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Autore: Rosemarie Green    10/07/2015    2 recensioni
Elisa, un'anziana signora di 70 anni, racconta alcune vicende della propria vita.
Dal testo:
"La guerra non era ancora cominciata e noi non conoscevamo ancora la paura, quella vera, quella che ti spezza dentro e ti mozza il respiro nel petto."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
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La signorina della copisteria


Sono nata a Trani, una piccola città di mare del sud Italia, in un soleggiato giorno di maggio.

I miei erano poveri, con altri due figli a cui badare.

La Grande Guerra era finita da qualche anno, e la gente doveva ancora riprendersi.

Nonostante le difficoltà, vivevamo come una famiglia normale, fra alti e bassi e litigi con i miei fratelli, Leonardo e Peppino.

Una mattina come tante altre, i miei fratelli erano a scuola.

Io avevo 9 anni, ma ero rimasta a casa perché la mamma non si sentiva bene e aveva bisogno di aiuto nelle faccende.

Negli ultimi tempi succedeva spesso.

Diceva che si sentiva debole e si alzava dal letto un po' più tardi.

Io, che sì ero piccola, ma abbastanza grande per capire quello che succedeva in casa, chiedevo a papà cosa avesse la mamma, e lui ogni volta mi rispondeva: “Niente, Elisa, è solo stanca.” e mi scompigliava affettuosamente i capelli.

Comunque, quella mattina, stavo spazzando la stanza, mentre lei puliva i vetri della finestra che dava su una piazzetta.

A quel tempo abitavamo al primo piano di fronte alla chiesa di Santa Chiara.

Non so come accadde (io ero di spalle): forse un giramento di testa, un mancamento...non lo so.

So solo che quando mi voltai mia madre non c'era più: era caduta dalla finestra, sbattendo la testa.

Era il 1933.

Aveva 36 anni.

Da quel momento nostro padre ci impedì di affacciarci, o anche solo di guardare quella finestra.

Io stessa non ci riuscivo e, anzi, mi ci vollero anni prima di potermi sporgere di nuovo da un davanzale.

Dopo la morte della mamma, mio padre si sposò con un'altra donna, una veneziana, si chiamava Luigia.

L'aveva conosciuta in uno dei suoi viaggi come commesso viaggiatore.

Era anche un pittore, mio padre.

Credo che una sua Madonna con Bambino sia affissa da qualche parte in un vicolo della città.

Luigia fu una brava mamma.

Per guadagnare qualcosa faceva ricami a punto a giorno, io facevo altri lavoretti che ci commissionavano: avevo imparato a cucire lavorando come apprendista per una sarta.

Si chiamava Vincenzina e per ripagarmi, oltre a qualche moneta, mi faceva leggere qualche romanzetto rosa da dei giornali.

Come ho detto prima, eravamo poveri.

Quando mio fratello Leonardo fu chiamato per la leva obbligatoria, anche Peppino lo seguì come volontario.

Aveva 17 anni.

La guerra non era ancora cominciata e noi non conoscevamo ancora la paura, quella vera, quella che ti spezza dentro e ti mozza il respiro nel petto.

Con i loro stipendi, riuscivamo a permetterci qualcosa in più.

Ricordo benissimo la gioia di rivederli a ogni licenza, come quando, una volta, Peppino venne a trovarci e mi regalò un paio di scarpe e un vestito nuovi.

Gli dissi che non avrebbe dovuto, perché quei soldi ci servivano per mangiare, ma in cuor mio ero felice che avesse pensato a me.

Non avevo mai ricevuto un regalo così bello prima di allora.

Quando iniziò la guerra, Peppino fu mandato nell'aeronautica come marconista.

Era solo un tecnico, quindi pensai che dovesse essere relativamente al sicuro.

Ma, si sa, in guerra nessuno lo è mai veramente.

Non so come, tornò da noi, ma non era più lo stesso.

Credo sia stato torturato, lui non era in grado di dirlo, non fu più in grado di fare niente.

Fu ricoverato nel manicomio di Bisceglie, una cittadina a qualche chilometro da Trani.

Io andavo a trovarlo ogni giorno in bicicletta e cercavo di portagli – per quanto fosse possibile – un po' di frutta, o qualsiasi altra cosa potesse servirgli o piacergli.

Leonardo, invece, non tornò vivo.

A guerra appena cominciata, quando ancora l'Italia non era schierata, mio padre e Luigia mi mandarono via da casa per tenermi al sicuro.

Partii per Torino con degli avvocati, amici di famiglia, che volevano aprire uno studio al nord, con l'intenzione, però, di tornare non appena le acque si fossero calmate un po'.

Mi assunsero come segretaria, così potevo anche mandare quello che guadagnavo a casa, e in più i miei datori di lavoro mi davano vitto e alloggio.

Avevo circa 15 anni.

Il viaggio in treno fu lungo e scomodo e gli Avvocati non erano di molta compagnia per un'adolescente come me.

Ricordo che prima di partire ero abbastanza tesa: non avevo mai fatto un viaggio così lungo e non sapevo quando e se sarei tornata.

Al momento dei saluti non piansi: non piangevo davanti ad altre persone da quando era morta mamma.

Non so nemmeno io bene il motivo, probabilmente non volevo mostrarmi debole, non volevo che la gente, guardandomi piangere, pensasse che fossi una povera ragazza lagnosa.

Quando arrivammo pioveva e questo non contribuì di certo a farmi apprezzare una città che mi era stata imposta.

Comunque non potevano non stupirmi le enormi strade e i palazzi signorili del centro.

Passai a Torino tutti gli anni della guerra, lavorando per gli Avvocati e frequentando un corso di stenodattilografia.

Durante quegli anni cercavo di tenermi in contatto con i miei genitori come potevo scambiandoci lettere.

Allora non c'era la tecnologia di oggi.

Oggi basta quasi un pensiero e già sei in contatto con il mondo intero.

Ma in quel periodo potevano passare settimane senza sapere nulla gli uni degli altri, e in tempo di guerra era anche peggio.

Fu con una di quelle lettere che mio padre mi diede notizia della morte di Leonardo e delle condizioni di Peppino.

Come tutte le cose, anche la guerra finì, così gli Avvocati decisero che era ora di tornare a Trani, e io non potevo essere più sollevata.

Anche se mandavo tutto lo stipendio a casa, quando tornai la situazione economica era disastrosa.

Così decisi di aprire un ufficio di copisteria.

Sapevo che non ce n'erano in città, e che nessuno sapeva scrivere a macchina.

Avevo molti clienti, sia dal Comune che dal Tribunale, e spesso mi chiamavano a fare dei lavori direttamente nei loro uffici.

In questo modo, riuscivo a mantenere la mia famiglia, che nel frattempo era diventata più numerosa.

Mio padre e Luigia avevano avuto tre figli: Titti, Renato e Angela.

Il lavoro rendeva bene e tutto andava relativamente bene.

Ormai avevo 30 anni, avevo aperto la copisteria già da qualche anno e la mia vita sembrava essersi stabilizzata.

Una mattina, però, entrò in ufficio Salvatore, l'uomo che avrei sposato di lì a qualche anno.

Lo vidi quel giorno per la prima volta, un uomo attraente, di circa 35 anni, napoletano – lo sentivo da come parlava – e faceva l'ufficiale giudiziario.

Era venuto da me per farsi trascrivere dei documenti, come tutti del resto.

E come gli altri, pensavo che non l'avrei rivisto, se non sporadicamente, per trascrivere qualche altro documento.

Però lui non era come gli altri, anzi si faceva vedere spesso.

Anni dopo esserci sposati, mi rivelò che la maggior parte delle volte veniva in copisteria con la scusa di avere documenti da scrivere, ma in realtà voleva vedere solo me.

Dopo tutto, non era la prima volta che qualcuno cercava di farsi notare. Quando ero a Torino è capitato che qualche giovane volesse uscire con me.

Io accettavo sempre e prendevo appuntamento, solo che poi non mi facevo più vedere.

Comunque, dopo qualche tempo, Salvatore mi fece la proposta, ma io rifiutai.

La mia famiglia aveva troppo bisogno di me e di quello che guadagnavo, e quindi non potevo certo lasciarla!

Mio padre, d'altro canto, voleva fossi felice, e lo stesso Luigia.

Poi, Salvatore, testardo, voleva sposarmi a tutti i costi, fece una cosa che mi colpì molto e che mi fece convincere del tutto: comprò una villa, grande, con molte stanze, in modo che i miei genitori e i miei fratellastri e Peppino, potessero vivere con noi.

 

   
 
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