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Autore: Mirella__    02/07/2015    2 recensioni
C'è stato un tempo in cui credevo che nella vita non ci fossero poi tante scelte.
Parliamoci chiaro, quando ero giovane la pensavo in questo modo: se sei nato da una meretrice non puoi diventare un re, se tuo padre fa il contadino, sono ben poche le possibilità che tu diventi un banchiere, se i tuoi legami non sono quelli giusti, non hai altre vie se non proprio quelle dove essi ti trasportano.
All'epoca viaggiavo tra mondi diversi, anzi, è più corretto dire che ci vivevo, poiché combattuta tra gli usi e costumi dei ricchi e la peste nera e la fame del popolo.
Non ero niente più che una cameriera, una di quelle che vedi tutti i giorni al mercato, una di quelle che stanno lì a spendere la vita al servizio degli altri, a pulire il buco del culo a quelli d'alto rango; se mi concedi il termine.
Se dovessi raccontarti l'inizio della mia storia, oh beh, credo inizierei dal giorno della mia nascita, quindi, se non hai niente di meglio da fare, prenditi una sedia.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Note iniziali

Catrina è la mia ultima creazione.

Ho lasciato tante storie in sospeso, ma per questa, adesso che sono libera dalle preoccupazioni, sento di poter raggiungere quell'impegno che nelle altre mancava, soprattutto a causa dello stress.

Questa storia è stata ispirata da una canzone di Lorde: “Everybody wants to rule the world” e i versi di questa – non necessariamente in ordine - comporranno la trama di ciò che si spera sia un racconto capace di coinvolgervi.

Ho inserito tutte e tre i tipi di coppia perché nel corso della lettura potrete vedere diversi tipi di relazione.

Vi lascio e vi auguro una buona lettura!

 

 

 

Catrina

 

 

 

Welcome to your life

 

 

 

C'è stato un tempo in cui credevo che nella vita non ci fossero poi tante scelte.

Parliamoci chiaro, quando ero giovane la pensavo in questo modo: se sei nato da una meretrice non puoi diventare un re, se tuo padre fa il contadino, sono ben poche le possibilità che tu diventi un banchiere, se i tuoi legami non sono quelli giusti, non hai altre vie se non proprio quelle dove essi ti trasportano.

All'epoca viaggiavo tra mondi diversi, anzi, è più corretto dire che ci vivevo, poiché combattuta tra gli usi e costumi dei ricchi e la peste nera e la fame del popolo.

Non ero niente più che una cameriera, una di quelle che vedi tutti i giorni al mercato, una di quelle che stanno lì a spendere la vita al servizio degli altri, a pulire il buco del culo a quelli d'alto rango; se mi concedi il termine.

Ero anche una ragazzina buona, tanto educata, tanto gentile ed ero nell'età in cui ogni ragazza inizia a compiacersi del proprio aspetto e a voler compiacere anche l'altro sesso.

Ero così fiera delle occhiate che mi venivano riservate.

Se dovessi raccontarti l'inizio della mia storia, oh beh, credo inizierei dal giorno della mia nascita, quindi, se non hai niente di meglio da fare, prenditi una sedia.

Io parlerò, col mio bel bicchiere di whisky tra le mani e ti racconterò di come la mia linea di pensiero cambiò, ti spiegherò il motivo e riderò nel vedere lo specchio di quella che era la mia innocenza disegnarsi sul tuo viso.

 

 

 

Sono nata in un giorno di pioggia, almeno sempre così mi avevano raccontato; una delle più possenti e ricche piogge dell'anno, che portò alla distruzione di campi e recinzioni.

Mia madre non ne parlò mai apertamente, mentre mio padre – un uomo che non si teneva mai niente nello stomaco – mi ripeteva continuamente che era un segno disgraziato, che la mia nascita non era voluta.

Ovviamente avrebbe preferito un maschio, oh Dio! Ma in fondo in una società basata sulla mera forza fisica la sua reazione alla nascita di una femminuccia era più che giustificata.
Mia madre viveva essenzialmente per soddisfare le esigenze del marito e quando vide il suo malcontento nell'avermi avuta, non potè che appoggiarlo in tutti i modi, sentendosi causa del fatto che non avessi fratelli in grado di poter perpetuare il buon nome della famiglia.

Iniziai a lavorare sin dalla tenera età.

A sei anni andavo al mercato con mia madre per vendere la frutta e più ceste piene riuscivo a trasportare, più mi sentivo fiera e non mancavo di farlo notare.

Mio padre si occupava degli affari, se ne stava sempre lì, seduto, a controllare affinché tutto andasse per il verso giusto e che nessun mano nera fregasse anche solo una mela.

Il profitto era minimo, tiravamo avanti in qualche modo e posso dire che stavamo meglio di coloro che non avevano nemmeno una coperta per ripararsi dal gelo della notte.

Quando fui abbastanza grande, mia madre mi presentò ad una nobile bambina della mia stessa età.

Ricordo che non ne capii subito il motivo, vedevo la mia adorata genitrice – e qui ti prego di cogliere il sarcasmo – parlare con quella che era una signora di bell'aspetto, tutta ingioiellata e con un cagnolino di piccola taglia tra le braccia.
Sembrava una di quelle con la puzza sotto il naso, non mi piaceva.

Quel giorno avevo indossato il vestito buono, quello che ero solita vestire per andare a messa la domenica mattina, quindi non mi sentivo così fuori luogo. Con quel vestitino di cotone e quei guanti eleganti mi sentivo una principessa, quindi allo stesso livello dell'altra bambina, che, tuttavia, mi fissava con un'aria schifata.

Quando le donne finirono di parlare, mia madre mi si avvicinò e sul suo viso per la prima volta c'era un'espressione fiera, come se avessi fatto qualcosa in più dei soliti andirivieni con i cestini tra le braccia.

“Sarai l'amica di Jennifer, sei contenta?”

Ricordo d'aver annuito vagamente, anche perché la sopracitata Jennifer non sembrava poi così entusiasta all'idea.

Fui la sua dama da compagnia fino all'età di sedici anni, anche perché poi accadde quel che accadde.

Ricordo di essere diventata una delle sue favorite, mi aveva persino preso da parte e insegnato a leggere e scrivere, chissà il perché poi.

Da quando avevo intrapreso quella strada non c'erano stati altri sbocchi possibili e in me si era radicata la convinzione che la vita seguisse un filo sopra il quale potevi camminare tentando di stare in equilibrio: la caduta, significava morire, mentre invece percorrerlo era come camminare una strada che ti portava sempre alla morte, ma attraverso le solite tappe, vale a dire matrimonio, figli, nipoti, se eri fortunata, e infine la tomba.

Pensandoci, a questo mi ero persino adattata.

Io e la signorina Jennifer camminavamo spesso per le vie della nostra cittadina, lanciando occhiate sfuggevoli e risolini svenevoli ai ragazzi più avvenenti.
Nessuno si azzardò mai ad avvicinarcisi, questo perché la signorina Jennifer era sempre scortata da almeno tre energumeni. Erano uno più grosso dell'altro, il più basso era un metro e ottanta e il più alto quasi toccava i due metri.

Jennifer era ricca, di buona famiglia, una vera nobildonna, e ormai era in età da marito, di conseguenza i genitori iniziavano a vagliare ogni richiesta di matrimonio che le veniva inviata, in cerca del miglior pretendente.

Mi diceva spesso: “Loro lo scelgono a me e io lo scelgo a te”. E assieme ridevamo, perché era una cosa tanto stupida, quello che lei diceva, quanto fattibile. Conosceva i miei gusti e, se posso permettermi l'ardire, se la rivedessi li conoscerebbe tutt'ora.

Dopo le risate, però, vedevo nel suo sguardo una certa tristezza.

Ci ero abituata, a quello sguardo, perché era quello di una qualunque nobildonna che correva il pericolo di sposarsi con un uomo molto più grande di lei.

Ogni volta che la vedevo perdersi a quel modo, le chiedevo: “Hanno scelto?”

Lei puntualmente scuoteva la testa e mi diceva che no, non l'avevano ancora scelto.

Il vero inizio della mia storia sarebbe avvenuto di lì a qualche giorno.

Era un uggioso mattino di un martedì qualunque, sembrava che la pioggia volesse riprendere da un momento all'altro e io ero scesa al mercato per comprare del pesce.

Non ridere, tu! Ero davvero brava in quello che facevo, anche se adesso il mercato probabilmente è l'ultimo posto nel quale mi vedresti.

Dicevo, ero al mercato e cercavo il cibo migliore che potessi trovare, guardavo gli occhi dei pesci, avrei comprato quello che mi sarebbe sembrato più vivo.

In quel momento mi giunsero delle urla all'orecchio, alzai lo sguardo per capire cosa stesse succedendo e venni urtata da un ragazzo poco più grande di me.

Quello mi chiese perdono e si dileguò con una velocità tale che sbattei le palpebre più volte per accettarmi se ciò che avevo appena visto fosse reale o solo un'illusione.

Nell'urto avevo sentito un altro rumore: qualcosa era caduto dalle tasche del ragazzo, perciò mi misi in ginocchio e guardai sotto le tavolate dove il pesce era esposto per la vendita; lì trovai l'oggetto che avrebbe cambiato la mai esistenza e che ancora oggi vedi alla mia cintura.

Un pugnale, incredibilmente affilato, la lama era dorata, e in quel momento non seppi se era davvero oro quello che vedevo o solo un colore riuscito bene.

Non potevo stare li giù a decidere e per istinto lo presi e me lo sistemai tra le pieghe del vestito.

Mi diedi della stupida mentre compravo il pesce, mi diedi dell'idiota mentre tornavo alla villa: non avrei dovuto raccoglierlo, avrei dovuto lasciarlo lì dove stava, ma ne ero stata talmente affascinata da non aver avuto scelta. Quella lama bellissima doveva essere mia.

Lo sentivo contro la pelle quel giorno; mentre facevo il bagno alla mia signora, mentre pulivo la casa, mentre aiutavo la cuciniera.

La sensazione dell'acciaio contro la pelle è sgradevolissima, se non sei in pericolo.

I sensi di colpa si acuivano, mi sentivo come se stessi impazzendo, avevo persino ponderato l'ipotesi di tornare al mercato e rimettere quel pugnale lì, dove lo avevo trovato.

“Tutto bene, Catrina?”

Sorrisi tra me e me, quella ragazza mi conosceva da quando avevo dieci anni, era ovvio che non avrei potuto nasconderle la preoccupazione.

“Non proprio”. Mi guardai attorno, aspettai che fossimo sole e le mostrai il mio bottino.

Lei sgranò gli occhi e fece un passo indietro. “Dovresti darlo via, oggi ci sono le guardie del mio futuro marito e non vorrei che ti trovassero indosso uno di questi”. Il suo sguardo era terrorizzato e se da una parte potevo capire il perché, da un'altra ne ero confusa.

Non avrei dovuto prendere un pugnale, ovviamente, ma perché esserne tanto spaventati? Avrei potuto gettarlo via una volta lasciata casa sua, ma a quanto pareva non sarebbe stato abbastanza, a giudicare dallo sguardo di Jennifer.

Riflettei solo in un secondo momento riguardo quello che mi aveva detto.

Quando lo feci, il pugnale diventò improvvisamente un argomento secondario.

“Il tuo futuro marito?” Fu allora che colsi il suo solito sguardo, ancora una volta, e improvvisamente tutto diventò limpido, come se finalmente l'acqua torbida fosse tornata pulita e riuscissi a vedere quello che c'era sotto la superficie.

Non era felice, Jennifer, da tanto tempo, e aveva deciso di nascondermi tutto, almeno per quanto le era concesso.

“Il barone”. Da tempo, infatti, quell'uomo la corteggiava. Si era distinto dagli altri perché le mandava dei fiori e per ogni bocciolo di rosa vi era incastonato un diamante.

Un bel regalo, certamente, ma era anche un modo di dimostrare il proprio potere e schiacciare gli avversari, tuttavia quest'ultimo non fu l'unico a distinguersi.

Nonostante l'epoca, nonostante la classe sociale dell'uomo di cui adesso ti accennerò, i genitori amavano Jennifer a tal punto da considerare le sue scelte.

Jennifer, però, sapeva che d'amore non si vive e le meravigliose lettere che quel ragazzo le mandava finivano irrimediabilmente accartocciate e gettate nel camino.

Mi chiedi se lei lo ricambiasse?
Oh, ma certo che lo ricambiava, ma Jennifer era furba, intelligente e con la testa sulle spalle. Fu per questo motivo che rifiutò quel borghese e accettò la proposta del barone.

Tutto questo l'avevo capito da un solo sguardo, perché la conoscevo talmente bene che le parole erano inutili tra di noi.

Ciò non toglie che per me era nel torto.

Capiscimi, ero giovane e come a molti piace poeticamente affermare: ero innamorata dell'idea dell'amore.

Dicevo, quando ebbi conferma dalle sue labbra riguardo le mie congetture, lasciò trasparire per la prima volta un lieve tremore nella sua compostezza.

Il barone non era dolce, non era famoso per quello, tuttavia volevo dargli un'opportunità.

Decisi quella sera stessa di assistere alla cena, di servirlo, di esaminarlo in ogni mossa e Jennifer era stata contenta d'avere almeno una figura amica accanto a lei.

Tra il tintinnare delle posate dorate sui piatti di porcellana e la solita boria che dava quel bicchiere di vino di troppo, la conversazione era risultata piacevole persino alle orecchie della servitù.

Iniziavo a credere che, nonostante ci fosse una certa differenza d'età, Jennifer non avesse poi fatto una cattiva scelta, riguardo al barone.

Si chiamava Lucas Brandeis, origini spagnole. I capelli erano velati da fili argentei, raccolti in un codino, gli occhi grigi erano attenti e svegli, la lingua scattante ed elegante.
Aveva un atteggiamento di quelli che non lasciano molto spazio alle decisioni autonome. Fiero, altezzoso, di un aspetto alquanto aitante.

Jennifer ne sembrava affascinata e non nego che anche io provavo una certa attrazione per quell'uomo. I suoi occhi erano calamite, quando ti parlava non avevi modo di fuggire loro. Ti catturavano, sempre.

Probabilmente è per questo che...

No, aspetta, non sarebbe divertente se ti anticipassi la fine, quindi sto attenta a non lasciarmi in divagazioni inutili.

Dicevo, avevo deciso di partecipare alla cena e la seguì fino alla fine.

Le tenebre incombevano.

Fui una delle ultime serve ad uscire dalla villa. Per me non era una novità. Conoscevo ogni anfratto di quella città, ogni singolo vicolo, ogni minuscolo nascondiglio.
Ero capace di muovermi con la rapidità di un gatto tra quelle strade e sapevo nascondermi con la stessa velocità di un topo.

Se venivo seguita, quindi, non era difficile risolvere il problema.

Non dovetti percorrere troppo, infatti, prima d'avere uno dei tanti ubriaconi alle spalle. Anzi, quella sera era stato un record per la velocità. Se ci penso oggi ancora mi viene da ridere.

“Riesci a scappare sempre, eh puttana?”

Ah già, quasi dimenticavo. Non ti avevo parlato di lui.

George era... George?

Un pescivendolo che soffriva il mal di mare. Ti lascio immaginare come per lui procedevano gli affari. Forse era per questo che si ubriacava e che puntualmente ogni sera provava a raggiungermi sulle sue gambe claudicanti.

“Non è colpa mia, George, se bevi più vino che acqua”. Affrettai il passo, perché quella sera mi sembrava che avesse diluito di più le droghe delle quali si faceva; questo significava che era più lucido e se era più lucido voleva dire che avrei dovuto farmi una corsetta fino a casa.

“Mi sono impegnato oggi per te, bellezza, vuoi vedere?” E con uno scatto che in effetti non mi aspettavo mi afferrò il polso e mi trascinò su di sé in una presa stritolante.

“Lasciami, energumeno!” Ero stata un'idiota, ma francamente non pensavo che sarebbe riuscito a stare lontano dal vino per scoparsi una servetta.

La presa era stretta, fin troppo per i miei gusti e sussultai quando sentii la lama premere e incidermi superficialmente la pelle. Strinsi i denti e mi rilassai tra le sue braccia. Mi serviva solo l'attimo nel quale lui si sarebbe distratto; avevo già deciso.

Quella scintilla che mi distingueva dalle mie coetanee esplose, cancellando ogni incertezza.

Fu allora che il mio pensiero riguardante la vita iniziò a sbriciolarsi, i blocchi di cemento che sorreggevano la mia convinzione si sgretolavano di fronte a quella che era la realtà.

Credevo di non farcela, di fare un minimo errore, che la lama mi scivolasse di mano, che la mia vita avesse già deciso che avrei dato alla luce il figlio di uno stupratore.

Ma quella stessa notte fui meravigliata.

Era così naturale il modo in cui la mia mano scivolò sotto la veste, ne estrasse il coltello e con una precisione che tutt'oggi, con le mie conoscenze, definirei chirurgica trovò una strada ben delineata e già indissolubilmente segnata: quella del cuore di George.

Le sue ultime parole furono un gorgoglio spezzato, niente più che un rantolo, poi si accasciò a terra.

Non capii inizialmente il casino in cui mi ero cacciata, in quel momento il mio istinto di sopravvivenza mi aveva sopraffatta. Ero eccitata, esaltata, quasi felice nell'aver tolto la vita a qualcuno. Felice di essere ancora viva e inviolata.

Sulle labbra mi sentii affiorare un piccolo sorriso, poi dilagò in una risata isterica, le ginocchia mi cedettero e la gonna della mia veste si macchiò di sangue.
Poggiai le mani a terra e respirai affannosamente.

Mi ci volle un po' per riprendermi e mi accorsi di una presenza solo quando ero talmente sporca da non capire più se ci fossi nata con il colore del sangue sulle mani.

“Catrina”.

Ser Lucas mi guardava ghignando, non aveva più l'aria del signorotto educato che aveva dimostrato durante la cena.

Chi era in realtà l'uomo che Jennifer stava per sposare?

Pensieri veloci, idee confuse si accavallarono le une agli altri.

Mi si avvicinò e personalmente non avevo nemmeno voglia di allontanarmi. Ogni mio muscolo si era atrofizzato, adesso che l'eccitazione passava, sentivo solo la pesantezza di arti che non volevano muoversi.

Quando Lucas si fece a portata del raggio d'azione della mia lama, vidi il riverbero del metallo, poi qualcos'altro.

Un pugnale del tutto identico al mio era incastonato tra le costole dell'uomo.

Troppo sconvolta per emettere un grido, troppo terrorizzata per avere anche solo la volontà di capire la situazione, guardai il ragazzo, che quella mattina mi aveva urtata al mercato, estrarre dal corpo ormai senza vita l'arma del delitto.

“Come pianificato”.

I miei occhi si sgranarono.

Mi scostai i capelli rossi dal viso per osservarlo con più attenzione. Avrei dato una spiegazione a tutto quanto, avrei detto che non... non ero stata io a uccidere Ser Brandeis, ma quel ragazzo, sarei stata in grado di fornire una descrizione accurata.

Eppure, mentre guardavo il sangue che avevo tra le mani e ne sentivo il lezzo nauseante, rividi l'intera situazione da un punto di vista di una persona esterna.

Io ero colpevole, io ero quella sporca, riversa in terra su due cadaveri uccisi dallo stesso pugnale. Nessuno avrebbe creduto a una serva, sarebbe stato molto più facile incolpare una popolana, le autorità non avrebbero cercato un...

La folata più gelida di vento che avessi mai sentito in tutta la mia vita mi riscosse. Davanti a me non c'era più nessuno.

Fu allora che mi alzai.

Le autorità non avrebbero cercato nessun fantasma, nessuna allucinazione di una serva psicopatica. Elaborai un piano veloce, cercai di cavare un valido consiglio da tutti i libri che avevo letto assieme a Jennifer, ma la vita non è un libro, la vita... beh la vita è istinto.

Non trovai nulla di adatto alla situazione nella quale mi trovavo e così, persa nell'angosciante vortice della mia confusione, decisi che l'unica soluzione era andarmene da lì e sperare che nessuno avesse assistito alla scena.

Ma era una speranza vana, ne ero consapevole, perché la gente, in quello sperduto paesino, aveva paura della propria ombra e queste ultime potevano essere intraviste nella penombra dei vetri delle loro finestre.

Io sarei stata condannata ad impiccagione per aver ucciso un uomo, fino a che la morte non fosse sopraggiunta.

No, non sarei morta in quel modo, non era da me.

Sentii qualcuno nelle vicinanze, alzai lo sguardo e i miei occhi si incontrarono con quelli di quattro persone, una famiglia che tornava a casa da una serata passata forse in teatro.

Loro sarebbero stati altri testimoni, persone che mi avrebbero dato contro, gente che non sapeva nulla, ma che credeva di sapere tutto.

Mi misi a correre, corsi per i vicoli più stretti, percorsi strade su strade, passando dai cunicoli più oscuri, rischiando più volte l'osso del collo in salti che nemmeno io credevo di riuscire più a fare.

Dovevo andare alla mia roccaforte. Il posto che nessuno conosceva.

Lì avrei messo in ordine le mie idee e lì sarebbe iniziata la vita di quella che tu conosci come la vera Catrina.

  
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