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Autore: Francine    06/07/2015    3 recensioni
«Ti ricordi quel libro che leggevi tempo fa?»
«Quale?», gli domanda Mia.
«Quel racconto di quella ragazza che ha perso il fidanzato in un incidente d’auto…»
Mia aggrotta le sopracciglia. Fissa i begli occhi verdi di Aiolia e poi BANG, ricorda. La storia di Hitoshi, del campanellino e di una misteriosa ragazza di nome Urara. «Intendi Moonlight Shadow?»
Aiolia annuisce.
«Sì. Ho incontrato Françoise mentre stava leggendo quello stesso racconto.»
«Gliel’ho consigliato io.»
«Così le ho chiesto un parere… professionale, diciamo…»
«Professionale?»
«Sì. Le ho chiesto se, secondo lei, fosse possibile vivere un’esperienza simile. Il fenomeno… hanagata…»
«Tanabata», lo corregge Mia. Ricordandosi in quel momento che giorno sia, quello. Il sei di Luglio. Il pomeriggio del sei di Luglio, per l’esattezza. Tra poche ore il Guardiano e la Tessitrice si incontreranno sul ponte formato dalle gru, pensa Mia. Annaspando in un ricordo fatto di cartoncini di carta di riso appesi a canne di bambù e preghiere trasportate dal vento. «E lei che cosa ti ha detto?»
Genere: Malinconico, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leo Aiolia, Scorpion Milo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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Abstulit atra dies et funere mersit acerbo
(Publio Virgilio Marone, Aen, VI, 429)

 



 
 
Quando un tipo affascinante come Milo di Scorpio ti chiede di raggiungerlo al Kallistê, che fai, non ci vai? Certo che sì. E di corsa pure. Anche se il tuo cuore appartiene ad un altro e lui, Milo, è proprietà privata di una tua amica – pur se entrambi non l’ammetteranno mai e pure se non ti azzardi a fare alcuna prova perché la tua testa, tutto sommato, ti piace così com’è. Attaccata al tuo collo.
Il tuo lui – o quello che tu vorresti con tutto il cuore che fosse il tuo lui – da un po’ di giorni è strano. Assente. Distratto. Svagato. Col corpo ben piazzato su questa terra, ma con la mente – e forse anche il cuore – lontano anni luce, perso dietro chissà quale chimera.
Ecco, all’appuntamento con Milo ci vai proprio per quello. Per chiedere se lui, magari, conosce la natura dei pensieri che stanno attraversando la mente del tuo papabile lui. Uomini e donne sono diversissimi tra loro, ma entrambi si confidano i propri crucci. E con chi parli di un problema che ti affligge se non con un amico?
Così Mia è scesa a Rodrio, ha preso la corriera per Atene, si è attraversata mezza città con la maschera nella borsa e adesso si gode il fresco all’ombra delle fronde verdissime dei limoni. Davanti a lei, un paio di tazze di caffè a dividerli, Milo sorride; ma con le labbra, non con gli occhi, né col cuore.
«Grazie per essere venuta», le dice.
È la prima frase che pronuncia dopo averla scortata di gran carriera in un angolo appartato del giardino, sotto lo sguardo incuriosito di suo zio Kostas. E se il novanta per cento delle donne che abitano al Santuario – e pure qualche maschietto – si sarebbe sciolto in un trillante «Ma figurati!», Mia no. Mia coglie una vena amara nella voce di Milo. Una nota di sottofondo, come una boccata di acqua marina. Splendente, cristallina, freschissima. Ma salata.

«Grazie a te», ribatte. Perché l’educazione è tutto. «A cosa devo quest’invito?»
Un ghigno piega all’insù le labbra di Milo.
«A qualcosa che abbiamo in comune. Qualcosa che ci lega
Dritto come un fuso, affilato come un bisturi. All’improvviso, la sedia di Mia scotta. Un’altra, al posto suo, starebbe annaspando per la gioia. Lei, invece, annaspa perché no, non può credere che lui ci stia provando con lei, anche se una piccola parte del suo cuoricino – piccola, piccola, piccola – gongola. Perché insomma, Milo è un bel ragazzo. Altroché se lo è. Ma le basta pensare ad Aiolia e al suo sorriso per un secondo e puff, Milo è spazzato via, come una foglia secca che danza nel vento di Ottobre. Eclissato, cancellato, dimenticato. Come se non fosse mai esistito.
Eppure Milo è lì. Davanti a lei. Con il migliore dei suoi sorrisi lusinghieri e le peggiori intenzioni possibili.
Non è vero. Non può essere vero. Qualcuno mi dica che è tutto un sogno!, pensa. Dandosi dei pizzicotti sotto al tavolo. Niente. Deve essere uno scherzo. Uno di quelli che fanno sbellicare i carnefici e imbufalire le vittime. Ma nessuno esce dal ristorante gridando «Ci sei cascata!», o qualcosa di simile.
«Milo, io…»
«Oh, lo so che ti piace Aiolia. Che pendi dalle sua labbra. Se ne sarebbe accorto anche un cieco, cosa credi?»

Quindi?, si domanda Mia, sentendosi come la mosca intrappolata nella ragnatela, che più si dimena, più resta invischiata.  Credeva che Milo volesse un consiglio per un regalo, o qualcosa del genere – il compleanno di Phi è tra pochi giorni, dopo tutto – non che stesse per sganciarle sulla testa una tonnellata di piombo.

«È di Aiolia che volevo parlarti.»
«Parla, allora», gli dice – gli ordina. Con gli occhi allargati e le orecchie ben aperte. Quello che gli dirà non sarà piacevole – o Milo non avrebbe quell’espressione da cane bastonato – ma come dice sempre lo stesso Aiolia, «Via il dente, via il dolore.».
«Ho notato che in questi giorni mademoiselle è strana…»
Ma non dovevi parlarmi di Aiolia?, si chiede Mia. Poi il senso del discorso la centra in pieno, come un diretto allo stomaco. Inaspettato. Improvviso. E tutto perché ha abbassato la guardia. Deglutisce.
«Definisci strana…»
«Ridacchia. Ha la testa da tutt’altra parte. Quando le parlo cade sempre dalle nuvole…»
Che c’è di diverso dagli ultimi mesi?, vorrebbe chiedergli Mia; ma il buonsenso le suggerisce di tacere. E ascoltare il resto.
«Anche oggi, durante gli allenamenti. Era deconcentrata, lontana, disattenta, sovrappensiero.»
«Capita», dice Mia. Perché l’altro tace, come per darle l’attacco per la sua battuta.
«Non quando sei nell’arena.» Una manata sul tavolo, il caffè beccheggia nelle tazze e il tono di Milo si alza di poco. «Cavolo, stavo per…»
Silenzio.
«Stavo per farle male sul serio. E tutto perché lei guardava altrove…»
«Chi?», domanda Mia.
«Aiolia.»
 

Aiolia trasecola quando lei lo prende sottobraccio. Come se qualcuno lo avesse centrato in pieno con una secchiata di acqua freddissima. Che fa anche piacere quando fuori ci sono trentacinque gradi all’ombra, ma non quando ti bagni. Solo dopo. Quando riprendi a respirare.
«Ma che fai?», le chiede guardandosi attorno. Disperato. La gente non sembra interessata alle loro effusioni. Qualcuno si gira, più attirato dal suo tono di voce che dalla scena in quanto tale, ma è solo un attimo, e poi riprende a camminare per la propria strada, nella calca di Odos Ermou. «Non qui. Potrebbero vederci!»
«Chi?»
«Tutti. Non vedi che ci stanno già guardando?»
«E allora?», ribatte lei. «Lascia che guardino.» E posa la testa sulla sua spalla.
«Non possiamo! La gente…»
«Uff! Come sei noioso!» Françoise si stacca da lui, pur restando saldamente ancorata al suo braccio. «Cosa abbiamo detto riguardo a quello che pensa o non pensa la gente?»
«Cos’hai detto tu», ribatte Aiolia. «Il Santuario è un covo di pettegole e io non voglio dar loro corda…»
Françoise sospira.
«Qui non siamo al Santuario, Aiolia. E i pettegoli sparlano di mestiere, a prescindere da quello che fai o non fai.»
«Sì, ma…»
«Sì, ma, sì, ma…», lo interrompe lei. Facendogli il verso. «Aiolia, due persone che si amano passeggiano sottobraccio. O mano nella mano. Mettiti il cuore in pace!»
«Anche con questo caldo?»
«Anche con questo caldo.»
«E va bene», dice. «Cos’altro farebbero due fidanzati?», le domanda. Regalando un velo di rossore alle sue guance.
«Non in pubblico, tesoro», si schermisce lei. «Non in pubblico.»
Aiolia sospira.
«È odore di zucchero filato, questo?», chiede lei.
Aiolia annusa l’aria. Sì, è l’inconfondibile aroma dello zucchero riscaldato quello che gli arriva da una decina di metri davanti a loro.
«Sì», dice. Ricevendo un’occhiataccia ed un broncio. «Che succede?»
«Aiolia, quando la tua fidanzata ti chiede se è l’odore dello zucchero filato quello che sente, tu dovresti rispondere “Sì. Ne vuoi un po’, amore?”.»
«Ah», boccheggia lui. «Ne… ne vuoi un po’, a… amore?»
«Più sciolto. Non ti mordo mica.»
«Sì. È zucchero filato. Ne vuoi un po’ amore?»
Aiolia è sempre rigido come un manico di scopa.
«No, grazie…» Pausa. «Adesso dovresti insistere.»
Lui la fissa come se le fosse spuntata una seconda testa. «Come, insistere? Non hai detto di no?»
«No. Cioè, sì. Noi ragazze diciamo sempre di no, anche quando vorremmo dire di sì. Per non sembrare ingorde, capisci? La moderazione e tutte quelle cose lì. Quindi tu, adesso, devi insistere. Piano piano.»
«Insistere?»
«Sì. Insistere. Santo cielo, ma ti devo spiegare proprio tutto?!»
«Scommetto che Milo…»
«Milo è un problema mio. Non tuo.»
Il tono di voce di Françoise è duro come l’acciaio.
Aiolia sospira.
«Andiamo», le dice. Prendendo a camminare con lei sottobraccio, e svanendo tra la gente a passeggio per il centro di Atene.
 
«Allora? Sei ancora convinta che stessi esagerando?»
Milo non la guarda in faccia. Tiene gli occhi sulla folla – sulla testa di Aiolia che svetta nella calca – con una luce cattiva ad incupirgli gli occhi. Che hanno assunto il colore dell’acciaio.
Mia non risponde. Non sa cosa dire. Perché no, non credeva possibile che. Pensava fossero paranoie di Milo, i dubbi di un innamorato geloso, tutto qui. A volte succede che un uomo ed una donna si prendano, senza che vi sia tensione sessuale tra di loro – che c’è, invece, ma entrambi sono bravissimi a sublimarla in un’affinità elettiva. Succede. Certo. Non c’è nulla di cui preoccuparsi, si è ripetuta tornando al Santuario. Ma poi Mia ha sentito Aiolia parlare con qualcuno. Un appuntamento concordato sottovoce. A mezza bocca. Come fosse una riunione tra congiurati o una faccenda tra liquidare nel segreto del confessionale. Peccato che Françoise non assomigli affatto ad un sacerdote, pensa la ragazza, tirando su col naso. Non deve piangere. Non può. Non prima di avergliene cantate quattro. A tutti e due. Anche a costo di rendersi ridicola.
«No», dice a Milo. «La situazione è ben più complicata di quello che temessi.»
«Già», commenta lui. Sputando fuori quella singola sillaba come se fosse un grumo di fiele. «Andiamo. Non voglio perderli di vista.»
Perderli di vista?
Mia non capisce. «Aspetta», gli dice. «Che intenzioni hai?»
«Osservare la situazione», ribatte lui, anche se nel suo sguardo ci sono ben altre intenzioni. «Così da avere le idee più chiare.»
«Più chiare di così?», gli domanda, prima che il suo sguardo la geli.
Milo le fa paura, ma non tanto per il sentimento che lo sta animando in questo momento – vendetta, pura e semplice – quanto per il rumore che sente provenire dal suo cervello. Sta macchinando qualcosa. Un piano, un sistema per affondare il coltello in profondità. Un altro, al posto suo – Seiya, ad esempio – avrebbe seguito i due fedifraghi e li avrebbe colti con le mani nel sacco. Avrebbe fatto loro una scenata. Avrebbe richiesto spiegazioni.
Milo no.
Milo non è Seiya, che parte a testa bassa come un toro davanti ad un fazzolettone rosso.
Milo riesce a mantenere la lucidità e la freddezza necessarie per sferrare il suo attacco quando la vittima – quando la preda – meno se lo aspetta. Per farle male. Il più possibile. E anche se la parte più istintiva di lei sposerebbe in pieno l’iter dello Scorpione – parte che le sta chiedendo cosa diamine aspettino a seguirli e a cantargliene loro quattro – qualcosa, dentro di Mia, l’avverte del pericolo che Milo rappresenta in questo momento. Un pericolo subdolo. Sotterraneo ed imprevisto. Che può colpire da un momento all’altro, senza alcun preavviso. E questo la terrorizza.
 

«Ancora?»
Lo sguardo di Aiolia è quello di chi invoca pietà. Françoise nemmeno gli bada. Lo afferra per il polso e se lo tira dietro, nel fruscio dei pacchetti e nel ticchettio d’ordinanza che ha scandito la loro passeggiata lungo il viale ateniese.
«Sono stanca», esclama. Entrando in un grande magazzino e dirigendosi verso gli ascensori. «Mi ci vuole un buon tè freddo. Non credi anche tu, tesoro?», e ancheggiando nei suoi shorts rosa confetto preme il pulsante. «La caffetteria è all’ultimo piano», dice. A voce alta.
«Sono qui. Non c’è bisogno di gridare.»
Aiolia riceve un lampo di rossetto rosa acceso come risposta, poi le porte d’acciaio si aprono e lei se lo tira dietro.
«Vieni, amore. Ho voglia di …»
Aiolia è rosso come una fragola matura quando le porte dell’ascensore si richiudono, lasciandoli da soli.
«Io li ammazzo», ringhia Milo, nascosto sotto un berrettaccio che ha visto tempi migliori.
Mia tace. Il groppo in gola le impedisce quasi di respirare. Pensa solo che no, non è giusto. E no, non vale. E no, non gliela dovevano fare questa carognata. Perché Aiolia potrà anche non sapere dei suoi sentimenti per lei, ma Phi sì. Phi lo sa. Li conosce. Non è stata lei ad insegnarle come fare i cioccolatini? Non è stata lei a dirle «Che razza di giapponesina sei se non prepari il cioccolato al ragazzo di cui sei stracotta?», strizzandole l’occhio?
Sì, che è stata lei.
E questo, per Mia, è inaccettabile.
«Andiamo», dice a Milo. Dirigendosi verso le scale mobili. «Affrontarli è l’unica soluzione.»
«No.»
Milo fissa con rabbia l’ascensore, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni.
«No?»
«No. Ho visto abbastanza.»
«Vero. Ma ci devono una spiegazione.»
«E tu crederesti ad una sola parola che esce dalle loro labbra?» Il sorriso beffardo di Milo le dice che per lui la faccenda è oltre ogni possibile soluzione. «Mi hanno già preso in giro abbastanza.»
«Se chini la testa, ti avranno preso in giro!», ribatte Mia. «Non vuoi almeno toglierti la soddisfazione di coglierli con le mani nel barattolo della marmellata e cantargliene quattro?»
Milo soppesa le sue parole. Lo sguardo ridotto a due fessure azzurrissime, la mascella serrata, osserva qualcosa sul viso di Mia – attraverso il viso di Mia. «Massì», le concede, alzando la tesa del berretto da baseball azzurro stinto. «Sentiamo un po’ cos’hanno da dire, quei due…», le dice. Prendendola sottobraccio. Facendole schizzare il cuore in gola. E dirigendosi di gran carriera verso l’ascensore.
 

La caffetteria si trova davvero all’ultimo piano dell’edificio, un ambiente declinato in blu mare e bianco gesso, addobbato con greche a mezz’altezza e figure stilizzate. Un’atmosfera così patriottica da puzzare di trappola per turisti. Eppure Aiolia e Phi se ne stanno tranquilli e beati al loro tavolino davanti alla finestra panoramica che regala loro la vista sull’Acropoli. Una tazza di tè freddo, un caffè e due fette di torta allo yogurt. E una montagna indescrivibile di pacchetti e pacchettini dai colori vivaci tutti attorno a loro. La quintessenza dei fidanzatini, quelli usciti da un quadro di Peynet per intenderci.
Tubano. Guardandosi negli occhi. Imbarazzato lui, con le guance rosse lei, il Partenone sullo sfondo che sembra un sensale comprensivo.
Poi lei mormora qualcosa. Lui annuisce e lei si alza, lasciandolo da solo ad osservare il panorama.
«È andata alla toilette», dice Mia, vedendola sfilare tra i tavolini.
«Adesso o mai più.» Milo è nascosto dietro una colonna, un caffè nelle mani e le labbra livide. «Io mi occupo di mademoiselle
«No.» La testa di Mia torna indietro come se fosse caricata a molla. «Di lei me ne occupo io. Tu pensa ad Aiolia.»
«Perché?»
«Perché tu non puoi entrare nel bagno delle signore», e prenderla per i capelli e farle lo shampoo nel wc. «Io sì.»
Milo sorride.
«Sta bene. Voglio proprio sentire che scusa s’inventerà Aiolia…», dice alzandosi e abbandonando la propria tazzina di caffè sul tavolo. Intonsa. Mia lo guarda uscire dalla caffetteria, come a voler prendere una boccata d’ossigeno prima di immergersi in acque scure e limacciose. Cosa che toccherà fare anche a lei. Non può restarsene seduta al tavolino, come se niente fosse. Phi uscirà presto dalla toilette e Mia non può correre il rischio di incrociarla al tavolino. Davanti ad Aiolia. No, ha bisogno di un posto più appartato dove metterla con le spalle al muro e dirle…

«Spero tu abbia una scusa convincente per essertene andata a zonzo sottobraccio col mio fidanzato per tutto il pomeriggio, Madama Butterfly.»

Ecco. Una cosa del genere, pensa Mia, prima di alzare lo sguardo ed incontrare un sorriso pericoloso. Un lampo di rossetto rosa acceso che scopre una fila di denti bianchi e pronti a mordere. Quelli di Phi. Che la sta osservando, seduta di fronte a lei, lì dove si trovava Milo fino a pochi istanti prima, tamburellando le unghie sul tavolino con un’espressione indecifrabile.
E tu quando diamine sei arrivata?
 

«Possiamo spiegare tutto», dice Aiolia, lo sguardo serio e risoluto.
Mia vorrebbe andarsene lontano e rintanarsi da qualche parte per piangere. Non vuole sentire quello che teme che Aiolia dirà – confesserà – a breve. «Ci siamo innamorati l’uno dell’altra», questo dirà, aggiungendo che non è colpa di nessuno se le cose sono andate così. È successo e basta, come quando si buca una gomma o si inciampa su una radice sporgente. È successo.
Seduto al suo fianco, Milo serra la mascella in una morsa d’acciaio, gli occhi azzurri puntati su Phi. Se si potesse uccidere con lo sguardo, lo Scorpione li avrebbe pugnalati più e più volte, lasciandoli morti stecchiti sul selciato prima di affondare la lama ancora una volta. Così. Tanto per essere sicuri.
E Mia pensa che non è giusto. Pensa che non dovrebbe essere lei quella che mantiene il sangue freddo e la calma. Pensa che dovrebbe essere suo pieno diritto afferrare Phi per il collo e chiederle spiegazioni. Invece il buonsenso ha avuto ragione, ancora una volta.
Phi sorride, un lampo pericoloso come i fari di un’automobile che abbagliano i gatti e le volpi sulle strade buie.
«Oh, sì. Voglio proprio sentire cos’è che avete da dire, voi due…», e il tono dello Scorpione è basso, come il ringhio di una tigre in gabbia. «Sono sicuro che ci sarà una spiegazione più che plausibile per esserti strusciata addosso ad Aiolia per tutto il pomeriggio. Vero?»
«Cos’è? Sei geloso?», rilancia Phi, le labbra arricciate all’insù. Adesso Milo le afferra il naso e glielo storce, pensa Mia. Scoprendosi a sperare che lo Scorpione dia corpo a quella sua fantasia. E le faccia male.
«Milo, ascolta…»
«Taci, tu!», e i cucchiaini sussultano sui piatti. «Aspetta il tuo turno, ché ce n’è anche per te.»
«Vuoi farmi credere che ci avete seguito sottobraccio per tutto il pomeriggio per spiarci?», domanda Phi, le braccia conserte e l’aria annoiata del gatto che s’è stufato di baloccarsi col topo.
«Sì», sibila Milo. Assumendo la sua stessa posizione.
«E non potevate chiedere?», rilancia lei.
«Per cortesia! Abbi almeno rispetto per la mia intelligenza!»
Phi si lascia scappare un sospiro di troppo. «Si ascolta in silenzio, Milo.»
«E cos’è che dovrei sentire, eh? Le vostre patetiche scuse?!»

«Adesso basta!»

La voce di Aiolia risuona ferma nel locale. Gli altri avventori si voltano verso quel quartetto eterogeneo seduto davanti alla grande finestra panoramica sotto lo sguardo curioso ed un po’ distaccato del Partenone ed una montagna di pacchetti e pacchettini a far loro da coro. Poi ognuno ritorna alle proprie occupazioni, stornando lo sguardo. Non si ammazzeranno. Non qui e non subito, almeno.
Mia fissa la superficie bianchissima del tavolino, i pugni serrati e una gran voglia di piangere che ricaccia a fatica in gola. Sente lo sguardo di Aiolia su di sé. Teme che di lì a poco le chieda cosa ci faccia lei, lì. Passi Milo; ma Mia? Che ci fa lì, la sua allieva? Con quale diritto s’è permessa di seguirlo – di pedinarlo – di farsi i fattacci suoi? Nessuno. Ed è questo che aggiunge un’ulteriore boccata di fiele al groppo che tenta di mandare giù.

«La colpa è solo mia», dice Aiolia. Serio. Serissimo. Il cuore di Mia perde un battito. Adesso lo dirà, pensa. Serrando l'anima in attesa della stilettata.
«Non è vero, Aiolia…»
«Per favore», le dice, riuscendo a far tacere anche le proteste di Phi. «Sono stato io a chiedertelo.»
«Chiederle, cosa?», domanda Milo, con voce incolore.
Aiolia e Phi si scambiano uno sguardo, poi il Leone si schiarisce la voce e risponde: «Volevo avere conferma di una teoria. Tutto qui.».
Tutto qui un corno!, grida lo sguardo azzurrissimo di Milo. «Oh. Una teoria. E c’era bisogno di tanto mistero?» Lo domanda più a Phi, che ad Aiolia. Guardandola con occhi spalancati ed increduli.
«Si tratta di privacy, Milo…»
«Privacy. Certo. Ovvio. Con te è sempre questione di privacy!» Milo sbuffa dal naso, come un toro che si appresta ad incornare il matador. «Ma ammesso e non concesso… come lo spieghi l’appuntamento di oggi pomeriggio?»
Mia affonda lo sguardo sul viso di Phi. Sopracciglio sollevato d’ordinanza e braccia conserte, sbuffa prima di rispondere: «Aiolia mi ha chiesto di verificare questa sua teoria. E per sdebitarsi ha accettato di accompagnarmi a fare shopping». Indica con il pollice la montagna di pacchetti e pacchettini in equilibrio precario sulla sedia a capotavola. «Ci sono i saldi. E siccome trascinare te in giro per negozi è come accostare il diavolo all’acquasanta, l’ho chiesto ad Aiolia.»
«Sì, ma perché sottobraccio?»
Tre paia di occhi si voltano verso di Mia. Che vince l’impulso di mordersi le labbra. E prega. Che il pavimento della caffetteria si spalanchi sotto alle sue chiappe e la terra la inghiotta in quello stesso istante.
Phi sorride. Il ghigno di chi sta per rifilare all’avversario una stoccata micidiale.
«Perché?, chiedi? Scusa, Mia, ma l’hai visto?», ed indica Aiolia con il pollice. «Quando mi ricapita di andarmene a spasso con un marcantonio così!»
Milo tamburella le dita sul tavolo. Lei lo ignora. Deliberatamente.
«Mi dispiace aver causato tutto questo trambusto», si scusa Aiolia. Glissando. Fissando lo Scorpione. Il quale sorride e piega la testa di lato, come un cagnolino che non comprende cosa voglia il suo padrone da lui.
«Capisco…», mormora Milo. «Ma, tanto per amore di conversazione, s’intende… Quale sarebbe questa tua teoria? Se è possibile chiedere, ovvio.»
«Si tratta di pura speculazione.»
«Non ti facevo così filosofico…»
«Non c’è niente di certo», s’intromette Phi.
«Ovvio, o non si chiamerebbe teoria, colombella», ribatte Milo. «Però mi avete messo curiosità. E sai cosa succede quando divento curioso, vero?»
«Ci stai minacciando, Milo?»
«Ci?! Siamo arrivati al ci, adesso?!»
Phi si alza.
«Andiamo a discuterne fuori», propone, allontanandosi dal tavolo a grandi passi e mitragliando il pavimento della caffetteria coi suoi tacchi. Milo la segue, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans ed il berrettaccio sulle ventitré. Mia è ancora confusa. Stordita. Come se si fosse svegliata da un lungo sonno incoerente.

«Ho combinato un pasticcio», sospira Aiolia, guardando fuori.
Mia non sa cosa dire. Non sa come affrontare la questione. Le dispiace che Aiolia non le abbia parlato di questa sua idea, ma ha paura che lui le dica che no, non sono fatti suoi e che chiuda lì la questione. Così Mia tace, mentre cerca di aggirare l’ostacolo, una montagna troppo alta da scalare che si frappone tra lei ed Aiolia.
«Questa tua teoria…», gli chiede, senza avere il coraggio di terminare la frase. Lo vede sospirare con la coda dell’occhio, lo sguardo perso ad osservare chissà cosa oltre il vetro opaco della caffetteria.
«Ti ricordi quel libro che leggevi tempo fa?»
«Quale?», gli domanda Mia.
«Quel racconto di quella ragazza che ha perso il fidanzato in un incidente d’auto…»
Mia aggrotta le sopracciglia. Fissa i begli occhi verdi di Aiolia e poi BANG, ricorda. La storia di Hitoshi, del campanellino e di una misteriosa ragazza di nome Urara. «Intendi Moonlight Shadow
Aiolia annuisce.
«Sì. Ho incontrato Françoise mentre stava leggendo quello stesso racconto.»
«Gliel’ho consigliato io.»
«Così le ho chiesto un parere… professionale, diciamo…»
«Professionale?»
«Sì. Le ho chiesto se, secondo lei, fosse possibile vivere un’esperienza simile. Il fenomeno… hanagata…»
«Tanabata», lo corregge Mia. Ricordandosi in quel momento che giorno sia, quello. Il sei di Luglio. Il pomeriggio del sei di Luglio, per l’esattezza. Tra poche ore il Guardiano e la Tessitrice si incontreranno sul ponte formato dalle gru, pensa Mia. Annaspando in un ricordo fatto di cartoncini di carta di riso appesi a canne di bambù e preghiere trasportate dal vento. «E lei che cosa ti ha detto?»
Aiolia si rigira la tazzina di caffè tra le mani. Tuffa il suo sguardo nella porcellana ombrata di fondi di caffè, come se in quelle macchie potesse leggervi chissà quale segreto. Poi le dice: «Secondo lei è possibile. Possibile, non probabile. Pensa che l’anima di Aiolos sia ancora qui, da qualche parte. A vegliare su Athena, capisci?»
«E come fa a dirlo?»
Mia teme che Françoise gli abbia rifilato una bugia a fin di bene. Uno zuccherino con cui mandar giù una medicina amara.
«Per il comportamento dell’armatura. Che sì, è senziente e viva e agisce di testa propria. Ma quando ho combattuto contro Seiya, a Tokyo, ho percepito lo spirito di Aiolos. E non era un’eco. Un residuo. Lui era lì. A proteggere Athena.»
«Ma allora perché non me ne hai parlato?»
 
Uno schiaffo a mano aperta avrebbe fatto meno male. Aiolia alza lo sguardo su di lei. Confuso. Mortificato. «Non volevo…», dice. Per poi tacere. E tornare a fissare la tazzina usata come se potesse trovarvi una risposta giusta da darle.
«Non importa», dice Mia. «Davvero, Aiolia. Non importa. Mi fa piacere sapere che questa cosa sia probabile. Dico davvero.»
Lui non risponde.
«E se invece…», mormora, più a se stesso che a lei. «E se invece non accadesse nulla?»
Le fa male vederlo così. Le fa male vedere il dubbio serrargli la mascella ed indurirgli il cuore. Assomiglia ad un gattino bagnato, non ad un fiero leone, pensa Mia. Che vorrebbe togliere quel tavolo di mezzo e stringere Aiolia tra le braccia e non lasciarlo andare più. E dirgli che andrà tutto bene. Che lei sarà lì con lui. Succeda quel che succeda. Anche se il fantasma di Aiolos non dovesse presentarsi all’appuntamento. Ma a Mia manca il coraggio di compiere quel passo. Così tutto quello che può fare è allungare una mano e chiudere le sue dita attorno al polso sinistro di Aiolia. Con delicatezza. Lui si irrigidisce, ma è solo un attimo. Poi è come se qualcosa si sciogliesse, dentro di lui, e Mia lo sente scacciare via tutti i dubbi, tutte le paure, tutte le incertezze assieme all’aria che espira piano piano. Lentamente.
«Françoise dice che… tanatanabata è stasera», No, è domani, vorrebbe correggerlo Mia, ma anche lei si ritrova ad indorargli la pillola. Annuendo.
«Avete già individuato un posto?», gli chiede. Tenendo le dita strette attorno al polso di Aiolia.
«L’Eridano, alle spalle del Ceramico», le risponde Aiolia. «Françoise dice che un posto vale l’altro, a patto che ci sia un corso d’acqua.»
«Ma l’Eridano di questa stagione è un rigagnolo», obbietta Mia. «Non sarebbe meglio scendere al mare?»
«No. Gliel’ho chiesto anche io, ma su questo è stata irremovibile. Serve un fiume perché è un fiume quello che separa i vivi ed i morti, ha detto. Dobbiamo oltrepassare l’Acheronte, no?»
«Quindi serve un simulacro dell’Acheronte?» Aiolia annuisce. «Ti dispiace se…»
«Dovrò farlo da solo, Mia.»
«Lo so», gli dice. Fermandosi a pensare per un attimo che tutto questo è semplicemente pazzesco. È solo un racconto, Mia. Poco più che una favola scritta da una ragazza con una fantasia sfrenata. Vuoi crederci anche tu?, si chiede. Rispondendosi che sì, vuole crederci. Perché un po’ di magia non ha mai ucciso nessuno. E se non dovesse succedere nulla, sarà come aver appeso i cartoncini di riso alle canne di bambù ed aver lasciato che il vento portasse le nostre preghiere fino alle stelle. «Vorrei provarci anche io. Se non ti disturba», gli dice.
Aiolia le scocca uno sguardo indecifrabile.
Non le chiede se c’è qualcuno che vorrebbe incontrare di nuovo, perché la risposta è ovvia. Sì che c’è. Qualcuno che vestiva sempre con un kimono scuro, la barba bianca e profumava di tabacco e acqua di colonia. Qualcuno che Mia ha ricacciato in fondo al cuore e che adesso la sta chiamando. Dal fondo di un pozzo oscuro e profondo.
«Nessun disturbo», le assicura Aiolia. Stornando lo sguardo verso la porta della caffetteria. «Non sono tornati», dice. Con voce incolore.
Mia sbatte le palpebre. Giusto. Milo e Phi se le staranno cantando di santa ragione, in qualche vicolo riparato. «Andiamo a cercarli? Non vorrei che si fossero saltati alla gola, nel frattempo.»
«Non credo le abbia tirato il collo», ribatte Aiolia. «Si terranno il muso per un po’ e poi faranno pace» aggiunge, indicando con la spalla una busta rosa acceso. Quella del più caro negozio di lingerie della città.
«Non dirmi che…»
«Nossignore!», si schermisce lui. Arrossendo. «Mi ha chiesto un consiglio su un colore e stop. Io l’ho aspettata in un salottino. Ha fatto tutto da sola. Sarebbe stato troppo imbarazzante…»
Mia sente le spalle improvvisamente leggere, adesso. Grazie al Cielo, pensa. Trattenendo un sospiro. Si alzano, raccolgono i pacchettini e si allontanano dalla finestra. Fuori, la luna assomiglia ad un unghia ed il Partenone li osserva distratto, come un gatto che sonnecchia aspettando che il panciuto cardellino scenda dal ramo e sia a portata di zampa.
 


«Ok, signori. Non si accettano scettici. Siete ancora in tempo per tirarvi indietro.»
Mia sente la voce di Phi bucare il concerto d’archi dei grilli. Le rane gracidano da qualche parte. È scesa la sera. Fa ancora caldo, ma non è l’afa il problema. Sono le zanzare, che con il loro ronzio fastidioso attorno alle orecchie l’innervosiscono. Aiolia osserva imperturbabile il Ceramico oltre le rive dell’Eridano, una lingua d’acqua che scorre pigra verso la foce. Con grossa fatica.
Phi sta versando il contenuto di due bottiglie di plastica poco più a monte, nella speranza di ingrossare, anche di poco, quel ruscello provato dalla canicola.
Milo tace. Non ha detto una sola parola da quando Mia e Aiolia li hanno incontrati in un vicolo alle spalle del grande magazzino. Fa numero, come il quarto che ti manca per organizzare il pokerino serale. E fissa l’acqua poco convinto, schiacciando qualche zanzara quando ne ha le tasche piene del loro ronzare.
«Chiudete gli occhi e riapriteli soltanto quando ve lo dirò io», prosegue Phi, tornando indietro e lasciando tra l’erba alta le bottiglie vuote. «E intanto, pensate alla persona che volete incontrare. Pensate a lei con tutto il cuore. Usate anche il vostro cosmo, se lo ritenete necessario.»
Poi scende il silenzio, rotto solo dal concerto dei grilli e dal contrappunto delle zanzare. Mia sente il vento sfiorarle appena il viso accaldato, come una carezza gentile e fresca sulla pelle rovente. Percepisce distante il cosmo di Aiolia, come se fossero immersi nella nebbia di Novembre. Sente che anche gli altri sono lì, con lei, sulle sponde dell’Eridano, ma è poco più che un disturbo di fondo. Un’eco che striscia al di sotto dei grilli e delle zanzare e delle rane che gracidano, gracidano, gracidano…

«Mia…»

E lei spalanca gli occhi. Non era la voce di Phi, quella che ha sentito, né quella di Aiolia. Si guarda attorno, confusa e stordita, scoprendosi a galleggiare nella nebbia. Da sola. Fa freddo, adesso. Un freddo che penetra fin nelle ossa e le fa rizzare i capelli sulla nuca, ma Mia non ha paura. Non ha paura perché percepisce una presenza. Odore di tabacco e acqua di colonia. E una barba candida emerge dalla nebbia, assieme ad un kimono scuro che contrasta quel bianco assoluto e puro.
«Nonno», mormora Mia, senza avere il coraggio di dare fiato a quella parola.
Mitsumasa Kido è davanti a lei, l’aspetto severo rabbonito da un sorriso dolce e paterno, lo stesso che le rivolgeva quando gli chiedeva perché insistesse tanto a farla esercitare al pianoforte invece di permetterle di giocare con gli altri bambini. Con quei quattro straccioni, come li chiamava Saori, il nasino all’insù e l’aria da aristocratica offesa. «Loro si riveleranno molto preziosi, bambine mie», ripeteva loro il vecchio Kido, ma Mia non capiva cosa li avesse portati a fare alla Villa, quei bambini, se non potevano giocare con loro.
«Bambina mia…»
Le labbra di Mitsumasa non si sono dischiuse. Mia sa che è il suo spirito a parlare, esplodendole dritto nel cuore.
«Nonno…», ripete lei. Avanzando di un passo. Vederlo non le basta più. Vuole abbracciarlo. Vuole stringersi a lui e tuffare la testa tra le pieghe del suo kimono inamidato alla perfezione, e respirare il profumo della sua acqua di colonia al sandalo e dei suoi cubani che conservava in una capiente scatola di legno nel terzo cassetto della sua scrivania.
Ma prima che Mia si metta a correre, Mitsumasa Kido solleva un braccio. Come a fermarla. Come a impedirle di compiere una qualche sciocchezza. Lo vede scuotere la testa, l’espressione severa e risoluta. «No», gli sente dire nella mente. «Resta dove sei, bambina mia. È troppo presto. È ancora troppo presto», e Mia si ritrova con le caviglie pesanti. Come se non avesse mai mosso un solo passo in vita sua.
«Nonno?», chiede. «Nonno!», ripete, con tono più allarmato, accorgendosi con terrore che il fantasma di Mitsumasa Kido si sta allontanando pian piano, come una nave che veleggia verso il mare aperto.
No!, pensa Mia, le labbra spalancate, ma atone. No, nonno! Torna! Ti prego! Farò la brava. Resterò qui. Ma non andartene. Resta ancora un po’ con me! Ci sono tante cose che vorrei dirti, nonno!!
Ma Mitsumasa Kido continua a sorriderle, mentre si allontana pian piano, sfumando nella nebbia e lasciandola da sola tra i grilli, le rane e le zanzare che popolano quella sponda dell’Eridano.
 
Mia si scopre a fissare la notte con gli occhi asciutti e la gola secca. Le labbra assomigliano a cartone spezzettato e le gira la testa. Accanto a lei, Aiolia osserva un punto indefinito all’orizzonte, oltre la necropoli del Ceramico, la Via Sacra e la luna che illumina con la sua falce quello spiazzo d’erba abbandonato a se stesso.
«È… è finita?», domanda Mia. Parlare le costa una fatica immensa, ma sa che deve spezzare quella sensazione di galleggiamento, quell’incantesimo che le annebbia il cervello.
Aiolia annuisce, continuando a fissare qualcosa che vede solo lui. Forse il punto in cui è sparito Aiolos, pensa Mia, tirando su col naso. Accanto a loro, Phi sta piangendo, il viso rivolto verso il petto di Milo. Ha gli occhi lucidi anche lui. Chissà cos’hanno visto, si chiede la ragazza, soffiandosi il naso, ma poi capisce che ciascuno ha trovato il diavolo che si merita, stasera, e che quelle ferite riguardano solo loro, e nessun altro.
Aveva ragione Phi. È una questione di privacy, pensa Mia. 
«Tieni», dice ad Aiolia passandogli il pacchetto di fazzoletti. Lui li prende e se li mette in tasca. Non li userà. Non ancora. Vuole restare a fissare quel punto che vede solo lui fino a quando gli sarà possibile, nemmeno Aiolos dovesse tornare – potesse tornare – da un momento all’altro. E Mia decide di rispettare la sua scelta, mentre il vento scompiglia l’erba e le loro caviglie e gioca con i loro capelli.

Abbiamo assistito a qualcosa di straordinario, stasera, pensa il Santo di Aglaia fissando il sorriso enigmatico della luna, lassù. La gobba, rivolta a levante, è quella di Ecate. Ecco perché hanno visto. Ecco perché si sono spalancati i cancelli. Ecco perché è successo. Ed ecco perché il nonno mi ha fermato, pensa Mia. Che capisce come quel rigagnolo stentato sia diventato davvero l’Acheronte, per una manciata di secondi appena, d’accordo, ma sufficienti per varcare il punto di non ritorno. Sente le ginocchia vernirle meno. Le gira la testa. L’erba è soffice e fresca sulle gambe.
Le benedizioni costano, direbbe Saori, e a Mia dispiace che lei non sia lì con loro. Ma le benedizioni sono faccende umane, che non riguardano gli dei. Loro si limitano ad elargirle, quando il vento porta alle loro orecchie le preghiere degli esseri umani. E che ci siano di mezzo fogli di carta di riso e canne di bambù o un concerto di rane e grilli e zanzare, poco importa. Mia si sente piena e svuotata allo stesso tempo. E si sente invincibile, adesso che la luna brilla e le stelle stanno a guardare. Sorridendole. E in cuor suo, Mia sa che anche Saori – anche Athena – sta osservando quella stessa luna. E chissà, magari anche lei ha visto il nonno salutarla agitando la mano, tra il profumo del tabacco e della sua acqua di colonia al sandalo.
Lassù, la luna si vela con un mantello di nuvole. I grilli cantano, le rane gracidano. Da qualche parte, il sipario che separa i vivi ed i morti è calato con la stessa durezza di una pietra tombale. Phi singhiozza ancora contro la camicia di Milo. Mia li sente accasciarsi sull’erba, poco distante. Aiolia è fermo, come una statua di cera. Poco male, si dice Mia, abbandonando la testa sull’erba tenera. Restiamo ancora un po’ qui, pensa. Incapace di staccarsi da quel piccolo miracolo che le incurva le labbra in un sorriso soddisfatto. Grazie, sussurra tra le pieghe del suo cuore. Rendo grazie, rendo grazie, rendo grazie.


Note:
Avevo promesso questa cosa a Keiko tanto tempo fa. Ci ho messo un po’, ma la vita non è la letteratura. La vita ti toglie le chiappe da sotto la sedia senza nemmeno avere la bontà di lanciarti dei segnali d’avvertimento.
Tant’è.
Spero che questa storia vi sia piaciuta. E adesso, passiamo alle note.

Il titolo, manco a dirlo, è un verso di Virgilio (Eneide, Libro VI, v 429), e l'ho scelto perché anche se si dice che qualcuno se n'è andato via troppo presto, Aiolos, dopotutto, aveva solo quattordici anni quand'è morto.

Mia appartiene a Keiko e potete trovare la sua storia ne Il Santo di Aglaia. Me l’ha già prestata qui. Torno a bissare l’esperimento, stavolta incentrandomi su lei e Aiolia.

Ogni riferimento al racconto Moonlight Shadow di Banana Yoshimoto e all’omonima canzone di Mike Oldfield non è puramente casuale. Ho pensato «Perché no?!», ed ecco che è nata questa storia.

L’Eridano è un torrente che scorre nei pressi del Ceramico, la necropoli nel cuore di Atene, dalla cui uscita orientale partiva la Via Sacra che conduceva ad Eleusi, al Santuario di Demetra. Attualmente, dopo i lavori per le Olimpiadi del 2004, il corso dell’Eridano è stato interrato. Lo si può scorgere nella stazione della metropolitana di Monastiraki, sotto uno spesso strato di plexiglass.

Il Kallistê è la taverna ai piedi dell'Areopago di proprietà dei parenti di Milo (zio Kostas e nonna Melpomenê). ne trovate traccia qui, qui e qui. Odos Ermou è la strada dello shopping ateniese, nonché via turistica per eccellenza. Se avete qualche soldino da spendere in più, puntate verso gli eleganti quartieri che sorgono sul Licabetto.

Tanabata è il matsuri per eccellenza. Si festeggia la sera del 7 di Luglio (quando la sveglia sul collo segna le ventitré! XD), quando, nella speranza che il cielo sia sgombro da nuvole, mille gru formano un ponte sulla Via Lattea (che per i giapponesi è un fiume di stelle) permettendo alla Tessitrice (Vega) e al Guardiano (Altair) di ricongiungersi per una sola notte all’anno. In quest’occasione è usanza vergare i propri desideri su cartoncini di carta di riso da appendere alle canne del bambù, cosicché il vento porti i desideri degli uomini alle orecchie degli dei.

Anche in questo caso, mi sono concessa un paio di licenze poetiche, facendo scendere in campo Ecate. Abbiate pazienza, ma sono e resto una creatura mediterranea, per cui la festa è la sera precedente, con tutta la buona volontà possibile. Ora, non spiacerà se mi cerco un angolino al fresco e schiatto lì buona buona, vero?
Grazie per aver letto fin qui e alla prossima!
P.S.: risponderò a commenti e messaggi pregressi appena possibile. Promesso. Giurin giurello. E adesso, caffè freddo per tutti!
 
 
 
 
   
 
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