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Autore: Gretsel    27/06/2015    0 recensioni
"Quella fu la prima certezza che ebbi nella mia vita"
Come tutti gli adolescenti, anche Valeria ha i suoi problemi, ma non ha mai capito come risolverli, finché un giorno...
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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C'era odore d'estate nell'aria. Non avrei dovuto sorprendermi, eravamo già a maggio, eppure non riuscivo ancora a capacitarmene. Quell'anno era passato così in fretta... Ed io ne avevo passate tante. Non che la mia vita fosse mai stata incasinata, no. Anzi, era una vita piuttosto "normale" e tranquilla. Ma io mi divertivo a complicarmela. Almeno, così sembrava.
La scuola era quasi finita e non mi sembrava possibile. Avevo passato così poco tempo dietro i banchi, saltando le lezioni o semplicemente restando a casa perché stavo male. Avevo scelto, non so quando, inconsciamente, di non vivere bene la scuola. Mi ritrovai spesso a pensare se fosse stato il caso di ripetere l'anno. Magari sarei riuscita, alla fine del percorso, ad essere un minimo preparata per l'ultimo scalino, e l'università dopo. Però, non avevano carte in tavola sufficienti per non farmi passare, ma solo per farmi partecipare ai cosi estivi. Ed io non avevo intenzione di impegnarmi l'estate. Perciò decisi, consciamente questa volta, di studiare, facendo un ultimo sforzo. Ma ero così sfinita...
Non riuscivo, non volevo più alzarmi dal letto la mattina. Bramavo pace e serenità: non che la scuola non me li desse, ma li cercavo al di fuori di essa. Invece di trovarla, però, ero solo capace di creare casini. Da un lato la cosa mi andava bene: mi tenevo così impegnata per risolverli che non avevo il tempo di ascoltare tutte le voci nella mia testa.
Voci che mi accusavano di colpe che per quanto brutte erano altrettanto vere.
Demoni che si insidiavano in me stessa e non si allontanavano, sussurrandomi all'orecchio, strisciando verso di me nel buio della notte, quando il sonno tardava ad arrivare.
Mi alzavo, la mattina, solo per vedere i miei amici. Non so neanche se "amici" sia la parola adatta per definirli. Non sapevano metà delle cose che serviva per rapportarsi decentemente con me. Forse era proprio questo il loro punto di forza: non sapere niente. Ignorare e, perciò, trattarmi come qualunque altro essere umano al mondo. Per questo mi sforzavo di scostare le coperte e mettere i piedi a terra: perché avevo ancora una speranza che con loro potesse andare per il verso giusto, a discapito degli ultimi avvenimenti. Perciò, anche quel giorno decisi di alzarmi, con la speranza che non fosse uno di quei giorni pesanti, ma che passasse in fretta.
Ovviamente andai con lentezza e feci tardi.
Ovviamente in auto ebbi una strigliata dai miei genitori.
Ovviamente... Ovviamente?
Perché per me è tutto così ovvio...
Però, riuscii ad arrivare a scuola prima della campanella che segnava l'inizio delle lezioni.
"In quarta liceo, a diciassette anni, non puoi permetterti di arrivare in ritardo. I professori arrivano quasi prima della campanella!" era il pensiero che cercavano di inculcarmi i miei.
"Ma loro non sanno che qui i docenti hanno meno voglia di noi studenti di fare lezione e che la scuola italiana, per quanto possa essere stata la migliore, è ormai giunta alla fine del suo glorioso percorso." pensai.


"A che pensi?" mi riscosse una voce. Mi girai e mi ritrovai la faccia sorridente di Leonardo.
"A niente." Feci un piccolo sorriso, giusto per fargli pensare che quella era una giornata come le altre. Mi stampò un bacio sulla guancia e si sedette sulle scale antincendio accanto a me.
"Buongiorno." mi disse.
"Perché si dice sempre 'buongiorno'?" domandai.
"Perché è un augurio." rispose, tranquillamente.
"Sarà. Per me è soltanto stessa merda, altro giorno." Mi accesi la sigaretta e restammo in silenzio.
Questo mi piaceva di loro: commentavi e non chiedevano: "Se me lo vuoi dire, me lo dici e basta, non ho bisogno di obbligarti", si giustificavano. Ed io realmente apprezzavo quella giustificazione e li sentivo più vicini di molta altra gente.
" 'Giorno.." ci salutò Paolo, girandosi la cartina con il tabacco dentro.
"Ecco, già mi piace di più." sbottai.
"Indubbiamente."
"E' neutrale."
"Certo."
"Di che state parlando, voi due?" ci chiese Paolo. Lo guardai: i capelli biondi gli coprivano gli occhi verdi, mentre scrutava i nostri volti. Mi voltai verso Leonardo, con i suoi capelli corvini e gli occhi azzurri, e lui iniziò a ridere.
"Non le piace la parola 'buongiorno'."
"Non è che non mi piace, ma mi chiedo solo cosa spinga una persona a dire 'buongiorno' se è appena iniziato."
"Ma è un augurio, te l'ho detto." Paolo scosse la testa, divertito.
"Hai nove a filosofia e ti perdi in queste gocce d'acqua?" disse Andrea, comparendo da dietro le spalle del biondino.
"E' prima mattina, capiscimi." cercai di scusarmi scherzosamente. Andrea fece spallucce, sorridendomi. A volte mi chiedevo come faceva a ritrovarsi con noi. Voglio dire, Paolo e Leonardo non erano per niente male, anzi, piuttosto carini a dire il vero. Non altissimi, ma neanche bassi, nella media, ed un corpo non esattamente scolpito, ma da cui si intravedevano comunque i muscoli. Però Andrea, diamine... Andrea era bellissimo. Occhi indagatori color ghiaccio, capelli castani, come il cioccolato, ed un corpo... un corpo mozzafiato. Sembrava nato per fare il modello. La sua unica pecca era...
"Vale, mi dai una sigaretta?"
"No André, sono quasi finite e non ho soldi per comprarle." nascosi il pacchetto.
"E dai." provò a convincermi.
"Al massimo ti lascio finire la mia."
"Meglio di niente." Mi prese il cellulare ed iniziò ad aprire applicazioni a casaccio. Sembrava divertirsi. Sarà, ma non c'era niente di così rilevante. Restammo tutti e quattro in silenzio per un po', ognuno coi fatti suoi da pensare.
"Non ci credo!" Questa esclamazione ci riscosse dal torpore. Guardammo scocciati Andrea, che di rimando mi puntò il dito addosso:
"Ti sei fatta un tatuaggio!" gettò un'altra occhiata al telefono "E un piercing!" sorrisi. Uno? A questo punto mi osservavano tutti sbigottiti.
"Ho capito, ho capito."
Abbassai la spalla della maglietta, mostrando una rosa rossa in stile old-school.
"Posso toccarla?" mi chiese Leo. Annuii e lui incerto allungò le dita sui petali rossi, tracciandone il contorno.
"Ma non ti ha fatto male? Passando sulla clavicola e la testa dell'omero... Sapevo che i tatuaggi sulle ossa fanno più male. E poi perché davanti e non dietro?" domandò Andrea.
"Davanti mi piaceva di più. Sì, ha fatto male, ma ne è valsa la pena. Mi sto già organizzando per il prossimo, sulla spalla destra."
"Che vuoi disegnare?"
"Una rosa appassita." i suoi occhi brillavano. Andrea aveva già diciotto anni, ma i genitori non gli permettevano di fare tatuaggi e lui li rispettava troppo per farne uno di nascosto, al contrario mio.
"E il piercing?" chiese Paolo.
"In realtà non è solo uno." mostrai quello dietro la nuca, sul collo. Poi sollevai la testa , feci una linguaccia e una risata scosse tutti quanti, mista a stupore. Ero orgogliosa dei miei venom: due piercing sulla lingua, equidistanti dal centro e dai bordi, perfettamente simmetrici.
"Doloroso?"
"Abbastanza."
"Ecco perché sei stata assente una settimana."
"Marinare la scuola non è mai stato più entusiasmante."
"Ma con i tuoi come farai?"
"Ho già i miei piani."
"Non hai paura di pentirtene?" Lanciai un'occhiataccia ad Andrea. Non volevo pensarci, perché sapevo che sarebbe successo. La campana mi salvò in corner, ed io mi diressi in classe mia e loro alla propria. Erano fortunati a stare nella stessa.

Mi gettai sul banco, sperando in qualche svolta della giornata, anche se sembrava essere già iniziata bene.
"Ciao Vale!" mi salutarono, appena entrai in classe.
"Dov'eri sparita in questi giorni?"
"Avevo degli affari da sbrigare."
"Dillo che ti vedevi col ragazzo!" ammiccarono scherzosamente.
"Sì, ad avercelo!" risi. "Che è successo ultimamente?"
"Mah, quella di storia è sparita. Dicono arriverà un supplente." Questo davvero non me lo aspettavo. Voglio dire, la odiavo la prof di storia, ma non pensavo che tutti gli accidenti che le avevo mandato potessero funzionare.
"Nessuno sa cosa le è successo?"
"Voci dicono che ha avuto un esaurimento."
"E ci credo, con tutto quel casino che fa ogni volta, dovrebbe darsi una calmate." Feci spallucce e mi avvicinai alla finestra.

Qualcuno mi abbracciò da dietro. Sorrisi, per niente allarmata: sapevo già chi fosse.
"Allora Valeria, perché siamo spariti senza avvisare?" mi chiese Riccardo.
"Perché ho dovuto fare... cose."
"Piccioncini, andate a tubare altrove!" una voce canzonatoria si levò dal gruppo dei miei compagni.
"Per favore, ragazzi" il mio amico si voltò. "Ho una ragazza, e non è lei. Lo sapete. Non per nulla, non siete antipatici. Solo che alla lunga scoccia."

Poi bussarono alla porta e l'attenzione si concentrò tutta lì, sulla causa di quella interruzione.
"Scusate, questo è il IV E?" chiese un ragazzo, occhi vispi color nocciola e capelli rossi.
"Sì." risposi di getto. Me ne pentii subito, arrossendo fino alla radice dei capelli.
"Grazie." mi sorrise e, quasi per uno scherzo del destino, poggiò lo zaino sul mio banco.
"Che materia avreste adesso?" mi domandò, trovando in me una roccia s cui poter far leva.
"Storia." Ero un po' diffidente nei suoi confronti, senza un motivo preciso.
"Com'è la prof?" continuava a chiedere.
"E'.." stavo iniziando a rispondere, ma Riccardo mi interruppe:
"Esaurita. Per questo non c'è da una settimana." Uno strano silenzio aleggiava nell'aria, ma non era pericoloso. Era un silenzio d'attesa. Il nuovo arrivato non perdeva la vivacità.
"A che punto siete arrivati?"
"Rivoluzione francese. Napoleone, a dirla tutta."
"Cioè?"
"Cioè che ha fatto la Campagna d'Italia, quella d'Egitto ed ha proclamato il consolato." Questo gioco iniziava a stufarci.
"Io ancora non ci sono arrivato. Non è che potresti spiegarmelo?" chiese a Riccardo, che iniziò a narrare le vicende storiche da lui citate, concludendone il corso. Nel frattempo, l'altro seguiva interessato annuendo. Quando Riccardo concluse, intervenne:
"Per me sarebbe più corretto dire..." e cominciò a raccontare di Bonaparte, ma in un modo mai sentito prima: ci metteva emozione, grinta, arrivava dritto al cervello e ti ci fissava i concetti. Alla fine del suo discorso era chiaro che non era vero ciò che ci aveva detto. Aggiunse, infatti, particolari che solo chi ha studiato sul serio l'argomento poteva sapere.
"Ma non avevi detto che non c'eri arrivato?" Sorrise, mettendosi una sigaretta in bocca.
"Non ho specificato in che senso." Accese il tabacco. "Salve ragazzi, sono il Marco Fabrizi, il vostro supplente di storia."
Decisamente, quella era una svolta.
Purtroppo la lezione era finita, ma sapevamo che non sarebbe stata l'ultima.
Le altre due ore passarono in modo passivo.

A ricreazione, trascinai fuori dalla loro classe Paolo, Andrea e Leonardo e, prima che potessero dire una parola, riportai per filo e per segno ciò che era successo quando ci eravamo separati. Restarono sbigottiti. Ma, d'altronde, non c'era altro effetto che si potesse ottenere. Uscimmo, andando a sederci sui gradini delle scale antincendio, facendo quello che ci riusciva meglio: fumare. Si vedeva che eravamo arrivati alla frutta: silenzi perenni, sguardi persi nel vuoto, occhiaie. Non che non mi piacesse il silenzio, anzi, lo adoravo.
"Soltanto che quando è bel tempo ti aspetti che ci sia bel tempo, non immobilità."
Sentii una ragazza qualche gradino sopra di noi fare questo commento e non potei che essere d'accordo.
"Ti posso dare un consiglio per il tatuaggio? Quello a destra." disse Andrea all'improvviso. Annuii, stanca anche di proferire una sola sillaba.
"Non fare una rosa morta. Credo di aver capito più o meno il significato, ma non la fare. Staccato non ha la stessa valenza."
"Ci stavo pensando anche io" risposi. "Infatti ho già annullato." Fece un cenni della testa, la campanella suonò e noi rientrammo. 

Due ore passate con la testa altrove. Io e Andrea andavamo sempre in simbiosi, eravamo uguali, pensavamo le cose nello stesso momento, facevamo le stesse azioni, stessi interessi ma, per sua fortuna, non stessa vita. Tornare a casa era sempre una tortura. Non sopportavo di sentire i miei litigare... a causa mia. Spesso mi chiedevo se fossi sparita dalle loro vite cosa sarebbe successo. Onestamente, la prospettiva non mi spaventava, tutt'altro: più di una volta sono andata a ricercarla. Per questo la sera, quando uscivo con Leo, Paolo e Andre mi sballavo e, per qualche motivo analogo, lo facevano anche loro, ma nessuno chiedeva e nessuno sapeva.
"Vale, ci sei?" Riccardo mi scosse per le spalle, richiamandomi al presente.
"Sì, dimmi."
"Stasera vuoi uscire? Federica non c'è, perciò ho pensato che magari..."
"Già sono organizzata con alcuni miei amici, Rick, ma se ti va puoi unirti a noi."
"Oh, uhm, penso vada bene." fece un sorriso incerto: sapeva cosa combinavamo e non gli piaceva, però lo accettava. Ma una volta che lo avrebbe sperimentato in prima persona, ci avrei messo la mano sul fuoco che avrebbe rivalutato la sua posizione, e così accadde. 

All'uscita, tutti nella macchina di Andrea: abitavamo nello stesso paesino e, per una fortuita coincidenza, nello stesso quartiere. Da quando Andrea era patentato, ci passava a prendere ognuno sotto casa per andare a scuola insieme - tranne quando qualcuno faceva tardi, in quel caso restava a piedi... tipo me - e poi ci accompagnava al ritorno. Perciò, anche quel giorno, tornammo insieme a casa, ma ci fermammo direttamente da Andre.
"I miei sono ancora a casa, quindi abbiate un po' di contegno." ci avvertì. Promettemmo, non so bene cosa, ed entrammo, dirigendoci direttamente in camera sua.
"Andrea, sei tu?" la voce benevola del padre si levò dalla cucina.
"Sì, pa'."
"Sei in compagnia?"
"Sì, oggi siamo uno in più del solito."
"Dovete mangiare?" Andrea mi lanciò una rapida occhiata ed io feci segno di no con la testa.
"Tutti tranne Vale."
Andammo in bagno a lavarci le mani, e rimasi a fissarmi allo specchio: occhi color nocciola, come i capelli; pelle bianca e occhiaie, polso piccolo, ossa dei fianchi sporgenti che trasparivano da leggings fascianti un paio di gambe magre. Il mio sguardo era triste. Speravo che in loro presenza si illuminasse, ma non accadeva e la cosa un po' mi amareggiava.
Andrea era fermo sulla soglia.
"Vale, dai. Vieni a tavola." mi tese la mano. "Ti prego, mangia qualcosa. Di questo passo morirai."
"E' tutto ciò che voglio." Rimase interdetto, abbandonando il braccio lungo il corpo, si voltò e andò in cucina.

Ritornai nella sua stanza, aprii l'armadio e mi ci chiusi dentro. Piano piano mi assopii.

Sognai.

Mi risvegliai al suono di voci allarmate che chiamavano il mio nome a cui, poco dopo che ebbi aperto gli occhi, si aggiunse il rumore della vibrazione del cellulare nella tasca della felpa. Passi che uscivano dalla stanza, uno sbuffo di impazienza. Tempo di stiracchiarmi e poi mi schiarii la voce.
"Chi c'è?"
"Sono io, Andre" risposi pigramente spingendo le ante dell'armadio.
"Cristo, Vale, ci hai fatto prendere un colpo!"
"Hai ragione, scusa. Posso restare a dormire da te, stasera?" Si morse il labbro.
"Va bene. Fammi avvertire gli altri..."
Avevo avuto quell'impulso altre volte, ma ero sempre stata al mio posto. Quella volta non lo feci: mi slanciai in un abbraccio, aggiungendoci un bacio sulla guancia. Lui mi strinse a sé, trattenendomi anche più del dovuto. ma a me non importava: lui inspirava il mio odore ed io ricolmavo il vuoto che avevo all'interno, che andava aumentando giorno per giorno, sfinendomi sempre più. Appena ci lasciammo, però, tutto tornò come prima.
Passammo tutto il pomeriggio in giro, tra alcol e droghe, ma non fu come al solito, no: quella volta ebbi un occhio di riguardo in più per Andrea e lui dimostrava di volermi stare vicino.
La sera a casa sua la trascorremmo quasi del tutto in silenzio, avvolti da una calma surreale, ad ascoltare la pioggia che cadeva.
Nel bel mezzo della notte si svegliò urlando da un incubo. Restai lì, a rassicurarlo con la mia voce, stringendolo tra le mie braccia. Poi arrivò il mattino.

"Non voglio andare a scuola." dissi, stesa a pancia in su, quasi come se stessi parlando al soffitto.
"Buongiorno anche a te..." borbottò dall'altro letto il mio ospite.
"Andiamo al mare."
"Che?"
"Mi hai sentito. Siamo a mezz'ora di macchina dalla spiaggia e anche meno. Prendiamo l'essenziale e partiamo."
"Ma sono le 05.30 del mattino..."
"Che?" credevo fossero almeno le sei. "Tanto meglio, non ci sarà nessuno." Restò in silenzio, ed io a fissarlo, in attesa di una risposta, per quella che mi parve  un'infinità. Alla fine acconsentii.
"Ti detesto. Non riesco mai a dirti di no." furono le sue parole, mentre mi lanciava un cuscino.
Così, poco dopo, eravamo in viaggio, con la musica sparata al massimo. Io cantavo e Andrea rideva.
"Dio, amo la tua voce."
"A me piace il tuo sorriso."
Infine arrivammo. 
Certo, non vedemmo l'alba, ma l'orizzonte bagnato dal mare è una delle cure necessarie per una persona rotta come ero io.
Spalancai lo sportello dell'auto e corsi verso l'acqua: mi sembrava di essere tornata bambina.
Poco dopo, il mio accompagnatore mi raggiunse e mi cinse la vita con le sue forti braccia.
Quando mi girai, una sorpresa più grande mi aspettava: le sue labbra incontrarono le mie, in un'esplosione di emozioni.
Il suo profumo penetrava nelle mie narici ed il mio corpo fremeva per avere di più.
Io l'amavo.
Quella fu la prima certezza che ebbi nella mia vita.
   
 
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