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Autore: moni93    06/07/2015    6 recensioni
Yoma di Mefistofele... oppure Kairos?
O, magari, altro ancora?
Chi è in realtà costui? Qual è la sua storia?
Per rispondere a tutte queste domande, basta domandare al diretto interessato che, in prima persona, ci narrerà la sua favola, fatta di follia, tragedia e umanità. Poiché anche ad un dio è dato di amare e soffrire.
Scoprite in questa one-shot i pensieri e gli eventi che nel manga Lost Canvas erano solo accennati. Poiché è solo dietro le quinte che si può osservare meglio lo scorrere di questo spettacolo chiamato Vita!
Genere: Angst, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Personaggi Lost Canvas
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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UN ISTANTE LUNGO COME L’ETERNITÀ

 

 

 

Mio padre che mi spinge a mangiare

E guai se non finisco

Il bambino più grande mi mena

davanti a tutti gli altri

Lui che passa per caso mi salva

E mi condanna per sempre

 

Se dovessi ricomporre la mia vita, probabilmente lo farei partendo dalle figure che, più di tutte, l’hanno influenzata. Oh, ce ne sono talmente tante! Praticamente tutto il mondo fu spettatore e attore della mia sadica commedia! Loro danzavano, si preparavano per intervenire in ogni momento e persino il più impensabile, il più insignificante poteva rivelarsi fondamentale. D’altronde l’assassino non è sempre la persona più improbabile?

Così, se mi tocca rivangare coi ricordi addietro nel tempo, mi viene in mente mio padre.

Sono nato come una tragedia: il bambino tanto atteso, quello che mia madre sognava di poter crescere con amore e severa indulgenza, l’aveva prosciugata di ogni energia. Quella fu la prima goccia che sparsi, il primo colore che tinse quel mondo assurdo in cui ero finito. Un motivo marmoreo color sangue. Mio padre quasi impazzì dal dolore... così mi dissero. Quando lo immagino contorto da atroci tormenti, mi viene spontaneo stringere i denti. Che fastidio, che insopportabile peso sapere di essermi perso un così meraviglioso istante! Però non mi risultava difficile, da bambino, pensarlo tormentato dalla consapevolezza di essere stato lui stesso la causa della fine di sua moglie; poiché era lui che gridava, che si arrabbiava con la sua consorte del fatto che, ancora, non si decidesse a donargli un maledettissimo erede. In quel ristretto stato mentale che governava quell’insulso paese dell’est, non esisteva gloria e onore più grande che avere un figlio maschio che portasse avanti il proprio nome.

Buffo che nemmeno ricordi il mio cognome. Proprio non lo so.

Credo, tuttavia, che oramai non importasse più nemmeno al mio genitore. Aveva perduto il suo sostegno in quella vita di stenti in cambio della realizzazione del suo ego. Non lo capisco, sarò sincero. Io avrei sorriso soddisfatto. Quella cagna inutile aveva semplicemente adempiuto il compito per cui era venuta al mondo. Ma non fui così maligno da dirlo a mio padre... non in modo tanto sgarbatamente diretto, almeno.

A quel tempo ero solo Yoma, un infante senza futuro venuto alla luce in una catapecchia all’ombra di un grandioso impero. Vissi la mia giovinezza da umano nei feroci detriti del Giappone, mentre guerre e carestie colpivano il mio villaggio natio. Eppure la cosa, anziché spaventarmi, infervorava il mio cuore di guerriero. Mi ero sempre sentito diverso dagli altri bambini, così infantili ai miei occhi. Ero sempre un po’ più crudele di loro con gli animali che braccavamo per gioco, facevo già il pervertito con le ragazze a soli undici anni, ero io quello che rimaneva per più tempo solo nel bosco, la notte, mentre gli altri se la davano a gambe per piangere tra le gambe delle loro madri. Facevo sempre qualcosa di oltre, di più grande di me, come se sapessi più cose dei miei coetanei. In alcuni casi, perfino degli adulti. Ero più sadico, più insensibile in qualche modo che nemmeno io riuscivo a spiegarmi. L’era in cui vivevo, sotto il regno dei Tokugawa, mi dava semplicemente il voltastomaco. Troppo sfarzo nella nuova capitale, troppo lerciume nelle province circostanti. Più le città si facevano piccole, i paesini diventavano rovine, baraccopoli in cui vivere era una parola eccessiva. Si sopravviveva, casomai. Però c’era anche chi mi frenava con ostinazione. Qualcuno che mi bloccava con un semplice fischio, un’occhiata più truce delle altre.

A mio padre dovevo obbedienza, per quanto la cosa mi scocciasse.

Sia che si trattasse di finire ciò che avevo nel piatto, e che mi dava la nausea a causa della sua ineluttabile ripetitività, sia che dovessi chiedere scusa ai bambini più piccoli che menavo per mero divertimento. Lo odiavo, oh se lo odiavo! Tanto più quando cercava di impartirmi una lezione, dietro ai suoi limiti, le sue regole. Persino quando mi prendeva a sberle pareva pentito nello sguardo, sebbene un bagliore di soddisfazione brillava nel profondo di quel nero. In fondo, non ero io il motivo della morte della mamma?

Quando glielo dissi rimase senza parole. Caricò un colpo, sollevando il braccio come per colpirmi. Al solito. Dannatissimo uomo rozzo e senza cultura. Ma si era frenato poi, come sfiancato. Mi guardò come non aveva mai fatto, come se un lontano ricordo lo avesse fulminato. Così, d’improvviso. Un fulmine che scuote l’animo dei bambini, ma che lascia la terra inalterata. E quelle mani che mi dovevano punire, che mi avevano ferito innumerevoli volte, mi abbracciarono per la prima volta.

«Vedrai che ce la faremo.» mi disse.

Non rammento che accadde in seguito.

Ho solo piantato in testa quell’attimo, come se un dipinto eccessivamente realistico fosse stato creato nella mia mente e fosse stato lasciato lì dall’autore, abbandonato ma mai dimenticato.

Mio padre non cambiò modo di fare, comunque. Rimase sempre del parere che più ne prendevo, più in fretta avrei imparato a comportarmi come un uomo, una persona normale. Avvertivo un certo timore nel suo sguardo, come se sospettasse ciò che avrei potuto fargli. Allora andavo un poco più oltre, mi spingevo quel tanto che bastava per superare la linea che divideva la sconsideratezza dal suicidio. Io mi divertivo così, che altro scopo avrebbe potuto avere per me la vita, altrimenti?

Accadde che finii nei guai, in tremendi ed enormi problemi. Avevo attaccato briga con dei ragazzini più grandi di me, sbarbatelli idioti. Ma armati. Io avevo solo le mie mani, non ero mica un ronin o un samurai. Loro invece avevano abbastanza soldi per permettersi armi di contrabbando. Uccidere un moscerino senza lignaggio né altro, non era certo un pensiero che gli avrebbe tolto il sonno. Ero lì, pronto a morire, a godermi quell’attimo di soave drammaticità, quando mio padre intervenne. Aveva con sé la zappa con cui arava i campi secchi della nostra terra, un’arma vecchia e arrugginita, che però piantata nel cranio di uno di quelli imbecilli servì a spaventare gli altri a dovere. Mentre loro scappavano, il corpo dinnanzi ai miei piedi mi lasciò senza fiato. Quello potevo essere io. Dovevo essere io. Sarei stato libero, finalmente senza più legami o catene che mi avrebbe tenuto in questo orrendo e tremendo mondo. Poi, improvvisamente, la mia coscienza divina decise di risvegliarsi. Di sua iniziativa, come si era sopita, era esplosa in me, con una serie disarmante di immagini e odio che avevano annebbiato i miei sensi. A quel punto, mi ero sentito in dovere di dirmi, con decisione, che facevo schifo, che non ero nemmeno meritevole di respirare. Non solo ero stato bandito dal mio caro fratello, ma questi mi aveva addirittura relegato in un corpo umano. Perché, sebbene fossi sfuggito alla mia prigione, lui mi aveva anticipato. Sapeva che ciò sarebbe potuto accadere, quel maledetto. Proprio per questo, anziché essere libero e nel pieno dei miei poteri, ero costretto a portarmi appresso questa carcassa mortale, che m’impediva persino di raggiungere l’Olimpo.

Lo odiavo, lo Odiavo, lo ODIAvo... LO ODIAVO CON TUTTO ME STESSO!!

Fu così che, mentre mio padre riprendeva fiato, spaesato e spaventato come un bambino, raccolsi la lama di quel cadavere senza nome. Colpii mio padre, con talmente tanta foga, da sentire male io stesso. La frenesia mi fece piangere, ad ogni affondo mi sentivo precipitare sempre più nell’oblio delle stelle malefiche. Ed eccole lì, infatti, sopra la mia testa, mentre ballavano immerse nell’oscurità abbagliante del cielo. Nemmeno una falce di Luna, come se l’unica che potesse impugnare quell’arma fosse la Cupa Signora. No... che andavo farneticando? Esisteva un solo Cupo Mietitore, e quello era il mio signore, Hades. Fu così che iniziò a svolazzarmi in testa un birichino pensiero, davvero inopportuno per uno Specter del Signore dell’Ade che si era appena risvegliato.

Risi di gusto, ringraziando mio fratello. Mi era tornato utile, in fondo. Mi aveva mostrato i limiti della mia potenza, che io potevo, dovevo superare, per poter così attuare la mia vendetta. Quale fantastico palcoscenico aveva allestito per me; inoltre, che sublime palestra in cui forgiare ancor più il mio rancore! Il putrido mondo degli uomini era assolutamente perfetto, talmente infimo da risultare calzante per i miei scopi.

Mi accorsi allora del colore che, scuro, serpeggiava tra la terra e i miei abiti, la mia pelle.

Tra il sangue ero nato, e in quel colore avrei vissuto, per sempre.

 

Mio padre di spalle sul piatto
si mangia la vita
E poi sulla pista da ballo
fa un valzer dentro il suo nuovo vestito

 


Non appena compii il mio mortale patricidio, quel nome mi rimbombò nella testa, assordante come un tuono, opprimente come una promessa in cui non avrei mai creduto. Eppure ero altresì Kairos, il dio del tempo. Non quello sequenziale e logico che tutti conoscevano, no, ero il perdente, nato per essere dimenticato... quando invece sono nettamente superiore a chiunque, persino a quell’idiota di mio fratello Kronos! Io sono “il momento giusto e opportuno”, non un semplice “attimo nel mezzo”!

Gliel’avrei fatta vedere al mondo, il vero dio del tempo si era risvegliato e avrebbe allestito uno spettacolo unico, al quale tutto il pianeta avrebbe partecipato, persino quegli inutili dei! Non avrei risparmiato nessuno, sarebbe calato il sipario su di uno stupendo motivo marmoreo, in cui si danza fino alla morte, piroettando verso l’annichilimento!

... però non era il caso di scaldarsi tanto. Dopotutto, il copione andava ancora revisionato e corretto, aggiungendo qualche mirabolante nonsoché che l’avrebbe reso unico.

“Ah, Dea Ispirazione, concediti a me per una notte, vedrai che non avrai di che pentirti!” pensavo trastullandomi nei miei poteri che, lentamente, sorgevano in me, sebbene limitati.

Quell’imbelle di Kronos aveva avuto la brillante idea di sigillare parte delle mie capacità divine, il che era naturale, dato che ero sì libero dalla sua gabbia celeste, ma pur sempre rinchiuso stavo. Era una prigione fatta di carne, viscidi sentimenti umani e, bleah, vecchiaia. Non poteva fare insulto peggiore ad un dio! Tuttavia, tentai di dilettarmi in quella situazione scomoda, di analizzare con attenzione ogni possibile vantaggio che avrei potuto trarre da tale impedimento.

Ero stato chiamato Yoma in questa vita mortale e, non appena il mio vero Io si fu risvegliato, pensai che ad esso mancasse un po’ di colore. Lo tinsi così di un vermiglio accecante, donatomi caritatevolmente da tutti coloro che s’imbattevano sul mio cammino. Il primo fu mio padre, quell’idiota senza orgoglio né cervello che mi aveva messo alla luce. Un piccolo grazie gliel’avrei dovuto, forse. Ma c’era di meglio da fare che scavare una fossa per quel cadavere maciullato. Eppure quasi mi dispiacque di averlo ridotto in quello stato, così sfigurato, irriconoscibile. Era venuto per salvarmi, quando avrebbe fatto meglio a continuare il suo insipido lavoro, mentre arrancava per le sterpaglie di una vita che, per lui, aveva perso totalmente di significato. Da quando aveva perso lei...

Bah, che idiozia gli umani!

Li trovavo così ridicoli nella loro fragile pelle mortale, che alcuna protezione poteva dar loro. Anche armati risultavano comici, grottescamente insulsi. Era talmente facile ucciderli, trucidarli e farli annegare nel loro stesso sangue, mentre le lacrime solcavano i loro volti e gli occhi si spegnevano nella disperazione, nel vuoto. Se poi erano in tanti, ancor meglio! Mi permettevano di affinare le mie tecniche divine, quelle che per loro erano magia nera e demoniaca. Devo dire che un poco ci prendevano... ma quelle ali nere con cui volavo e al tempo stesso falciavo le loro anime erano qualcosa di oltre, di più sublime. Potevo persino farli tornare indietro, retrocedere nel tempo fino a farli sparire, come se non fossero mai esistiti. Non sarebbero restate nemmeno le ceneri, solo le loro urla nel vento e l’orrore nel volto. Che attimo meraviglioso quello antecedente la loro morte, specie se resa vana dal tentativo di salvare un famigliare o un amico! Mi mandavano solamente più su di giri, più euforico... più in balia dell’odio. Quasi ne fossi travolto.

Ma presto mi stancai della mia patria: ero solo uno dei tanti assassini che vagavano per quelle arretrate provinciotte di città, un fantasma dagli occhi rossi da temere come una leggenda. Inoltre, la mia anima udiva il richiamo del mio Signore, come potevo tergiversare oltre? Decisi così di imbarcarmi per il nuovo continente dove, probabilmente, si sarebbe svolto uno spettacolo parecchio avvincente: la Guerra Sacra era alle porte, perché non approfittarne per scacciare la noia?

Il mio vero obiettivo rimaneva uno ed uno solo, tuttavia.

Avrei dato qualsiasi cosa pur di riuscire a fregare Kronos, a presentarmi al suo cospetto senza preavviso e poi ucciderlo, lentamente, e come più mi aggradava. Esattamente come avevo fatto con mio padre.

Dannazione, perché non riesco ancora a togliermelo dalla mente?

È fastidioso come un insetto, un pensiero opprimente che non è fatto solo di piacere, ma anche di altro. Eppure detestavo quell’umano, non aveva fatto altro nella sua esistenza che sopravvivere come meglio poteva e mettendo in pratica ciò che la vita gli aveva insegnato, giusto o sbagliato che fosse. Forse era questo. Mi dava sui nervi questa sua passione insensata, questo suo sprecare l’esistenza senza fare nulla di eclatante, senza mai tentare di cambiare i suoi sudici stracci. Come se gli piacesse... come se andasse fiero di ciò che era, sebbene fosse nulla.

Mi ritrovai ad odiarlo ogni dannato giorno di più, per avermi dato questo corpo fastidioso. Gli anni da umano scorrevano molto più lentamente di quanto ricordassi, facendomi sentire preda di quel tempo che io stesso avrei dovuto gestire. Non ero altro che una marionetta, uno di quei minuscoli e fragili esseri umani che trascinavano la loro esistenza senza una meta. Ridicolo, insensato, SBAGLIATO!!

Io avevo un obiettivo e, non appena la stella cadente di Pegaso varcò il cielo, tutto mi fu chiaro.

Trucidai la ciurma di quella sfarzosa nave, su cui mi ero imbarcato di nascosto, col sorriso sulle labbra. All’alba in porto sarebbe giunta una gloriosa bara, adornata da fiori dai cupi toni marmorei, mentre io avrei sorvolato la città in cerca della pedina che avrebbe finalmente dato inizio al mio gioco.

L’istante in cui poggiai piede a terra, avvertii un brivido.

Fermati istante... sei così bello!

 

E lei che non si lascia afferrare

si piega indietro e ride

E lei che dice quanto mi ama

e io che mi fido

 

Nemmeno ricordo che ci facessi in quella viuzza.

Camminavo, e basta.

Ascoltavo distrattamente quello strano mondo in cui ero finito, osservando con disinteressata curiosità la vita che scorreva limitata e umile in quello sperduto paese occidentale. Non ci trovai poi troppe differenze, a parte per gli abiti e i monumenti. Alla fin fine tutto si ripeteva identico e noioso... mortalmente noioso. Con tali pensieri vagavo per le capitali europee, in cerca di indizi, divertimento, caos. Persino i miei ingranaggi mentali producevano lo stesso suono monotono.

Morte, vendetta, noia, morte, vendetta... ogni tanto la mia mente pareva andarsene a spasso per altre vie, luoghi sperduti e per me irraggiungibili. Solo i miei piedi e la mia ombra mi facevano compagnia, ogni tanto un battito del cuore più forte degli altri. L’adolescenza umana, argh, l’ennesima seccatura! E potevo farci poco o niente, in fondo, mica avevo di meglio da fare.

Certe volte mi chiedevo se avrei mai trovato qualcosa di veramente interessante da fare. Allora mi tornavano alla memoria la mia terra, ciò che avevo fatto, tutto quello che progettavo di fare. Puf! Magicamente tornavo in me, sghignazzavo, ridevo sguaiatamente, facendo voltare i passanti che, scioccati, osservavano un ragazzino lercio camminare per la loro stessa strada. Ahahah, cosa c’era di meglio che attendere il momento in cui tutto sarebbe andato esattamente come volevo, mentre ogni cosa intorno a me si contorceva nell’atroce realizzazione di essere stata ingannata?

Però era noiosa l’attesa, ben peggio della morte.

Camminavo, e covavo la mia vendetta.

Un passo dopo l’altro assaporavo la danza che avrebbe avuto inizio, mi trastullavo nell’immaginarne i protagonisti, le comparse che sarebbero state presto eliminate per necessità o svago. Il regista ero io, potevo fare quello che volevo!

Poi ti ho vista.

Coi capelli spettinati, raccolti in una coda fatta al momento, senza nemmeno starci troppo a pensare. Tanto a te non importava, non ti è mai interessato. Non era tuo obiettivo catturare l’attenzione, farti vedere da quel stupendo e tremendo mondo. Eri tu a dover assaporare l’universo, a coglierne ogni minima sfumatura, che poi sarebbe andata a comporre i tuoi ricordi, pensieri e sogni. Ti vestivi alla giornata, come capitava, pescando dal tuo piccolo bauletto abiti come fosse ogni volta una sorpresa. Lo era, lo era eccome, dato che neppure a Dio mai era dato sapere cosa ne sarebbe uscito. Eseguivi questo sciocco rituale proprio per marcare il tuo strambo modo di vivere, che nessuno aveva il diritto di giudicare. Eri una pazza in un mondo di matti, ma che quantomeno ammetteva a se stessa la propria identità; eri una commedia ridicola. Chissà che sarebbe successo a mescolarti con una tragedia? Lo si poteva fare, ci aveva mai provato nessuno?

Ricordo ancora come l’unico abito curato che tu abbia mai indossato, e che portavi con disinvoltura e un po’ di fastidio, era la tua uniforme da cameriera. Questo perché al lavoro dovevi essere perfetta. Non avresti mai messo in ridicolo o imbarazzo la tua padroncina, mai e poi mai. Per strada eri una fanciulla bizzarra, ma durante la tua permanenza in quella villa tedesca, eri un’impeccabile servitrice. Degna di assistere la figlia della propria Signora.

Te ne stavi lì, in quel mio frammento di memoria, china su di una cassa colma di bottiglie di vino, che avresti dovuto portare alla tua padrona. Anche se il peso sarebbe stato gravoso per le tue esili braccia, avresti portato a termine tale compito, perché, al momento, nessun altro era disponibile per farlo. Una grandiosa festa si stava allestendo per scacciare la noia di vivere, e tutta la servitù era impegnata con i preparativi. Tuttavia, se non fossero giunte quelle bottiglie a palazzo, si sarebbe verificato un grosso problema. Così ti eri offerta tu, senza pensarci due volte, pronta a renderti servizievole nei tuoi spenti abiti da suddita. Una volta ritirata la merce dal negozio, però, eri rimasta chinata a fissare quel pesante fardello che avresti dovuto portare, con cura e attenzione, per un lungo percorso.

Fu allora che i nostri sguardi s’incrociarono.

Mi fissavi con quei grandi occhi da civetta, curiosi e rapaci al tempo stesso. Sembravi così indifesa, eppure mostravi una forza tutta tua. Pareva che custodissi un arcano segreto, che unicamente tu ed una certa persona conoscevate. Vi legava un mistero, e una promessa, che avresti mantenuto a costo della vita. E, forse, della tua felicità.

Forse è stato questo a farmi avvicinare.

Legami tanto sacri e profondi mi hanno sempre incuriosito. Sarebbe stato davvero bello, divertente e crudele, fare in modo che tu non riuscissi a mantenere la parola data. Chissà come si sarebbe contorto dal dolore e dallo sconforto il tuo bel viso? Far sprofondare nel fango anche il più puro dei cuori, il giuramento più sincero insozzato dal tradimento... oh, fermati istante, sei così bello! Mostrami in eterno lo sconforto di quella donna, ti prego! Non riuscivo a pensare ad altro!!

... Ma, più probabilmente, mi avvicinai d’impulso, dato che ti eri fatta scivolare di mano una di quelle costose bottiglie di vino. Eri un vero disastro. Mi feci subito assumere un’espressione di puro schifo e incredulità, una maschera che raramente indossavo. Fui costretto ad aiutarti, mi davi sui nervi e mi attiravi a te come se mi avessi tramutato in falena e tu, invece, eri il fuoco. Forse mi avresti bruciato per davvero, maledetta umana. Il rischio decisi di correrlo. Ne valse la pena, tuttavia, dato che potei scoprire che questo tuo caratterino non era solo una facciata. Anche a letto eri così, danzavi divinamente. Ti fingevi ingenua, e poi ti tiravi indietro con un sorrisetto malizioso. Mi stuzzicavi al castello, carezzandomi una guancia o in qualche altro punto meno decente. Ridacchiavi con gli occhi e parlavi con le sopracciglia, come a dire «Non ho fatto nulla... e non pensarci nemmeno, stiamo lavorando!». Era un gioco estenuante, diabolico e imprevedibile e tu ne eri pienamente padrona. Provocavi, ben sapendo che non ti saresti lasciata andare, per alcun motivo. Era la tua etica, il tuo credo, essere perfetta e premurosa con tutti gli abitanti di quella grande villa. Non con me, però; con l’amante era un discorso differente, vero?

Al tempo stesso eri guardinga, con gli artigli pronti a dilaniarmi, se solo avessi fatto un passo falso.

Eri palesemente interessata, affascinata dal mio corpo giovane ed esotico. I miei tratti così differenti dai tuoi, da quelli di tutti i giovani che avevi conosciuto, ti incantavano esattamente come tu facevi con me. Volevi osare, ma fermarti un istante prima del baratro. Un giochetto piuttosto pericoloso, per quanto tu fossi una cacciatrice. Eri giovane e bella, in un tempo fittizio, che presto si sarebbe tramutato in guerra... perché non divertirsi? Umana lo eri anche tu, d’altronde, non potevi mica celare in eterno le tue pulsioni. Eppure, la tua coscienza ti prescriveva prudenza, un campanello d’allarme sempre vigile ti diceva che non era il caso di farsi coinvolgere da uno come me. Nonostante ciò, dopo che ti ebbi aiutata a portare tutta quella robaccia a palazzo, mi obbligasti a restare.

Qualcosa, in fondo, ti aveva convinta a non farmi andare via, fosse solo per tenermi d’occhio.

Ed io, non avevo scelta. Bisognava fare sempre a modo tuo, questi erano i patti.

Già, ancora mi chiedo come avessi fatto a convincere me a restare, sebbene ancor più incredibile fu come strappasti al padrone la promessa di far assumere un perfetto sconosciuto come giardiniere. Probabilmente, finì così perché non avevo quattrini e tu li pretendevi.

«Quel vino è molto costoso, come intendi ripagarmi?» furono le prime parole che mi rivolgesti.

Perché, stolto io, la colpa di quell’incidente era stata mia. Io ti avevo distratta e per questo la bottiglia si era rotta. Ergo, era mio preciso dovere riparare al danno. Tuttavia, la prima risposta che ti avevo dato, sconcia e ben poco allusiva, non ti era piaciuta. Nemmeno gli improperi che rivolsi a Dio ti piacquero, e così, alla terza sberla, mi convinsi a cambiare registro. Almeno dinnanzi alla tua regale presenza.

E sai una cosa, Partita?

Ne è valsa la pena solo per vederti sorridere, piangere, arrabbiarti, imbarazzarti, spaventarti.

Avrei potuto osservare queste tue espressioni altre mille volte, ogni secondo, per sempre...

Avrei arrestato il mondo, solo per te, mio spettacolo più sublime.

 

E lei che mi toccava per prima

la sua mano bambina

Vuole che le giuri qualcosa

le si gonfia una vena

 

Non ricordo di averne mai azzeccata una con te.

Certo, finché si trattava di rotolarsi tra le coperte, tutto filava liscio. Non avevo grande esperienza con le donne, quantomeno in campo sentimentale. Per scoparmi qualche prostituta non avevo problemi, così come per calcare la mano su di una bella ragazza o due, che civettavano tanto ma che poi si fingevano pudiche. O magari lo erano davvero. E che problema c’era? Oramai avevo gettato al vento qualsiasi morale, Zeus stesso aveva ingravidato un numero vergognoso di donzelle, chi più o meno casta. In quanto dio ne avevo pieno diritto anch’io, come mortale ne avevo la possibilità. Ogni scusa era buona pur di tingere di motivi marmorei un’esistenza, creando piccole gocce dai colori oscuri che, fondendosi, avrebbero dato vita ad un quadro raccapricciante. Chissà quanti e quali tragedie ho creato, agendo in tal modo!

Tuttavia, a te non piacevano i miei modi rudi, me l’avevi fatto subito notare. Ancora sento male in tutto il corpo, se ripenso al calcio nel basso ventre che mi desti la prima volta. Semplicemente perché mi era venuta voglia di averti, così, all’improvviso, senza che ti preparassi... che fanciulla delicatina! Mi toccò adeguarmi ai tuoi ritmi, alle tue aspettative. Come se fossimo qualcosa di più di due miseri amanti, eppure col fascino di tenerlo segreto ai più. Vi era poi il tuo corpo da rispettare, da venerare, manco fosse una reliquia. Mi ha stupito, tuttavia, sapere che sono stato il tuo primo uomo, quasi mi avessi aspettato. E non ammetterò mai che, farlo in quel modo, vedendo il godimento ed il piacere sul tuo viso, nel tuo intero corpo, m’inebriava più di tutto il sesso che avevo fatto fino ad allora. Era strano, diverso... umano?

Dovetti persino ufficializzare la nostra relazione, giunti ad un certo punto. Mica volevi essere confusa con una di quelle ragazze di malaffare che si impegnavano con chiunque e poi venivano abbandonate una volta messe incinta. Non che tu puntassi a quel risultato, oh no, eri stata molto categorica su tale argomento. Avresti accettato un figlio unicamente dall’uomo che amavi ed io, per il momento, ero solo un... bizzarro compagno di vita?

Che termine idiota.

Di sposarti, comunque, non se ne parlava. Su questo eravamo entrambi concordi. Io non avevo intenzione di ridicolizzarmi oltre. Già avevo accettato di fidanzarmi con te per tenerti buona, ci mancava appena il matrimonio. Che poi, tu guarda cosa mi toccava fare per avere una donna disposta a danzare, per me, nel mio letto. Ammetto che eri una ballerina eccezionale, da mozzare il fiato e, forse, ne valevi la candela. Dal canto tuo, tu non volevi unirti ad un tizio come me, quantomeno nel senso più spirituale del termine. Certo che voi mortali vi divertite un sacco a ficcare la santità in ogni aspetto della vita. Dovetti imparare a fingere, ad indossare la maschera del bravo ragazzo, lavoratore, servo, fidanzato. Poiché rammollirsi, agli occhi degli idioti, è quanto di più semplice e vantaggioso. Si possono creare infiniti tranelli, meschinità nell’ombra, mentre tutti credono che tu ti sia convertito, che tu abbia messo la testa a posto grazie ad una donna. Vedere i loro volti contorti dall’agonia sarebbe stato estremamente semplice.

Peccato che con te, Partita, la cosa non era ugualmente facile.

Se ti dicevo di amarti, ti arrabbiavi perché volevi essere tu la prima ad affermarlo.

Se mi azzardavo a parlare di matrimonio, mi tiravi qualcosa in testa. Perché «No che non ti sposo, buono a nulla e pervertito, ma per chi mi hai presa?!». Poi arrossivi e ti mettevi a cantare come un usignolo stonato per tutto il giorno. E io ti ascoltavo, felice, in qualche modo contorto, che né io né gli dei riuscivamo a comprendere. Chissà che diavolo ci trovavo in te?

E tu, Partita?

Cosa vedevano i tuoi occhi da civetta, quando si posavano sulla mia figura?

Eravamo una farsa incantevole, un intermezzo spassoso prima dell’inizio del secondo atto.

Ero sempre stato il dio del tempo, quindi, perché in questo stolto corpo mortale non mi sarei dovuto concedere un poco di caotica pazzia? Era bello giocare con te, fingere di essere qualcuno che in realtà non ero. Ogni tanto mi confondevi, però, mi lasciavi inebetito a chiedermi chi fosse il mio vero Io, dove finisse la commedia e dove iniziasse la tragedia.

Poi accadde l’imprevisto, l’impensabile che si celava dietro l’angolo del peccare quotidiano.

T’incavolasti di brutto, quando rimanesti incinta. Ora che saresti ingrassata, cosa avrebbero detto le pettegole di paese? Il tuo signore sarebbe stato d’accordo? E Lady Pandora che avrebbe pensato?

«Ovvio.» avevo replicato, mentre deliravi ad alta voce, piroettando su te stessa con aria afflitta ed euforica al tempo stesso «Si cercherà una nuova cameriera. Proprio come sto facendo io.»

Fu quello il giorno in cui compresi quanto fosse pesante quel vaso di orchidee che tanto ti piaceva.

Maledizione a te, ti saresti pentita delle tue azioni!

Su questa cosa non avevo dubbi... avresti rimpianto amaramente il giorno in cui mi avevi incontrato. Allora ridevo, ridevo a crepapelle davanti a te, credendo che tu non ne avresti compreso il motivo. Mi guardavi triste, però, infinitamente malinconica. Allora tacevo, mi moriva in gola ogni ilarità. Il silenzio ci divideva e ci univa, nel nostro segreto inconfessabile.

Come se mi fosse mai importato qualcosa! Parlo come quell’idiota di mio padre, colmo unicamente del suo rimpianto e dei suoi ripensamenti. Dei suoi errori. Mortale idiota.

Mi viene alla mente un unico episodio, una mia risposta di cui un poco mi pento. Come una puntura di spillo, invisibile e tagliente. Profonda.

«Yoma.»

Esordisti a cena con un'invocazione a cui io reagii con speranza e timore, poiché eri stata tu a pronunciarla. Quel tono grave era premessa di tuoni e tempesta, bambina, ti conoscevo fin troppo bene. Dovetti affrettarmi ad indossare la maschera del marito serio e coscienzioso, se volevo stare al gioco. Se desideravo che la farsa non finisse ancora.

«Posso chiederti una promessa?»

A quelle parole, voltai il capo dall’altra parte. Lo rammento bene. Fissavo il mio piatto come se potessi trovarvi al suo interno una buona replica, sarcastica e crudele al punto giusto, ma contornata da spilli di dolcezza. Un retrogusto amaro che tu conoscevi bene. Eppure, l’unica cosa che potei fare, fu ignorare il tuo sguardo opprimente. Le spoglie mura della nostra cucina mi assordarono la vista.

«Sai che non sono bravo con le promesse.»

Vacillai.

Non so ancora perché. Mi sentivo strano, come se da quella conversazione tutto sarebbe cambiato. Lo avevo avvertito, nell’aria, quella mattina. Mancava ormai poco alla nascita di nostro figlio. Tu eri bellissima, raggiante e felice come non ti avevo mai vista. Il tuo sorriso di cortesia era svanito, al suo posto vi era un eterno Sole, che rischiarava la vita di coloro che ti circondavano. Ricevevi spesso dei fiori in omaggio, come augurio per il parto imminente, e persino io sorridevo come un ebete, quando per strada qualcuno si congratulava con me.

Però non era vero.

Anche questa era solo una facciata, una parte che io ero molto bravo a recitare.

«Anche se ne dipendesse la mia vita?»

Fosti improvvisa, così come il tremore che colse la mia mano. I miei pensieri erano stati spezzati, mandati in frantumi dalla realtà che ci stava avvolgendo. Distinguere il palcoscenico dalla platea diventava sempre più difficile. Tuttavia annuii, disinvolto. Come se la cosa non mi riguardasse. Perché, in realtà, non mi interessava.

«Non cambia il fatto che sono una frana... E un bugiardo. Dovresti averlo imparato sulla tua stessa pelle, Partita.»

Allungasti la mano per raggiungermi, come fossi la tua unica salvezza, l’appiglio fragile e inaffidabile che nessuno sceglierebbe, ma tu, che dicevi di amarmi, volevi avere al tuo fianco ad ogni costo.

Per un attimo credetti a quell’illusione.

«Promettimi che veglierai su Tenma, che ti assicurerai che sia felice.»

Tenma.

Il nome che avevo scelto nel caso in cui fosse nato un maschio. Ma io sapevo che sarebbe stato così, la cometa di Pegaso era caduta in questo luogo e, nell’esatto istante in cui rimanesti incinta, compresi che eri tu il contenitore che avrebbe dato alla luce il deicida. Il protagonista essenziale della mia danza. Tu, però, non potevi saperlo... non avresti dovuto. Le tue parole mi fecero ripiombare nella certezza che mentivi. Che non avevi fatto altro, da quando ci eravamo incontrati. Tutto era stato calcolato nei minimi dettagli, eravamo fatti della stessa pasta. Avrei dovuto realizzarlo immediatamente, anziché farmi inebriare dalle tue movenze, da quel tuo bel faccino adorabile. Quel sorriso che portavi ogni giorno sulle labbra, non era per me, né per la piccola Pandora.

Per te esisteva unicamente quel bambino, vero?

Chissà cosa ci vedevi di così prezioso, di così sacro... io ero unicamente il mezzo per raggiungere tale obiettivo... cosa credi, che non ci fossi arrivato, adesso?

«Pff... ah, ah... ahahahah!! AHAHAHAH!!»

Era comico, davvero esilarante!

Le risa mi uscirono di bocca come un fiume in piena, senza che riuscissi a trattenerle. La camera si riempì di un’essenza oscura, come se tutto si fosse fatto d’improvviso freddo, senza luce. Proprio come il paesaggio invernale che si stagliava da oltre le finestre. Esattamente come la mia anima.

Non vi era più niente, era stato estirpato, cancellato.

O, magari, non c’era mai stato.

«Più che danzatrice, Partita, sei una pessima illusionista!» riuscii infine a risponderti, mentre il tuo sguardo confuso restava fermo lì, in attesa.

Mi parevi ancora un poco scossa, frastornata, così decisi di essere più chiaro e di dedicarti le parole che meritavi. Che aspettavi.

«Non temere, mogliettina mia, avrò assai cura di nostro figlio. Dopotutto, è dovere di un padre assicurarsi che la propria creatura segua esattamente la strada che gli è stata impartita dal Destino.»

Quando mi ritrassi dal tuo tocco che, ancora, voleva raggiungermi, con consapevolezza e stizza ti scatenasti. Talmente tanto, che non dicesti altro. Te ne andasti via, senza fretta, con uno sguardo che mi parve infinitamente triste. Mi sentii rassegnato, stufo quasi, di quell’espressione. Ne avevo visti tanti di umani che portavano sul volto quella maschera stanca, sfinita, indossata poiché non si ha di meglio da mostrare al mondo. Credetti che tu avessi scelto quella sfumatura spenta, perché ti avevo finalmente scoperta. Avevi fatto un passo falso che, già lo avvertivo, sarebbe stato il principio del tuo ultimo valzer su questa miserabile terra. Un ballo a cui avresti partecipato da sola, questa volta. Anche a letto non proferisti parola, nulla. Mi lasciasti un vuoto, una situazione di sospensione che i secoli avevano reso indelebile nella mia memoria. Ero convinto di esserci abituato, che non me ne sarei quasi accorto. Invece, rividi la mia prigione, mi sentii di nuovo in scacco. Il peggio, però, fu che avevo te accanto. Ero con qualcuno, in quella camera, eppure mi sentivo solo... e forse anche tu.

Passai la notte a fissare la tua schiena, mentre fingevi di dormire e soffocavi le lacrime. Ti sentivo, vedevo le tue spalle tremare, stringersi in cerca di un tacito conforto. Che non sarebbe mai arrivato. Penso che sia stato allora che abbiamo realizzato che era giunto il momento di prepararsi alla guerra. Saremmo stati rivali, dunque. La cosa mi eccitava terribilmente. Tu non parevi della medesima idea, però.

“Mia cara Partita, eppure non è bene avere ripensamenti o debolezze. Coraggio, sii la spietata guerriera che mi ucciderà... solo tu puoi farlo. Desidero che sia tu a porre fine alla mia esistenza umana. Forza, uccidimi! UCCIDIMI!!”

Lo pensai talmente forte che la gola mi bruciava. Era un grido disperato il mio, che attendeva una clemenza, un gesto umano che ponesse fine alla mia esistenza mostruosa.

Ti voltasti.

Non riuscivo a vedere che parte del tuo viso, illuminato da un fioco raggio di Luna che penetrava dalle persiane abbassate. Solo un angolo della tua faccia, piccolo, insignificante come tutto il tuo essere. E mi parve di vederti sorridere, mentre stringevi la mia mano. Finalmente. Per poi abbandonarla, gentilmente, invitandomi a salvarti, a non lasciarti.

Perché... perché sentii come se mi avessi compreso? Quella era dunque la tua risposta?

Eppure non aggiungesti altro, il nostro dialogo terminò lì.

“Non lo farò, Yoma. Se vuoi uccidi me, ma proteggi Tenma... se sarai tu, mi va bene.”

Mi vorticò il dubbio, come in sogno, che mi avessi comunicato questo. Che anche il cervello mortale che componeva ora il mio corpo mi stesse tradendo? Potevo davvero cambiare il copione? Ero in tempo per cancellare ogni cosa e comporre una melodia più lieta, un duetto allegro che terminava lento, pacato?

Mi era concesso essere Yoma e non Kairos?

Solo in questa vita, solo per te... Partita.

Forse, sarebbe bastato allungare la mano e non lasciarti più.

Forse bastava dire che ti amavo.

Forse non eri sufficiente a placare la mia follia.

Così scelsi l’oblio, ancora.

Probabilmente, la vendetta e l'odio sono più forti dell'amore.

 

Lei che era troppo più forte

sicura di tutto

E prima di andarsene mi dà il profilo

con un movimento perfetto

 

Perfino nella Morte dovevi dimostrarmi quanto eri più forte e perfetta di me... di me che ero un dio.

Me lo ricordo bene quell’istante... oh, fermati istante, sei così bello!

Ti eri fatta furba, mia civetta, avevi compreso che non saresti mai stata al sicuro con me, tantomeno quel bambino. Quasi mi avevi deluso, credevo che avresti tentato fino all’ultimo di cambiarmi o di fermarmi. Invece, preferisti darti alla fuga, scappare armata unicamente di quel fagottino inutile. Per il momento. Possedere la reincarnazione di Pegaso era un grande vantaggio, senza dubbio alcuno. Eppure tu, non appena lo stringesti tra le tue braccia per la prima volta, nell’esatto istante in cui i vostri occhi si conobbero, tra la giada preziosa dei tuoi ed il tramonto oscuro ereditato da me, ti trasformasti. Eri divenuta madre. Avevi uno scopo nuovo, adesso, com’era evidente guardandoti! La terribile guerriera si era addomesticata, si era votata alla maternità!

Che vomitevole colpo di scena, un cliché trito e ritrito!

Sei stata brava, però, quei sentimenti mortali non ti avevano indebolito nel corpo, né tantomeno nell’ingegno. Per anni fuggisti a quegli idioti sgherri di Pandora... ops, perdono, della Signorina Pandora. Lo sai, Partita cara, quanto era sconvolto il suo volto, quando comprese che l’avevi abbandonata, tradita?

E il mio? Puoi immaginare come fosse il mio viso, quando tornando a casa non ti trovai?

Nemmeno una lettera, un messaggio d’addio.

Ah, dolce la mia furbetta, avevi fatto apposta! Tu volevi che io ti trovassi, lo sapevi, vero? In fondo al tuo cuoricino di mamma, potevi avvertire gli artigli di Kairos che ti inseguivano, che pretendevano il suo erede. Lo spettacolo aveva appena iniziato a prender forma, come potevi rovinarmelo?

Non si fa, Partita, no no no. Cattivella.

Ho visto la tua morte, sai?

Ti vedevo a terra, ferita, stremata dall’ennesima fuga. Le guardie erano ormai vicine, non c’erano più nascondigli, le vie di fuga erano tutte ostruite. La tua povera anima avvertiva l’incombenza del dio dei morti? Potevi già sentire la sensazione della tua anima che veniva tagliata, estirpata dal tuo corpo come un ramoscello rigoglioso dal terreno?

Ti avvinghiasti a Tenma; lo stringesti al petto come fosse il tuo cuore, come se la tua vita dipendesse da lui. Tremavi e piangevi, urlavi e mi odiavi. Ma poi, tu mi vedesti.

Me ne stavo comodo a svolazzare, con la Luna che mi faceva da aureola, dipingendomi come un bellissimo fantasma degli Inferi. Mi osservavi impaurita, un animale ormai in trappola. Che visione sublime, per me, che non avevo alcuna intenzione di venirti a salvare!

Avvertivo qualcosa in quello sguardo di giada, che non era né odio, né rancore... udisti le guardie farsi vicine, il tempo era agli sgoccioli. Tic, toc, cosa avresti fatto, ora, mia piccola Partita?

E, nel tuo ultimo istante, riuscisti a stupirmi ancora.

Mi porgesti quel fagotto piangente.

Rimasi lì, in alto, sbigottito. Sebbene braccata, non ti saresti mai arresa, non era da te. Che diavolo poteva significare quel gesto? Mi davi fiducia? Speravi forse che avrei mantenuto quella promessa in cui non avevo mai creduto, che non avevo nemmeno stretto?

Quasi mi dispiacque tradirti e lasciarti morire, lo ammetto. Fu un boccone assai amaro da mandar giù... in fondo, il tuo sorriso era così bello. Mi piaceva davvero tanto. Era una ninnananna, un concerto divino a cui ogni singola nota era dedicata a me. Era la mia illusione più grande, mi sarebbe mancata.

Tuttavia, lo spettacolo a cui stavo per dare inizio era troppo allettante, troppo folle e sadico per rinunciarvi. Quante vite avrei corrotto, quanta sofferenza avrei creato, senza motivo, per il mio solo diletto! No, non potevo cancellare i miei piani per te. Io sono un dio, io devo vendicarmi della mia odiata nemesi. Non c’è spazio per altri, non c’è mai stato. E tu lo sapevi, Partita. Sapevi che era tutto un gioco... anche se un poco facevo sul serio, con te.

Iniziai a ridere.

Risi di te, di quell’insulso bambino che ora reggevo tra le braccia, di tutta l’accozzaglia di vite che continuavano a susseguirsi nel mondo. Eri ridicola, coperta di sangue e neve, in mezzo ai cadaveri dei tuoi assalitori. Mi era venuto naturale trucidarli, è nella mia natura. Così mi ripetevo, mentre dilaniavo le loro carni, esattamente come loro avevano fatto con te, col tuo bel corpo. Che stupida sei stata, rovinare in tal modo una tale meraviglia! Io ti avrei tenuta con me, sai, Partita? In fondo, non mi dispiacevi, eri folle a sufficienza da sopportarmi. Mi piaceva davvero il tuo sorriso. Era così vero.

Risi di loro e di me. Continuai a urlare di gioia, le zanne rivolte alla Luna, mentre il piccolo Tenma riposava sereno, cullato dalla melodia della pazzia. Umani e dei, come è divertente mescolare questi universi, farli cozzare e portare all’annichilimento!

Fu così che mi presi anche l’ultima goccia della tua vita.

Oh, com’eri bella mentre esalavi l’estremo respiro!

Oh, fermati istante, sei così bello!

 

Per sempre

solo per sempre

Cosa sarà mai

portarvi dentro solo

tutto il tempo?

 

Un nuovo ricordo cade nella mente, scivola nella mia coscienza come pioggia e mi riempie...

«Yoma, dai, non farti pregare ogni volta!»

Ancora non capivo come, ma eri riuscita a coinvolgermi anche in quel ballo. Io che odiavo danzare. Il mio ruolo era sempre stato quello dell’osservatore, colui che muove i fili dietro al sipario, che si assicura che ogni cosa proceda come deve, come il copione impartisce. Però, e lo ammetterò solo a me stesso, era bello poterti stringere a me, poterti sentire così vicina. Mi piaceva anche il fatto che fossi tu a guidarci, passo dopo passo, verso un grottesco futuro. Un po' lentamente e con quell'espressione crucciata, di chi si è già stufato, ma che, in realtà, ha appena incominciato a divertirsi. Eravamo l’innocenza e la menzogna, l’arroganza e l’ingenuità. Hades e Persefone, in vesti mortali, che giovano e piroettavano, ridacchiando tra loro, alle spalle del mondo.

Eravamo una favola ridicola.

Mi stringevi la mano con forza, mi osservavi dritto negli occhi, quasi con fierezza, con timore. Ti lasciarvi infine andare, pareva fossi esausta di portare quella maschera che ti costringeva a tenere un occhio sempre aperto con chiunque, persino di notte, mentre di giorno li chiudevi entrambi, per non vedere, perché non potevi fare molto da sola contro tutte le ingiustizie del mondo. Eppure le avresti sostenute volentieri, tutto quel peso non sarebbe stato gravoso per te, se era per proteggere chi amavi. Per colui che sarebbe presto venuto al mondo avresti dato volentieri la vita, senza esitazione. Poggiavi, infine, il capo sulla mia spalla e ti lasciarvi cullare dal mio calore, facendomi sentire importante e misero al tempo stesso. Perché tu sapevi più di quanto volessi ammettere. Ma mi amavi sinceramente...

Questo, almeno, era quello che mi avevi fatto credere.

Il mio pensiero, invece, andava oltre il misero paesello in cui ci trovavamo, andava al di là di questo squallido mondo, più in alto, verso l’Olimpo. Pensavo alla Guerra Sacra, a quale divertimento sarebbe stato usare tutti quegli sciocchi umani e dei come mie pedine. Gli scacchi non mi erano mai stati congeniali, ma vederli distruggersi a vicenda, ahahah! Quello sì che era di mio gradimento!

Ed anche quel frammento di noi mi sfugge, scivola via dalle mie mani, senza che possa farvi nulla per fermarlo. Ripeterlo. Che dio del tempo inutile, che sono. Maledetta la mia carcassa umana che, ancora, mi limita. Mi indebolisce... esattamente come tentasti di fare tu, Partita.

Mi torna allora alla mente la Grecia, il luogo che visitai dopo che tu fosti scappata insieme a nostro figlio appena nato, cara la mia consorte, legata a me dal filo beffardo del Fato. Tsk, tsk, che cattiva bambina sei stata! Non mi hai nemmeno permesso di vedere il nostro Tenma crescere. Volevi mettermi i bastoni tra le ruote, ma io ti avrei trovata e uccisa. Non potevo che fare altrimenti, mi avevi pugnalato alle spalle. Come mio fratello, come il mio mortale padre... come tutti.

Per un attimo temetti che la lontananza mi avrebbe rammollito, facendomi ravvedere nei tuoi confronti, invece la razza umana mi riportò sulla retta via.

Incontrare Aspros mi ricordò che non esiste alcun legame. L'amore, in qualsiasi sua forma, è cosa vana. Sciocca, un trastullo per bambini e vecchi. Lo dimostrò il fatto che bastò una goccia di dubbio, una minuscola stilla di paura, per cancellare l'affetto fraterno e tramutarlo in fratricidio. Che motivo marmoreo celestiale creai, in quell’occasione!

Lo stesso valeva per noi.

Non c'era mai stato nulla, tu giocavi il tuo ruolo ed io il mio.

Siamo stati due splendidi attori. Che non si amavano. Che non provavano piacere se non fingendo, simulando. Questa è la vera potenza di un dio, perché ti ostinavi a fingere di non capire in mia presenza, mia amata?

Sei stata una bellissima illusione, un'attrice encomiabile, per questo mi manchi. Non per altro...

Quando ti feci rinascere per combattere Tenma, tuttavia, non riuscii a lasciar andare la tua mano.

Fu un istante, ma fu come se tutti i momenti da noi vissuti mi fossero passati dinnanzi agli occhi. Pensai, candidamente, che non sarebbe stato male riaverli indietro, per poterli riviverli per sempre.

Solo per sempre.

 

Per sempre

solo per sempre

C'è un istante

che rimane lì piantato

Eternamente

 

Tutto procedeva secondo i miei piani.

La scena “Ritrovarsi” tra madre e figlio si era conclusa. Ora Pegaso possedeva la sua sgargiante armatura divina! Con tutta quella latta, sarebbe stato al pari di un dio... chissà questo quanto avrebbe infastidito il mio Signore Hades?

Ma le gioie furono interrotte bruscamente dall’arrivo dei Gemelli. Anzi, di loro non ne restava che uno solo. Hanno persino tentato di ingannarmi, di dimostrarmi che era stata colpa mia se erano arrivati a tanto. Se si erano uccisi a vicenda. Ahahahah, che cosa ridicola! Sono davvero uno spasso, idioti piccoli di umano! La dimostrazione del fatto che quei due si odiassero era palese fin dall’inizio. Io ho semplicemente dato un pretesto, una scusa. Sono stati loro che, deliberatamente, hanno scelto la via del sangue. Perché, alla fine, l’unica cosa che li univa era il reciproco disprezzo! Poiché tra fratelli, tra amanti, non esiste null’altro che questo!

È da stolti pensare che esista altro, che l’Amore possa salvarci.

Panzane, stupidaggini, pazzia... io non avevo bisogno di tutto questo!

Mi mostrò qualcosa, tuttavia, quel traditore di Aspros. Fu anche merito della Vergine, quel dannato cavaliere che non avevo più calcolato, in quanto la sua parte si era ormai conclusa da un pezzo. Mi aveva mostrato stralci del mio passato. Traditore. E non solo.

Avevo visto una stanza.

La conoscevo, l’avevo vista innumerevoli volte da piccolo. Nella mia infanzia, così come in quella visione, non vi era nulla che già non conoscessi. Pareti spente, una candela che illumina flebilmente le tenebre, quasi ne avesse paura ella stessa, dei mobili logori e marci dentro. Esattamente come l’uomo che sedeva, dandomi le spalle. Come mi ricordavo nettamente quella schiena, mi aveva accecato la vista innumerevoli volte, tanto era grande, sicura. Era stata l’ultima cosa che avevo visto, prima del sangue, della mia vera essenza, l’istante antecedente alla mia caduta nell’opera teatrale composta da me medesimo.

Qualcosa di diverso, però, lo avvertivo.

Era palpabile, una presenza appena percettibile... finché non emerse dal buio, illuminando ogni cosa. Com’era bella, nel suo sorriso, sembrava la Luna e le stelle. Una piacevole notte estiva, che ti tiene sveglio, al caldo, tra le sue braccia. Il suo corpo era sfinito, più dalla vita che dagli anni, eppure le donava grazia, serenità. Le spalle di mio padre sussultarono, quando vennero sfiorate dalla mano di lei. Rugosa, sporca, gentile.

Stava cantando.

Poi un conforto, un gesto d’amore che si poggiò sulla fronte di quel mortale. Come una promessa, un piccolo segreto tra di loro.

«Vedrai che ce la faremo.»

Il mio corpo rimase immobile. Folgorato.

Il mio genitore mortale strinse a sé quella piccola figura, così rozza e angelica, mentre lei seguitava a cantare. Una melodia che ancora ricordo, perché dedicata a me. Al mostro che doveva nascere, portando via quel miracolo dal mondo. Chissà perché pensai che mio padre fosse felice e triste al tempo stesso, in quel ricordo lontano. Lo vidi sorridere e piangere, mentre sperava che sua moglie sopravvivesse a quel parto, che lui tanto aveva voluto. Non aveva mai avuto particolari riguardi per mia madre, lo sapevo, mi era stato raccontato. Era un uomo senza cultura, senza una morale salda se non nei suoi principi arcaici, tramandati dai suoi avi. Però si era affezionato. Era stato addomesticato da quella creatura, dalla sua costanza, dall’incrollabile fedeltà che la legava al marito. E mio padre, che dava tutto per scontato, si era beato nell’illusione che quella luce, che lui spesso faceva vacillare, sarebbe rimasta al suo fianco per sempre.

Che cosa disgustosa.

Ancora non riesco a fermare le lacrime.

 

Mia madre che prepara la cena cantando

carezza la testa a mio padre, gli dice:

"Vedrai che ce la faremo..."

 

Tutto questo scorrere di pensieri mi annebbia la mente.

Sarà colpa del magistrale colpo scagliatomi da Gemini? Quel maledetto moccioso, avrei dovuto riempirlo di botte quando era ancora piccolo! L’ho sempre detto che ero troppo buono... ah, ma quindi, sto per essere di nuovo recluso in una prigione?

Finiscono così i miei sublimi motivi marmorei? Incompleti? Nessuno mai li ammirerà?

Non è giusto, dannazione! Devo ancora terminare i miei piani, lo spettacolo non si è concluso... Tenma, quel deicida idiota, non può fare come gli pare! Maledizione, l’avevo detto io che quello è tale e quale a Partita: cocciuto, indemoniato e piagnone! Persino lui vuole danzare questo valzer da solo, senza sottostare al mio copione! No, No, nO, NOO!!

Persino Aspros e quello stupido di suo fratello si sono dovuti mettere in mezzo, maledizione, ma non glielo permetterò... non possono, non mi devo fermare!

Devo uccidere Shion, devo impedire a Tenma di vincere, IO devo vincere! VENDICARMI!!

Altrimenti... a che scopo sei morta, Partita?

Mi è impossibile ammetterlo, tuttavia.

«Il mio sogno è di spodestare quell’infame di mio fratello dal Regno dei Cieli... dopo innumerevoli e miserabili vite umane, in questa epoca ho finalmente la possibilità di farlo!»

Ma cosa sto farneticando?

Persino queste urla mi appaiono false... che stia ancora recitando?

Aspros mi osserva infuriato, sembra che mi voglia rinfacciare ancora qualcosa. Avrà qualche altro rimorso da vomitarmi addosso, povero idiota. Le mie menzogne hanno ben più valore delle sue!

«LA VOSTRA PATETICA ESISTENZA CHE DURA UN ATTIMO È NULLA RISPETTO A QUELLO CHE HO VISSUTO IO!!»

Quanto sangue mi è toccato vedere, quante maschere disperate, reincarnazioni e guerre ho sopportato in questi anni? Secoli? Mi appare ormai confuso, il tempo, come se i secondi e i millenni si scambiassero di posto, senza seguire una precisa regola. Sono attori e registi al tempo stesso, il mio compito è dunque insignificante, privo di significato. Mi sento quasi... umano. Come se potessi capire le loro lacrime, i drammi di un’esistenza da riempire in qualche modo. A volte a qualsiasi costo. Ma un dio dovrebbe ambire a ben altro, essere superiore a tutto questo, a voi patetici umani!

Già, vale anche per te... tu che mi osservavi sempre con sguardo differente. C’era un luccichio diverso, quando le tue iridi da civetta mi analizzavano, scavandomi nell’anima. Chissà cosa cercavi? L’hai mai trovato? È questa la domanda più importante di tutte, per me. Un dilemma a cui non troverò mai soluzione.

Nemmeno la tua vita è stata diversa da quella di queste nullità, Partita, formiche agli occhi di un dio.

Allora avviene un’esplosione, una galassia si frantuma.

«LE NOSTRE ESISTENZE POTRANNO ANCHE ESSERE PATETICHE, MA RESTANO INSOSTITUIBILI!!»

... dove le ho già udite queste parole?

Ricordo un volto differente, un corpo di donna scosso dalla rabbia, ma non cieca come questa che ho dinnanzi. Era più solida, forte, sicura. Come le carezze che mi venivano donate ogni notte, senza che le chiedessi, perché non le volevo... non le avevo mai meritate.

Seguono confuse parole, ancora, di Aspros, ma non voglio sentire.

«Fermati...»

Non per ammirare un istante, ma per non sentire più nulla.

Basta, mi sembra di essere schiacciato dall’interno, da un sentimento che ho ignorato troppo a lungo.

«Quei giorni non torneranno più.»

Di nuovo fremo.

Sono disorientato, perso.

Ti vedo ancora, Partita, mentre mi scongiuri di pensare a noi, a me stesso. Perché per il tuo cuore troppo bello, io mi stavo autodistruggendo. Cercavo di esaudire un desiderio che non mi apparteneva più, covavo un odio che non aveva più motivo di esistere, che era stato tenuto in vita unicamente dalla volontà di non perdere la mia identità. Ma io non dovevo per forza continuare a essere chi non volevo, tramutandomi in colui che più detestavo.

«Non significo dunque nulla, per te?»

Mi facevano male le tue parole... eppure mi ero tanto impegnato per dimenticarle.

«NEPPURE DOPO TUTTE LE VITE CHE HAI VISSUTO RIESCI A COMPRENDERE QUESTO DOLORE?!»

Voglio tornare indietro.

«FERMATIII!!»

Credevo che la morte mi avrebbe dato la pace che tanto agognavo, invece, mi rendo conto di aver paura. Sono terrorizzato... non voglio un altro mondo in cui tu non ci sei. Non saremo mai più insieme, lo so, ne sono consapevole, ma sento così male al petto.

Mi viene quasi da desiderare che, almeno tu, sia in un posto meraviglioso. In cui il Sole splende e le tue giornate sono riempite da tinte marmoree di pace, bellezza e colori. Un pensiero davvero idiota.

«Sei un dio egoista... sciocco e patetico. Proprio come un essere umano.»

Allora un pensiero traditore mi attanaglia, come le dolci catene che si avvolgono attorno alla mia anima. L’ultima goccia di amarezza si estingue, non prima di un ennesimo urlo del mio cosmo, ormai spento. Finito.

Forse sarebbe stato bello vivere insieme, noi due... noi tre.

E così, le ultime volontà di un dio vanno ad una donna, un’umana.

Che copione scadente.

Mi vien quasi da strapparmi la faccia a graffi, con le mie stesse unghie. Perché so che questo è quello che vide mio padre, nei suoi ultimi istanti. Come avevo fatto a ridurmi in questo stato pietoso? Come?

Nell’istante in cui svanisco, avverto una carezza sulla nuca. Qualcuno mi culla dolcemente e allora sorrido. D’istinto. La rabbia scema, la malinconia si dissipa. Rimane solo caldo e quel sentimento che mi accompagnava ogni volta che ti osservavo, di nascosto. Quando tu vivevi, libera. Ed io ero ancora legato a te. Da quel filo rosso indistruttibile, il cui colore non mi ha mai ricordato quello del sangue. Era diverso, così luminoso.

So chi sei, tu...

«Sshh, tranquillo Yoma. Riposa sereno.»

E, chissà perché?, non posso far altro che obbedire.

 

 

***

 

 

«Yoma... Yoma, dico a te!!»

Mi sveglio di soprassalto. Il sudore ancora appiccicato al mio corpo, la bava alla bocca. Uno spettacolo raccapricciante fin dal primo... mattino? Pomeriggio, magari? Che ore sono?

Partita mi fissa scocciata e divertita, con quello sguardo unico che riserva unicamente a me. Mi dona un bacio improvviso e mi carezza i capelli.

«So che le mie gambe sono comode, ma se non ti sbrighi, Tenma si arrabbierà.»

Sbatto le palpebre, confuso. Un’ultima annaspata nel Regno dei Sogni, che mi aveva cullato placidamente, poi sbadiglio vistosamente. So che le dà fastidio, ma mi diverte la sua espressione corrucciata. Penso che siano davvero comode le gambe di mia moglie. E belle, gustose, come tutto il suo corpo. Mi stiracchio e rammento la mia collocazione spazio-temporale, impresa non da poco appena ridestati.

Ah già! Oggi ho promesso a nostro figlio di portarlo a giocare al parco con gli amici. Quella piccola peste sta accumulando ogni giorno sempre più diritti e privilegi. Nessuno può privarmi del mio giaciglio preferito, maledizione a lui! Solo perché è piccolo e il cocco della mamma.

Mi becco l’ennesima occhiataccia di Partita. Sembra un rapace quando fa così, un uccellaccio cacciatore e alquanto pericoloso. Sa quello che penso ed io conosco la sua replica. Decido di muovermi prima che me la rammenti a voce, quella scocciatrice. Intanto che mi vesto e acciuffo quel delinquente di Tenma, che nel mentre pensa bene di darsi alla macchia (perché diavolo Partita gli permette di giocare a nascondino anche in casa?!), la mia consorte si dà ad un nuovo monologo. Assai poco dilettevole per le mie orecchie, tra l’altro.

«Attento che non prenda freddo o si faccia male! E porta qualcosa da mangiare, casomai abbia fame! E...»

L'interrompo con un bacio. Famelico, un poco indecoroso visto che nostro figlio è lì che ci guarda. Oh beh, che impari qual è il suo posto in casa!

«Lo so. Respira.» le mormoro, mentre lei arrossisce e si porta una mano alle labbra.

L’altra me la spiaccica in faccia, invece, come a volermi punire. Che finta pudica, lo so bene che le piace un sacco quando faccio così!

Sbuffa, in seguito, infastidita dalla mia brusca interruzione e dai pensieri birichini che, ne è certa dal mio sguardo, attraversano la mia mente. Come se non sapessi quanto mi ama: sono il meglio, io! E, sì, anche lei mi fa impazzire, ma questo mica glielo vado a dire. Ho un orgoglio da capobranco alfa da difendere, qui, non posso certo mettermi a scambiare moine davanti a Tenma... ehi, dove cavolo è sparito?!

«TENMA!! Guai a te se cadi a terra... e rimani dove ti posso vedere!» gli urlo, mentre quello corre dietro ad una farfalla, una fata, un fantasma... e solo Dio sa cosa.

La sento ridacchiare, la mia bella.

Adoro quel suono, è stato quello a farmi innamorare di lei. Potrei ascoltarlo per sempre.

Richiama a sé Tenma, che da bravo voltagabbana obbedisce alla madre ma non a me, e si becca pure un bacio. Poi viene il mio turno, ma, chissà perché?, per me c’è solo un buffetto sulla fronte. Maledetta. Quanta cattiveria per un povero diavolo quale sono!

«Ti aspetto.» dice lei, sorridendo.

 

«È il nostro castigo.»

 

«Torno presto.» rispondo sereno, un poco seccato all’idea di dovermi separare da lei.

 

«Tutto si ripeterà in eterno, perché nulla è reale. A parte noi.»

 

«Ti amo.»

 

«Vorrei avertelo detto più spesso, quando ero in vita.»

 

Per sempre

solo per sempre

(Ligabue - Per sempre)

 

 

***

 

 

Questa fu la punizione di Kairos. Vivere eternamente una vita che sarebbe potuta essere sua, ma che lui aveva rifiutato.

Era anche lo stesso destino di Partita. Perché il suo più grande rimpianto, era quello di non essere riuscita a salvare l'unico uomo che avesse mai amato con tutta se stessa.

Tuttavia, non è forse questa una piacevole pena?

Alla fine, quei due infausti furono graziati dagli dei e dal Fato. Perché, anche se vittime di un’illusione, erano di nuovo insieme. Senza più maschere né inganni.

Liberi.

Forse, per sempre.

 

Non c’è gusto a vedere un palco

su cui nessuno piroetta!

Ciò significherebbe la morte...

La noia!

(Yoma di Mefistofele – The Lost Canvas, Capitolo 163)


 

 

 

FINE

 

 

Angolo dell’autrice:

 

Salve a tutti e benvenuti in questa mia piccola storia! ^-^

L’ispirazione mi è venuta ascoltando la canzone di Ligabue “Per sempre” (quanto mi ispira quell’uomo? Dovrò scrivergli una lettera di ringraziamenti xD). Non so perché ma, la prima volta che la udii, mi venne spontaneo pensare a Kairos. È un personaggio che mi ha molto colpita, perché faticavo a inquadrarlo, a comprendere la sua psiche. E, giustamente, mi sono addentrata in una storia incentrata su di lui... quanto è evidente che mi voglio male.

La storia è stata scritta più di un anno fa, ma avevo sempre il timore di aver scritto solo panzane, di non aver scritto nulla di originale, insomma, mi sono detta “La pubblicherà quando sarà perfetta”. Dato che tutt’oggi non mi pare manco lontanamente “mediocre”, mi sono rotta e, dopo l’ennesima rilettura, l’ho postata. Questo solo dopo aver aggiunto qualcosa come quindici pagine. Sì, perché era nata come fic su Yoma e Partita (ergo, BREVE) ed è diventata per magia un racconto sulla vita di Yoma. Dal principio alla fine. Sì, sono tanto masochista! ;D

Mi auguro solo che non mi lancerete la verdura tra i capelli, per una volta che i riccioli mi sono venuti bene! xD

Parlando del finale della fic, volevo una punizione che non fosse tale, una clemenza che in realtà è una crudeltà. Insomma, che c'è di peggio che vivere in eterno la vita che si ha sempre sognato, sapendo che è un'illusione? Eppure, ciò non è alleviato e al tempo stesso intensificato dal fatto che la persona amata è con noi, a condividere il nostro stesso destino?

Che poi, mio fratello leggendola, mi ha detto che è parecchio, per usare le sue parole: “uno dei primi racconti di Dylan Dog”. Io la prendo come un lusinghiero complimento, però, ripensandoci, forse sono stata più sanguinolenta e angst del solito. Però il personaggio lo richiedeva... spero di essere riuscita a rendere bene le scene. ^-^’’ (anche perché sono state approvate dalla mia gemellina/beta Tsubaki3, quindi, un poco di ortaggi vanno anche a lei! xD)

Mi auguro di essere riuscita a mantenere IC i personaggi e a regalarvi una storia plausibile... perciò, se sarete così gentili da lasciarmi un parere, mi libererete dal peso dell’amletica domanda “Ma sarà piaciuto ai lettori?”. Cosa che capita ogni volta che pubblico, sigh.

La smetto qui di scocciarvi.

Grazie infinite a tutti quelli che hanno letto e apprezzato quanto da me creato, un inchino alla giapponese a chi lascerà un commento e... alla prossima!

 

Moni =)

 

PS: A breve dovrei pubblicare il nuovo capitolo di “Bound Destinies”, so don’t worry, lettori, fra poco avrete succose novità e colpi di scena! ;)

   
 
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