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Autore: Irian    17/07/2015    1 recensioni
Quello che ho sempre pensato riguardo alla libertà
è che la libertà arriva solo quando non hai più legami con altre persone in questo mondo.
Se hai persone a cui tieni, per cui vale la pena vivere, non puoi definirti libero, sarai sempre ancorato a qualcosa o a qualcuno.
A me non importava, né di mia madre, né di mio padre, non mi importava di loro,
e se versare del sangue era il prezzo per la libertà, l’avrei pagato.
(Clato Cato/Clove)
 
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Cato, Clove
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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AVVERTENZE:
salve, mi chiamo Irian, questa è la seconda volta che scrivo su questo fandom, che dire, ci ho preso gusto ^-^.
Visto che tra pochi giorni è il mio compleanno ho deciso di pubblicare qualcosa di molto allegro, come potete notare (ah ah ah che simpatia).
Questa è la mia prima storia a rating arancione, nel testo non sono presenti scene di sesso, ma comunque ho deciso di tenere questo rating per via delle tematiche delicate, della violenza e del linguaggio, ecco, diciamo, colorito.
Non ci sono chissà quali parolacce e imprecazioni, ma comunque non è un linguaggio raffinato e aristocratico.
Non ho inserito l’OOC negli avvertimenti, spero di aver reso bene i personaggi.
BUONA LETTURA e ci si vede a fine pagina.

 
Questa storia è per Yao Beina (famosa cantante cinese) e
Gaetano Varcasia (doppiatore italiano famoso per doppiaggi quali
“Topolino” e “Tyrion Lannister”
nelle prime 4 serie di “Game of Thrones”),
morti entrambi di tumore nel 2014.

 
 
 
Cosa si prova ad uccidere? E a provare piacere nel farlo? Non lo so, o meglio, non lo sapevo, non avevo mai amato il sangue.
Finchè non ho cominciato a uccidere, e il sangue, il sangue non si è mai fermato.
Mi chiamo Clove, e avevo 14 anni quando ho cominciato il mio allenamento, fin troppo tardi, direte voi, considerando che sono stata agli Hunger Games a soli 15 anni, ma, è meglio che vi racconti dall’inizio.
 
Avevo 14 anni compiuti da poco quando mio padre è morto, se ne è andato in fretta, non ha sofferto molto; mia madre invece ne è rimasta devastata.
Non si è occupata di me per qualche settimana, finchè non ha deciso di mandarmi all’allenamento dei favoriti
“Io non ti posso più tenere, se vincerai i giochi riuscirai a farcela senza di me, è l’unico modo”
Disse mia madre, non sembrava più la tenera donna di un tempo, ma era lei a decidere per me, e per quanto io mi opponessi, lei mi mandò agli allenamenti.
-nata per morire- mi ripetevo, ogni volta che sporgevo lo sguardo fuori dal finestrino del pullman.
Non ci capivo proprio niente, credevo fosse facile.
Una palestra, una palestra dove i ragazzi si allenano per diventare combattenti e andare volontari agli Hunger Games.
Non ero mai stata una combattente, mi piaceva correre e fare qualche verticale, ero agile, ma non ero forte, e non avevo idea di cosa volesse dire provare del dolore.
Quando arrivai mi fecero indossare una tuta nera e rossa, legare i miei capelli neri in una coda, e poi mi fecero ascoltare il discorso di un tizio.
Alto, scuro di pelle, occhi marroni, sfacciato, parlava ad un gruppo di ragazzi vestiti come me, erano tutti maschi, nessuna ragazza né una donna.
“Allora.
Ci sono due piaceri nella vita” disse l’uomo alzando gli occhi al cielo, Marcus era il suo nome
“Il primo è fottere una donna che vuole essere fottuta da voi; e il secondo, è uccidere un uomo che sta cercando di uccidervi…per la prima, dovrete cavarvela da soli” ridacchiò “Ma per l’altra, forse potrei darvi una mano”.
Risero tutti e corsero ad alcune postazioni.
Mi spinsero su quello che sembrava un ring, mi passarono un coltello e il ragazzo davanti a me, moro, mi fissava.
Dovevo combattere, e io non avevo la minima idea di come si facesse, di come si usasse un coltello, una spada, un arco.
Mi mandarono in infermeria con un pugnale nella mano, quello era tutto ciò che avevo ricavato dall’incontro, inutile dire che la mia speranza era volata via e che mai, avrei potuto farcela.
So di non aver spiegato molto, di essere passata da momento a momento con poca connessione e poco approfondimento, ma la verità, la verità, è che io non ricordo molto.
Ricordo solo il viso di mia madre quando mi disse di andare via, i suoi occhi persi nel vuoto, le occhiate di Marcus mentre parlava in confidenza ai ragazzi, le sue risate a denti stretti, la mia corsa contro l’avversario, il tonfo a terra, il dolore.
Non ricordo altro perché è stato il quel preciso momento capito che ero destinata a morire.
La donna dell’infermeria non mi rivolse la parola, mi mandò di nuovo a combattere dopo avermi applicato un semplice bendaggio.
Il mio avversario era ancora lì, in piedi, con lo sguardo orgoglioso e la voglia di farmi male.
Corse verso di me, mi abbassai cercando di evitarlo, con forza conficcò il suo coltello nella mia schiena, proprio in mezzo alla colonna vertebrale.
Sapevo cos’era l’anatomia, e sapevo cos’era una frattura, crollai a terra e svenni.
Mi risvegliai in infermeria, di nuovo, con un nuovo bendaggio, non c’era nessuno.
Mi alzai e mi specchiai di fronte ad un lavabo.
I miei capelli neri erano sporchi di grumi di sangue, il mio viso, con i lineamenti pronunciati e spigolosi, il mento allungato, il naso piccolo e la bocca sottile.
Ero bassa e gracile, mi girai, guardai la ferita.
Tutta la pelle intorno al bendaggio andava dal rosso al viola, graffi, pelle straziata, sangue raggrumato; il dolore era forte, ma quello che mi fece piangere fu il dipinto, quel quadro che avevo impresso sulla pelle.
Singhiozzai pensando a che morte atroce avrei avuto, a forza di combattimenti sarei morta straziata tra le urla, e chissà, dopo cosa ci avrebbero fatto con il mio cadavere, avrebbero potuto stuprarmi da morta, per quanto ne sapevo.
Mi lasciarono in pace per quella sera, a cena però mi obbligarono ad unirmi al gruppo; c’era un area aperta dove campeggiava un grande fuoco, alcuni ragazzi posizionarono una brace e ci appoggiarono della carne.
Ero affamata, non mangiavo da quella mattina e con tutto quello sforzo, non so cosa avrei potuto mangiare.
Ero appoggiata su uno dei fuochi, la schiena ricurva in modo che mi dolesse meno.
Un ragazzo si affiancò a me, biondo, alto, aveva una fasciatura al gomito.
“Sei come tutti noi quando siamo arrivati qui” disse tutto ad un tratto
“Cosa vuoi dire?” dissi continuando a fissare la carne
“Quando arrivi qui, sei un fiore, con i petali bianchi e morbidi, poi cominci l’allenamento, e piano piano il fiore si piega, si macchia, finchè non si secca e muore, questo è quello che succede a tutti”
Continuai ad ascoltare le sue parole, accompagnate dallo sfrigolare del fuoco e dalle scintille rosse che sembravano solo evidenziare e dare una nuova luce a tutte le mie ferite.
 “Io la vedo in un modo diverso” disse all’improvviso
“Questo è come un gioco, e in questo gioco hai due alternative: vincere o morire” mi guardava, mentre io non riuscivo a staccare lo sguardo dal fuoco
“Se morirai, non pensare che a qualcuno interessi, la giustizia non verrà attuata se tu muori, sarà solo una vita in meno, e a loro questo non interessa, non gliene frega un cazzo di te.
Quindi mi sono detto, perché non provare a vincere? Provare a diventare forte, combattere, anche uccidere, non lo facciamo perché siamo cattivi, lo facciamo perché non abbiamo scelta”
“C’è sempre un’altra scelta”
“Sì, ma l’altra scelta non cambia le cose, e l’unica a ferirsi sei tu, l’abbiamo imparato tutti”
Poi si alzò e mi lasciò da sola a riflettere, non sapevo nemmeno il suo nome, eppure le sue parole mi avevano colpita nel profondo.
 
Il giorno dopo feci una gran fatica per alzarmi dalla mia brandina, avevo la schiena e la mano che pulsavano ad ogni movimento, la doccia sarebbe stata insopportabile, così intinsi dei panni nell’acqua calda e mi lavai così.
Scesi in quella che doveva essere una piccola mensa, presi una ciotola di latte freddo e lo bevvi senza proferire parola.
Nessuno mi guardò, ero contenta di essere ignorata; finchè non si sedette accanto a me il ragazzo dell’altra sera
“Allora?” mi chiese
“Allora…questo è un gioco, e io voglio provare a vincere” dissi
Ci avevo riflettuto tutta la notte e avevo deciso che la me di prima non sarebbe più tornata, se dovevo vincere avrei dovuto uccidere, versare del sangue, ma ormai, non mi importava più, non c’era nessuno di cui dovermi preoccupare.
Quello che ho sempre pensato riguardo alla libertà è che la libertà arriva solo quando non hai più legami con altre persone in questo mondo.
Se hai persone a cui tieni, per cui vale la pena vivere, non puoi definirti libero, sarai sempre ancorato a qualcosa o a qualcuno.
A me non importava, né di mia madre, né di mio padre, non mi importava di loro, e se versare del sangue era il prezzo per la libertà, l’avrei pagato.
Sorrise guardandomi negli occhi
“Comunque mi chiamo Cato” disse e ci stringemmo la mano “Io sono Clove”.
Tornai a bere il mio latte.
 
Quella mattina Marcus percorreva la sala in lungo e in largo “Bene ragazzi, dovrete attraversare questo campo minato, ci sono dei punti in cui le mine non ci sono, ma non vi dirò quali”
Il campo era marrone scuro e percorreva l’intera lunghezza della sala.
“Ricorda” mi sussurrò Cato “O vinci o muori”
 
Quando arrivò il mio turno tenni in mano due pugnali e presi la rincorsa per poi saltare, sperando di trovare punti sicuri.
Il ragazzo moro, quello del combattimento, mi fece inciampare.
Quello che successe mi passò davanti agli occhi come un film.
Sarei finita stesa a terra, se non fosse per i due pugnali che avevo in mano che si conficcarono nel terreno, lasciandomi sospesa in verticale sopra il campo, con le mani ancorate ai manici delle due lame, per non cadere.
Scesi giù da quella posizione delicatamente, poggiando i piedi vicino ai pugnali, sfilandoli poi piano dal terreno.
Mi buttai in avanti con tutta la forza che avevo, sperando di non atterrare su una mina.
Arrivai sul terreno sicuro, mi sbucciai le ginocchia, ma almeno ero salva.
Avrei voluto piangere, ma non avrei mai permesso che mi vedessero in lacrime, così respirai profondamente e mi alzai, lasciando il posto a chi dopo di me avrebbe dovuto saltare.
 
 
I giorni seguenti si susseguirono in modo monotono, quasi metodico.
Il ragazzo di fronte a me era sempre quel ragazzo moro con gli occhi blu, da quando ero arrivata aveva fatto di tutto per uccidermi, non lo biasimo, suppongo che sia quella l’idea con cui si parte.
Eravamo pronti per l’incontro e dopo giorni e giorni passati a scalfire manichini e a lottare, pensavo di potercela fare.
Corse verso di me, mi abbassai come la prima volta ma stavolta in mio coltello si conficcò nella sua rotula, facendolo urlare dal dolore.
E fu quella la prima volta, la prima volta in cui fui felice e provai piacere nell’aver colpito qualcuno.
Il sangue che sgorgava dalla sua pelle, il suo corpo che si contorceva, le sue urla.
Io ero in piedi davanti a lui, lo fissai, ero fredda, distaccata, sicura.
In pochi secondi la sua sofferenza finì, il mio pugnale finì conficcato nel suo petto e quel ragazzo, non sapevo nemmeno il suo nome, era stata la mia prima vittima; cadde a terra inerme, chiuse gli occhi.
Presi un lembo del suo vestito e ci pulii il mio coltello, grumi di sangue ancora rosso macchiarono la sua veste.
 
Mi spostai ad un’altra postazione e picchiai con forza il manichino che avevo davanti.
Continuai fino all’ora di cena, avevo le nocche devastate, ma non mi importava.
Per cena allestirono la solita griglia e ci misero sopra dei pezzi di pane e delle fette di pollo.
Le mangiammo sporcandoci le mani, il sapore del pane bruciato e del pollo carnoso si fusero nella mia bocca dandomi sollievo dalla lunga giornata.
Cato mi fissava con un sorriso beffardo.
“Che c’è?”
“Hai reagito bene”
“A cosa?”
“Al tuo primo omicidio”
Avrei dovuto dire “non è stato un omicidio” ma avrei solo mentito.
“Funziona così: continui a muoverti in questo circolo ematico senza fermarti mai, continuando a giocare, continuando a vincere”
“Tra poco ci saranno gli Hunger Games, vorrei offrirmi volontaria”
“Ti senti pronta?”
Annuisco
“Vorrei andarci anche io”
“Ci andremo insieme allora”
“Io…non mi farò troppi problemi se rimarremo in due, non esiterò ad ucciderti”
“Nemmeno io”
Quello che succede dopo è difficile da descrivere, è successo in un momento.
Un momento prima stavo parlando con Cato, un momento dopo mi ritrovai (in una selva oscura che la diritta via era smarrita…ehm *tossisce* scusate, proseguiamo) le sue labbra schiacciate contro le mie, erano calde.
Attorcigliai le mie braccia al suo collo, non volevo che mi lasciasse andare, volevo continuare a baciarlo e a sentirmi protetta dalle sue braccia forti.
Quando ci staccammo il cielo era ormai di un nero fuliginoso, nemmeno l’ombra di una stella.
 
Tornai nelle camere destinate alle donne, dove c’ero solo io e così avevo tutto lo spazio e la privacy necessaria.
Lavai con un panno caldo le ferite, il sangue e il sudore, poi andai a dormire.
 
Nei giorni seguenti, sembrava quasi che si preoccupassero di noi: ci fecero fare un bagno caldo, ci disinfettarono tutte le ferite, ci diedero creme e ci fecero mangiare tre volte al giorno.
 
Quando andai agli Hunger Games successe l’inevitabile.
Lottai, uccisi.
Sono morta.
Cato mi ha vendicata e poi è morto anche lui.
Abbiamo giocato.
 
Born to die.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Questa è la storia più lunga che io abbai mai scritto, spero che siate riusciti ad arrivare fino in fondo.
Che dire, amo Clato fino alla morte, e quindi ho deciso di pubblicare un’altra storia sui favoriti, meritano tutto il nostro tempo^-^.
Non ho molto da dire, soltanto, lasciatemi un parere positivo o una critica, mi farà molto piacere :3
Baci a tutti,
Irian<3
 
 
 
 

 
  
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