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Autore: HeartSoul97    23/06/2015    1 recensioni
"Il sogno inizia sempre nello stesso modo.
Sono in alto, tra le nuvole, ma non le vedo bene – è notte. Cavolo, non so perché sto volando, non so neanche se questo si possa chiamare volare..."
Uno strano sogno, una persona che si sente sola, una svolta. Buona lettura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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                                                                                 Image and video hosting by TinyPic


Il sogno inizia sempre nello stesso modo.
Sono in alto, tra le nuvole, ma non le vedo bene – è notte. Cavolo, non so perché sto volando, non so neanche se questo si possa chiamare volare. Sono in aria. Vedo un sacco di stelle, da quassù. La luna è enorme e sempre piena, come se il tempo non avesse senso, qui.
Nonostante possa sembrare uno scenario niente male – solo la luna, le stelle, il cielo, una leggera brezza che mi scompiglia i capelli – sono terrorizzata.
Sento lo stomaco che si capovolge e cerco un modo per scendere – stupide vertigini – e poi scopro che non c’è. Dopo tutti questi sogni tutti uguali mi sarei dovuta abituare, eppure ogni volta è come se fosse la prima.
No, L’interpretazione dei sogni non è servito a niente, Freud non aveva previsto che qualcuno potesse fare un sogno del genere.
Poi, all’improvviso, precipito.
Sento le mie braccia e le mie gambe mulinare nell’aria e la mia bocca aprirsi, ma non emetto alcun suono, come se qualcuno avesse tolto il volume. È qualcosa di curioso e terrificante al tempo stesso.
Cado per quelli che sembrano minuti, senza controllo, mentre il paesaggio intorno a me esplode in un caleidoscopio di macchie iridescenti – bianco, giallo, blu, rosso, apparentemente a casaccio – e di solito mi ritrovo nel mio letto senza sapere perché. Ma oggi non va così.
Atterro non proprio benissimo su un prato. Mai successo.
Mi alzo, massaggiandomi il fondoschiena dolorante, e osservo il mare d’erba intorno a me.
No, non è un prato: è una collinetta. Sono in cima. Cosa c’è dall’altra parte?
Avanzo, inciampando nelle radici sporgenti di arbusti che fino a pochi secondi fa non c’erano. Perché ci sono degli arbusti?
Le bacche sono rosse e rigonfie, all’apparenza succose. Mi accorgo di avere fame. Ovviamente, mettersi ad assaggiare bacche sconosciute in un sogno quotidiano che non è più il tuo sogno quotidiano non è esattamente una buona idea.
Dall’alto si vede – buia, indistinta, ma si vede – una specie di catapecchia. Mentre la scorgo, decidendo se avviarmi lì o no, comincia a piovere, e piove davvero, non è che rimango asciutta o che. Sento l’acqua gelata entrarmi nelle ossa e non è piacevole, ma è un modo per costringermi ad entrare nella casetta.
All’improvviso sono riluttante. Perché devo andare alla casetta? Non voglio andarci. Vorrei evitare di assistere alla mia morte in un sogno, grazie.
Eppure, uno starnuto da guinness dei primati mi convince a correre in quella direzione. Stringendomi nella mia felpa grigia, affondo un passo dopo l’altro, inzuppandomi l’orlo dei pantaloni di fango.
La catapecchia sembra vuota e  la porta è aperta, perciò entro. È solo un sogno. Nonostante l’aspetto faccia pensare che non sia in buone condizioni, dentro è calda e accogliente – c’è una minuscola stufa e una poltroncina a fiori imbottita, una lampada a olio su un tavolino di legno correda il tutto. Solo la carta da parati floreale rende l’ambiente un po’ deprimente, impregnata com’è di macchie gialle e infelicità. Con un gemito di sollievo, mi raggomitolo sulla poltroncina rétro tendendomi verso la stufa.
«Era ora, tesoro. Temevo che non ce l’avresti fatta».
Trasalisco e mi volto. Su una sedia a dondolo di legno dall’aria molto vecchia sta seduta una signora che potrebbe avere la stessa età della sedia, o anche di più. Ha in mano dei ferri da calza e sta lavorando a qualcosa, ma inesperta come sono non capisco cos’è. Il filo di lana grossa è di un bel lilla chiaro, sebbene non veda dove sia il gomitolo.
Sto per scusarmi di essere entrata ma non faccio in tempo a dire qualcosa che lei mi interrompe.
«Non scusarti, cara. Sapevo che saresti venuta. C’è il tè, se vuoi». Volto la testa verso il tavolino e vedo una tazza fumante – che prima non c’era.
«Come facevi a sapere che sarei venuta?»
«So molte cose, bambina mia». La vecchia sorride. Il suo viso è un reticolo di rughe, ma non la rendono brutta – anzi, mi ritrovo a pensare che un tempo doveva essere stata davvero bella. Ha la pelle scura e i capelli bianchi come la neve, gli occhi come abissi profondi.
«Sono per caso finita a Matrix? Sei forse l’oracolo?».
Stavolta la vecchia ride. Ha una bella risata, chiara come quella di una ragazzina.
«No, tesoro. Magari nel prossimo sogno».
«Allora chi sei?».
La vecchia alza lo sguardo e smette di lavorare a maglia.
«L’importante non è chi sono io. L’importante è chi sei tu».
Mi ritrovo per un attimo stupita.
«Ma io so chi sono. E so che questo è il mio sogno, e l’ultima volta tu non c’eri» ribatto.
«Ah, la mia piccola primadonna. Sempre dritta al punto, ignorando i cartelli di stop» sorride di nuovo, tornando al suo lavoro.
Non apro bocca per un po’.
«Allora che ci faccio qui? Se lo sai, dimmelo».
La vecchia sorride enigmatica.
«Cosa sai di te, mia piccola Eulalia?».
«Che mi chiamo Eulalia, che di solito mi faccio chiamare Lia perché Eulalia non si può sentire, che faccio l’università, che sono brava in matematica e che i miei sogni non hanno senso. Devo aggiungere altro?».
«No». Neanche lei aggiunge altro, a quanto sembra. Riprende a lavorare.
Io mi raggomitolo sempre di più sulla poltroncina, desiderando di svegliarmi. Perché questo sogno è infinito?
«Nessun uomo è un’isola, Eulalia».
Chino la testa. E questo che c’entra?
«Cosa ha a che fare con me? Ho già studiato Thomas Merton, grazie. Non c’è bisogno di rifare la lezione» replico, stizzita.
«Affondare nella propria anima non è mai servito a nessuno, tesoro».
«Cos’è, un corso di massime?»
«Prova a ripetertelo, ogni tanto».
E così, all’improvviso, la casa sparisce. Sono di nuovo nel caleidoscopio, poi nel cielo – riprecipito e, con uno scatto, mi risveglio nel mio letto.
 
La sveglia luminosa segnala che sono le cinque del mattino – troppo presto per alzarsi.
Cosa voleva quella vecchia? La vita è mia. Se mi piace essere l’isoletta tropicale disabitata è affar mio. Prima o poi qualcuno forse ci capiterà – che sia un Prospero o un Robinson Crusoe non ha importanza. Non ho il diritto di scegliere io se essere un’isola oppure no?
Nessun uomo è un’isola.
Non è vero. Io lo sono. Eulalia, che tutti chiamano Lia perché nessuno sa pronunciare bene il suo nome, è un’isola. Un’isola senza arcipelago, un’isola dove nessuno va perché nessuno ha bisogno di Eulalia, a nessuno interessa andare a trovarla. Perché Eulalia è sempre lì per gli altri – quante volte ha fatto le due di notte per aiutare un’amica a studiare? – ma quando è lei ad aver bisogno di aiuto, via, tutti dileguati, sciolti come neve al sole. Le navi si allontanano in fretta da quell’isola, quando hanno portato via ogni risorsa, raccolto l’ultimo rametto di vaniglia, l’ultimo chicco di cacao.
Quando si vuole stare con qualcuno, c’è sempre qualcun altro prima di Lia – un amico migliore.
E Lia si gira e vede gli arcipelaghi, tutti troppo distanti, non li può raggiungere, perché lei è solo un cazzo di pezzo di roccia ancorato alla terra, e non può muoversi e andare nell’arcipelago, perché non sa come staccarsi da lì.

Forse c’è stato un tempo in cui non ero sperduta nell’oceano. C’è stato. Ma poi qualcuno mi ha messo lì, in mezzo al niente, mi ha ancorato ben bene e se ne è andato senza curarsi di dirmi come muovermi. E ora non so più come fare.
E l’acqua, ora, erode pian piano i lembi della mia terra, mangia i miei confini. Prima o poi sparirò, erosa dall’acqua, senza lasciare traccia, e nessuno si ricorderà più della piccola isola Eulalia.
Eulalia collassa su se stessa, affoga nella sua sabbia, affonda nel suo mare, cercando di evitare l’inevitabile, patetica come una mosca nella tela del ragno.

Allora alzo le mie barriere pronta a difendermi dal nemico invisibile che mi divora da dentro. Sprofondo nella mia anima, è un’anemone di sinfonie discordi. Devi pungerti se vuoi entrare, e dentro non c’è ordine – tutto è caos, lamento schianto battuta accordo risata tonfo cicaleccio frullo d’ali fragili di farfalla presa in un barattolo ronzio d’ape alla finestra uggiolato di cane lasciato sulla strada soffio di gatto spaventato serpente a sonagli canto di fenice, cacofonia e melodia si confondono, è come mischiare dolce e salato, dopo un po’ non li distingui più, bianco e nero dà sempre grigio, non esiste il netto, niente matematica per la mia anima, non ci sono regole precise, il pentagramma è tutto scarabocchiato, la pagina è un foglio A4 senza le righe e senza correttore automatico. Non puoi orientarti, tutte le bussole impazziscono, il sopra e il sotto non hanno senso come nei disegni di Escher, le mappe portano in un girotondo infinito dove nulla è come appare, tutti gli orologi sono fermi, e Eulalia è qui, io sono qui, in mezzo a tutto questo, incapace di trovare l’uscita del labirinto, timorosa di pungermi con i tentacoli dell’anemone, ma in realtà ho solo paura di ritrovarmi tra i denti di un barracuda. Ho paura di quello che potrei trovare nell’ignoto fuori dalla mia anima, tra i leones che le mie carte non identificano con niente. Quanti Leviatani ci sono là fuori, ad aspettarmi?
Quante meraviglie mi sto perdendo, mentre sprofondo dentro di me, sovrastata dalla mia orchestra senza direttore?
Forse la vecchia ha ragione. Forse dovrei smetterla di giocare ad impazzire (prima o poi il gioco diventa realtà), forse dovrei uscire e prendere un po’ d’aria, rischiare anche il barracuda, se necessario.
Non è forse questa quella che chiamano voglia di vivere? Rischiare, mettersi in gioco, ridere fino alle lacrime senza curarsi degli sguardi di chi non capisce, inseguire le farfalle e il vento nei giorni d’estate, osare, in tutto e per tutto, perché le colonne d’Ercole non esistono, vivere?
 
 
Rumore di sedie spostate, confusione, chiacchiere. Il prof di matematica mette a posto le carte e cancella la lavagna mentre gli ultimi allievi di Analisi Matematica escono dall’aula. Io esco per ultima, ad occhi bassi, con in mente formule complicate e un caffè che si è reso necessario.
Il bar, a quest’ora, è sempre pieno – abbiamo tutti bisogno di un caffè. Io prendo il mio preferito, quello con la panna, mentre sfoglio il libro di analisi e lo confronto con i miei appunti. Tuttavia mi riesce difficile concentrarmi – il sogno della notte scorsa è ancora vivido.
Mi lambicco il cervello cercando di capire ciò che c’è scritto sul libro – che lingua è? – quando una voce mi fa sussultare.
«Ciao, tu sei Eulalia, vero? Piacere, Lionel Stewart, facoltà di matematica, due banchi dietro al tuo, ma tanto non ti ricordi chi sono, non credo di averti mai vista parlare da quando sono qui. Hai origini greche, vero? Il tuo nome non mente, e neanche il tuo cognome – Papadopoulos, che cosa vuol dire in greco? – sai, ho studiato un po’ di greco al liceo, c’era un corso extra di lettere classiche e mi sembrava interessante così ho partecipato, vedo che ti piace il caffè con la panna, piace un sacco anche a me, però questa roba di analisi che ci ha spiegato oggi il prof è incomprensibile, tu ci hai capito qualcosa?, io no, senti ma anche i tuoi parenti hanno nomi greci?».
Alzo gli occhi cercando di sollevarmi dalla montagna di parole che mi ha appena investita – non ha praticamente respirato per cinque minuti, complimenti.
Davanti a me un paio di occhiali rotondi, un volto incorniciato da ricciolini bruni e occhi neri colmi di curiosità.
Ricordo vagamente di averlo visto, ma non mi pare di averci mai parlato.
«Piacere di conoscerti?» azzardo una risposta. Riccioli Bruni (com’è che si chiama?) fa un mezzo sorriso sbuffato e riattacca a parlare.
«Sì, il piacere è tutto mio, sai avevo cominciato a pensare che fossi muta o non so che visto che davvero parli a malapena, e soprattutto che fossi una specie di robot visto che stai sempre china sul banco a prendere appunti senza fermarti mai e senza controllare l’orologio almeno una volta l’ora, e soprattutto vuoi rispondere alle mie domande?, perché se non rispondi non fa niente ma sono una persona curiosa e ci rimango male, eh». Interrompo il fiume di parole con una mano.
«Ferma, ferma. Parliamo da neanche cinque minuti e mi hai chiesto un sacco di cose, non ricordo nemmeno il tuo nome, figuriamoci se mi ricordo una delle domande che mi hai fatto». Mi mordo la lingua nello stesso istante in cui smetto di parlare. Perché sono così acida? Non voglio essere acida, non con la prima persona che mi rivolge la parola da quando sono qui.
«Scusami, non volevo…» comincio, ma stavolta è lui ad interrompere me.
«Fa niente, fa niente. Mi dicono spesso che sono un po’ troppo insistente, e anche invadente. Mi dispiace. Sei una persona riservata e io ho brutalmente invaso i tuoi confini, mi ritiro».
Il ragazzo fa un sorriso storto, gira i tacchi e si allontana di qualche metro. Sto già per darmi mentalmente della stupida che si volta a guardarmi.
«Lionel, comunque»
«Piacere, Lionel. E scusami» dico, sinceramente pentita.
Lui alza le spalle come a dire “fa niente”, si gira e fa qualche altro passo, facendo un cenno di saluto con la mano.
Rispondo al cenno, sentendomi stupida subito dopo sapendo che non può vedermi.      
 
Alla fine delle lezioni mi avvio verso la mia macchina con la testa occupata da migliaia di pensieri, senza accorgermi di qualcuno comodamente appoggiato alla mia portiera.
«Lionel Stewart» lo saluto sorpresa, riconoscendo gli occhialetto rotondi e i riccioletti bruni. È uscito solo qualche minuto prima di me, eppure è già qui.
«Eulalia Papadopoulos» dice lui di rimando, ma senza schiodarsi dalla sua postazione.
Non so che dire per qualche istante.
«Potrei, per caso, entrare nella mia macchina?»
«No». Quella risposta secca mi lascia spaesata per un attimo. È la mia macchina!
«Come, prego?»
«No. Non finché non mi dici che venerdì sera verrai con me e alcuni miei amici al cinema e poi, non so, a mangiare una pizza. Sono sicuro che ti piaceranno. Dai. Si vede lontano un miglio che hai voglia di uscire e divertirti un po’»
«Senti, sei gentile, ma no. Non voglio venire, non conosco i tuoi amici e sicuramente non gli piacerò, sono troppo silenziosa, tu sei un chiacchierone e sicuramente anche i tuoi amici sono molto estroversi, non penso che sia una buona idea…» gli dico. In realtà, sono solo un po’ codarda.
«Non conosci i miei amici e se venerdì non verrai non li conoscerai mai. Dai, per favore. Guarda che sono persone affidabili, eh. E non sarai l’unica ragazza, se è questo che ti preoccupa. Sono tutti dei cervelloni come te e come me. E guarda che in fondo sei una chiacchierona anche tu. È già la seconda volta che non rispondi con tre parole». Arrossisco. Non me ne ero resa conto.
«Su, su. Il verdetto finale. Sei libera venerdì?». Mi guarda speranzoso. Rifletto un attimo.
Nessun uomo è un’isola, Eulalia.
«Sì. Va bene. Ci sarò» dico e finalmente, dopo mesi, sorrido.
 



***
Angolino autrice

E niente, mi sentivo sola ed ecco cosa è venuto fuori. Un po' di ottimismo alla fine non fa mai male. Sì, tra Eulalia e Lionel c'è una sovrabbondanza di L, ma che ci posso fare.
Alla prossima.
Heart
  
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