. Poi incontrò lo sguardo di Dean. “Da quanto sono qui? Perché nessuno mi ha cercato?”.
Rincuorato dal fatto che la bambina sembrasse sempre più lucida, Dean si alzò in piedi.
“Quattro giorni, Trisha. E ti hanno cercato, ti stanno ancora cercando, ma non credevano che una piccoletta così si fosse spinta tanto in profondità”.
“Ho nove anni”, protestò Trisha quasi con vivacità. “Quasi dieci e sono alta per la mia età”.
“In effetti diventerai una sventola, piccola”, annuì convinto Dean, strappandole un altro sorriso e un po’ di rossore sulle guance piene di punture di zanzare. Una palpebra era gonfia e aveva piccole escoriazioni ovunque.
“Sei una guardia forestale?”, chiese la bambina tirandosi su i pantaloni.
“Non esattamente“, rispose Dean.
“E allora perché tu mi hai trovato?”.
“Perché.. io sono una guardia un po’ speciale”.
La bambina annuì, sembrando trovare quella risposta perfettamente sensata.
“Mamma sta bene?”, chiese poi e gli occhi le diventarono lucidi.
Allarme rosso. La bimba non poteva lasciarsi andare proprio ora.
“Starà meglio quando ti rivedrà, piccola”, disse Dean. “Che ne dici di tornare a casa, eh?”.
Trisha annuì, tirando su con il naso e alzò lo sguardo. Lanciò un urlo che mutò in un violento attacco di tosse e Dean si maledì per essersi scordato del cervo alle sue spalle.
“Ehi, andiamo, Trisha..”, balbettò nervosamente Dean, mentre la tosse sembrava calmarsi.
“E’ stata la cosa”, riuscì a biascicare la bambina.
“In che senso?”, chiese Dean lentamente. “Hai visto qualcosa?”.
Trisha scosse la testa, mentre gli ultimi accenni tosse si placavano.
“Mi spia da quando sono arrivata qua. Mi ucciderà prima o poi”, disse con voce atona.
“Non credo proprio”, affermò Dean e Trisha lo guardò in silenzio. “Adesso ci sono io”.
Un rumore lieve di foglie li fece trasalire e Dean si voltò verso la bambina.
“Andiamo piccola, su”, disse con un sorriso. “Prima arriverai a casa, prima potrai farti un bell’hamburger”.
“Oh, si”, sospirò Trisha chiudendo gli occhi, mentre pregustava l’idea.
Non si mosse però, e Dean la guardò sorpreso.
“Allora?”.
Trisha lo guardò in imbarazzo.
“Potresti.. Potresti portarmi in braccio?”, chiese con un sussurro. “Sono un po’ stanca”.
Dean fece un gran sorriso, ricordandosi i tempi in cui era solito a portarsi     Sammy in braccio ovunque andasse.
Posò un attimo il fucile a terra e prese la bambina sotto le ascelle mentre lei gli cingeva la vita con le gambe come se fosse un piccolo koala magro.
Dean si chinò, riprese il fucile e iniziò a camminare abbastanza velocemente.
“Tutto perché dovevo fare pipì”, gli mormorò Trisha all’orecchio.
“Uhm?”.
“Mi sono allontanata dal sentiero perché dovevo fare pipì e mamma e Pete litigavano e non mi ascoltavano”.
“Si”, commentò Dean. “Conosco la sensazione”.
“Davvero?”.
“Si”.
Trisha gli strinse ancora di più le braccia al collo.
Forse quella cosa, si disse Dean mentre continuava a camminare, aveva desistito dall’intento di attaccarli. Magari martoriare la povera bestia era stato il suo ultimo atto di depravazione.
Mentre mancava un chilometro al suo piccolo accampamento, Dean si fermò; c’era un’altra volta troppo silenzio.
“Cosa c’è?”, chiese Trisha con la voce piena di panico. “Cosa?”.
“Shh”, gli mormorò Dean. “Sta tranquilla”.
Qualcosa colpì Dean alla schiena improvvisamente, mozzandogli il respiro e facendogli cadere Trisha dalle braccia.
L’impatto con il suolo erboso non fu dei più delicati, ma il pensiero del ragazzo andò alla bimba, sdraiata scompostamente vicino a lui.
“Dean”, riuscì a dire, mentre tossiva pesantemente e indicò qualcosa di fronte a loro.
Dean si alzò in piedi barcollante e guardò il punto indicato da Trisha.
Eccolo, finalmente.
Non sapeva cosa fosse: sembrava un orso nero, ma ovviamente non lo era. Aveva orbite nere al posto degli occhi, artigli al posto delle zampe e quando aprì la bocca per un mostruoso ruggito, Dean vide le zanne macchiate di verde e delle vespe che sembravano aver fatto il nido nella sua gola.
Prese il fucile e sparò con precisione al cuore della creatura, che non sembrò minimamente scalfita dal gesto. Dean sentì il cuore galoppare furiosamente: se i proiettili d’argento non funzionavano, doveva prendere Trisha e scappare più velocemente possibile da li.
La bambina intanto, ancora sdraiata in terra, gemeva terrorizzata e il mostro la guardò interessato. Sembravano collegati, come se entrambi non potessero staccare gli occhi l’uno dall’altro.
“Era ovvio che venisse”, disse tremante Trisha e il mostro lanciò un altro ruggito.
“Cosa vuoi dire?”, esclamò Dean, tenendo sotto controllo la bestia con il fucile.
“Se ti perdi nel bosco qualcosa di orrido ti ucciderà”, affermò cominciando a piangere, ma alzandosi in piedi.
“Vieni vicino a me, Trisha. Stammi dietro”, sussurrò Dean e la bambina eseguì l’ordine barcollando.
Il mostro si alzò su due zampe e Dean deglutì, sparandogli un’altra volta.
Neppure il secondo colpo gli fece nulla, anzi, sembrò pronto a attaccare. Dean percepiva che lui era solo un ostacolo per il mostro: il vero obiettivo era Trisha.
“Beh, non l’avrai”, pensò Dean, puntandogli il fucile a dosso per la terza volta. “E se l’avrai, dovrai vendere cara la pelle, figlio di puttana”.
Si preparò a sparare, quando una voce lo fece sobbalzare violentemente.
“Allontanati da mio figlio”.
Dean si permise di girare lo sguardo e con enorme sollievo vide John e Sam sbucare dalla boscaglia dietro di loro.
“Cos’è, papà?”, chiese terrificato Sam, anche lui con un fucile in mano.
“Non ne ho idea”, mormorò John con l’arma  puntata su di l’orso.
Si affiancò a Dean.
“I proiettili non funzionano”, disse Dean, mentre sentiva tremare Trisha dietro di se.
“Lo immaginavo”, rispose John, sparando e mirando alla testa che esplose in nugolo di vespe per poi ritornare allo stato originario.
“Cazzo”, imprecò Dean.
Il mostro sembrò stanco di aspettare e con l’ennesimo ruggito balzò velocemente a dosso a John, disarmandolo e poi a Sam, che aveva cercato di portare via Trisha.
“Sam!”, gridò Dean, vedendolo immobile contro un albero l‘albero contro cui aveva cozzato. “Figlio di puttana, il mio fratellino!”.
Trisha urlò, quando vide che il mostro puntava verso di lei e Dean si mise in mezzo scaricandogli il caricatore alla testa. Aveva notato che anche se non moriva, il fatto di dover ricomporre la testa dava loro qualche secondo di vantaggio.
Improvvisamente, a Dean tornarono in mente le parole che Trisha aveva pronunciato poco prima. Guardò sbalordito la creatura che sbuffava vespe e poi Trisha, rannicchiata accanto a lui.
“Papà”, urlò sperando che John non avesse perso i sensi. “E’ un tulpa!”.
Vide John rialzarsi con un po’ di fatica e strisciare verso l’arma.
Dean si girò verso Trisha.
“Trisha, ascoltami attentamente”, disse febbrilmente. “Questo mostro non esiste. E’ un pensiero dato dalla tua paura”.
“Ma.. Ma voi lo vedete”, rispose Trisha tremando.
“Si, perché tu lo hai creato nel momento stesso in cui ti sei persa e hai avuto talmente paura che ci fosse qualcosa che automaticamente questo qualcosa si è materializzato”, rispose Dean, sentendo altri spari dietro di lui.
Trisha lo guardava ad occhi sbarrati.
“E’ colpa mia”, mormorò.
“No”, rispose con decisione Dean. “Non lo è. Ma adesso devi essere forte e sconfiggerlo. Hai capito? Il mostro esiste solo nella tua testa”.
Trisha non rispose e respirò pesantemente.
“Ghiaccio nelle vene”, mormorò poi, chiudendo gli occhi e sospirando.
Si alzò e si girò verso il mostro, proprio mentre scagliava a terra John. Dean guardò Trisha e il mostro che si fronteggiavano con lo sguardo, immobili.
Trisha era così pallida che Dean aveva paura che svenisse, ma aveva una luce febbrile nello sguardo e non osò parlare.
“Vattene”, sibilò la ragazzina. “Tu non esisti, quindi sparisci. Tu e le tue stupide vespe”.
Il mostro ruggì e si alzò nuovamente su due zampe, pronto per colpire. Ma Trisha fece due passi verso di lui.
“Mi hai sentito?”, urlò. “Tu non esisti, quindi vattene! Vattene, vattene, SPARISCI!”.
L’orso che non era un orso si mise gli artigli nel luogo in cui probabilmente c’erano le orecchie e fece un lungo lamento straziante, mentre Trisha continuava a urlare con la sua voce rauca.
Girò su se stesso, come impazzito e infine, semplicemente, esplose. Come se non fosse mai esistito.
Dean guardò la bambina che respirava pesantemente, tossiva e guardava di fronte a se nel punto dove un attimo prima c’era la sua paura maggiore.
Crollò sulle ginocchia e Dean si precipitò da lei.
“Sei stata fantastica, piccola”, mormorò sommessamente. “Sei stata una forza. Non ce l’avremmo mai fatta senza di te”.
Trisha sorrise, continuando a tossire. Dean le accarezzò leggermente la schiena, sentendo Sam che si cominciava a muovere dietro di se.
“Ghiaccio nelle vene?”, sussurrò Dean a Trisha mentre la tosse si placava.
“Papà lo dice sempre su Tom Gordon”, mormorò lei, chiudendo gli occhi.
Dean sorrise.
“Viva Tom Gordon, allora”.


Dean non sapeva quale fosse stato il momento più bello del ritorno. Se il leggero peso di Trisha sulle spalle, ferrea nel non volersi staccare da lui (non che lui volesse lasciarla andare) o lo sguardo sbalordito del capo dei guardia caccia quando sbucarono dal bosco con la bambina.
Probabilmente, fu il viso dei genitori e del fratello della bambina quando erano accorsi all’ospedale incapaci di credere che la figlia stesse dormendo sedata in quel letto asettico; sporca, piena di lividi e punture e con l’inizio di una polmonite ma indubbiamente viva.
“Grazie”, gli aveva mormorato quella bimba bionda prima di addormentarsi e Dean non le aveva lasciato la mano fino a quando non fu sicuro che fosse scivolata in un sonno profondo.

“Secondo papà anche gli altri bambini sono stati vittima di un tulpa”, disse Sam mentre attendevano che John finisse di parlare con i genitori di Trisha. “O almeno, quasi tutti”.
Dean annuì, improvvisamente stanco. Non vedeva l’ora di mangiarsi il menù di un fast food e farsi una dormita.
“Sei stato bravo”, disse poi Sam, quasi bruscamente. “Ad aver trovato la bambina e ad aver capito che si trattava di un tulpa”.
“E’ stata lei ad aver trovato me, Sammy”, affermò Dean con uno sbadiglio. “Per il tulpa, ho semplicemente avuto intuito”.
Sam lo guardò accigliato.
“Sei stato bravo e basta. Lo ha detto anche papà”.
“Davvero?”, chiese Dean compiaciuto.
Sam annuì con un lieve sorriso.
Stettero in un silenzio piacevole, a sedere nella deserta sala d’aspetto e Dean stava per assopirsi quando suo fratello parlò.
“Quando mi sono svegliato e ho visto che non c’eri mi è quasi preso un infarto”, mormorò e Dean stette in silenzio. “Me ne sono subito accorto che non c’eri”.
Dean stiracchiò le labbra in un sorriso e guardò il fratello.
“Non me ne andrò, Dean”, disse Sam e il cuore di Dean si riscaldò. “O almeno, non adesso”.
“Lo so”, rispose Dean.
Certo che lo sapeva; Sammy non era fatto per quella vita. Si sarebbe laureato, avrebbe trovato un lavoro, una moglie e fatto dei bellissimi bambini.
Lui sarebbe stato lo zio strano che avrebbe vegliato a distanza sulla nuova famiglia di Sam.
Non poteva chiedere più di questo.
“E’ stata forte quella ragazzina, vero?”, disse poi Sam. “Sopravvivere nel bosco, da sola per quattro giorni”.
Dean sorrise lievemente.
“Ghiaccio nelle vene”mormorò, prima di addormentarsi.


La foresta è reale. Se doveste andarci in gita, portatevi una bussola, portatevi buone carte topografiche… e cercate di rimanere sul sentiero.

(Stephen king, La bambina che amava Tom Gordon)
  
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