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Autore: Dew_Drop    26/06/2015    1 recensioni
Giappone, 2015.
Koriyama è una fiorente città della prefettura di Fukushima. "Una capitale finanziaria", la definiscono, un caleidoscopio di uffici, società, giovani e entusiaste aziende. Un baule colmo di affari d'oro. È qui che approdano e vengono seminate le promesse degli uomini migliori, quelli che vogliono crescere, quelli che desiderano il successo. È qui, in breve, che pianta la sua bandiera un uomo sbucato dal nulla. Cos'ha con sé oltre alla sua idea di rivoluzione del mondo del lavoro? Un po' di valigie, di quelle nere, professionali. Ventiquattrore, esatto. Ammesso e non concesso che lui sia un uomo e che quelle siano ventiquattrore come tante altre. Dettagli.
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«Sono sincero. Sono molto distratto, lo sai. Lo sono sempre stato, eppure ho dato il meglio di me sin dal primo giorno di lavoro. E adesso so perché; perché là divento un ingranaggio incapace di pensare. Lo siamo tutti. Incastrati e costretti a girare in eterno.»
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[ I classificata in parimerito per il Contest "The Melancholy Spirit", indetto da Yuko Chan ]
Genere: Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Epilogo. Karoshi


 

EPILOGO.

KAROSHI 1

__________

 

Quando sentì il collo di Nao spezzarsi, Daisuke salì sulla sedia. Si era tolto le scarpe solo perché l’idea di sporcare il cuscino non gli piaceva.

La casa dei Fuyutsuki era pervasa da un silenzio quasi irreale, tanto profondo e cavo da sapere di ovatta. Era pesante e concreto come materiale da imballaggio. Si era ormai alla fine di marzo, ma nell’aria c’era l’umidità di ottobre. La settimana successiva sarebbe cominciato il nuovo anno scolastico. Alcuni, i più impazienti, avevano sicuramente già cominciato a far prendere aria alle uniformi. Era un conforto sapere che i giovani sarebbero tornati a studiare e gli adulti a lavorare. Tutto al proprio posto.

Non che Daisuke ci pensasse. Non frequentava l’università e l’arrivo di aprile non significava per lui un nuovo inizio. Significativo era il fatto che Matsumoto-san gli aveva proposto un contratto, con il problema che gli orari e i doveri avevano ben presto cominciato a pesare. Si trattava di vivere in ufficio per la gran parte del giorno, di rientrare la sera con la mente colma di informazioni, dolorante come un livido maturo, tanto che la sera, una volta a cena o a letto, non riusciva a pensare a nient’altro. Aveva creduto, almeno per i primi giorni, che ci si sarebbe abituato, che si trattava soltanto di adeguarsi al ritmo. Licenziarsi non esisteva; quella routine aveva il fascino negativo delle cose irrinunciabili. Vi si sentiva ancorato come la vita alla morte. Per questo, proprio per quest’errore di calcolo, non aveva potuto immaginare che si sarebbe trovato con Nao a decidere per una soluzione un po’ più drastica.

Lei ci pensava da qualche giorno in più. Gli aveva confidato di avvertire l’irresistibile desiderio di ritrattare. “Mi ha detto che non tutti reggono al cambiamento”, gli aveva detto una mattina. “Mi chiedo se non sia il mio caso”. Diceva che lavorare così tanto, così all’improvviso, così completamente, bastava a prosciugarla. Eppure quel posto le piaceva, ma le piaceva un po’ come piacciono le cose belle fuori e marce dentro. Un po’ a metà. Alla fine, verso gli ultimi del mese, aveva detto a Daisuke che camera sua aveva un soffitto a travi scoperte. Da bambina, gli disse, le piaceva appenderci farfalle di carta tagliando qualche striscia di spago.

Avevano trovato la scala di ferro nel seminterrato, assieme alle funi. Erano robuste, decisamente di bell’aspetto. Una sera, quando sua madre uscì – oh, si vedeva già con un altro uomo. Era veloce -, Nao chiamò il collega e lo invitò. Trascorsero la serata a legare le corde e i cappi, chiacchierando di quanto apprezzassero che sulle scrivanie dell’ufficio non ci fosse un solo granello di polvere. Si chiesero se l’attività di Matsumoto sarebbe durata a lungo. Lo sperarono. Soprattutto, si trovarono d’accordo sull’idea di aver perso qualcosa, o qualcuno. Era come se da qualche parte, sospeso in una frazione di tempo passata, fosse rimasto un nome amico. Non se lo ricordavano.

Nao aveva preteso di impiccarsi per prima perché desiderava che l’altro le sistemasse i capelli dopo che fosse scesa dalla sedia. Temeva che, se l’osso non si fosse rotto subito e lei si fosse dimenata, si sarebbero spettinati. Lo convinse dicendogli che voleva essere trovata a posto, come una rispettabile donna d’affari. Per l’occasione aveva indossato una bella gonna nera e una giacca elegante. Per una qualche ragione entrambi sapevano con assoluta certezza che l’unico modo per liberarsi da quello stress, da quel lavoro, dalla firma che avevano posto, da tutto quanto, era penzolare a qualche centimetro dal pavimento.

Daisuke, che era salito sulla sedia accanto alla sua, aveva già cominciato a pettinale i lunghi capelli neri quando si fece quasi convincere dal pensiero di rinunciare. Osservò il collo orrendamente piegato della ragazza, la pelle tirata sulla sua gola e i suoi occhi immobili e scuri, tuffati nel vuoto della libertà, e credette di poter cambiare idea. Nao era sempre stata bella, anche se non in maniera sbalorditiva; era strano che non avesse mai frequentato qualcuno.

«Però, davvero, c’è sempre troppo da fare. Sento di aver perso qualcosa per strada», dichiarò, parlando nel semibuio. L’idea di abbassare le persiane era stata sua. In qualche luogo e in qualche modo, era stato qualcun altro. Quel mancato ricordo lo distruggeva. Gli sembrava di lavorare e di muoversi e di rotolare e di cadere da sempre. Giù dal pendio, di corsa. «Vivere per l’oggi e dipendere dal futuro. Siamo tutti uomini a ventiquattrore; funzioniamo così, giriamo ovunque con la nostra valigia. Siamo saliti su una giostra e la giostra gira e basta. Vorrei tanto scendere.»

Scese dalla sedia solo dopo essersi passato il cappio attorno al collo.

 

* * *

 

Due settimane più tardi

 

Forse non sarebbe mai diventato direttore, ma Senza Esperienza sapeva il fatto suo.

Senza Esperienza aveva anche un nome e un cognome, che la regia si premunì di infilare in un angolo quando gli passarono la linea. Il suo grande sogno era girare per il mondo come giornalista, ma, per come stavano le cose, Kitamura Satoshi, o Sato per i confidenti più stretti, si doveva al momento accontentare di girare qualche servizio di fortuna sul Ventidue. Non era comunque male per uno a cui il padre aveva a malapena concesso la speranza di finire gli studi.

Quando il cameraman improvvisò un conto alla rovescia con le dita, si schiarì la voce e drizzò le spalle sotto la giacca grigia, rinnovando la presa al microfono. Si inchiodò in volto l’espressione più formale che avesse nel repertorio e si preparò al leggero e abbozzato sorriso di convenienza con cui avrebbe salutato i telespettatori.

Giù il medio, l’indice, il pollice. In onda.

«Sì, buongiorno a voi», cominciò, una mano salita a premere l’auricolare da cui aveva ascoltato le direttive dello studio. Era un gesto deliziosamente professionale, un po’ come quello, inutile ma di notevole impatto, con cui i tennisti pizzicano le racchette passeggiando a bordo campo come star di Hollywood. Mi stanno guardando e per questo agisco come loro si aspettano che io agisca, era il senso. «Come da voi anticipato, mi trovo a Koriyama, in uno degli uffici dell’azienda. Qui con me c’è Matsumoto-sama, dirigente della società.»

Qualcosa, forse un piccolo sorriso di partecipazione, si disegnò sulle labbra dell’interpellato. Se ne stava in piedi accanto a Kitamura, le mani giunte in grembo e il completo nero tirato a lucido. Il cameraman aveva scelto bene l’angolazione delle riprese; dietro a Matsumoto e al giornalista c’era una bella parete colma di libri, più un assaggio, in basso a destra, della scrivania. La luce era stata studiata in modo che tutto apparisse chiaro, spolverato, nitido come le notizie che volevano vendere alla gente.    

«L’atmosfera è di silenzioso rispetto», riprese Kitamura, le labbra ora serrate in un gesto di severa comprensione e gli occhi impeccabilmente fissi in camera. «In questi giorni si è spesso parlato delle tristi vicende che hanno interessato questa società. Tirando le somme, i numeri ci dicono che, in un solo mese, ben cinque persone si sono tolte la vita. Persone che lavoravano per quest’azienda, persone anche giovani – ricordiamo a questo proposito il caso della famiglia Fuyutsuki - che si sono uccise senza un motivo apparente. Alcuni parlano di suicidio per lavoro, un’espressione forte ma adatta, secondo gli inquirenti, a descrivere questa catena di eventi. Pochi... Sì, giusto pochi minuti fa abbiamo saputo che i medici legali hanno saputo dare un nome all’uomo ritrovato privo di vita nel lago Inawashiro2.» Una rapida occhiata al foglio nell’altra mano. «Si tratta di Okawa Kazuo, quarantasette anni, dipendente di questa società. Stando ai dettagli del ritrovamento, avvenuto qualche giorno fa, non sembrano sussistere dubbi sul fatto che si sia trattato anche in questo caso di morte volontaria. L’uomo si è legato un peso di piombo al piede destro e si è calato in acqua, come fanno sapere i colleghi che lavorano a contatto con le forze dell’ordine. Ancora nessuna notizia del giovane Ikeshima, di cui si sono perse le tracce da settimane. La speranza è ovviamente di trovarlo in vita.» Quando tornò ad osservare la telecamera, abbassò gli appunti e si voltò appena verso l’ospite d’onore. «Matsumoto-sama, conosceva il signor Okawa?»

«Lo conoscevo», cominciò l’altro, annuendo mestamente. «Ha lavorato per me per anni. La mia è una società giovane e oserei dire che lui l’ha praticamente vista nascere. La sua perdita è sicuramente un brutto colpo da accusare.»

«È d’accordo sul parere di quei giornalisti che vedono in queste morti il riflesso di un malessere lavorativo?»

«Personalmente mi sento molto... indesiderato. È una situazione che reca un certo imbarazzo a me e a chi lavora per l’azienda. Non trovo che sia corretto scagliarsi così gratuitamente contro la mia attività, soprattutto quando a perdere la vita sono stati lavoratori seri ed onesti come tutti. Sono amareggiato dal comportamento di molte emittenti televisive ed editori.»

«Giustificabile», riconobbe Kitamura, riportando il microfono a sé. «Come si sta vivendo la situazione? I dipendenti come hanno reagito?»

«Sono motivati. L’atmosfera è tesa, ma vivibile. I dipendenti lavorano oggi come ieri con risoluta positività.»

«Vuole... rilasciare qualche commento sul caso Fuyutsuki?»

Del “caso Fuyutsuki” si erano già cibate le più importanti testate giornalistiche del Paese. La notizia di quei due ragazzi ritrovati impiccati nella stanza di lei aveva fatto il giro delle televisioni fin oltre Koriyama, ed era approdata, non senza risultati, persino a Fukushima. La gente ha l’insensibile talento di eccitarsi di fronte alle disgrazie. Quel duplice suicidio lo aveva definitivamente approvato.

Matsumoto si mosse appena, un lieve indizio di sgomento. La telecamera non riuscì a registrare l’attento studio che si celava dietro il gesto con cui l’uomo aggrottò le sopracciglia. Era una messinscena, ma non se ne accorse nemmeno Kitamura. Se Masa aveva pensato a lui come ad un Senza Esperienza quando l’aveva visto per la prima volta, un motivo doveva pur esserci.

«Erano bravi ragazzi, conoscevo entrambi. Avevano appena deciso di rinnovare il contratto», fu la lenta, amara risposta. «Ho già portato le mie condoglianze alle rispettive famiglie. Non intendo rilasciare nient’altro.»

«Continuerà a credere nel suo lavoro?»

«Gli uomini credono sempre nel lavoro. Ci credono e lo cercano, perché sanno che lavorando si distinguono dagli animali. E io sì, voglio distinguermi, e continuare a fare ciò che amo. Lo scalpore suscitato da questi eventi così drammatici sta dimostrando l’unione dell’azienda e la devozione per il fine comune», soggiunse dopo un attimo. Qualcosa, forse un sorriso, gli aveva curvato un poco gli angoli delle labbra. La tipica espressione da capo risoluto, instancabile, presente, fiducioso oltre i limiti. «Pensare è il lavoro più pesante che ci sia, dicono3. Quindi noi lavoriamo e basta, senza preoccupazioni, senza fermarci alle accuse o ai giudizi, e ci muoviamo per il bene di questa città e di quelle che verranno.»

Il giornalista rispose di riflesso con un sorrisino di concreta ammirazione. «È piacevole trovarla così motivato in questa burrasca di eventi, Matsumoto-sama. La ringrazio per aver accettato di intervenire.» Si rivolse nuovamente alla telecamera, l’espressione ora tornata grave e pratica. «Questo è tutto quello che possiamo dirvi al momento. Vi richiederemo la linea nel caso in cui riceveremo notizie sul ragazzo scomparso. Per il momento è tutto, a voi in studio.»

Un ultimo sorriso di partecipazione. Un momento di immobilità professionale. Un altro paio di secondi, il tempo di interrompere la messa in onda, il tempo per Matsumoto di sorridere di punto in bianco, di sollevare le sopracciglia in quel suo silenzioso “Ehi, credetemi, il meglio deve ancora arrivare!”, e poi un netto taglio sul nero.

Dove tutto è vago e indistinto.

 

__________



Note.

1 Letteralmente, “morte per troppo lavoro”, ovvero “morte per sfinimento”. Si tratta più che altro di cause fisiche, come attacchi di cuore. Questo termine viene però utilizzato anche, a seconda delle circostanze, per indicare le morti volontarie a causa dello stress lavorativo.

2 Si trova a Est di Koriyama. È il quarto per estensione del Paese.

3 O meglio, disse. La frase è infatti attribuita a Henry Ford.



In un angolino...

Questo è stato un racconto molto, molto impegnativo. Sono davvero felice che il mio impegno sia stato ricompensato. La cosa davvero divertente, ammesso che ci sia qualcosa di divertente in questa storia (?), è che quando ho messo l'ultimo punto il mio primo pensiero è stato: "Okay, tutto questo è colpa del liceo". Perché molti degli argomenti che ho toccato, prima fra tutti l'alienazione causata dal lavoro di cui parla Marx, è farina degli studi. Non so se i miei prof mi bacerebbero sulle guance se scoprissero che ho usato l'eredità scolastica per scrivere un racconto così psicologicamente crudo, ma pazienza, è un modo come un altro di coinvolgere gli altri nelle stesse riflessioni... credo (?) Io ho la fortuna di lavorare occasionalmente in un ristorante, dove il mestiere non è mai monotono; a salvarmi dalla monotonia ci sono i clienti, sempre diversi, sempre pronti a scassarti con, cioè, a sottolineare i loro bisogni interculturali. Una salvezza, penso, perché sono quasi certa che morirei in un ambiente sempre uguale. Come gli uffici. Ah, si capiscono molte cose, da qui (?)
Ringrazio enormemente chi è arrivato sino alla fine, soprattutto per la lunghezza dei capitoli <3 Al momento sono presa con un progetto mio e con una ff, ma prima o poi tornerò fra le originali, dove mi sento a casa.

Dew_



   
 
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