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Autore: papavero radioattivo    09/07/2015    3 recensioni
«Questo non è un gioco, ragazzina» la ammonì il vecchio, e lei alzò lo sguardo, allargando il sorriso.
«So benissimo che non è un gioco» gli rispose, piano, come se si fosse improvvisamente ricordata della ragazza che dormiva nel letto lì vicino e non volesse svegliarla, «Non è mai stato un gioco, per me».
Abbassò gli occhi sul fascicolo, leggendo alcune parole che ormai erano impresse nella sua mente con il fuoco: innocence artificiale, vittoria, compatibilità, esorcisti… le sembravano solo parti di una favola, una storiella impossibile.

Ci sono storie che non vengono mai raccontate. Le si nasconde sotto il cuscino come se fossero un segreto troppo importante da rivelare.
Hellionor si presenta davanti all’Ordine Oscuro con nient’altro se non un vecchio fascicolo, pronta a mettersi al servizio di un Dio che non conosce pur di dare un significato alla propria vita e a se stessa. Lì dentro conoscerà persone che hanno fatto la storia e persone che, per qualche motivo, sono state dimenticate e sono sparite senza lasciare traccia.
|| OC: Hellionor Paarick; Enea Fowler; Arachne Ingram ♦ Lavi/Tyki; altre coppie ||
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Un po' tutti, Yu Kanda | Coppie: Tyki/Rabi
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Le cadute di cuore non sono cadute di superficie, sono di un'altra razza. Le ferite sulla pelle

si rimarginano in fretta, l'epidermide si rinnova di continuo, contiene molte cellule, sono cellule pronte

a rimpiazzare quelle morte, sono le seconde schiere di un battaglione. Il guaio è che nel cuore di

queste cellule miracolose non ce ne stanno. Hai una sola fila di soldati. E amen.

 

| Io sono di legno ♦ G. Carcasi |

 

 

 

 


 

 

Í IL SIMBOLO DEGLI AKUMA Í

prima notte

 

 

 

 

 

 

C’era un freddo da spaccare le ossa.

Hellionor immaginò le proprie costole coprirsi di brina, congelarsi e fare crack dentro di lei. Di certo, guardarsi allo specchio in quel modo la aiutava a stare meglio. Si tastò lo stomaco e poi mise le mani sui fianchi, sbuffando. Sembrava stesse facendo una gara a chi rideva per prima con il suo riflesso, di certo molto più sciupato di lei, a causa della sporcizia sul vetro e della crepa che  lo attraversava da parte a parte. Era come osservare un dipinto di se stessi su una cartolina gigante, letta e poi strappata a metà.

Per un momento i suoi pensieri furono attraversati da un’idea che aggiunse brividi ai brividi. Fu tentata di portarsi una mano sul viso per controllare che quella crepa non ci fosse davvero – anche guardarsi sotto la maglietta e assicurarsi che il petto non fosse diviso a metà le sembrò un’idea geniale. Trattenne il respiro e lo lasciò andare quando i polmoni iniziarono a farle male. Non lo avrebbe mai fatto, non avrebbe mai dato ascolto ad un pensiero così stupido. Lei stava benissimo.

Si sfiorò il collo, spostandosi i capelli dietro le spalle.

«Maddai!» si disse, senza una ragione precisa. Sentire la propria voce le fu di conforto: quasi si fosse dimenticata il suono che produceva. Si sforzò di sorridere, ma la crepa divideva anche quella smorfia a metà, dandole un aspetto sinistro. «Sarà meglio che vada» borbottò fra se e se, rompendo quel contatto visivo con il proprio riflesso – non era abituata a fissarsi così a lungo, tantomeno fare le smorfie allo specchio o pensare cavolate come l’essere rotta.

Svariati colpi alla porta ed una voce da donna, rozza e arrabbiata le tartassarono le orecchie. Non era ancora calato il sole che la padrona della locanda aveva già perso la pazienza. «Dobbiamo pulire la stanza, ragazzina!».

«Pulire…» mormorò, soffocando una risata mentre si appoggiava il mantello sulle spalle, «E io sono la regina d’Inghilterra», raccolse la propria borsa e aprì di scatto la porta, osservando la signora corpulenta e sudaticcia scattare in avanti, come se fosse appoggiata all’uscio per origliare e avesse perso l’equilibrio.

Trattenne il respiro mentre scivolata fuori dalla stanza, passando tra lo stipite della porta e la vecchiaccia che la guardava in cagnesco, tentando di farle paura.

Perché avrebbe dovuto minacciare con lo sguardo una come lei? Era una così brava ragazza!

«Arrivederci e grazie per l’ospitalità!» disse per cortesia, usando un tono di voce più alto e allegro del dovuto, guadagnandosi solamente un’altra occhiata omicida e una promessa di odio eterno.

Diede la schiena alla donna e si caricò meglio la borsa sulle spalle, sentendo la colonna vertebrale lamentarsi. Era stufa di camminare e di sperperare i suoi risparmi faticosamente guadagnati per le bettole di ultima categoria come quella. Non si sarebbe sorpresa di vedere il Jack lo Squartatore tedesco spuntarle dall’armadio, considerando la razza di quartiere in cui era finita.

Di una qualche morte si deve pur morire divagò, immaginando lei in piedi sul letto che teneva la sedia tra le mani e colpiva ripetutamente il serial killer in testa, consegnando alla Scotland Yard tedesca il delinquente.

 

* * *

 

Il vento la colpì come una frusta, scompigliandole i capelli e seccandole le labbra all’istante. Faceva freddissimo! Molto più di quello che sentiva dentro la camera… come avrebbe fatto a sopravvivere? Quello era decisamente il giorno più freddo del mondo.

Si strinse la pancia sotto il mantello, camminando sul ciglio della strada mentre osservava i lampioni accendersi lentamente, colorando il paese di un arancione liquido, a vederlo così sembrava immerso nel miele. Il sole scendeva velocemente dal suo piedistallo, e ora era alla sua altezza e sembrava la guardasse negli occhi. Lo vedeva lì, uno spicchio d’arancia tra due palazzi grigi che sembravano d’oro, con la luce del tramonto e la nebbiolina invernale che era scesa.

Il sole sembrava rendere tutto migliore.

Chissà se anche lei sembrava più bella durante il tramonto.

Sospirò, ignorando la nuvoletta bianca che si levava dalle sue labbra screpolate. Il tessuto del vestito sfregava contro la sua pelle d’oca e le faceva male. Definitivamente, era stata una pessima idea spostarsi al tramonto e non aver aspettato il giorno dopo per muoversi. Brava, brava davvero, si complimentò, cercando con gli occhi un altro ostello in cui chiedere asilo, immaginando nuovamente i suoi soldi volare via dalla finestra.

Considerata la sua fortuna, probabilmente erano tutti pieni per quella maledetta fiera di paese. Che c’era di divertente nell’andare a guardare le bancarelle di un altro posto? Tanto vendevano le stesse cose che tutta l’Europa aveva. Non c’era niente di speciale, nessun festival che potesse catturare davvero l’attenzione di una persona. Perché ovunque andasse metà popolazione mondiale era nello stesso posto?

Fu cacciata per la quarta volta da una taverna, a momenti non la prendevano pure a calci nel culo per la sua insistenza – insistenza dove, poi? Aveva solamente chiesto se affittavano il ripostiglio o la soffitta, perché lei aveva davvero un gran bisogno di dormire… certo, aveva pure detto che avrebbe pagato profumatamente. Ma i pochi spiccioli che aveva messo sul bancone la tradirono e non sono serviti a convincere l’ennesima donna vecchia e massiccia che gestiva la catapecchia. L’aveva apostrofata con i peggiori aggettivi e le aveva detto pure qualcosa nel dialetto del posto che non riuscì a capire, ma non sembrava essere un complimento.

Ormai era buio, e quello che sembrava bello e prezioso si era trasformato in un unico organismo dormiente, e i lampioni servivano solo a mettere in luce la solitudine di Hellionor che, osservando le persone rincasare sotto i primi fiocchi di neve, si sentì improvvisamente più barbona del solito, nonché sfortunata e sull’orlo della disperazione.

Meglio andare in stazione si disse, cercando di non perdersi d’animo, «Magari partirà un qualche treno…» pensò a voce alta, rallentando ad un incrocio per fermarsi e capire dove andare.

«Hai sentito cosa è successo oggi in piazza?» era una signora a parlare, stretta al braccio del marito mentre chiacchierava con un’altra donna.

«Sì, sì!» si sbrigò a rispondere l’altra, agitando una mano in segno d’assenso, «Quei due delinquenti hanno pure distrutto un palazzo!» continuò, guardandosi attorno come se avesse paura che qualcuno la sentisse, «Sono pure scappati nella foresta, quei vigliacchi!» e concluse sbuffando.

«Nessuno è riuscito a vederli in faccia…?» chiese l’uomo. Mentre parlava i suoi baffi si muovevano come un piccolo spolverino, facendola sorridere.

«No…» scosse la testa l’altra, «Erano troppo occupati a guardare il mostro» concluse, lisciandosi i vestiti.

«Tesoro!» rimproverò la prima, stringendo ulteriormente la giacca al marito, «Te l’ho già detto, erano esorcisti!».

Esorcisti?

L’uomo e l’altra donna ridacchiarono appena. L’amica appoggiò affettuosamente la mano sul ventre della terza,  sorridendole amorevole, «Mi sa che questa gravidanza ti sta facendo delirare…». Come diavolo faceva una persona a non credere ad una storia come quella degli esorcisti? Era ovvio che esistessero! Chi era quel deficiente che pensava fossero solo una leggenda metropolitana?

Il gruppo si allontanò, parlottando della scelta di un nome per quella piccola vita protetta nel corpo della donna.  C’erano stati degli esorcisti, in quel paese… forse non se n’erano ancora andati. Allora quella sosta non era stata del tutto inutile!

Hellionor respirò a pieni polmoni, sentendo dentro di se un piccolo fuoco nascere e scaldarle le ossa. Se sarebbe servito a trovarli, era disposta passare la notte in bianco.

Si fece coraggio, avvicinandosi alle poche persone ancora in strada chiedendo informazioni su strani tipi vestiti di nero, ottenendo poche indicazioni, per giunta inutili se non addirittura sbagliate. Probabilmente avrebbe fatto prima a camminare a vuoto, cercando qualcuno con la faccia sospetta, o con la spilla, oppure dei finder. Ricordava bene le loro uniformi. Non sarebbe stato difficile trovarli…

«Signorina?» era una bambina. Si era materializzata dietro di lei e le tirava il mantello. Le spalle tenute affettuosamente dai genitori, «Forse lei sta cercando quei due strani ragazzi che sono volati in cielo!» disse, alzando poi le braccia, indicandole il punto in cui riteneva fossero andati, la bambina si coprì l’occhio dentro con la piccola manina paffuta, rivolgendosi ai genitori, «Uno aveva una benda sull’occhio, vero mamma?».

Hellionor alzò lo sguardo verso il cielo ornato dalle prime stelle, poi guardò i genitori, cercando di capire la vera natura di quella conversazione. La donna le sorrise rassicurante, «Nostra figlia ha sentito che cercava gli uomini in nero che hanno distrutto il palazzo. Sono volati davvero via, Signorina, glielo assicuriamo» le disse, e l’uomo annuì.

«Alcune persone sono andati a cercarli con la polizia!» aggiunse la più piccola, guardando i genitori, cercando in qualche modo il loro consenso.

Non sapeva se credere a quella famiglia. In realtà, quella discussione aveva tutta l’aria di essere una frottola. Era quasi sicura che, girando le spalle alla famigliola, sarebbe successo qualcosa di terribile. «Grazie mille» rispose cortese, facendo un passo indietro, «Mi siete stati di grande aiuto, buonanotte!» e iniziò a camminare all’indietro, prendendo la distanza necessaria per potersi accorgere e combattere un eventuale pericolo.

E invece non successe nulla, la bambina le augurò la buonanotte e,  prima che lei potesse rendersene conto, la neve aveva già coperto la strada con un sottile strato di bianco.

 

* * *

 

Lavi inciampò nei suoi piedi, finendo con la faccia sul terreno bagnato dalla prima neve che incominciava a tingere tutto di bianco. Sentì Allen ridere mentre Timcanpy volava a qualche centimetro dal suo naso, battendo lentamente le ali dorate.

«Non dovresti ridere delle disgrazie altrui!» affermò poggiandosi sui gomiti, fissando il golem che si ostinava muoversi a destra e a sinistra, come se lo stesse invitando a rialzarsi e a rincorrerlo nuovamente. Ma prima che il suo compagno potesse dire qualsiasi cosa, una voce arrivò dal suo fianco destro.

Una voce di donna con un pessimo accento inglese.

«Finalmente vi ho trovati!», parlava come se fosse felice di vederli, «Non ce la facevo più a rincorrervi ovunque», e starnutì subito dopo.

Lavi si alzò, pulendosi la divisa con le mani, osservando la ragazza che si era fatta strada fra gli alberi e che ora li guardava come se avesse appena trovato una pentola d’oro sotto l’arcobaleno o dei vecchi amici.

«Non è un Akuma» lo rassicurò Allen, facendo affidamento al suo occhio appena guarito. Forse lei li aveva semplicemente scambiati per qualcun altro, altrimenti non si spiegava il perché di tutta quella euforia.
Sorrise poggiando la mano sul fianco. Non era molto alta – era carina, certo, ma non aveva molto seno. Cosa che non giocava a suo favore. Ad occhio e croce avrebbe detto una seconda scarsa, ma non si può avere tutto dalla vita. «STRIKE ♡» affermò avanzando verso la sconosciuta, poggiandosi al tronco di un albero con il braccio, «Perché ci stavi cercando, signorina?» le chiese con il sorriso sulle labbra, cercando di essere affascinante mentre Allen sospirava. Non era un Akuma, quindi se parlava un po’ con una rappresentante del gentil sesso non succedeva nulla, no? Prima che Lavi potesse avvicinarsi troppo la ragazza fece un passo indietro, raccogliendosi i capelli esageratamente lunghi su una spalla.

«Fai sul serio?» domandò, inarcando un sopracciglio, «Io giro mezza Europa cercando un esorcista e mi ritrovo voi due?».

Allen si avvicinò a Lavi mentre Timcanpy svolazzava attorno alla ragazza, «Voi due?» domandò retorico.

«Sai, credo che fosse un insulto, Allen» gli suggerì Lavi, rivolgendosi poi nuovamente alla ragazza «Perché cercavi un esorcista?» le chiese nuovamente, questa volta più serio, osservando il piccolo pentacolo nero che le sporcava la guancia sinistra. Beh, anche quella volta gli era andata male.

Il simbolo degli Akuma…, eppure Allen aveva detto che non era un giocattolo del Conte.

La osservò sospirare e scrollarsi un peso invisibile dalle spalle, «Non ho intenzione di dirvi perché cerco gli esorcisti» iniziò, calciando un mucchietto di neve, «Non c’è qualcuno di più serio con cui posso parlare?».

«Lo ha fatto di nuovo…» mormorò Lavi – giusto perché fosse chiaro anche ad Allen che anche quello era un inisulto – e il più piccolo si allungò a recuperare il golem prima che potesse iniziare a mangiare i capelli della ragazza.

«Il Supervisore è in città, possiamo accompagnarti da lui, anche se è tardi» suggerì il più piccolo, spostando poi lo sguardo su Lavi, che sembrava ripetergli che non sempre era il caso di fidarsi ciecamente di tutti quanti.

«Fantastico!» esultò lei, unendo le mani, sembrava essere ritornata quella straniera apparentemente solare di prima, «Mi fate strada?» domandò, come se si fosse dimenticata di averli insultati per tutto quel tempo, ed Allen non esitò a sorriderle e ad incamminarsi, mentre Lavi li affiancava ancora dubbioso.

Non era una cosa tanto furba portarsela dietro, non quando lei non voleva dire perché stava cercando degli esorcisti.

Forse era un Noah, e loro erano stati così stupidi da assecondarla.

«Non ci hai nemmeno detto come ti chiami» suggerì, mentre gli altri due camminavano a qualche metro da lui.

La sconosciuta girò appena lo sguardo, fissandolo nel suo unico occhio prima di rallentare il passo per affiancarlo, «So cosa stai pensando» disse, annuendo, «Pensi che sia un’impostora e che voglia uccidervi tutti» continuò, parlando con la stessa semplicità con cui si racconta una favola, «Ti giuro che non voglio farlo, davvero» e si mise una mano sul cuore, «Ho solo bisogno di parlare con il vostro Supervisore, poi vi dirò il mio nome» concluse regalandogli un sorriso.

Lavi la guardò attentamente, e per una frazione di secondo gli sembrò di vedere la sua unica iride riflessa in quella di lei, come davanti ad uno specchio.

«Io sono Allen Walker, piacere» si presentò comunque Allen, risvegliandolo da quella visione solipsistica.

Possibile che lui non avesse notato la stella sul suo viso? Era pure in evidenza, scura sulla pelle chiarissima, solo un cieco non l’avrebbe vista! O forse la stava semplicemente assecondando, pronto ad intervenire se qualcosa fosse andato storto. Rimase a guardare mentre lei sorrideva al più piccolo, allungando l’esile mano dal cappotto per stringere quella di lui, senza rispondere con il proprio nome. Accidenti! Nel profondo, Lavi sperava che se lo facesse scappare. Magari non aveva un nome e si vergognava, oppure non se lo ricordava. Di solito le persone che si rivolgono all’Ordine hanno tutti una brutta storia. Prima che potesse formulare una domanda concreta cercando di incastrarla e di farle sputare il rospo, sentì una leggera pressione colpirgli il bicipite, data dal gomito della ragazza che premeva contro il suo braccio.

«Tu non hai un nome?» gli domandò, «O ti chiami “Strike”?» evidentemente credeva di essere divertente.

Lavi accennò ad una leggera risata guardandola dall’alto, «Mi chiamo Lavi» le rispose sforzandosi di sorridere come sempre, «È un piacere conoscerti, carota» aggiunse, riferendosi al colore dei capelli della ragazza, di un arancione pallido tipico degli irlandesi.

«Non sono una carota…» borbottò lei come se fosse offesa, prendendosi i capelli tra le mani, pettinandoli con le dita, «Non mi piacciono nemmeno, le carote» commentò prima di alzare il viso verso di lui e riprendere a parlare, «E poi se io sono una carota tu sei un pomodoro. Ti sei visto allo specchio?» domandò retorica , indicando poi Allen, «E lui è un ravanello bianco, o un cavolfiore».

«Ehy!» Allen si toccò i capelli mentre Lavi rideva.

«Io avrei detto più un fagiolo, ma anche un cavolfiore va bene» replicò portando le mani dietro la nuca, uscendo finalmente dal bosco e rientrando in città.

Era simpatica, in fondo. Ma poteva benissimo mentire, poteva essere tutta una bella farsa. Il suo pentacolo lo affascinava, doveva ammetterlo. Poteva essere un semplice tatuaggio di pessimo gusto, o l’indizio di qualcosa di più complicato.

Dopotutto, anche Allen ne aveva uno.

 

* * *

 

La porta della camera in cui dormiva Lenalee si chiuse con un cigolio, lasciando Allen e Lavi fuori.

Hellionor sospirò, come se potesse finalmente rilassarsi. Senza fretta, si tolse da dosso la borsa e poi il mantello, lasciando cadere tutto a terra, si lisciò la gonna del vestito malconcio e poi si sedette su l’unica sedia libera, mentre il Supervisore Komui Lee ed il vecchio Bookman aspettavano che parlasse.

«È morta?» domandò, indicando con il mento la ragazza sul letto – sembrava non respirasse.

«Ovvio che no!» si sbrigò a rispondere il Supervisore, agitandosi. Che aveva detto di male?

Annuì, mordicchiandosi il labbro, cercando di scorgere il titolo sulle copertine di tutti quei libri. Non si vedeva nemmeno il pavimento della stanza! Certo che erano dei tipi strani, questi esorcisti.

«Allora?» la voce roca del vecchio la fece rabbrividire. Va bene, le dispiaceva essere piombata nel loro quartier generale improvvisato con infermeria, ma non le sembrava il caso di parlarle con quel tono. Certo, non era stato carino nemmeno pensare che quella ragazza fosse morta ma… «Chi sei?» continuò Bookman.

Inspirò l’odore di carta e chiuso, battendosi le mani sulle cosce, «Giusto, giusto» disse a bassa voce, chinandosi a prendere il borsone con cui viaggiava. Lo aprì, togliendo dal suo interno un paio di asciugamani e dei barattoli contenenti della carne secca, e infine afferrò soddisfatta un blocchetto di documenti stropicciati ed ingialliti, i bordi erano rovinati dall’umidità o strappati. «Ho dei documenti che vi potrebbero interessare…» iniziò a dire, appoggiandosi i fogli sulle gambe a testa in giù, in modo che nessuno dei due potessero leggere la prima pagina.

«Il tuo nome?» fu Komui Lee a parlare, con una serietà che non aveva dimostrato mezz’ora prima, quando Allen lo aveva svegliato dicendo di avere una persona (lei, nella fattispecie) che aveva assolutamente bisogno di parlargli. Nonostante l’identità del Supervisore dovesse rimanere più o meno segreta, e il vecchiaccio avesse cercato di convincerlo a rifiutare un colloquio preso in modo così poco ortodosso, Komui aveva accettato.

Se lui si fidava di lei, allora lei non vedeva il motivo per cui non doveva fare altrettanto.

Inspirò profondamente, giocando con il bordo di una pagina, «Hellionor» disse, e sentì un peso liberarle il cuore. Prima che potessero chiederle qualcos’altro, allungò i documenti verso il Supervisore che, dopo aver scambiato un breve sguardo con il Bookman, si allungò a prenderli.

Hellionor aveva sempre immaginato quel momento: l’incontro con l’Ordine Oscuro, la grande rivelazione. Stava consegnando nelle mani del Vaticano un documento che loro credevano scomparso, dal contenuto assolutamente folle. Komui si soffermò un paio di secondi sui fogli, prima di passargli al Bookman. Erano quattro occhi che la fissavano, spogliandola di tutto. Non si era mai mostrata così a qualcun altro.

«Non è possibile» affermò Komui, scuotendo la testa, riafferrando i fogli dalle mani di Bookman, «Questo tipo di esperimenti sono stati esplicitamente vietati dall’Ordine. Sono stato io a vietarli» continuò, spostandosi i fogli dal grembo per lasciarli su una pila di libri, come se non volesse toccarli, «È sicuramente un falso, ci stai prendendo in giro».

Hellionor scosse la testa, spostandosi i capelli dietro alle orecchie. «Non vi sto prendendo in giro, Supervisore Lee, quello che c’è scritto in quei fogli è la pura verità» ribatté, alzando gli occhi per incontrare quelli dell’altro, attraversando il vetro degli occhiali, «E lo sa che è vero. Ha riconosciuto le firme, sa che sono autentiche».

«No» s’imputò Komui, raddrizzando la schiena.

«Supervisore» lo chiamò Bookman, «Non menta  a se stesso» gli suggerì, e i ditali che indossava si sfiorarono, tintinnando, «Si tratta di un esperimento importante».

«Fallimentare» lo corresse, «Come lo sono stati tutti gli altri di questo genere. Non potremmo trarre nessun vantaggio da uno di questi esemplari».

«Non sono un esemplare fallimentare!» disse lei, a voce fin troppo alta. Quando si accorse di quello che disse, Hellionor si sentì gelare il sangue nel corpo, mentre il volto diventava improvvisamente caldo e le guance – ne era sicura – assumevano quella buffa sfumatura rossastra.

Komui non rispose, limitandosi ad assottigliare lo sguardo,  «Abbiamo distrutto tutti i documenti di Takahashi, perché tu hai questo progetto?».

Hellionor si allungò a prendere i fogli, sfogliandoli delicatamente, come se avesse paura di romperli, come se stesse toccando la sua stessa vita. Sospirò appena, estraendo dalle pagine una piccola fotografia, allungandola agli altri due, di quelle che vengono messe in una cornice e usate come soprammobile. Madre, padre, e figlia. Anche se era in bianco e nero, rovinata e bruciacchiata agli angoli, anche se Komui non aveva conosciuto di persona l’uomo di quel quadretto familiare, sapeva perfettamente di chi si trattasse.

«Dopo la fuga lo avevano dato per morto» disse.

«Disperso» lo corresse Bookman.

«Evidentemente voi dell’Ordine non siete stati così bravi a distruggere i vostri errori» continuò lei. Aveva una tristezza nella voce che presto diventò rabbia, amara alle orecchie di Hellionor stessa, «Ha portato questo progetto con se ed è andato avanti» accennò ad un sorriso, un piccolo spasmo all’angolo delle labbra. «E la cosa più divertente è che ha funzionato… più o meno» si guardò le mani, la linea della vita di entrambi i palmi era ricalcata da una più spessa, rossa, una cicatrice appena richiusa.

«Questo non è un gioco, ragazzina» la ammonì il vecchio, e lei alzò lo sguardo, allargando il sorriso.

«So benissimo che non è un gioco» gli rispose, piano, come se si fosse improvvisamente ricordata della ragazza che dormiva nel letto lì vicino e non volesse svegliarla, «Non è mai stato un gioco, per me».

Abbassò gli occhi sul fascicolo, leggendo alcune parole che ormai erano impresse nella sua mente con il fuoco: innocence artificiale, vittoria, compatibilità, esorcisti… le sembravano solo parti di una favola, una storiella impossibile.

«Per favore» li pregò, «Non so più cosa fare…» pigolò piano, rimettendo i documenti nella borsa, «Non vi sto chiedendo di perdonare mio padre…».

«Nessuno ha intenzione di perdonare Takahashi. È stato condannato, il suo nome, per l’Ordine, non esiste più».

«Allora prendetemi con voi» continuò lei, «Posso non portare il suo nome, posso dimenticarlo, se volete. So cosa fanno gli esorcisti, e so farlo anche io. Se darò problemi potrete cacciarmi dall’Ordine o uccidermi. Mi metto completamente nelle vostre mani».

Non era il genere di cose che a Komui piaceva sentire. Uccidere le persone… non faceva per lui. Con un groppo in gola, il Supervisore si alzò, tendendo la mano verso la ragazza. «Domani mattina parleremo meglio sul da farsi» le disse, stupendosi della stretta poderosa con cui aveva ricambiato, «Ora vai a chiedere al locandiere una stanza, dì di metterla sul conto dell’Ordine»

Quando Hellionor uscì, Lavi era appoggiato al muro di fianco alla porta. Non le disse niente, e lei non aprì bocca, sembrava quasi non lo avesse visto.

Non importava, lui aveva sentito tutto.

 

 

 

 


 

Note d’Autrici; do you wanna see my Mugen?

 

Salve a tutti i coraggiosi che sono giunti fino a qui.

È la prima volta che approdiamo in questo fandom assieme, quindi ci sembra quanto meno il caso di presentarci. Siamo radioactive ed yingsu, siamo in questo fandom da così tanto tempo che nel frattempo siamo diventate vecchie (letteralmente), ma ci siamo decise solo ora – dopo lustri – a scrivere questa storia.

La fan fiction ripercorrerà parte del manga, e sarà concentrata in particolare sui nostri piccoli OC (anche loro vecchi ere, ma questi sono dettagli). Li vedrete fare la loro comparsa nel corso della storia, ma sono fondamentalmente solo tre, e chi prima, chi dopo, arriveranno tutti. A loro ovviamente si affiancano i personaggi dell’opera originale, ma vedrete tutto quanto a tempo debito.

Speriamo solo che il duro e faticoso lavoro di stesura e integrazione con la trama originale possa essere apprezzato da voi come da noi.

La meccanica del cuore, inoltre, è una sorta di remake di una vecchia storia datata 2011 che raccontava la storia di una certa Hellionor, quindi se ricordate di aver letto qualcosa di simile: non preoccupatevi, non è plagio. La OC è stata riveduta e corretta nelle sue incoerenze del vecchio 2011, e speriamo che sia più credibile e che la si possa apprezzare di più. Proprio perché è un remake di una vecchia storia, abbiamo deciso di mantenere la sua vecchia struttura – forse un po’ infantile? – partendo quindi dall’inizio, proseguendo in ordine cronologico. Non dedicheremo molti capitoli alla parte «burocratica» della faccenda (solo i primi due), quindi speriamo che non vi annoi particolarmente!

Preghiamo di mantenere l’IC per quanto riguarda i personaggi dell’opera e di riuscire a mostrare la parte più vera dei tre OC presenti.

Inoltre, abbiamo voluto riprendere le notti dell’opera originale – tuttavia non saranno in ordine (prima, seconda, terza e così via), ma saranno le notti del giorno in cui si svolge la vicenda del capitolo (grossomodo), questo per dare a noi e a voi la cognizione del tempo che passa!

Ci teniamo a informare che questa storia potrà essere un po’… atipica per quanto riguarda la trama. Dato che noi siamo due romanticone e molto amanti del genere introspettivo, la storia cercherà di analizzare soprattutto gli aspetti psicologici delle persone e le dinamiche tra di loro. Insomma, non aspettatevi grandi battaglie o particolari colpi di scena (anche se, precisiamo, ci saranno!) – cerchiamo di far emozionare i lettori per i dialoghi e per i sentimenti che proviamo a far trasmettere E per questo, vorremmo anche dire che il titolo, «La meccanica del cuore» non si riferisce in alcun modo al cuore dell’Innocence, ma anche questo verrà compreso poi!

Per il resto, ringraziamo chiunque si sia fermato a leggere questo capitolo lunghissimo (purtroppo sì, i capitoli verranno piuttosto lunghi ;__;)  e vi informiamo che la storia dovrebbe essere aggiornata ogni due settimane circa, a meno di imprevisti.

Grazie per l’attenzione, e alla prossima!

 

  papavero radioattivo

 




   
 
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