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Autore: EmmaDiggory15    23/06/2015    0 recensioni
Augusta, Maine 2010
Jake Dallas sta per affrontare la prova della sua vita, da cui dipenderà il suo futuro e la sopravvivenza della sua comunità, ma non sa ancora cosa lo attende, e i suoi nemici si nascondono nell’ombra pronti ad attaccarlo.
Portland, Maine 2014
Quattro anni dopo Jake conserva ancora il ricordo di quella notte. Una chioma bionda e un vestito rosso sangue sono ancora impressi nella sua memoria, diviso a metà tra il suo dovere e i suoi desideri proibiti.
Nel frattempo, una ragazza cerca vendetta per il male che le è stato inflitto, nessuno scrupolo per chi si metterà in mezzo tra lei e la sua preda.
Nessuno è quello che sembra, dimentica ciò che hai sempre creduto di sapere: il vero nemico potrebbe nascondersi proprio dentro di te.
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Theft and Injustice
When your dreams all fail
And the ones we hail
Are the worst of all
And the blood’s run stale

 
Il giorno successivo, Morgan non aveva perso tempo: appena si era alzata, si era subito vestita e preparata, dopo aveva fatto una telefonata e definito l’obiettivo della giornata.

Sapeva che non doveva più perdere tempo, erano due anni che cercava di venire a capo della situazione, ma c’era sempre qualcosa che le sfuggiva, si ritrovava sempre un passo indietro ogni volta che credeva di essere giunta alla fine.

Nell’ultimo periodo, però, qualcosa era cambiato. Sophia e Michael avevano iniziato a farle costantemente fretta, chiamandola più volte al giorno, ricordandole continuamente il loro accordo. Era strano che insistessero in quel modo, per quegli anni aveva girato quasi tutte le città, fra lo stato di New York e il Maine, e mai una volta le avevano messo così tanta fretta; da quando erano arrivati a Portland, invece, non facevano altro che intimarle di concludere rapidamente. Morgan, però, non avrebbe dovuto stupirsi troppo del perché: dopo due anni di ricerca, avevano scoperto una cosa molto interessante su di lei, lì a Portland, ma la loro apprensione era davvero forte.

Magari, potevano anche essere impazienti, visto il fatto che erano riusciti ad individuarla in un punto fisso, ma generalmente i vampiri non avevano mai fretta. La stessa Morgan attendeva da quasi vent’anni, ma non si era mai posta il problema di cercare in fretta, il mondo non era infinito e lei lo avrebbe trovato, non aveva alcuna fretta. Loro evidentemente sì.

Tutto quello che sapeva era che negli ultimi mesi i cacciatori si erano allarmati per via dell’aumento delle uccisioni fra gli umani, periodo coincidente con il loro trasferimento a Portland. Morgan aveva pensato che questo avvenimento potesse essere collegato con l’improvvisa fretta di Sophia e Michael, ma i vampiri non si interessavano delle morti umane  o dei problemi dei cacciatori, e, anche se questo fosse stato davvero collegato con le sue ricerche, non capiva come questo potesse influenzarli in quel modo, si trattava di umani, dopo tutto.

In ogni caso, aveva deciso di attivarsi. Non era del tutto sprovveduta e in quegli anni non aveva mai fatto tutto da sola, infatti, ad aiutarla c’erano stati Henry e Logan, suoi Compagni, entrambi molto giovani, ma si erano rivelati abili nel rintracciare altri vampiri, ottimi amici per Morgan e dei vampiri promettenti loro stessi. Nonostante non avesse preso alla leggera l’idea di andare via da loro per due anni, in qualche modo era positivo, dato che finalmente aveva lasciato ai due il loro spazio e non doveva più fare da terzo incomodo, e poi, si sentivano per telefono quasi ogni giorno; i tempi erano decisamente cambiati, da quando lei era diventata una vampira.

Non credeva che l’avrebbe fatto davvero, ma aveva deciso di seguire il cammino suggeritole da Sophia, aveva iniziato la sera prima, baciando Andrew, e quel giorno era riuscita nel suo intento, ne era valsa la pena. Finalmente, stava per verificare veramente se stesse seguendo la giusta pista o se si fosse trattato di uno sbaglio, inoltre, avrebbe anche scoperto se quello che stava facendo ad Andrew servisse veramente a qualcosa.

Erano davanti alla porta dell’appartamento di Jake.

Anche quella sera, sarebbe dovuta uscire con Andrew, ma non appena era arrivato nel suo appartamento, aveva ricevuto una chiamata da Jake, che gli aveva chiesto di andare a casa sua urgentemente. Andrew non era sembrato allarmato, ma Morgan poteva cogliere piccoli gesti che segnavano il suo nervosismo: si grattava le unghie, si passava freneticamente la mano fra i capelli, si mordeva le labbra, tutte cose che non faceva normalmente.

Inizialmente, Andrew aveva insistito per lasciarla a casa e ripassare più tardi, poteva immaginare il perché, probabilmente si trattava di una cosa da cacciatori, ma Morgan non aveva tempo da perdere, così aveva dovuto intervenire. Dopo, Andrew aveva accettato di portarla con sé e aveva guidato freneticamente per tutto il viaggio, fino a scendere rapidamente dall’auto e correre verso il palazzo di Jake.

Morgan scoprì presto di aver fatto bene ad insistere per quella sera: l’indirizzo datole da Logan ed Henry corrispondeva all’identità del cacciatore da loro segnalatole, ora mancava solo una piccola prova.

La porta era marrone scuro, con il numero sette in bianco a campeggiare su di essa, il pulsante per il campanello al fianco e all’angolo del muro una pianta. Alle loro spalle c’erano le scale, che portavano sia al piano di sotto che a quello di sopra, e a fianco le loro teste c’era una piccola finestra chiusa.

«Ci metto solo un secondo» disse, armeggiando con la tasca destra dei jeans, ma il suo tono rifletteva la preoccupazione interna. «Ecco qui.» Tirò fuori la mano ed espose alla luce bianca del pianerottolo un mazzo di chiavi.

«Hai le chiavi di casa di Jake?» chiese, sorpresa.

«Sì, nel caso succedesse qualcosa.»

«Che pensi sia successo?» Poteva davvero trattarsi di qualcosa di grave? Jake dal telefono era sembrato più frettoloso che altro.

«Adesso lo scopriremo.» E aprì la porta.

Morgan non poté comunque vedere molto dell’interno dell’appartamento, nonostante la sua eccellente vista al buio. All’interno, c’era un divano, un tavolino da caffè e vari giocattoli sparsi per terra. Le finestre erano chiuse con le tende tirate e nessuna fonte di luce illuminava la stanza. Dalla sua posizione, non poteva scorgere altro che una fetta di quello che doveva essere il salotto, sembrava che la casa fosse stata scelta di proposito.

«Chi c’è lì?» fece una vocina acuta e tremante.

Andrew si allarmò. «Ariel, sono io, sono Andrew.»

Fu allora che scorse il primo cenno di movimento. Una figurina uscì dal dietro del divano rivelandosi: era una bambina di sei o sette anni, dai lunghi capelli biondi che le avvolgevano le spalle come un mantello e gli occhi azzurri. Morgan non poté fare a meno di pensare che le ricordasse qualcuno.

«Ciao, Andy» disse.

«Ariel, dov’è tuo padre?» Andrew mosse qualche passo attraverso la soglia e sbirciò oltre le sue spalle.

Morgan non capì subito, se quella era la casa di Jake, di quale padre stavano parlando?

«Non c’è, è andato via. Lei chi è?» Spostò lo sguardo su Morgan, squadrandola dalla testa ai piedi, sbattendo i grandi occhi azzurri contornati da lunghe ciglia dorate.

«Jake ti ha lasciata qui da sola? È questo il problema?» Andrew si rilassò, ma poi sembrò ricordarsi che una bambina era stata lasciata da sola in una casa completamente al buio e si affrettò a chinarsi su Ariel, come a controllare che fosse tutta intera. «Dov’è andato?»

«Fuori per lavoro. Ha detto che torna presto. Lei chi è?» ripeté.

«Un’amica.»

Ora tutto era chiaro: Jake non aveva una sorella, ma una figlia. «Andrew, lascia perdere, non vedi che sta benissimo?»

Il ragazzo si calmò e Morgan aveva notato il cambiamento nel suo sguardo quando la bambina aveva nominato la parola “lavoro”.

«D’accordo, allora lo chiamo.»

«Perché siete qui?» chiese e a Morgan non sfuggì il modo in cui stringeva una mano dietro la schiena.

«Come sarebbe a dire? Siamo qui perché ce lo ha chiesto tuo padre.»

La bambina strinse le labbra. «Papà dice che non devo fare entrare gli sconosciuti.»

Mosse qualche passo all’indietro, tornando verso la porta. «Lei non è una sconosciuta, la conosco e anche tuo padre.»

Doveva agire in fretta. Non poteva permettersi che sospettassero qualcosa. «Ma lei non mi conosce, è questo che conta. Io sono Morgan.»

«D’accordo, puoi stare a casa con noi.» La bambina continuava a sembrare dubbiosa, ma doveva avere fiducia in Andrew.

Morgan esitò per un secondo. La bambina era solo una bambina, ma doveva piacerle tanto Andrew, visto che non aveva posto alcuna domanda sul perché fosse ancora fuori dalla soglia. Non le aveva direttamente detto di entrare, non era sicura che avrebbe funzionato lo stesso, non le era mai capitata una situazione del genere; in effetti, non le era mai capitato di dover avere a che fare con gli umani per così tanto tempo. Mosse un piede oltre la soglia e lo poggiò oltre di essa. Respirò. Era dentro.

«Bene, allora, andrò a fare questa telefonata.»  

«Che cosa hai dietro la schiena, Ariel?»

La bambina non aveva ancora tolto la mano da dietro la schiena e Morgan sapeva cosa aspettarsi, era solo stupita che ne avesse uno così presto. Non che fosse un’esperta nel campo, ovviamente.

La sua domanda catturò l’attenzione di Andrew, che si affretto ad afferrare la mano della bambina, proprio nel momento in cui lei stava alzando il braccio. «Lascia perdere, è solo un giocattolo.»

Morgan non fece in tempo a vedere l’oggetto per intero, che Andrew lo aveva già nascosto alla sua vista, ma non aveva bisogno di guardarlo per sapere cos’era. Un paletto.

Ariel fece qualche passo in avanti, camminò di fianco a Morgan e si sedette sul divano, di fronte alla tv. «Vuoi guardarla con me?» chiese.
Annuì e prese posto accanto a lei. «Dov’è tuo padre?»

«È fuori per lavoro.» Prese due telecomandi e accese la televisione, poi inizio a premere vari bottoncini nel telecomando grigio, finché non riuscì ad accendere il lettore DVD.

Morgan si guardò intorno. Il salotto e la cucina formavano un unico ambiento, mentre alle sue spalle c’era un piccolo corridoio che dava su tre porte. Andrew si era spostato in cucina e aveva il telefono all’orecchio, aspettando la risposta alla sua chiamata. Se era abbastanza veloce, poteva agire in fretta e senza farsi scoprire.

«Mi fai vedere dov’è il bagno?»

La bambina si alzò e prese la mano di Morgan, che sperò non risultasse troppo fredda al contatto con quella piccola, morbida e calda di Ariel.

Attraversarono il piccolo salotto e raggiunsero il corridoio. «Ecco qui» disse ed alzò il braccino libero per aprire la porta centrale. Quello che era il bagno era occupato quasi per intero dalla doccia e non c’erano nemmeno le tovaglie per asciugarsi.

«Grazie.»

«Torna presto, così guardiamo il film.» Accennò un sorriso e tornò indietro.

Morgan entrò nel bagno. Aveva bisogno di un piano e in fretta. Non era sicura di quanto tempo gli umani impiegassero in bagno, forse poteva usare la scusa di essersi aggiustata il trucco, nel caso si fosse trattenuta troppo, ma le bastavano davvero pochi minuti.

Lentamente, riaprì la porta, lasciandola socchiusa. Era riuscita a non produrre alcun rumore e, sbirciando dal corridoio, vide che Andrew stava parlando animatamente al cellulare e che Ariel si era seduta per terra e stava frugando in un cesto rosa. Le porte non erano visibili dal salotto, ma era comunque meglio non rischiare. Aprì la porta a metà circa ed uscì con un movimento silenzioso; restava solo di entrare nella camera giusta.

Le due porte erano una di fronte all’altra ed erano identiche, non c’era un singolo segno che facesse intuire chi fosse il proprietario. Allungò la mano, aprì la porta alla sua destra e la attraverso con la stessa rapidità con la quale era uscita dal bagno.

Anche se avrebbe attirato l’attenzione, non ebbe comunque bisogno di accendere la luce. La camera appariva di sfumature bluastre, pochi angoli risultavano neri, ai suoi occhi di vampira, il letto era un matrimoniale che non era stato ancora rifatto, i comodini sobri e privi di alcun gingillo, la giacca da uomo abbandonata ai piedi dell’armadio… Era stata fortunata.

Non aveva senso aspettare oltre.

La prima cosa che controllò fu il letto. Esaminò con la mano le lenzuola arricciate e il piumone arrotolato in fondo al materasso, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che le potesse essere utile per confermare la sua tesi, i suoi sospetti. Passò ai cuscini, facendo attenzione a lasciare ogni cosa esattamente come l’aveva trovata, vi passò le mani più e più volte, anche all’interno delle federe, senza trovare alcunché di utile. Si inginocchiò e dette un’occhiata sotto il letto, esaminando il pavimento polveroso centimetro per centimetro, cercando di non perdersi nulla. Si rialzò in fretta e passò a frugare nell’armadio, immergendo le braccia e toccando ogni singolo capo d’abbigliamento, rovesciando le tasche e poi rimettendole a posto con rapidi gesti delle dita. Si abbassò nuovamente e controllò il pavimento, dalla porta alla testiera del letto, dagli angoli agli spazi tra i mobili ed il muro. Mentre controllava la striscia di pavimento fra il comodino e il muro, spalancò la bocca. Non riusciva a credere di non averci pensato fin dall’inizio.

Si rialzò, pulendosi rapidamente i collant neri, ed aprì il cassetto del comodino. C’era una svariata quantità di oggetti là dentro: un paio di occhiali da sole, un mazzo di chiavi, il passaporto, tutte cose che chiunque non si sarebbe stupito di trovare in un cassetto; poi, c’erano anche gli oggetti non convenzionali, non erano nemmeno nascosti alla vista, chissà se Ariel avesse mai aperto quel cassetto… Ma era ovvio, era figlia di un cacciatore, dopo tutto, probabilmente fin da prima di camminare le avevano insegnato come tenere saldo il paletto che stringeva poco prima. L’interno del cassetto, infatti, era stipato di paletti, alcuni più grossi ed altri più sottili, c’era anche un crocifisso e una boccetta di quella che doveva essere dell’acqua benedetta.

Morgan ridacchiò. Questi cacciatori avevano decisamente visto troppe puntate di quella serie televisiva sul soprannaturale, quella con i due cacciatori di demoni e che rappresentava i vampiri come degli idioti. Come se fossero loro gli idioti.

Ma non era l’acqua ad aver attirato la sua attenzione. In fondo al cassetto, c’era un piccolo pezzo di carta, che avvolgeva qualcosa. Si sentiva quasi le mani tremare dall’emozione, di quant’era eccitata. Afferrò l’involucro e tolse rapidamente la carta, strappandola in alcuni punti, finché non rivelò l’oggetto che celava.

Non poteva credere che fosse lì. Erano anni che la conosceva, non si sarebbe mai separata dalla collana, non se la sarebbe mai tolta. Mai.

Strinse il ciondolo tra le dita, freddo come le sue mani. Era una pietra rotonda, non più grande di un paio di centimetri, con dei raggi che la circondavano, ampliandone la grandezza. Avrebbe potuto ricordare il disegno di un sole stilizzato, se non fosse stato per il fascino inquietante dato dalla pietra argentea e dai raggi neri che si irradiavano attorno ad essa.

Vi passò un polpastrello sopra, accarezzando la pietra sfaccettata ed i componenti lucenti, che sembravano brillare anche senza alcuna fonte di luce. Ricordava la prima volta che l’aveva vista e di come si era sentita inferiore a possedere solo un semplice medaglione; lo portava ancora, stava proprio sopra l’incavo dei seni, vicino ad un cuore che non batteva più da anni.

Se la infilò nella tasca della gonna. Fortunatamente era stata previdente ed aveva portato con sé qualche bottone, incerta su quanto la prova fosse stata grande, incerta anche se l’avesse trovata. Li prese tutti e li avvolse nella carta dove aveva trovato la collana, richiudendola nel modo più vicino possibile a come l’aveva trovata.

Si ricompose ed uscì.
***

Era tornato indietro di corsa.

Dopo essersi assicurato che Andrew sarebbe venuto a casa sua, era uscito di casa; avrebbe voluto aspettarlo, ma non ne aveva avuto il tempo.

Avrebbero potuto mandare direttamente Andrew, ma dicevano che non rispondeva al telefono, cosa strana, dato che a lui aveva risposto subito. Si era pentito del modo in cui aveva agito: avrebbe dovuto far andare lui e basta.

Aveva salito le scale dell’appartamento di Lexie il più in fretta possibile, era tardi, ma lei aveva insistito perché venisse comunque: non era mai stata un tipo a cui piaceva aspettare orari consoni, anche se si trattava di tarda notte.

Conosceva già casa sua, c’era stato varie volte, quando andava a prendere Ariel, e ricordava perfettamente ogni dettaglio, anche se lanciava occhiate casuali a punti imprecisi: si era guardato intorno talmente tante volte, che alla fine aveva memorizzato i particolari, anche se non era il primo dei suoi interessi.
In quella casa viveva, naturalmente, anche il marito di Lexie, Malcom, ma a Jake non dava fastidio che stessero insieme: la relazione con Lexie era stata una cosa adolescenziale, probabilmente a quel punto non sarebbero più stati nemmeno in contatto, se non avessero avuto una figlia, e Jake faceva il più possibile per starle vicino, perché, se da un lato di Lexie non gli importava nulla, temeva che un giorno Ariel non l’avrebbe più riconosciuto come padre, preferendo Malcom. Il solo pensarci lo preoccupava, non era qualcosa che sarebbe stato disposto ad accettare o a capire, in fondo, era per quel motivo che aveva lasciato la sua vecchia città, preferendo trasferirsi permanentemente a Portland.

Lo stava aspettando a braccia conserte. «Ti rendi conto di quanto tu sia stato irresponsabile?» esordì, non appena Jake mise piede in casa.

«Senti, non è stata qualcosa che ho deciso, ok? È capitato, non posso farci nulla.»

«È tua figlia, Jake! Ha sette anni! Non puoi lasciarla e andartene in giro di sera!» Avanzò verso di lui, le braccia ritte lungo i fianchi, i pugni chiusi e i capelli rossi legati in una coda alta e disordinata, indossava il pigiama ed era struccata, ma era comunque minacciosa.

«Lo so! Infatti, mi sono premurato di chiamare Andrew, perché stesse con lei, mentre tu non c’eri.» Era stanco, non aveva voglia di litigare.

«È rimasta da sola!»

«Per dieci minuti!»

«Non mi interessa se sono stati dieci minuti o dieci secondi, tu non puoi lasciare da sola una bambina ed andartene in giro, è un principio!»

«Lexie, non è più così piccola.»

«Lo è ancora, invece.» Si allontanò da lui e fece qualche passo per la stanza, massaggiandosi le tempie con le dita. «E se le fosse successo qualcosa? Che cosa avresti fatto?»

«Ma non è successo.»

«Sarebbe potuto succedere! Io non ho idea del fatto che tu abbia o meno nemici là fuori…»

«Nemici?» la interruppe bruscamente. «Intendi vampiri?»

«Quei mostri, Jake.» Si allontanò ancora di più da lui. «Quei mostri sono spaventosi e non voglio che capiti qualcosa mia figlia, non voglio che abbia nulla a che fare con questa storia.»

«E secondo te io lo voglio? Secondo te mi fa piacere sapere che mia figlia debba preoccuparsi di un potenziale vampiro, invece di giocare con le bambole e avere l’amica del cuore? Credi che mi piaccia che sia dentro tutto questo?»

«Tu ce l’hai messa!»

«Non sono stato io!» urlò. «Non è colpa mia, cazzo. Se avessi potuto scegliere, non mi sarei immischiato io in questa storia, non posso fare nulla per evitarlo.»

«Potevi evitarlo, invece. Potevi non dirle nulla e basta, potevi tenerti per te tutta questa storia.»

«Lexie, è una cosa che deve essere fatta.» Si strinse i capelli sulla nuca.

«Ma perché proprio mia figlia? Non stiamo nemmeno insieme!»

«Perché, oltre ad essere tua figlia, è mia figlia. Se non fosse lei, dovrebbe essere qualcun altro.»

Per un attimo non disse nulla, come se stesse riflettendo e poi parlò. «E perché non qualcun altro?»

Jake si tolse la mano dai capelli e la guardò arrabbiato. «E cosa dovrei fare? Andare fuori e scoparmi una tipa a caso, così da fare un bambino? Ma ti rendi conto di quello che dici?»

«Magari sarebbe la cosa migliore! Non voglio che mia figlia abbia a che fare con questo, non voglio che abbia a che fare con te.»

Questa volta, fu lui ad indietreggiare. «Non puoi impedirmi di vederla.»

«Certo che posso, se ritengo che tu non sia idoneo come genitore.»

«Ma che cazzo stai dicendo? Non puoi inventarti una legge dal nulla.»

«Forse non potrò fare questo, ma posso tenere chiusa la porta di casa e non farti entrare. Se provi ad avvicinarti ti denuncio per stalking.»

«Ma sei impazzita? Ti denuncio io per impedirmi di vedere mia figlia!» Quella situazione stava degenerando, non poteva credere alle parole di Lexie.

«Esci subito fuori di qui!» Tornò verso di lui e lo spinse fuori dalla porta.

«Sei una pazza, devi farti curare!»

«Stai alla larga da me.» Con un’ultima spinta, lo chiuse fuori.

Jake non poteva crederci. Si era comportata in modo inaccettabile, lui non aveva avuto scelta e adesso lo minacciava di denunciarlo e gli voleva impedire di vedere sua figlia.

Sentì la rabbia crescere dentro di lui, pensando a quello che gli aveva detto e percorse in fretta il breve spazio che lo separava dalla porta all’ascensore, premendo con colpi secchi i tasti, cercando di uscire fuori il più in fretta possibile.

Si infilò bruscamente le mani in tasca e percorse a grandi passi la distanza che lo separava dall’appartamento di Lexie alla sua auto.

Non avrebbe dovuto essere stupito da quello che era successo, se avesse pensato a mente lucida, forse avrebbe anche potuto valutare la possibilità che Lexie avesse ragione, ma lo era. Non poteva dirsi propriamente stupito, si sentiva più arrabbiato. Stringendo i denti spalancò la portiera della sua auto ed entrò in essa.

«Vaffanculo!» sbottò, colpendo con i palmi aperti il volante.

Era arrabbiato. Non era semplicemente arrabbiato con Lexie perché gli aveva detto che non voleva che vedesse più Ariel, era arrabbiato perché non aveva modo di controllare quella situazione, non aveva idea di quello che stesse succedendo e aveva così tanti pensieri che gli passavo per la testa, che credeva che quella potesse scoppiare da un momento all’altro.

Non era stata colpa sua se aveva dovuto lasciare Ariel da sola. Quello era il giorno che generalmente passava con sua figlia, non se ne sarebbe mai andato, ma l’avevano chiamato, dicendogli che non potevano sostituirlo, così aveva telefonato ad Andrew. Non poteva credere che l’avessero costretto a lasciare sua figlia, anche se era rimasta da sola per dieci minuti; in quel momento riusciva solo a pensare che fosse stato fatto di proposito: nessuno veniva mai chiamato all’ultimo momento, se aveva detto di aver un impegno importante; dovevano averlo fatto perché era andato via anni prima, non gli veniva in mente nessun altra spiegazione.

La cosa lo frustrava. Non era mai successa una cosa del genere, si trattava di sua figlia, non avrebbero dovuto chiedergli di lasciarla da sola. Non sarebbe dovuto andare. Doveva rimanere a casa e ignorare le loro insistenti chiamate, avrebbe dovuto spegnere il telefono e chiudere le tende alle finestre, nel caso fosse venuto in mente a qualcuno di andarlo a prendere fino a casa, dato che ricordava chiaramente che una volta era successo ad una delle ragazze. C’era questo codice tra i cacciatori. Una caccia è una caccia e nessuno può rifiutare di prendere parte ad una di esse. Chiaramente, c’erano delle volte in cui uno o più trasgrediva il regolamento, ma nessuno aveva insistito troppo. Quella volta, però, non volevano lasciarlo in pace, non aveva potuto fare altrimenti.

Anche Lexie si era arrabbiata molto, ovviamente. In fondo, lei aveva lasciato Ariel in custodia a Jake, sotto la sua responsabilità e lui l’aveva lasciata in casa da sola, seppur per breve tempo, così aveva dovuto disdire i suoi impegni e tornare a prenderla; forse non avrebbe dovuto chiamarla, ma Andrew non poteva rimanere tutta la sera a fargli da babysitter.

Lexie non poteva capire. Non aveva idea di cosa significasse essere un cacciatore e avere sulle spalle la responsabilità di proteggere la gente, senza nemmeno un “grazie” in cambio, dato che l’esistenza dei vampiri andava tenuta segreta.

Si era dovuto impegnare molto con Lexie. Non era sua moglie, quindi non aveva il permesso di raccontarle la verità sulla sua famiglia e la sua cerchia di amici, ma le regole non scritte dei cacciatori imponevano che ognuno di loro insegnasse a ogni figlio come cacciare, se poi non volevano, potevano scegliere di evitare, ma almeno uno della prole doveva raccogliere l’eredità. Jake era figlio unico, non aveva avuto possibilità di scelta.

Certe notti, ci pensava a fondo. Pensava a come fosse essere un cacciatore e alla sua vita lì a Portland. Era diverso dai primi mesi che aveva trascorso come cacciatore nella sua città natale: laggiù doveva fare quello che il suo gruppo gli diceva di fare, mentre lì cercava di evitare di immischiarsi nelle cacce il più possibile. Non lo aveva mai detto a nessuno, ma non aveva voluto avere contatti con la comunità di Portland. Diceva di essersi trasferito per sua figlia, ma dentro di sé sapeva che c’era qualcosa di più.

Stava guidando, quando qualcosa attirò la sua attenzione.

Una figura sul ciglio della strada, questa volta indossava un vestito nero con le maniche di pizzo, i capelli biondi che spiccavano nell’abito scuro. Era lei.
Era sempre strano, quando pensava a lei. Sentiva come se tutti i suoi pensieri svanissero all’istante, come se qualsiasi cosa dovesse fare non fosse più importante; tutto diventava insignificante, se paragonato a lei.

Accostò l’auto e scese, raggiungendola a grandi falcate. Era immobile e scrutava un punto impreciso davanti a sé, non dava segno di averlo visto passare con la macchina.

Quando arrivò accanto a lei, era incerto su cosa dire e lei non si era nemmeno girata per guardarlo. «Cosa stai facendo?»

Non si voltò. Continuava a guardare davanti a sé, lo sguardo assente.

«Cosa stai…?»

Allungò il braccio verso la sua spalla, mentre diceva quelle parole, ma non terminò la frase.

Lei alzò la mano così rapidamente che nemmeno se ne accorse, gli strinse il polso a mezz’aria, scattando verso di lui in pochi secondi.

Il suo viso non era più inespressivo, aveva stretto le labbra e contratto il viso. «Jake.» Lo lasciò andare.

Si massaggiò il polso, lo aveva stretto talmente forte che gli si era arrossato. Indietreggiò leggermente, non credeva che avrebbe potuto fargli male, sapeva che era forte, ma spesso era così preso da come appariva, che dimenticava chi fosse veramente.

«Che ci fai in mezzo alla strada?» chiese.

«Nulla che ti riguardi.» Non aveva usato un tono sprezzante, non lo faceva quasi mai.

E Jake non fece domande, non lo faceva mai.

Ci fu un secondo in cui si chiese perché fosse lì, era frustrato, ma non riusciva a capire il perché. Non aveva motivo di essere frustrato o arrabbiato, era con lei adesso. Era sicuro che c’entrasse sua figlia, ma ci avrebbe pensato dopo, non era più importante.

«Senti, mi è venuta in mente una cosa» disse, sfiorandogli la mascella.

«Cosa?»

«Ho lasciato una cosa da te, ricordi? Me la devi riportare.»

Jake la guardò confuso. «Ma avevi detto che dovevo tenerla.»

Poggiò la mano al lato del suo viso, stringendo la presa. «E, invece, ora ti dico che me la devi portare. Chiaro?»

«D’accordo, d’accordo.» Proprio non la capiva. Pochi giorni prima gli aveva detto di tenerla e ora gli diceva il contrario.

«Bene.»

Rimasero in silenzio per qualche secondo, Jake ad osservarla e lei con lo sguardo che andava oltre le sue spalle. Capitava che lei rimanesse semplicemente così, immobile a fissare il vuoto, Jake si era sempre chiesto il perché, ma osava chiedere e le poche volte che lo faceva, non riceveva risposta.

«Devo andare, adesso» disse, togliendo la mano dal suo viso.

«Dove?» Voleva toccarla, ma aveva la sensazione che non glielo avrebbe permesso. Non voleva che andasse via così presto.

«Devo andare a nutrirmi, lo sai» aveva abbandonato il tono apprensivo, ma pur sempre controllato, di poco prima e aveva ripreso il solito basso e calmo.
Strinse i denti. «Devi farlo per forza?»

«Jake, sai che ne ho bisogno per vivere.»

Succedeva sempre qualcosa quando parlavano di quell’argomento. Jake sentiva sempre un piccolo campanello d’allarme nella sua testa, qualcosa che gli diceva che era sbagliato, che doveva impedirlo, ma non poteva farlo, sapeva che quello era l’unico modo in cui lei sarebbe potuta sopravvivere, che quello era l’unico modo in cui avrebbe continuato a camminare su quella terra e a tornare da lui. Avvertiva anche, però, un moto di gelosia. Non potevano farlo sempre, ma desiderava così tanto essere l’unico per lei.

«Fallo a me, allora. Bevi il mio sangue.»

Lei lo guardò. I suoi occhi azzurri fissi su di lui, che scendevano lentamente dal suo viso fino al collo, come se fosse pronta ad agire. «Non posso, Jake, non sei forte abbastanza.»

«Non hai bisogno di loro, ti basto io.» E lo voleva, lo voleva davvero.

Gli accarezzò il viso, sorridendo, ma con espressione rassegnata. «Vorrei che fosse così, ma non è possibile.»

«Ma non ne hai bisogno! Non hai bisogno di uccidere nessuno!» Succedeva anche questo, Jake ricordava con prepotenza cosa lei faceva davvero, faceva una cosa contro cui lui lottava ogni singolo giorno. Quando la guardava, però, non riusciva a vedere l’assassina, vedeva solo una splendida donna, una donna che riusciva a fargli dimenticare ogni cosa con un solo sguardo; non ricordava nemmeno come fosse iniziato tutto, da dove fosse arrivato il sentimento.
«Ma io ne ho bisogno Jake, te l’ho detto un attimo fa!»

«Ci deve pur essere un altro modo.»

«Non c’è, Jake. È quello che devo fare e basta.»

«Ma ti piace, non è vero? Uccidere ti diverte.»

«E a te piace uccidere i vampiri, Jake?»

«Lo faccio per difendere le altre persone.» Si fermò un secondo, chiedendosi dove sarebbe arrivata quella conversazione. Non ne avevano mai parlato in modo così diretto.

«Noi facciamo quello che facciamo per vivere! Per sopravvivere. Lo capisci?» Strinse i pugni, la sua espressione sempre così controllata aveva assunto un cipiglio arrabbiato.

«Non posso capirti, non ci riesco. È sbagliato.» Ed era la prima volta che lo diceva, la prima in cui non chiudeva gli occhi e faceva finta che non esistesse nulla.

«Jake, io vado a caccia in altri posti per te, perché so che qui vive gente che tu conosci, ma tu non batti ciglio, quando si tratta di uccidere un vampiro, perché io devo sentirmi in colpa e tu no? Perché quello che faccio io è sbagliato e quello che fai tu no? Perché io sono la cattiva e tu l’eroe? Non basta quello che faccio? Sei un ingrato!»

Non sapeva cosa rispondere. I motivi li aveva: doveva proteggere le altre persone, ma anche lei doveva proteggere se stessa. Non avevano mai litigato, lei non si era mai scomposta in quel modo, quella sera, stava guardando una persona diversa.

«Stammi lontano, allora, visto che non hai bisogno di me.»

Non aveva mai detto di non aver bisogno di lei. Che cosa sarebbe successo a quel punto? Sarebbe andata via? Jake sapeva che non era questo che voleva, non aveva mai voluto vederla andare via. Non gli importava nulla se uccideva, non gli importava se quella relazione malsana andava contro i suoi principi. Non poteva perderla, non poteva permettere che andasse via.

«Non è vero, ho bisogno di te.»

Non era la prima volta che la vedeva mutare completamente espressione, da un secondo all’altro. Un attimo prima era arrabbiato, quello dopo aveva rilassato la fronte, sollevato gli angoli delle labbra e il suo sguardo esprimeva soddisfazione. «Dillo di nuovo.»

Anche il suo tono era tornato quello di sempre. «Ho bisogno di te.»

Continuò a sorridere. «Buona notte, Jake.»

«Io…»

E ancora una volta, era sparita prima che potesse dire qualsiasi cosa.
***

Alla fine erano riusciti a combinare qualcosa, quella sera.

L’aveva portata a vedere un film al cinema. Si vedeva che quell’uomo non aveva la minima fantasia in fatto di appuntamenti, ma non si era lamentata: in fondo, era stata una serata molto produttiva. Presa com’era dal pensiero di ciò che conservava nella sua tasca, non aveva fatto il minimo caso al brutto film di cui nemmeno ricordava il titolo o al modo in cui Andrew continuava a fissarla e a far scendere la mano dalle sue spalle pericolosamente più giù. Se si concentrava abbastanza, riusciva a far finta che non stesse succedendo nulla di troppo fastidioso. Ma ne era valsa la pena. Ormai mancava così poco che riusciva già a figurarsi mentre… Sorrise. Era stata così presa dall’eccitazione dell’idea, che non aveva ancora deciso cosa fare.

Non aveva più importanza cosa voleva combinare l’umano con lei, a quel punto dovevano solo vedersi poche altre volte.

Entrò nella sua casa. All’ingresso, sentì qualcosa sfiorarle la gamba e, abbassando lo sguardo, notò che era un gatto nero piuttosto grande, ma che continuava a muoversi agilmente, diverso da quei gatti grassi e pigri che ormai popolavano le case delle ragazzine disperate.

Si abbassò e lo accarezzò sulla schiena. «Ci siamo quasi, sai? Presto verrà il momento.»

Era affezionata a quel gatto. Lo aveva preso quando erano arrivati a Portland, colpita dal suo fitto pelo nero. Non riusciva a capire come potessero esistere esseri umani che disprezzassero certe creature solo per il colore del pelo.

«Il nostro tempo sta per scadere, temo. Magari ti porto con me.» Si chiese se fosse fattibile. I vampiri non tenevano animali domestici, non era nella loro natura affezionarsi a qualcosa che avesse vita così breve come un gatto o un cane, ma quella volta era diverso. Nonostante non avrebbe mai potuto prendere il posto di un vero Compagno, quel gatto le aveva fatto compagnia senza chiedere nulla in cambio, a parte cibo e carezze. Era anche stato il primo animale che non avesse intimidito, quindi, anche se un vampiro avesse voluto un animaletto, non avrebbe potuto comunque tenerlo, visto che la maggior parte si allontanava per istinto. Quel gatto, però, non l’aveva mai allontanata, né graffiata. Forse si capivano a vicenda. Una volta, si era scioccamente chiesta se anche lui fosse mai stato tradito da qualcuno.

Non si alzò. Si limitò a prendere il suo telefono e a comporre il numero, mentre continuava ad accarezzare il suo gatto. «Non vedo l’ora, non puoi capire quanto ho aspettato per questo momento.» Roteò gli occhi. Doveva smettere di parlare al gatto come se fosse una persona.

Finalmente risposero al telefono. «Pronto? Volevo dirti che l’ho trovata.» Si alzò e camminò avanti e indietro per il piccolo salotto, tormentandosi le labbra dall’emozione e stringendosi una ciocca di capelli tra le dita. «Sì, ormai ci siamo. Manca davvero poco.» Sorrise. «Presto tornerò a casa.»

 
 
 
 
 






Note:
Allora.
Sono passati mesi dall’ultima volta che ho pubblicato, non so se c’è qualcuno là fuori a cui ancora interessa questa mia cosina, mi auguro di sì.
Il fatto è che in questi mesi sono cambiate così tante cose nella mia vita, mi sembra passato un secolo. Fortunatamente, ora posso ricominciare a scrivere regolarmente, perché la mia storia è sempre rimasta la stessa.
Posso capire che alcune cose possano sembrare confuse per ora, ma assicuro che tutto verrà spiegato. La canzone è Demons degli Imagine Dragons.
A presto, spero.
  
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