EPILOGO.
KAROSHI 1
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Quando sentì il collo di Nao spezzarsi, Daisuke salì sulla sedia. Si
era tolto le scarpe solo perché l’idea di sporcare il cuscino non gli piaceva.
La casa dei Fuyutsuki era pervasa da un silenzio quasi irreale,
tanto profondo e cavo da sapere di ovatta. Era pesante e concreto come
materiale da imballaggio. Si era ormai alla fine di marzo, ma nell’aria c’era
l’umidità di ottobre. La settimana successiva sarebbe cominciato il nuovo anno
scolastico. Alcuni, i più impazienti, avevano sicuramente già cominciato a far
prendere aria alle uniformi. Era un conforto sapere che i giovani sarebbero
tornati a studiare e gli adulti a lavorare. Tutto al proprio posto.
Non che Daisuke ci pensasse. Non frequentava l’università e
l’arrivo di aprile non significava per lui un nuovo inizio. Significativo era
il fatto che Matsumoto-san gli aveva proposto un contratto, con il problema che
gli orari e i doveri avevano ben presto cominciato a pesare. Si trattava di
vivere in ufficio per la gran parte del giorno, di rientrare la sera con la
mente colma di informazioni, dolorante come un livido maturo, tanto che la
sera, una volta a cena o a letto, non riusciva a pensare a nient’altro. Aveva
creduto, almeno per i primi giorni, che ci si sarebbe abituato, che si trattava
soltanto di adeguarsi al ritmo. Licenziarsi non esisteva; quella routine aveva
il fascino negativo delle cose irrinunciabili. Vi si sentiva ancorato come la
vita alla morte. Per questo, proprio per quest’errore di calcolo, non aveva
potuto immaginare che si sarebbe trovato con Nao a decidere per una soluzione
un po’ più drastica.
Lei ci pensava da qualche giorno in più. Gli aveva confidato di
avvertire l’irresistibile desiderio di ritrattare. “Mi ha detto che non tutti
reggono al cambiamento”, gli aveva detto una mattina. “Mi chiedo se non sia il
mio caso”. Diceva che lavorare così tanto, così all’improvviso, così completamente, bastava a prosciugarla.
Eppure quel posto le piaceva, ma le piaceva un po’ come piacciono le cose belle
fuori e marce dentro. Un po’ a metà. Alla fine, verso gli ultimi del mese,
aveva detto a Daisuke che camera sua aveva un soffitto a travi scoperte. Da
bambina, gli disse, le piaceva appenderci farfalle di carta tagliando qualche
striscia di spago.
Avevano trovato la scala di ferro nel seminterrato, assieme alle
funi. Erano robuste, decisamente di bell’aspetto. Una sera, quando sua madre
uscì – oh, si vedeva già con un altro uomo. Era veloce -, Nao chiamò il collega
e lo invitò. Trascorsero la serata a legare le corde e i cappi, chiacchierando di
quanto apprezzassero che sulle scrivanie dell’ufficio non ci fosse un solo
granello di polvere. Si chiesero se l’attività di Matsumoto sarebbe durata a
lungo. Lo sperarono. Soprattutto, si trovarono d’accordo sull’idea di aver
perso qualcosa, o qualcuno. Era come se da qualche parte, sospeso in una
frazione di tempo passata, fosse rimasto un nome amico. Non se lo ricordavano.
Nao aveva preteso di impiccarsi per prima perché desiderava che
l’altro le sistemasse i capelli dopo che fosse scesa dalla sedia. Temeva che,
se l’osso non si fosse rotto subito e lei si fosse dimenata, si sarebbero
spettinati. Lo convinse dicendogli che voleva essere trovata a posto, come una
rispettabile donna d’affari. Per l’occasione aveva indossato una bella gonna
nera e una giacca elegante. Per una qualche ragione entrambi sapevano con
assoluta certezza che l’unico modo per liberarsi da quello stress, da quel
lavoro, dalla firma che avevano posto, da tutto quanto, era penzolare a qualche
centimetro dal pavimento.
Daisuke, che era salito sulla sedia accanto alla sua, aveva già
cominciato a pettinale i lunghi capelli neri quando si fece quasi convincere
dal pensiero di rinunciare. Osservò il collo orrendamente piegato della
ragazza, la pelle tirata sulla sua gola e i suoi occhi immobili e scuri,
tuffati nel vuoto della libertà, e credette di poter cambiare idea. Nao era
sempre stata bella, anche se non in maniera sbalorditiva; era strano che non
avesse mai frequentato qualcuno.
«Però, davvero, c’è sempre troppo da fare. Sento di aver perso
qualcosa per strada», dichiarò, parlando nel semibuio. L’idea di abbassare le
persiane era stata sua. In qualche luogo e in qualche modo, era stato qualcun
altro. Quel mancato ricordo lo distruggeva. Gli sembrava di lavorare e di
muoversi e di rotolare e di cadere da sempre. Giù dal pendio, di corsa. «Vivere
per l’oggi e dipendere dal futuro. Siamo tutti uomini a ventiquattrore;
funzioniamo così, giriamo ovunque con la nostra valigia. Siamo saliti su una
giostra e la giostra gira e basta. Vorrei tanto scendere.»
Scese dalla sedia solo dopo essersi passato il cappio attorno al
collo.
* * *
Due settimane più tardi
Forse non sarebbe mai diventato direttore, ma Senza Esperienza
sapeva il fatto suo.
Senza Esperienza aveva anche un nome e un cognome, che la regia si
premunì di infilare in un angolo quando gli passarono la linea. Il suo grande
sogno era girare per il mondo come giornalista, ma, per come stavano le cose, Kitamura
Satoshi, o Sato per i confidenti più stretti, si doveva al momento accontentare
di girare qualche servizio di fortuna sul Ventidue. Non era comunque male per
uno a cui il padre aveva a malapena concesso la speranza di finire gli studi.
Quando il cameraman improvvisò un conto alla rovescia con le dita,
si schiarì la voce e drizzò le spalle sotto la giacca grigia, rinnovando la
presa al microfono. Si inchiodò in volto l’espressione più formale che avesse
nel repertorio e si preparò al leggero e abbozzato sorriso di convenienza con
cui avrebbe salutato i telespettatori.
Giù il medio, l’indice, il pollice. In onda.
«Sì, buongiorno a voi», cominciò, una mano salita a premere
l’auricolare da cui aveva ascoltato le direttive dello studio. Era un gesto
deliziosamente professionale, un po’ come quello, inutile ma di notevole
impatto, con cui i tennisti pizzicano le racchette passeggiando a bordo campo
come star di Hollywood. Mi stanno
guardando e per questo agisco come loro si aspettano che io agisca, era il
senso. «Come da voi anticipato, mi trovo a Koriyama, in uno degli uffici
dell’azienda. Qui con me c’è Matsumoto-sama, dirigente della società.»
Qualcosa, forse un piccolo sorriso di partecipazione, si disegnò
sulle labbra dell’interpellato. Se ne stava in piedi accanto a Kitamura, le
mani giunte in grembo e il completo nero tirato a lucido. Il cameraman aveva
scelto bene l’angolazione delle riprese; dietro a Matsumoto e al giornalista
c’era una bella parete colma di libri, più un assaggio, in basso a destra,
della scrivania. La luce era stata studiata in modo che tutto apparisse chiaro,
spolverato, nitido come le notizie che volevano vendere alla gente.
«L’atmosfera è di silenzioso rispetto», riprese Kitamura, le labbra
ora serrate in un gesto di severa comprensione e gli occhi impeccabilmente
fissi in camera. «In questi giorni si è spesso parlato delle tristi vicende che
hanno interessato questa società. Tirando le somme, i numeri ci dicono che, in
un solo mese, ben cinque persone si sono tolte la vita. Persone che lavoravano
per quest’azienda, persone anche giovani – ricordiamo a questo proposito il
caso della famiglia Fuyutsuki - che si sono uccise senza un motivo apparente.
Alcuni parlano di suicidio per lavoro, un’espressione forte ma adatta, secondo
gli inquirenti, a descrivere questa catena di eventi. Pochi... Sì, giusto pochi
minuti fa abbiamo saputo che i medici legali hanno saputo dare un nome all’uomo
ritrovato privo di vita nel lago Inawashiro2.» Una rapida occhiata al
foglio nell’altra mano. «Si tratta di Okawa Kazuo, quarantasette anni, dipendente
di questa società. Stando ai dettagli del ritrovamento, avvenuto qualche giorno
fa, non sembrano sussistere dubbi sul fatto che si sia trattato anche in questo
caso di morte volontaria. L’uomo si è legato un peso di piombo al piede destro
e si è calato in acqua, come fanno sapere i colleghi che lavorano a contatto
con le forze dell’ordine. Ancora nessuna notizia del giovane Ikeshima, di cui
si sono perse le tracce da settimane. La speranza è ovviamente di trovarlo in
vita.» Quando tornò ad osservare la telecamera, abbassò gli appunti e si voltò
appena verso l’ospite d’onore. «Matsumoto-sama, conosceva il signor Okawa?»
«Lo conoscevo», cominciò l’altro, annuendo mestamente. «Ha lavorato
per me per anni. La mia è una società giovane e oserei dire che lui l’ha
praticamente vista nascere. La sua perdita è sicuramente un brutto colpo da
accusare.»
«È d’accordo sul parere di quei giornalisti che vedono in queste
morti il riflesso di un malessere lavorativo?»
«Personalmente mi sento molto... indesiderato. È una situazione che
reca un certo imbarazzo a me e a chi lavora per l’azienda. Non trovo che sia
corretto scagliarsi così gratuitamente contro la mia attività, soprattutto
quando a perdere la vita sono stati lavoratori seri ed onesti come tutti. Sono
amareggiato dal comportamento di molte emittenti televisive ed editori.»
«Giustificabile», riconobbe Kitamura, riportando il microfono a sé.
«Come si sta vivendo la situazione? I dipendenti come hanno reagito?»
«Sono motivati. L’atmosfera è tesa, ma vivibile. I dipendenti
lavorano oggi come ieri con risoluta positività.»
«Vuole... rilasciare qualche commento sul caso Fuyutsuki?»
Del “caso Fuyutsuki” si erano già cibate le più importanti testate
giornalistiche del Paese. La notizia di quei due ragazzi ritrovati impiccati
nella stanza di lei aveva fatto il giro delle televisioni fin oltre Koriyama,
ed era approdata, non senza risultati, persino a Fukushima. La gente ha
l’insensibile talento di eccitarsi di fronte alle disgrazie. Quel duplice
suicidio lo aveva definitivamente approvato.
Matsumoto si mosse appena, un lieve indizio di sgomento. La
telecamera non riuscì a registrare l’attento studio che si celava dietro il
gesto con cui l’uomo aggrottò le sopracciglia. Era una messinscena, ma non se
ne accorse nemmeno Kitamura. Se Masa aveva pensato a lui come ad un Senza
Esperienza quando l’aveva visto per la prima volta, un motivo doveva pur
esserci.
«Erano bravi ragazzi, conoscevo entrambi. Avevano appena deciso di
rinnovare il contratto», fu la lenta, amara risposta. «Ho già portato le mie
condoglianze alle rispettive famiglie. Non intendo rilasciare nient’altro.»
«Continuerà a credere nel suo lavoro?»
«Gli uomini credono sempre nel lavoro. Ci credono e lo cercano,
perché sanno che lavorando si distinguono dagli animali. E io sì, voglio
distinguermi, e continuare a fare ciò che amo. Lo scalpore suscitato da questi
eventi così drammatici sta dimostrando l’unione dell’azienda e la devozione per
il fine comune», soggiunse dopo un attimo. Qualcosa, forse un sorriso, gli
aveva curvato un poco gli angoli delle labbra. La tipica espressione da capo
risoluto, instancabile, presente, fiducioso oltre i limiti. «Pensare è il
lavoro più pesante che ci sia, dicono3. Quindi noi lavoriamo e
basta, senza preoccupazioni, senza fermarci alle accuse o ai giudizi, e ci
muoviamo per il bene di questa città e di quelle che verranno.»
Il giornalista rispose di riflesso con un sorrisino di concreta ammirazione.
«È piacevole trovarla così motivato in questa burrasca di eventi,
Matsumoto-sama. La ringrazio per aver accettato di intervenire.» Si rivolse
nuovamente alla telecamera, l’espressione ora tornata grave e pratica. «Questo
è tutto quello che possiamo dirvi al momento. Vi richiederemo la linea nel caso
in cui riceveremo notizie sul ragazzo scomparso. Per il momento è tutto, a voi
in studio.»
Un ultimo sorriso di partecipazione. Un momento di immobilità
professionale. Un altro paio di secondi, il tempo di interrompere la messa in
onda, il tempo per Matsumoto di sorridere di punto in bianco, di sollevare le
sopracciglia in quel suo silenzioso “Ehi,
credetemi, il meglio deve ancora arrivare!”, e poi un netto taglio sul
nero.
Dove tutto è vago e indistinto.
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1 Letteralmente,
“morte per troppo lavoro”, ovvero “morte per sfinimento”. Si tratta più
che altro di cause fisiche, come attacchi di cuore. Questo termine viene però
utilizzato anche, a seconda delle circostanze, per indicare le morti volontarie
a causa dello stress lavorativo.
2 Si
trova a Est di Koriyama. È il quarto per estensione del Paese.
3 O meglio, disse. La frase è infatti attribuita a Henry Ford.
In un angolino...
Questo è stato un racconto molto, molto impegnativo. Sono davvero felice che il mio impegno sia stato ricompensato. La cosa davvero divertente, ammesso che ci sia qualcosa di divertente in questa storia (?), è che quando ho messo l'ultimo punto il mio primo pensiero è stato: "Okay, tutto questo è colpa del liceo". Perché molti degli argomenti che ho toccato, prima fra tutti l'alienazione causata dal lavoro di cui parla Marx, è farina degli studi. Non so se i miei prof mi bacerebbero sulle guance se scoprissero che ho usato l'eredità scolastica per scrivere un racconto così psicologicamente crudo, ma pazienza, è un modo come un altro di coinvolgere gli altri nelle stesse riflessioni... credo (?) Io ho la fortuna di lavorare occasionalmente in un ristorante, dove il mestiere non è mai monotono; a salvarmi dalla monotonia ci sono i clienti, sempre diversi, sempre pronti a scassarti con, cioè, a sottolineare i loro bisogni interculturali. Una salvezza, penso, perché sono quasi certa che morirei in un ambiente sempre uguale. Come gli uffici. Ah, si capiscono molte cose, da qui (?)
Ringrazio enormemente chi è arrivato sino alla fine, soprattutto per la lunghezza dei capitoli <3 Al momento sono presa con un progetto mio e con una ff, ma prima o poi tornerò fra le originali, dove mi sento a casa.
Dew_