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Autore: Sea    04/07/2015    5 recensioni
Il ragazzo della biblioteca è il classico esempio di ragazzo emarginato, lontano dalla società e dai contatti amichevoli, ma dietro il suo aspetto e i suoi modi c'è una storia complessa, una grave perdita. La vita sembra essersi stancata di lui, ma Ed continua ad andare al lavoro e a combattere contro il suo patrigno e il suo fratellastro per non perdere l'eredità di suo nonno: la sua casa. Sua nonna e la sua chitarra sono le uniche cose che gli restano, ma gli eventi prenderanno una piega inaspettata e tra un lavoro e l'altro, Marina entrerà prepotentemente nella sua vita.
Ecco una nuova storia dopo Afire Love! Spero di non deludere le aspettative. :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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HERO


 
Polvere.
Silenzio.
Una luce tiepida batteva sul bancone di legno della biblioteca di quella città sperduta tra le colline inglesi. Il legno di ciliegio si accendeva di rosso.
Forse quello era il suo momento preferito della giornata: l’ora di pranzo. Quando tutti andavano via, a mangiare da qualche parte in compagnia di qualcuno, lasciandolo finalmente solo nella sua quiete. Qualche volta riusciva anche a schiacciare un pisolino, ma quello era un lunedì di Dicembre e gli studenti erano nel pieno degli esami, quindi dubitava che per quella volta avrebbe potuto chiudere gli occhi per completare le sue giornaliere 5 ore di sonno.
Edward conduceva una vita decisamente stancante, ma non aveva nessuno con cui condividere quel dettaglio. I suoi segreti li confidava soltanto ai libri di quella biblioteca in cui faceva l’impiegato. Trovare quel lavoretto era stata una fortuna, buona paga e orari comodi, ma tutta quella polvere lo faceva impazzire.
Per il resto, non era un lavoro troppo pesante, ma sapete com’è, andare avanti e indietro tra gli scaffali alla ricerca di libri che non aveva mai letto -  nascosti chi sa dove - e poi riordinare tutti i libri restituiti, poteva diventare faticoso, soprattutto in quel periodo dell’anno. Spesso e volentieri usciva da lì stanco morto, abbastanza da poter rinunciare a tornare a casa e dormire lì, ma non glielo permettevano. La parte che più odiava di quel lavoro, era il contatto con le persone. Non era un tipo molto socievole, non gli piaceva parlare, a dire il vero non gli piacevano gli esseri umani. E si vedeva.
Non parlava mai con nessuno, evitava di aprire la bocca il più possibile, probabilmente agli occhi degli altri era soltanto il tizio strano al banco dei prestiti della biblioteca, quello col muso lungo, i capelli rossi e le occhiaie. A lui, comunque, non importava. Non voleva avere a che fare con nessuno, gli esseri che trovava quando tornava a casa gli bastavano ad annullare qualsiasi voglia di socializzare con altri esseri viventi.
Era sempre in mezzo alla gente, ma era solo. L’unica persona per la quale rimaneva ancora in quella città era sua nonna, che a 80 anni suonati aveva ancora la forza di dirgli che la vita è bella e che il suo futuro era luminoso. Probabilmente avrebbe dovuto portarla a fare una visita oculistica. Tutt’al più nel suo futuro c’era quella biblioteca polverosa.
Da quando sua madre era morta, aveva abbandonato il suo sogno di cantare. Non appena ebbe ottenuto il diploma, il suo patrigno lo intimò di cercarsi un lavoro, altrimenti lo avrebbe cacciato fuori dalla sua stessa casa, ritrovandosi così con un idiota, suo figlio e sua nonna sulle spalle. Era stato un amico di suo padre a trovargli quel posto e lui, messo così alle strette, non potè che accettare la proposta.
Era ironico per lui lavorare in mezzo a una miriade di libri ed essere una cenerentola in piena regola, come se fosse sceso da uno scaffale e si fosse messo lì a fare le pulizie, esattamente come aveva sempre fatto.
Era la sua vita. Non poteva farci quasi niente.
Mentre le ragazze e i ragazzi uscivano dalla sala tiepida, vide il suo fratellastro avanzare a grandi falcate verso di lui, camminando sul vecchio pavimento in cotto.
Era del tutto fuori luogo in quel posto: capelli e occhi neri, giaccone nero, stivali ancora più neri. Non era esattamente un tipo da biblioteca, mettiamola così, lui preferiva definirlo un pipistrello con la faccia di un ragazzo, ma era viscido esattamente come sembrava.
Si alzò dal suo sgabello alto e si avvicinò al bancone.
  • Ehi, idiota. – fece quello. – Si può sapere perché non sei a casa a preparare il pranzo?
  • Ciao anche a te, Jef. – rispose, mettendo nel suo tono un’ironia e un sarcasmo che il suo fratellastro non sapeva mai cogliere. – Sai com’è, sono a lavoro.
Jeffry non era un tipo molto intelligente, la sua stupidità era direttamente proporzionale alla quantità di collane che portava al collo. Ed erano tante.
  • E chi mi prepara il pranzo? – disse, allargando le braccia in segno di protesta.
  • Indovina un po’, Jef? – rispose, trattenendo una risata sotto i baffi. – Tu.
Lo indicò con l’indice e quello strabuzzò gli occhi, sconvolto dal fatto che avrebbe dovuto prepararsi il pranzo da solo. Ed – come lo avevano sempre chiamato – attese la monotona reazione del fratellastro: lasciar cadere la braccia, roteare gli occhi, sbuffare sonoramente e andare via, protestando per la sua incompetenza.
Fece un sospiro, stanco persino di chiamarlo ‘idiota’ nella sua mente e si portò una mano al collo, strofinando sulla nuca per cacciare via quel brivido che gli dava averlo a meno di due metri di distanza. La loro convivenza non era esattamente pacifica.
Non che lui fosse un tipo esile, ma non riusciva a fare certe cose senza che la sua coscienza non lo rimproverasse e alla fine glielo impedisse. Un giorno tutto quello strazio sarebbe finito – o almeno così sperava.
Afferrò il suo giaccone blu e lo infilò, mentre oltrepassava il bancone per dirigersi all’esterno, a godersi quella pausa pranzo mangiando qualcosa. Prese le chiavi della porta principale facendole tintinnare, poi le infilò nella toppa, diede un paio di mandate e uscì fuori.
Il suo respiro si trasformava in vapore sotto quel cielo grigio. Guardò in alto, sperando che non cominciasse a nevicare e – ovviamente – un fiocco di neve gli si posò proprio sulla guancia. Non che avesse qualcosa contro quel fenomeno atmosferico così apprezzato dai più, ma lui non aveva una macchina ed era costretto a girare in bicicletta. Non era divertente cadere a causa del ghiaccio.
Prese un profondo respiro ed infilò le mani in tasca, avviandosi dall’altra parte della strada. I marciapiedi curati e i lampioni in ferro battuto di quella piccola cittadina, rendevano quel luogo così accogliente che quasi gli dispiaceva odiarlo, ma non poteva farci niente. Desiderava soltanto dimenticare ogni cosa e voltare pagina per sempre.
 
Entrò nella caffetteria poco distante da lì e lasciò che il calore lo accogliesse, insieme allo scampanellio della porta. Salutò il proprietario con un cenno della mano e andò a sedersi al solito tavolo, in fondo alla sala. Ordinò il solito, mentre si stringeva nel suo vecchio maglione.
Era un cliente fisso di quel caffè da quando aveva cominciato a lavorare alla biblioteca e tutti, lì dentro, sapevano chi fosse, eppure l’unica persona che lo salutava era il proprietario. Sapeva di avere un’aria poco rassicurante, sempre così taciturno e cupo, ma a lui non faceva differenza. Mangiò da solo, guardandosi intorno per vedere chi degli habitué fosse presente: c’era il nerd con uno dei suoi libroni, la barbie col rossetto rosa, la vecchia signora col suo barboncino minuscolo e il solito gruppetto che sembrava il trio di Harry Potter appena uscito da scuola, con la solita tazza di cioccolata calda davanti. Mancava ancora qualcuno, ma probabilmente sarebbero arrivati a breve, più o meno quando lui si sarebbe alzato per tornare ad aprire la vecchia topaia. Invece si sbagliava: era stato un illuso a pensare di conoscere alla perfezione ogni movimento di quel posto a quell’ora, poiché proprio in quel momento stavano entrando due persone che non aveva mai visto.
Una ragazza spinse la porta, chiedendo alla persona dietro di lei se stesse bene e capì perché quando vide l’enorme pancione che portava davanti. Augurarono il buongiorno al personale e si diressero al tavolo accanto alla vetrata.
Fecero cadere un po’ di neve a terra, mentre sfilavano i cappotti.
Distolse lo sguardo, pensando che lui non si sarebbe mai seduto in un posto così esposto ed illuminato. Prese un sorso d’acqua per inghiottire l’ultimo boccone del suo panino e alzò di nuovo lo sguardo, consapevole del fatto di essere invisibile agli altri. Nessuno mai lo notava, quindi era libero di osservare la gente senza essere disturbato. Si soffermò su quella nuova presenza e analizzò la sua figura. No, non l’aveva mai vista, nemmeno in biblioteca.
Bassina, gambe sottili, capelli lunghi, non aveva un’aria familiare, ma sembrava una tipa a posto: aveva il suo permesso di frequentare quel posto.
Sorrise a se stesso per quell’assurdità e guardando l’orologio, decise che era ora di alzarsi. Mentre scioglieva le gambe dal loro intreccio, afferrò il cappotto e si alzò. Passò davanti a quel tavolo, ma non degnò nessuno di uno sguardo, dirigendosi prima alla cassa e poi direttamente alla porta. Andò via con la convinzione che nessuno lo avesse notato, ma due occhi verdi presero a seguirlo oltre la vetrata.
 
Quella sera doveva suonare in un locale in periferia e nevicava come se Dio stesse lanciando tonnellate di coriandoli tutte su quella città. Le strade si erano già imbiancate e la sua bicicletta non era al coperto. Terminò di risistemare i libri più in fretta che potè, altrimenti sarebbe arrivato in ritardo per preparare la cena. Non sapeva cucinare bene, come ci si aspetta da un uomo, quindi era giunto alla conclusione che il suo patrigno si divertisse a rendergli la vita impossibile ed era effettivamente così, dato che lui era l’unico a lavorare in casa e doveva mantenere tre persone adulte, occupandosi anche delle faccende e dei pasti. Negli anni era diventato una brava massaia, ma non abbastanza da farsi piacere quella fatica e quella casa.
Dato che ci era cresciuto, lì dentro, aveva almeno i ricordi di sua madre che la mattina preparava i toast con la marmellata di more o di suo nonno che gli insegnava a giocare a battaglia navale. Quei fantasmi e sua nonna, erano la sua unica consolazione.
Con quel pensiero nella mente, posò l’ultimo libro di letteratura inglese e si fiondò fuori dal portone. Tolse la piccola montagna di neve che occupava il sellino e pregò di arrivare intero a casa.
L’aria era gelida. Sentiva le guance subire il pizzicore provocato dal freddo, come lame di coltelli, dovette concentrarsi per non chiudere gli occhi lacrimanti. Era già stanco. Non sapeva come avrebbe fatto ad arrivare alle 3:00 della mattina successiva, ma avrebbe dovuto farcela.
Lungo le strade illuminate, le automobili gli sfrecciavano accanto, incuranti del fatto che fosse un povero ragazzo in bici sotto una tormenta.
Per fortuna il cancello davanti casa sua non era stato ancora bloccato dalla neve. Il grande vialetto che portava alla sua piccola villa, l’eredità di suo nonno, portava i segni di alcune impronte. Avevano ospiti?
Superò il colonnato antistante la casa, mettendosi al riparo sotto la veranda. Quando entrò dalla porta, sentì il suo patrigno che parlava con qualcuno, ma non aveva idea di chi potesse essere. Non riusciva a distinguere le parole dell’uomo che stava parlando, così si fermò per un istante ad ascoltare, ma il rumore dei passi di Jef che scendeva le scale, lo costrinse a rivelare la sua presenza, altrimenti avrebbero capito che stava origliando. Ancora una volta, si sentì prigioniero in casa sua. Annunciò il suo arrivo, facendo rimbombare la sua voce sulle pareti dell’ingresso. Jef lo vide sulla porta e rimase in silenzio appoggiato alla ringhiera delle scale. Non ebbe il tempo di ragionare che il suo patrigno e l’uomo misterioso uscirono dal salotto. Continuarono a parlare, ignorandolo. Nemmeno i suoi capelli rossi attirarono l’attenzione dell’uomo anziano che, dopo un saluto veloce, uscì fuori in mezzo alla tormenta.
  • Finalmente.
Ben, l’uomo che proclamava di essere suo padre, scuriva lo sguardo dall’altezza del suo metro e novanta. Alzò i suoi occhi chiari per incontrare il suo sguardo e non rispose, rimanendo immobile al suo posto.
  • Che cosa stai aspettando? Ho fame.
Quell’uomo, una cinquantina d’anni, era la persona più oscura e crudele che conoscesse. Quella sera evidentemente era di buon umore, altrimenti sarebbe ancora lì a ricordargli che la sua esistenza era superflua e che sua madre avrebbe fatto meglio ad abortirlo.
Ovviamente sapeva che non era vero, ma il solo fatto che un uomo del genere osava pronunciare il nome di sua madre gli dava il voltastomaco. Si tolse il cappotto, scoprendo le spalle larghe. Il fatto di essere più basso di lui di 15 centimetri, faceva svanire qualsiasi vantaggio il suo corpo gli offrisse.
Nel giro di 20 minuti preparò la prima cosa che trovò in cucina, inghiottì la sua porzione seduto accanto al camino e volò in camera sua a prendere la chitarra.
La sua stanza sembrava un campo di battaglia, prima o poi avrebbe dovuto riordinarla altrimenti ci si sarebbe perso dentro. Forse uno di quei giorni avrebbe trovato il tempo di lavare i suoi vestiti e magari di stirare una camicia, ma in quel momento si preoccupava solo che la tormenta finisse per permettergli di uscire da quell’inferno e percorrere quei 13 chilometri che lo separavano dal locale. Se fosse rimasto un minuto di più, avrebbe rischiato di uscire di lì in ritardo e con un occhio pesto. Ben aveva aperto la sua nuova bottiglia di gin e lui non voleva partecipare alla festa.
 
Aveva i piedi bagnati e congelati, sperò di non prendersi la febbre, sarebbe stata una tragedia. Quando entrò, il barista gli diede indicazioni su dove mettersi, guardandolo con sufficienza, come se poi lui fosse un uomo di mondo, chiuso in quella bettola in vecchio stile, con le luci soffuse e il bancone ancora in legno. Si diresse allo sgabello posto al centro di una minuscola pedana, collocata in un angolo del locale. Un faretto giallo era puntato proprio su di lui, mentre abbandonava il cappotto pieno di neve a terra e si toglieva la brina dai capelli.
Era sabato e quel posto aveva una certa clientela, evidentemente la tormenta aveva portato la gente a chiudersi nei locali. Era raro per lui avere un pubblico che superasse le 20 persone, quindi quella cinquantina gli sembrò una folla, ma quando si trattava di musica non si faceva intimidire da qualche persona in più. Non ci doveva mica parlare.
Testò il microfono che, come gli succedeva sempre, fischiò facendolo sembrare uno sfigato. Non capiva perché avesse quella sensazione: era colpa del microfono, mica sua.
  • Ciao, - si fece coraggio – sono Ed Sheeran e questa sera vi terrò compagnia per un po’. Buona serata a tutti.
Strinse l’ultima chiave della chitarra e provò l’accordo. Quella melodia che lo aveva stregato da bambino e che lo aveva tenuto lontano da tutto e da tutti, ancora una volta costituiva la sua finestra su quel paradiso in cui non esistevano Ben o Jef o qualunque altro essere vivente che avesse intenzione di fargli vivere l’inferno in terra. Quando cantava era un uomo libero.
Per un attimo la sala si zittì quando prese un respiro e cominciò a cantare una sua canzone, ma ben presto la gente tornò a chiacchierare. Odiava che la gente non facesse silenzio, ma d’altronde non erano lì per lui, era lui che era lì per loro e per quei miseri spiccioli che gli avrebbero dato 6 ore dopo.
Era abituato a non curarsi del fatto che la metà delle persone non lo ascoltasse affatto, ma sperava sempre che qualcuno lì in mezzo apprezzasse almeno un po’ le sue dita sulla chitarra e le sue parole riversate in musica, perché erano quelle canzoni a tenerlo vivo e magari qualcuno se ne sarebbe accorto.
Con i soldi di quella sera avrebbe potuto comprare una una loop station e fare una musica più d’effetto e magari avrebbe potuto chiedere un po’ di più per un’intera serata di spettacolo.
Non sempre le sue canzoni catturavano la folla, quindi spesso si dedicava a cover di pezzi famosi ed era allora che la gente si divertiva, ma la serata passava più lentamente.
A volte si chiedeva cosa vedesse la gente, quando guardava verso quel ragazzo così strano, jeans calanti, maglione scuro, Vans al piede. Come appariva agli occhi degli altri?
Era lo stesso Edward che vedeva lui allo specchio?
Di certo non si distingueva dalla massa per la sua vivacità.
Ad un certo punto della serata, gli si avvicinò il cameriere con il vassoio poggiato sul palmo della mano.
  • Qualcuno ti manda una birra! – urlò quello, per tentare di farsi sentire oltre quel chiacchiericcio.
Doveva avere un’espressione sconvolta, perché il cameriere lo fissò mentre gli tendeva la bottiglia, in attesa che lui la prendesse. Si scosse dai suoi pensieri e l’afferrò, guardando il vetro luccicare alla luce del faretto.
Non gli era mai capitata una cosa del genere, non sapeva cosa pensare.
Alzò lo sguardo sul locale gremito, pensando di incontrare lo sguardo del mandante, ma non avvenne, così si limitò a dire qualcosa al microfono.
  • Grazie per la birra, chiunque tu sia. – alzò la bottiglia alla salute dello sconosciuto e prese un sorso. Era la sua preferita.
Per qualche motivo, continuò a vagare con lo sguardo tra la gente, cercando di individuare il possibile benefattore, ma non aveva la minima idea di chi potesse essere o se fosse ancora lì. Non che gli dispiacesse che qualcuno gli avesse offerto una birra, ma era una cosa che non gli capitava mai e il suo inconscio lo portava a chiedersi cosa ci fosse dietro quel gesto, quale richiesta, quale pretesa.
Non aveva mai avuto nulla di gratuito in vita sua e non si aspettava che sarebbe accaduto mai, ma per quella volta volle godersi la birra fresca in quel posto caldo.
Quando la gente cominciò ad andare via, erano le 2 del mattino e aveva le dita che gli facevano male. Mezz’ora dopo scese dallo sgabello e per inerzia prese i soldi ed uscì fuori. Nevicava ancora, ma la bufera era finita. Si allacciò bene il cappuccio in testa e si assicurò la chitarra in spalla, per percorrere quei 13 chilometri nel buio e nella desolazione di una notte di Dicembre nell’hinterland inglese.
Quando finalmente superò la porta d’ingresso di quella casa, desiderò uscirne immediatamente sentendo i passi di Ben raggiungerlo all’ingresso. Era troppo tardi per scappare in camera sua.
  • Si può sapere che fine hai fatto?
L’odore dell’alcool si sentiva da metri di distanza. Fece un passo verso la prima via di fuga che vide, ma quello si mosse inconsapevolmente nella stessa direzione.
Ebbe la sensazione che qualcuno volesse fargli pagare quella birra gratis.
  • Ti ho detto che prima di andare via devi lavare i piatti, altrimenti…
Era sempre così. Quell’idiota si ubriacava e non vedeva l’ora che tornasse a casa per sfogarsi su di lui.
  • Sei l’essere più inutile che conosca. Maledetto ragazzino, tua madre avrebbe fatto meglio a lasciarti a qualche istituto.
Sentiva l’ansia assalirgli il petto mentre Ben faceva un altro passo verso di lui. Prese un profondo respiro, senza distogliere lo sguardo dal suo corpo oscillante. Rideva, mentre la distanza tra loro diminuiva. Sapeva già come sarebbe finita.
Quello si scagliò su di lui: lo prese per una spalla e lo bloccò contro il muro. Ben era più forte di quanto sembrasse e lui era troppo basso e troppo stanco per riuscire a liberarsi da quella morsa. Infondo, lui era un ex lottatore.
Il pugno nello stomaco arrivò forte come un’auto in corsa, facendolo piegare in due subito dopo. Con la vista appannata fece un passo in avanti e lo superò appena in tempo per evitare il secondo colpo. Trascinò la sua chitarra su per le scale, ma quando fu quasi fuori la porta della sua stanza, Ben riapparve come dal nulla e gli mollò un altro cazzotto in pieno viso. Lo spinse via, approfittando della sua ubriachezza e riuscì a rifugiarsi in camera. Prima ancora di pensare al dolore, chiuse la porta a chiave e si lasciò andare a terra, pregando che quella vita finisse in fretta.
Ben continuava a sbraitare fuori dalla porta, urlandogli di essere una maledetta spina nel fianco.





Angolo autrice:

Salve gente! Dopo Afire love non ho saputo resistere e ho cominciato a scrivere un'altra storia.
Mi auguro di non deludere le aspettative di chi ha letto la precedente, spero che questa malsana idea sia sensata e che io abbia la lucidità di portarla a termine, ma sono ancora in alto mare.
Che dire, che ve ne pare? Qual è la vostra prima impressione?
Ovviamente, aspetto le vostre recensioni piene di consigli e correzioni, mi raccomando!
Tempo al tempo, la storia andrà avanti.
Al prossimo capitolo! :)

S.
  
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