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Autore: Il Pavone e la Piantana    12/07/2015    3 recensioni
La mano di Willow è stretta nella mia. Non mi lascia, stringe le mie dita con forza e le sue spalle si muovono senza riuscire a trattenere i singhiozzi. Piange, Willow, guardando ciò che vedo io. Il bianco della spuma del mare che cerca di raggiungere la riva.
Lo diceva, mia madre, che la marea torna sempre e ha atteso così tanto il suo ritorno, con la consapevolezza che non avrebbe mai varcato la soglia della loro casa. Lo sapeva, ma continuava a sperare e a credere. A farsi forza.
[...]
«La marea torna sempre, Junior, ma sono stanca». Le sue braccia trovano il mio collo e mi stringe a sé. «Ti voglio bene, Junior. Divertiti, in mare».

{Fa parte della serie Colors. || Fanfiction fortemente psicologica che tratta in modo esplicito alcune patologie psichiche || Contenuti forti}
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Bimba Mellark, Bimbo Cresta-Odair, Johanna Mason
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Colors.'
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La mano di Willow è stretta nella mia. Non mi lascia, stringe le mie dita con forza e le sue spalle si muovono senza riuscire a trattenere i singhiozzi. Piange, Willow, guardando ciò che vedo io. Il bianco della spuma del mare che cerca di raggiungere la riva.
Lo diceva, mia madre, che la marea torna sempre e ha atteso così tanto il suo ritorno, con la consapevolezza che non avrebbe mai varcato la soglia della loro casa. Lo sapeva, ma continuava a sperare e a credere. A farsi forza.
Ed io continuo ad osservare la bara bianca con dentro il corpo senza vita di mia madre. Un corpo che non muoverà più un muscolo, che non osserverà più la rete sopra la mensola e non si isolerà più, scappando dalla realtà per raggiungere quel marito che ha dato la sua vita nella guerra.
«La marea torna sempre, Junior, ma sono stanca». Le sue braccia trovano il mio collo e mi stringe a sé. «Ti voglio bene, Junior. Divertiti, in mare».
C’è tutto il Distretto, oggi, a dare l’ultimo saluto a mia madre. Gli occhi gonfi di pianto di ogni persona, che non ha fatto altro se non sussurrare quanto fosse pazza, mi danno il voltastomaco. E non faccio altro, io, se non guardare davanti a me la bara venir spinta in quella buca, vicino alla bara vuota di mio padre, come se potesse dare l’illusione che siano davvero insieme.
Willow si volta, affossando la sua testa contro il mio braccio. Mi stringe un fianco cercando quanto più possibile la mia vicinanza.
Sono solo. Guardo la terra ricoprire mia madre, sporcando la spuma di detriti dopo una mareggiata, durante l’inverno.
Accarezzo i capelli di Willow, senza emettere alcun lamento. Piangono tutti, ed io non riesco a versarne neanche mezza.
«Mamma, lo vuoi capire che papà è morto? Non tornerà, fattene una ragione e vivi la tua cazzo di vita!» Urlo, sbattendo il piatto contro il tavolo, frantumandolo.
Non ne posso più di assistere alle sue cene, nelle quali non fa altro che attendere il ritorno di qualcuno che non esiste, non più.
«Junior!»
«Che andasse a fanculo, che razza di madre è? Già non ho un padre e lei non fa niente per… Che andasse a fanculo».

E ora capisco che, forse, lei non aspettava che mio padre tornasse a casa. Aspettava che la venisse a prendere per portarla via con sé. Aspettava la morte, mia madre.
«Ti voglio bene, Junior. Divertiti, in mare». È stato il suo ultimo saluto nei miei confronti. Un ti voglio bene, un abbraccio, una raccomandazione da madre. Mi ha salutato, sapendo a cosa volesse andare incontro.
Si è lasciata annegare, riempendosi i polmoni di acqua pur di non dover più aprire gli occhi su questa vita. «Ma sono stanca». Ha preso la decisione di lasciarmi. Volontaria e ponderata. Per lei non ero abbastanza, le serviva il suo pezzo mancante. Sono suo figlio, ma non sono stato abbastanza.
Mi siedo sul divano, vicino a lei. Non mi ha nemmeno sentito, continua a cercare di intrecciare nodi con le sue mani tremanti, senza grandi risultati. Ha la mente altrove, continua a guardare la rete davanti a lei. Sussurra, di tanto in tanto, il suo nome e gli chiede di tornare, per lei. Perché lo ama, e lei ama lui. «La marea torna sempre. Ti sto aspettando».
«Mamma?»
Non mi sente, continua a rimanere chiusa nella sua mente a ricordare tempi passati, braccia che la stringevano, risa e baci. Quando io non camminavano ancora per le vie del Distretto.
«Mamma… anche se il più delle volte non ci sei, io ti voglio bene lo stesso». Bisbiglio osservando quegli occhi vacui che non sono qui. Non so se mi abbia sentito, ma si volta verso di me, alzando gli angoli della bocca.
«Tornerà, quando saremo tutti pronti».

Peeta racconta qualche storia con mia madre come protagonista, ma non sento nulla, soltanto la cantilena della sua voce rotta dal pianto. È stata una vincitrice ed è stata salvata da una certa Mags alla Mietitura dei settantacinquesimi Hunger Games. Si aspettano qualche parola anche da me, per qualche strano motivo.
Mi scanso dalla stretta della mano di Willow che si asciuga le lacrime. Le sue sopracciglia sono incurvate verso il basso, come la sua bocca, e vorrei far qualcosa di concreto per poter farla smettere. Non ha senso piangere. Mia madre è dove dovrebbe essere. Sottoterra. Insieme a mio padre.
«Mia madre…» Cerco Willow con lo sguardo, tornando indietro nel tempo. «Mia madre era la madre migliore del mondo». Dico, smettendo di parlare e tornando a stringere l’unica mano che conta, dell’unica persona che mi ha sempre visto e che mi vede. Mi abbraccia, stringendosi al mio petto. Mia madre non è stata una madre, ma nessuno deve saperlo. Le voglio bene e non ci sono parole che possano spiegare quanto sia stata comunque importante per me. E non ho mai compreso, non fino in fondo, il male che provava ogni giorno. Ogni volta che apriva gli occhi la mattina, scendendo dal letto e cercando di farsi forza al meglio delle sue possibilità.
Sono tornato a casa da meno di un’ora e sto già preparando la valigia per andarmene da Distretto. Domani prenderò il treno diretto per Capitol City. Una settimana, una settimana per stare insieme, poi riprenderò il mare per un altro mese.
Sospiro, guardando il muro davanti a me. “E io ti amo, anche se sei cattivo... Anzi, ti amo sempre.” Compongo il numero del suo alloggio all’accademia ed ogni squillo sembra quasi un battito del mio cuore. Willow avrà sempre il potere di farmi tornare un ragazzino innamorato, quel ragazzino trepidante che non fa altro che attendere di sentire la sua voce.
«Pronto?»
«Mi sei mancata, mocciosa».
Devo staccare la cornetta dall’orecchio se non voglio diventare sordo, ma rido, dopo, ripetendole di calmarsi. «Mi sei mancato anche tu, Junior!»
«Sto preparando la valigia, prendo il treno di domani mattina». Rispondo, senza smettere di ridere, senza smettere di ascoltare la sua voce che mi racconta tutte le nuove materie che ha studiato, tutte le nuove persone che ha conosciuto. E di quel gatto gigante, rinchiuso in una gabbia poco lontano l’Accademia.
«Voglio baciarti, Will». La interrompo durante uno dei suoi racconti su come Warren gli abbia fatto conoscere Dahlia e di come sia simpatica, gentile e dolce. «Non vedo l’ora che sia domani per vederti».
E vorrei stringerla, quando ascolto i suoi singhiozzi e i suoi ti amo. «Junior, mi manchi tanto. Arriva presto! Ti amo».
«Ti amo anche io, mocciosa». Sorrido, più sereno nell’averla sentita. Mi sento meglio, basta la sua voce a rischiarare qualsiasi dubbio, per eliminare le nuvole e far tornare il cielo limpido ed azzurro. Voglio abbracciarla, perché l’amo e perché mi è mancata.
«Sei tornato, Junior? La vedo la luce accesa! Apri questa cazzo di porta!» Zia Johanna sbatte frenetica i palmi sulla porta. È agitata ed è davanti a me con il fiatone di chi ha corso troppo e troppo in fretta per le proprie forze.
«Eccomi. Cosa succede, zia?» La faccio entrare e sedersi sul divano per riprendere fiato. Guarda il muro, come faccio io ogni volta che entra in casa, ma lo ignora per voltarsi verso di me, stringendomi un polso con forza.
«Tua madre sta male». Afferma, dilatando gli occhi e scuotendo la testa.
«Sta sempre male. Che ha fatto oggi? Ha detto che mio padre è tornato?» Rispondo, scostandomi da lei. Non c’è un giorno che mia madre non stia male. Vive nella sua crisi da quando ho memoria. Non c’è stato giorno in cui non è caduta nel suo stato di trance, dimenticandosi di me.
«No. Sta male sul serio. Non mangia più… non beve più… e cerca di staccarsi sempre le flebo. Pesa meno di trenta chili, Junior. Tua madre sta male e ha bisogno di te».
«Quando sono partito-»
«Sono passati tre mesi da quanto sei partito. Già pochi giorni dopo ha smesso di mangiare. Non so più cosa fare». Mi siedo di nuovo vicino alla zia e ripenso a tutte le volte che Willow mi ha detto che, quando si sta male, un abbraccio può fare la differenza. La stringo contro la mia spalla e, per la prima volta, sento il pianto di zia Johanna.
Mia madre sta male, davvero male. «Andiamo a casa, zia. Andiamo da mamma».

«Junior...» La voce di Willow mi riporta alla realtà. Annuisco, accarezzandole il dorso della mano, prima di chiudere tra le mie dita alcune delle collane fatte da mio padre. Mi avvicino alla buca, guardando verso il basso. La terra ricopre parte del bianco e mi chino, gettando le conchiglie sopra la bara, cercando di non farle rompere. E ne seguono i fiori, lanciati dalle mani di sconosciuti che avevano persino paura a parlarle, con gli occhi pieni di lacrime vuote. Mia madre non si merita questa gente e tutte queste persone non meritano di conoscerla e di piangerla.
Willow si avvicina, appoggiando il palmo della mano sulla mia spalla. Si accuccia ed il suo orecchio trova la mia schiena. Mi tocca e mi accarezza e sussurra qualcosa che non riesco a capire. Non riesco a fare altro se non osservare la terra ricoprire mia madre, che non si fermerà mai più sulla spiaggia a guardare la spuma di mare e l’orizzonte, attendendo il ritorno dell’uomo che amava. Non vedrà mai più la luce del giorno, non mi accarezzerà più i capelli, coperta dal suo lenzuolo nel soggiorno di casa sua. «Tornerà, quando saremo tutti pronti». Ed io non lo ero e non lo sono, ma ha deciso per me, concludendo che era giunto il tempo che rimanessi da solo. La sua presenza era diventata superflua e non si è fermata a pensare a come mi avrebbe lasciato la sua dipartita.

Lei non mi ha mai visto. Ero soltanto un fantasma del passato. Io non ero niente, soltanto un ragazzino che doveva crescere e proteggere in qualche modo. Non ero importante, non quanto mio padre. E me l’ha dimostrato, negli ultimi giorni della sua vita.
Guarda la finestra, mia madre, quando entro in camera sua. Non mi vede nemmeno in questo momento, con il tubicino della flebo che dondola al suo fianco ed il sangue che gocciola sul pavimento di legno.
Rimarrà la macchia, il legno assorbirà tutto. «Mamma?»
Non si volta, non l’ha mai fatto. Posso chiamarla, ma non mi sente o non mi vuole sentire. Non vuole che sia qui. «Annie?»
«Sei tornato». Alza gli angoli della bocca, alzando il braccio tremante verso di me. «Sei venuto a prendermi». Le lacrime bagnano i suoi zigomi, incastrandosi sul suo sorriso.
Non vede Junior. Vede Finnick. È tornato. Ha deciso che sarebbe tornato a prenderla. Mi avvicino al suo letto, chiudendo la flebo il cui liquido si va ad unire al sangue. «Non sono tuo marito».
«Junior...» Mi chiama, finalmente. Le accarezzo i capelli, come tante volte lei ha fatto con me, sedendomi nel bordo del letto, senza riuscire a bloccare un sospiro.
«Mamma, cosa stai facendo?» La voce si incrina, anche se non avrei voluto e le sue mani mi accarezzano le spalle e le braccia e quasi non le sento, tanto sono leggere come piume di quegli uccellini che cantavano ogni mattina per lei. Chiudo gli occhi, accarezzandole le dita della mano, sentendo con distinzione ogni osso ormai troppo pronunciato. «Cosa ti stai facendo, mamma?»
Sorride, cercando la mia guancia con il suo palmo. «La marea sta tornando, Finnick. Stai per tornare». Tutto il suo corpo trema e tossisce, abbassando il viso. «Siamo tutti pronti al ritorno della marea, ora». Chiude gli occhi, senza smettere di sorridere tra le lacrime.
I suoi polsi scricchiolano quando li stringo con più forza del dovuto. Una smorfia si dipinge sul suo volto e scatto all’indietro, vedendoli cadere lungo i suoi fianchi. «Devi mangiare». Dico, alzandomi in piedi per prendere il vassoio sul comò. Non siamo pronti. Nessuno è pronto, io non sono pronto.
Deglutisco, ritornando sul letto. «Mamma, mangi per me?» Cerco l’intonazione più dolce che possa avere, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Accenno un sorriso, ma non serve a niente la premura, adesso, perché nega con la testa e con un movimento della mano getta tutto sul pavimento.
«Non ho fame, Junior. E se non ho fame, non mangio». Continua a negare, cancellando il sorriso dal viso e tornando a guardare fuori dalla finestra. «Sto aspettando Finnick. Tu… sto aspettando Finnick. Sta per tornare da me».
Sospiro, alzandomi ancora, senza preoccuparmi del cibo che si va ad incastrare sotto le piante delle scarpe. Armeggio con il tubicino della flebo, notando come l’ago si sia rotto. «Torno subito, mamma». Sussurro, deponendole un bacio tra i capelli.
«Non posso mangiare, sto aspettando Finnick». Balbetta, coprendosi gli occhi con le mani quando le copro la vista sulla finestra. E non capisce che suo figlio è davanti a lei che cerca in tutti i modi di farla tornare indietro, di farle vivere la vita.
«Mamma...» Mi fletto sulle gambe, per guardarla dal basso all’alto. «Mamma, se torno a vivere a casa mangi? Se torno qui…» Mi blocco, incapace di proferire altre parole e mi domando perché stia cercando di combattere la sua stanchezza. Non mangia nemmeno per me, tornare qui non credo farebbe la differenza. «Mamma, non voglio perderti».
«Junior...» Sorride di nuovo, trovando i miei capelli con le dita. Li accarezza con movimenti lenti, delicati e tremanti. «Non mi perderai mai, ma Finnick sta tornando e la mamma è stanca, Junior. Non capisci? La mamma è stanca e la marea sta tornando e tu ti divertirai in mare».
No. Non capisco come si possa decidere di morire, lasciando il proprio figlio a vedere una madre distruggersi da sola. Non lo capisco e non voglio farlo. Sono stanco anche io di cercarla in ogni dove, di provare a riportarla indietro, da me. Sono stanco, ma non voglio vederla in questo stato.
«Non farmi questo, mamma. Te lo chiedo per favore». Chiudo gli occhi, appoggiando la guancia contro il suo palmo. «Per favore».

Sono seduto sull’erba, incurante del fatto che il vestito si chiazzi d’erba. La terra ricopre ogni parte di mia madre che non respirerà più, che non mi chiamerà più con il nome di mio padre, chiedendogli se sia tornato. E non riesco a distogliere lo sguardo da lei, ora, che mi ha fatto prendere la decisione più difficile della mia vita. Non sono pronto. Non ero pronto. Perché mi hai fatto questo?
Willow è seduta al mio fianco, la mano intrecciata con la mia. Disegna stelle marine sul mio dorso, con la testa appoggiata alla mia spalla. Non parla, rimane in silenzio ad osservare la terra smossa e a singhiozzare, di tanto in tanto. Non sono nemmeno capace di cancellare le lacrime dal suo viso.
«Scusami». Sussurro, stringendo le sue dita e baciandole una guancia, cercando di cancellarle il pianto, riuscendo soltanto ad avere l’effetto opposto. Mi circonda con le sue braccia, affondando la testa nell’incavo del mio collo e, dopo ore, riesco a sentire l’odore buono dei suoi capelli. Willow mi vede e mi ama.
«Non c’è niente di cui scusarsi». Arpiona la mia spalla, singhiozzando senza freni.
«Non piangere, Will». Lei non lo vorrebbe, perché è felice. Contenta di essere finita in una fossa, sottoterra, lontano da tutti, con la speranza di poter rivederlo. Cazzate. «Non piangere, Will. Non serve. Lei voleva morire. Non merita le tue lacrime». Le accarezzo i capelli senza avere la forza di rimettermi in piedi. «Lei non merita niente. Nemmeno questo funerale».
Il telefono squilla due, tre, quattro volte. Sentirò presto la sua voce, e la mano che tiene la cornetta ha cominciato a tremare. Voglio vederla. Lei è l’unica che vorrei avere vicino in questo momento, stringermi al suo corpo, baciare le sue labbra e perdermi nel suo odore.
Lei è l’unica cosa che conta. Lei è l’unica. Per me.
Eppure mia madre, al piano superiore, continua a sorridere e piangere e dire che presto mio padre arriverà. Sorride, dicendo siamo tutti pronti. Non mi tiene in considerazione. Non capisce, non mi vede. Non mi ascolta. Non mangia per me, mia madre. Non mangia per nessuno, nemmeno per suo figlio.
«Pronto?» La sua voce arriva al mio timpano come il fruscìo della coperta che, da bambino, mi proteggeva da qualsiasi ibrido presente nella mia stanza.
«Will...» La chiamo. La voce trema e le mie dita coprono gli occhi, premono su di essi cercando di scacciare quel bruciore e quelle lacrime che il mio corpo non vuole trattenere. «Will». Singhiozzo il suo nome, con il corpo che vibra, smosso dagli spasmi. Will, mia madre sta morendo.
«Junior?» È allarmata, la mia mocciosa. E non riesco a parlare, a dirle che va tutto bene ora che sento la sua voce, che vorrei non farla preoccupare, ma che non posso raggiungerla, domani, a Capitol City. Non posso lasciare il Distretto 4, non posso allontanarmi da mia madre. «Junior, che succede? Rispondi. Ci sei?»
«Will… mi dispiace, io...» Singhiozzo ancora, senza riuscire a trattenermi. Le lacrime hanno trovato la loro via lungo i miei zigomi, sino al mento. Lei mi libera, sempre.
«Junior, stai male? Che succede, Junior?» La voce le trema, agitata. Sento il suo respiro attraversare la cornetta. Non stare male anche tu, Willow.
«Mia madre...» Cerco di spiegarle, senza riuscirci. Non voglio parlarne, non voglio far star male anche lei. È così sensibile, Willow, che starebbe male per mia madre, per me. Si farebbe carico del dolore di tutti pur di cercare di scacciarlo dagli altri e non voglio. Deve sorridere, la mia Willow. «Mi dispiace, non posso venire a Capitol City, domani. Non posso, mi dispiace».
«Tua madre? Junior… prendo il primo treno disponibile. Sto arrivando, okay?» E la sua voce, ora, sembra così sicura che potrebbe davvero scacciare qualsiasi ibrido, in qualsiasi stanza della casa.
Annuisco, sebbene lei non possa vedermi. Non faccio altro che annuire, sperando che possa arrivare il prima possibile perché non sono questo bambino grande come credevo di essere, perché ho bisogno di qualcuno che mi stia vicino, ora. Perché mia madre vuole morire, lasciandomi del tutto da solo, come se non contassi nulla.

La circondo con le mie braccia, inspirando il suo odore. «Andiamo a casa, Junior? Ti preparo qualcosa da mangiare. Non hai mangiato nulla». Mi accarezza i capelli e non posso fare a meno di pensare a come li carezzasse lei, un tempo.
Nego, stringendola con più forza. Non voglio alzarmi.
Mia madre non merita niente, ma non ce la faccio a lasciarla lì dentro. Vorrei muovere le mani e scavare fino a farle sanguinare soltanto per cercare di riportarla qui. Perché è mia madre e non è giusto che abbia preso la decisione di abbandonare tutti.
Mia madre non mangia da mesi, non beve, si stacca la flebo. L’infermiere che ha chiamato Johanna non sa più come fare e la zia nemmeno. È stanca e vorrebbe che finisse tutto, che decidesse di ricominciare a vivere, perdendosi nel suo mondo, ma sarebbe ancora qui, con noi.
«Dobbiamo ricoverarla, zia». Dico, appoggiando i gomiti sul tavolo, guardandola negli occhi.
Zia nega con la testa, strisciando le unghie contro il legno della superficie, agitata. «Non vuole».
«Non me ne frega un cazzo. Deve essere ricoverata, zia!» Batto un palmo, facendola sobbalzare. Non capisco la sua testardaggine nel tenerla qui. Abbiamo un ospedale, abbiamo il personale, può essere seguita, mia madre. Possiamo cercare di riportarla indietro.
«Sei tu il suo parente. Fai quello che vuoi». Si alza, facendo strisciare la sedia, lasciandomi solo in quella cucina che ha ospitato così tante persone nel corso della mia vita. In quell’angolo, mia madre mi aveva abbracciato, chiedendomi se avessi trovato la mia perla. Nell’altro, aveva detto a Willow che la mia perla sarebbe stata sempre protetta, proprio come mio padre ha protetto lei.
Ed ora non fa altro che negare, sorridere, piangere, attendendo di morire di fame. Non esiste più Annie, è soltanto un involucro in attesa.

Le mani di Willow vagano sulle mie braccia, chiudo gli occhi, riposando la vista. Non ho bisogno di nessun altro, se non di lei. E so di dovermi alzare e tornare verso casa, mangiare qualcosa e magari cercare di dirle qualcosa. Non dovrei essere io a farle venire quegli occhi tristi e lucidi. E vedo che non sa cosa fare, o dire e quindi piange, accollandosi le lacrime che io non riesco a versare.
È colpa sua se stiamo così. Se guardo la sua terra e le lacrime della mia ragazza continuare a scendere. E lei che ci ha portato con la sua stessa volontà in questo preciso momento.
«Will». La chiamo, accarezzandole l’incavo del collo.
«Sono qui». Cerco di accennare un sorriso, prima di baciarle il triangolo di pelle lasciato scoperto dal vestito.
«Lo so che sei qui, mocciosa». Rispondo in un sussurro, prima di sentire le mie dita nella sua mano. «Grazie».
Scuote la testa, solleticandomi con i capelli lunghi, lasciati liberi sopra le sue spalle. «Io ci sono sempre. Non ti lascio».
Trovo la via verso le sue labbra e mi sembra di stare un po’ meglio, un po’ più coraggioso, un po’ meno in colpa. Se lei è con me, tutto può essere superato e sembra così forte e saggia che mi sento un moccioso in confronto a lei. Nei suoi occhi non c’è mai stato un minimo di insicurezza.
«Andiamo, Junior?»
Si alza in piedi, tendendomi la mano. Ha il vestito chiazzato d’erba, ma non sembra che le importi. Abbozza un sorriso, ma non faccio altro che guardare le ciglia ancora bagnate dal ricordo delle lacrime. Le prendo la mano, facendo finta di farmi aiutare da lei, prima di chinarmi per baciarle le palpebre e sentirne il sapore salato. La mia vita. Io ne ho ancora una.
Guardo di nuovo la terra un’ultima volta, prima di cominciare ad avanzare verso casa. Non credo tornerò mai qui. Non si merita le mie visite ad un corpo morto e mangiato dai vermi per una speranza vana.
Piange, mia madre, quando le bloccano i polsi contro la lettiga e la costringono a rimanere immobile, così da non sganciare nulla dal suo braccio.
Mia madre piange e urla il mio nome, chiedendo di farli smettere. Si dispera, dilatando gli occhi, incolpandomi del fatto che stia cercando di salvarle la vita.
«Basta, basta, Junior. Va tutto bene. Sto bene. Sta arrivando». Lo ripete in continuazione, con le lacrime che le bagnano il viso, senza nessun sorriso ad incorniciarle il volto, questa volta.
Sospiro, voltandole le spalle.
Willow mi aspetta alla fine del corridoio, la testa bassa e gli occhi tristi. Vorrei farla sorridere in qualche modo, ma non ho niente che potrei dire per tirarle su il morale. Sarebbero soltanto bugie. Non c’è niente che va bene, ora. Tiene stretta alla sua la mano di zia Johanna. Non parlano perché non c’è niente da dire in questa situazione.
«Mi sai dire perché cazzo non l’hai ricoverata prima?» Chiedo, mettendomi davanti a lei. Lei scuote la testa, abbassando lo sguardo. Io non c’ero. Ero in mare. Se fossi rimasto, se non fossi uscito tre mesi in nave, avrei saputo cosa fare. Sarei riuscito a far sì che non si ammalasse così tanto. «L’hanno messa in dialisi. Per la condizione in cui sta, non sanno quanto possa funzionare. Avrebbe bisogno di un trapianto di reni. Sono andati». La voce è più fredda del dovuto, lenta. «Hanno smesso di funzionare poco prima del ricovero, per fortuna, altrimenti non avrebbero nemmeno potuto tentare questa via». Parlo conoscendo ogni rischio, ogni problema che potrebbe sorgere. Parlo sapendo che, arrivati a questo punto, forse non c’è proprio niente da fare se continuerà a non mangiare e bere.
«Ho fatto tutto il possibile».
«È quello che avrebbero potuto dire i dottori se l’avessimo portata qui troppo tardi, Johanna». Mi sposto, sedendomi vicino a Willow, mantenendo la distanza dalla zia. Non posso credere che sia stata così stupida da non comprendere la pericolosità della situazione.
La mia mano trova subito quella di Willow che stringe con fermezza, voltandosi verso di me. È vicino a me, anche se dovrebbe essere a Capitol City, a scuola, dovrebbe studiare ed uscire con qualche sua amica. Si avvicina, sfiorandomi le labbra con le sue.
«Dovresti tornare a Capitol City». Le sussurro, accarezzandole il dorso. Non c’è niente che possa fare qui. C’è soltanto il dolore e la speranza che mia madre possa comprendere che mio padre non tornerà mai, nemmeno a prenderla per portarla via con lui.
«Non ti lascio, Junior. Non chiedermelo». Risponde, appoggiando la sua fronte sulla mia, scuotendo la testa e ne sono contento. Sono felice che decida di rimanere al mio fianco, anziché tornare alla sua vita da studentessa. Sono contento di non essere da solo a combattere tutto questo, ma di avere lei, anche se non lo merita.
Sono contento che Willow sia qui, e non dovrei esserlo.

Quando entriamo in casa, Peeta è in cucina e abbozza un sorriso vedendoci rientrare. Non riesco ancora a lasciarle la mano, nemmeno quando zia Katniss abbraccia prima lei e poi me, quando il moccioso sbuffa e le gemelle cercando di saltare sopra Willow. Non la lascio andare, non ce la faccio. Se lo facessi, uno di noi due potrebbe non tornare, questa volta.
La casa sembra più silenziosa, ora, anche se mia madre non ha mai parlato così tanto. Ma mi aspetto di vederla spuntare da qualche parte, con le mani premute sulle orecchie, o sul divano, stretta nella sua coperta ad osservare la rete e provare ad intrecciare nodi che solo mio padre sapeva fare. L’aspetto, sapendo che non tornerà.
Johanna non si presenta e la zia Katniss prende il suo piatto, ed una bottiglia di vino, e si dilegua al piano di sopra, lasciandoci con lo zio ed i mocciosi. Mangio lentamente ogni pezzo di carne, senza alzare gli occhi dal piatto. Non sono da solo, la famiglia non è formata soltanto dal sangue. Ho tutti i Mellark qui vicino a me, che mi stanno vicini. Mia madre non era nessuno in fondo, soltanto una donna che mi vedeva con una lente del passato, del suo passato.
I capelli le si aprono a ventaglio sul cuscino. È calma e sembra stia dormendo, eppure c’è qualcosa che non va in questa immagine. C’è lei, con la bocca aperta, coperta dal respiratore ed il suo petto si alza e si abbassa con un ritmo lento, mentre la macchina al suo fianco respira per lei.
«Ha ceduto il cuore». Sta dicendo il dottore, ma non lo ascolto, non del tutto. «Era talmente disidratata che non si poteva evitare questa situazione, signor Odair». Fa una pausa, posandomi una mano sulla spalla, come se dovesse confortarmi in qualche modo. Ma non c’è niente che possa fare o dire per migliorare la situazione. «Si chiama iperkaliemia, è uno scompenso elettrolitico. L'eccesso di potassio fa collassare il cuore. Era sotto dialisi, ma la situazione era troppo grave per riuscire ad eliminare tutto il potassio in eccesso».
Parla con la freddezza di un dottore, di una persona che vede queste cose tutti i giorni. Non sente nulla, vede soltanto un corpo rispondere ad una conseguenza. Non vede Annie Cresta, nello stesso modo in cui mia madre non vedeva me. Sospiro, abbassando lo sguardo e chiudendo gli occhi.
«Ed ora?» È una domanda inutile, forse, ma non posso esimermi da porla. Ora dobbiamo soltanto aspettare, c’è la possibilità che si possa svegliare. Ma lei non vuole farlo, non vuole aprire gli occhi per guardarmi e sorridermi. Non vuole niente di tutto questo, vuole rimanere lì, distesa sul letto, in un mondo tutto suo.
«Ora dobbiamo soltanto aspettare, ma le dirò...» Fa una pausa, voltando lo sguardo verso mia madre. «… la situazione è critica e non posso assicurarle che ce la farà. Mi dispiace».
«Ho capito». Rispondo, uscendo dalla camera d’ospedale, seguito dal dottore.
Alla fine, forse è riuscita nel suo intento. È riuscita ad abbandonarmi del tutto.

Willow mi ha messo a letto come se fossi un bambino, mi ha condotto in camera mia e mi ha coperto, prima di entrare nel letto con me e stringermi tra le sue braccia. L’ho lasciata fare, osservando ogni suo movimento, ogni sua espressione. Le accarezzo un fianco, baciandole la guancia e vorrei ringraziarla per tutta la sua premura, per la sua presenza. Per lei e basta, perché avrebbe potuto evitare tutto questo, senza dover necessariamente rimanermi accanto per tutto questo periodo cercando un modo di risollevarmi il morale.
«Dormi un po’, Junior». Abbozza un sorriso, facendo scivolare i suoi polpastrelli sulla mia fronte.
«Non voglio dormire, voglio guardarti». Le bacio l’angolo della bocca, intrecciando le mie gambe con le sue. È la mia Willow e potrei stare tutto il giorno soltanto ad osservarla. Perché lei è qui, per me. E mi vede. Ed io ero troppo preso da tutto ciò che stava accadendo e non le ho dato le giuste attenzioni. Mi è stata vicina, con la sua presenza, con le mani strette nelle mie, ma ho sentito comunque la sua mancanza.
Mi ripeto che mia madre non c’è mai stata, se non in brevi periodi di tempo, quando stranamente riusciva a tornare alla realtà e non dovrei sentirmi così. Non dovrebbe importarmi di dove sia ora, se sottoterra, con mio padre o dove vuole lei.
La mia mocciosa ride, piano, quando le mie mani trovano la via per le sue gambe, spostandone una sopra le mie reni. «Voglio guardarti e baciarti e mangiarti». Catturo le sue labbra, cercando di dimenticarmi di tutto. Non c’è dolore, né alcuna perdita, quando sono con lei. «Fammi respirare sott’acqua, Will». Sussurro ad un palmo dalla sua bocca.
Willow mi accarezza i capelli, baciandomi la fronte e le guance, abbassandosi verso di me. Ho la testa sulle sue gambe e chiudo gli occhi, lasciandomi trasportare dai suoi tocchi. La sabbia sotto di me è fredda ed il rumore delle onde contro la battigia mi culla, trascinandomi in uno stato tra il dormiveglia.
A volte mi domando se sia davvero qui, a cercare di prendere una decisione che dovrebbe essere semplice. È passato troppo tempo, i reni non lavorano più e anche se si svegliasse sarebbe un vegetale, attaccata a tubi e macchine e cinghie per il resto della sua esistenza. L’ha detto, il dottore. L’ha detto e mi ha lasciato delle scelte da fare. Perché sono l’unico suo parente in vita.
Mia madre avrebbe dovuto pensare ad un’eventualità simile. Chi mette volontariamente il proprio figlio in una posizione del genere?
Willow rimane in silenzio, continuando ad accarezzarmi come se non avesse fatto altro nella vita. Lei non sa, non gliel’ho detto. Non posso parlarle di questo e far sì che si faccia carico anche questa scelta. Non è giusto nei suoi confronti. Mi alzo, baciandole le labbra. Vorrei solo cancellare tutto quello che è accaduto, prendere il treno e raggiungerla a Capitol City, così come doveva essere. Non dovevo prendere mia madre di forza e farla ricoverare all’ospedale perché aveva deciso di lasciarsi morire, di cercare di salvarla, senza riuscirci davvero.
Quando torniamo all’ospedale, zia Johanna veglia su mia madre. La guarda, con gli occhi tristi di una persona che si sente in colpa, ed è giusto così. Se è in quelle condizioni è anche colpa sua.
«Will...» Sussurro, facendo sussultare la zia che non ci aveva sentito entrare. «Devo parlare con Johanna».
Annuisce alzandosi quanto può sulle punte dei piedi per scoccarmi un bacio sulla guancia. Alla fine mi sono dovuto comunque abbassare io, perché la raggiungo sempre. Scosta la sua mano dalla mia, chiudendo la porta con delicatezza. Guardo le varie linee sul monitor vicino a mia madre, che non danno segni di cambiamento. Tutto nella norma.
Il respiratore fa sì che non smetta di vivere ed il cuore scandisce i battiti, lento e con le aritmie di un organo ormai rotto.
«Sei venuto a farmi la predica?» Parla, quando nota che non avrei detto nulla, se non continuare a guardarla. «Lo sguardo truce non ti si addice. Non sei Rye, a lui viene meglio».
Scuoto la testa, sospirando. Non serve a niente cercare di alleggerire la tensione, non c’è niente che si possa cambiare. «Non c’è più nulla da fare, zia».
«C’è». Risponde, pronta, dilatando gli occhi e stringendo la presa sulla mano di mia madre.
«Cosa? Lo sai?» Alzo la voce, senza riuscire a frenarmi. «Potrebbero operarla, sai? Ma per come è messa morirebbe quasi sicuramente. Potrebbero trapiantare i reni, ma non ci sono. Non per lei e non qui. Ed il cuore ha ceduto, non funziona bene nemmeno più quello». Faccio una pausa, quando la voce mi abbandona per un momento. «Anche se… anche se si dovesse svegliare, come pensi che potrebbe vivere?» Tremo e cerco di bloccare tutto il mio corpo appoggiando le mani sul ripiano poco distante.
«Cosa stai dicendo?» Johanna si alza, venendo verso di me. «Cosa stai dicendo, Junior?» Mi spintona, scuotendomi per le braccia, guardandomi con gli occhi di chi non riesce più ad essere lucida. Non vuole che mia madre muoia, come non lo voglio io, ma deve comprendere che questa, ormai, è la realtà.
«Ci ha lasciati, zia. Voleva farlo e ci ha lasciati». La mia voce si abbassa sempre di più, diventando un sussurro. Lascio che le mani di Johanna continuino a scuotermi fino a che le sue spinte diventano soltanto uno schiaffo senza alcuna forza. E l’abbraccio, di slancio, non appena le lacrime cominciano a rigarle le guance. Lei è forte, lei non piange e non riesco a fare a meno di cercare di alleviare il rumore dei suoi singhiozzi contro il mio petto.
«Mi dispiace». Affonda il suo viso sempre più a contatto con me, lasciandosi stringere e continuando a piangere.
«L’ha voluto lei, zia. L’ha voluto lei, ha fatto di tutto per arrivare a questo punto». Cerco di confortarla come posso, sebbene sappia che la colpa è anche sua perché l’ha assecondata, facendola cadere sempre più nel profondo degli abissi.
Tira su con il naso, scostandosi da me. «Ripeteva sempre… sempre che era stanca». Balbetta, asciugandosi le lacrime con il braccio. Ha il viso arrossato, gli occhi gonfi, ed il labbro le trema incontrollato.
«Il dottore ha detto di lasciarla andare». Sussurro, osservando il mare che si staglia lontano da questo ospedale, nell’orizzonte. «Devo decidere se mantenerla in vita, o ucciderla». Faccio una pausa, scuotendo la testa. Johanna rimane in silenzio, dietro le mie spalle, non pronuncia nessuna parola, ma continuo a sentire i singhiozzi che cerca di celare. «Devo decidere se uccidere mia madre, zia».

La luce del mattino filtra dalla finestra della camera, dandomi fastidio. Apro gli occhi, coprendoli subito con la mano. Willow non è distesa al mio fianco e mi sento piccolo e solo, disteso in questo letto dove sono cresciuto. Non è casa mia, questa è una casa piena di fantasmi, di dolore, di perdita e di crescita. Ho scacciato una piccola Willow, su questo materasso, facendo solo sì che andasse a dormire stretta nelle braccia di mia madre che ora non abbracceranno più nulla, se non la terra tra le sue ossa.
Alzo lo sguardo, quando sento la porta aprirsi, incontrando Willow con un vassoio tra le mani. «Ti ho portato la colazione». Dice, avvicinandosi al letto. Mi isso a sedere, lasciandole la possibilità di appoggiare il vassoio sulle mie gambe. C’è un bicchiere, al lato destro, con dentro una ginestra ed un cuore, disegnato sulla tovaglia.
È il suo modo di starmi vicino, prendendosi cura di me, come farebbe con chiunque persona della sua famiglia. E cerca di sorridermi, e di farmi sentire la sua vicinanza. E non ho le parole per esprimere l’amore e la gratitudine che provo per lei.
Non mi accorgo nemmeno di aver cominciato a piangere, se non quando le dita di Willow si posano sul mio viso, pronte a cancellarle.
«Scusa». Le sue braccia circondano il mio collo, e non importa se la mia colazione si ribalta, macchiando tutto il letto. Se l’acqua e il caffè formano chiazze sul lenzuolo. Non importa nulla, voglio soltanto far in modo di cancellare ogni suo pianto, dovuto a me.
Johanna è al mio fianco, mentre aspettiamo che il dottore apra la porta del suo studio. Willow è al mio fianco che stringe la mia mano. Non fa altro, quando è con me. Trova sempre le mie dita e le circonda con le sue. «Non ti lascio». Sembra voler dire e non ha idea di come la sua presenza mi sia di aiuto.
«Will, tu aspettaci fuori». Dico, guardandola negli occhi. Lei scuote la testa, aumentando la presa sulla mia mano, ma mi allontano da lei, prima di baciarle le labbra. «Torno presto».
Non voglio che sia presente, ascoltando il dottore parlare di morte assistita, guardarmi mentre firmo il foglio di accettazione, dando il via libera a porre fine alla vita di mia madre. Non può essere presente, è troppo per me, e lei non riuscirebbe a reggere pensando a come sia io ad ucciderla. È troppo, e non voglio farlo, ma non posso nemmeno lasciarla in quel letto, facendo proseguire la sua vita artificialmente. Non è vita, quella. Non c’è comunque, è come se fosse già morta.
Sento lo sguardo di Willow puntato nella mia schiena e la guardo un’ultima volta, prima di chiudermi la porta porta alle spalle. Il dottore saluta me e Johanna e ci fa accomodare intorno alla sua scrivania. Comincia subito a parlare delle condizioni in cui si trova la signora Odair e non ascolto una sola parola. Non ci sono stati cambiamenti, il coma si è prolungato e gli organi continuano a cedere.
«L’operazione, ora come ora, è una strada rischiosa e c’è un’alta probabilità che comunque non si risvegli più». Tiene le mani strette l’una con l’altra sul tavolo, guardando me e Johanna da dietro quegli occhiali spessi. «In questi casi siamo tenuti a parlare delle alternative». Fa una pausa, prendendo fiato. «La signora Odair verte in condizioni critiche ed in questi casi, vista anche la volontà di sua madre e le sue fragili condizioni psichiche, noi consigliamo l’eutanasia». Lo dice come se niente fosse, come se fosse normale e forse per lui lo è. Avrà visto così tante persone morire sotto le sue mani da dottore, in condizioni troppo critiche per essere salvate.
Vedo la zia sussultare con la coda dell’occhio, anche se ne avevamo già parlato, anche se sapeva che avremmo parlato proprio di questo: la decisione di ucciderla. Di porre fine alle sue sofferenze, e so che mia madre non aspettava altro.
«Sua madre viene tenuta in vita dalle macchine, noi non faremmo altro che spegnerle, interrompendo la respirazione artificiale, la stimolazione cardiaca e la dialisi. Ovviamente non sentirebbe alcun dolore, sarebbe un passaggio assolutamente indolore dallo stato comatoso alla morte».
La decisione spetta a me.
È calato il silenzio nello studio, aspettano tutti che dica qualcosa, che prenda una decisione da uomo e non da figlio. Nessuno dovrebbe vivere tutto questo. Mia madre non avrebbe dovuto arrivare a tanto.
Chiudo gli occhi, inspirando a fondo. Non riesco a parlare, a dire nulla, sebbene sappia che questa sia l’unica soluzione possibile. Non voglio dare il consenso ed essere l’ultimo artefice della sua morte. Mi ha manipolato, mia madre. Ha fatto sì che esaudissi il suo ultimo desiderio.
«Signor Odair?» Alzo lo sguardo, annuendo. E so che non basta, non basta annuire, devo firmare e dire che è giunto il tempo di interrompere la sua esistenza.
«Sì». Pronuncio, allungando il braccio sul tavolo. «Mi dica dove devo firmare».

Willow continua a stringere le mie spalle, ed io la sua vita, inspiro il suo odore cercando di concentrarmi soltanto su di lei e sul suo respiro. Non voglio più pensare, non voglio più vederla, né sentire tutto questo. Quello che è successo, la decisione che ho dovuto prendere, non è stato colpa mia. Non potevo fare altrimenti se non assecondare il desiderio di mia madre. La marea torna sempre. È tornato. Non ha tenuto conto che sarebbe stato suo figlio a far sì che, il fantasma della sua mente, potesse tornare a prenderla. Non ha tenuto conto dei miei sentimenti, delle decisioni che avrei dovuto affrontare, soltanto per un suo capriccio. «La mamma è stanca, Junior. Ti voglio bene». Lei non ha mai voluto bene a nessuno. Non a me, non a Johanna e nemmeno a zia Katniss. Lei voleva bene alla sua mente, che la portava in luoghi sconosciuti che non ho mai potuto conoscere. Non rientravo nella sua cerchia privata formata da lei e dai ricordi di mio padre. Lei non viveva d’altro se non del passato ed io non potevo farne parte, essendo il presente ed il futuro.
Il dottore armeggia con i macchinari intorno a mia madre. E come la marea che se ne va, il torace di mia madre smette di muoversi, seguendo il ritmo delle sue stesse onde, lasciandosi trasportare dalla corrente sempre più a largo, senza che nessuno le tenga la mano.
E sono stato io a decretare il suo ultimo abbandono
.




Note di fine capitolo:
Vi ringraziamo per aver letto! ♥ Speriamo che White. vi sia piaciuta!
Abbiamo deciso di scrivere un momento straziante ed importante della vita di JJ, cercando di approfondire le tematiche legate ad Annie che abbiamo annunciato in Aqua.
Fateci sapere che ne pensate.
Alla prossima ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

   
 
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