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Autore: Marti Lestrange    17/07/2015    4 recensioni
[STORIA SOSPESA]
Long Bellarke {Bellamy Blake/Clarke Griffin}; modern!AU.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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{Mi scuso immensamente per l'imbarazzante ritardo con il quale mi ritrovo ad aggiornare questa storia. Non me ne vogliate, ma l'ispirazione era andata in vacanza e ora sembra tornata. Mi perdonate? Buona lettura a tutti!}


“Forse non si desiderava tanto essere amati quanto essere capiti.”
 
 
fireproof
capitolo quattro
run boy run
 
 
{Bellamy}
Credo che il silenzio sia un'arma. A volte pronunciamo così tante parole da stordirci, facciamo lunghissimi discorsi senza un senso logico apparente, ci attacchiamo a certi aneddoti e li raccontiamo appassionatamente, senza neanche chiederci se chi siede di fronte a noi - chi ascolta - sia effettivamente interessato o anche solo minimamente attento. Riversiamo sugli altri la nostra vita, ci perdiamo nei ricordi e andiamo avanti così, quasi per inerzia, una tazza di caffè tra le mani infreddolite e la neve che cade oltre il vetro. 
 
Ci fermiamo così poco a chiederci se chi ci ascolta stia ascoltando davvero oppure simuli un interesse fioco, stagnante, corroso dalla noia. Magari annuisce ma sta pensando ai fatti suoi; ci guarda ma in realtà ci fissa senza vederci davvero, lo sguardo vacuo, chiedendosi quanto manchi alla prossima lezione solo per non sentire più il nostro stupido ciarlare; si fissa le mani implorando una pietà di un dio lontano. 
 
E riscopriamo la virtù del silenzio. In rari momenti della vita - nel bel mezzo di una confusionaria lezione di matematica, mentre siedi in mensa e i tuoi amici gridano e scherzano e sparano fesserie, oppure quando all'improvviso ascolti parole che non avresti mai voluto sentire - capisci che sarebbe molto meglio tacere, quando la lingua ti prude e il cuore ti batte così forte che non rispondi di te stesso, quando sei così arrabbiato da non riuscire a trattenerti, quando parole affilate come coltelli volano per la stanza e non puoi fare altro che rimediare come puoi, dopo, quando è troppo tardi per rimangiartele. 
 
Entro all'ambulatorio Griffin e nella sala d'attesa ordinata e pulita non c'è ancora nessuno. Mi sembra strano vederla vuota e mi chiedo quando, durante la mia prima settimana di lavoro, mi sia abituato al suo caos famigliare di bambini urlanti e madri preoccupate e padri pensierosi. Sto per avvicinarmi allo studio della dottoressa Griffin per annunciarle il mio arrivo, quando sento il litigio. Le voci della Griffin e di sua figlia Clarke risuonano alte attraverso la porta leggermente dischiusa e arrivano fino a me. 
 
«Sei tu che non capisci, allora!» urla Clarke. 
Non l'ho mai sentita agitarsi così, lei che non si scompone mai, che raramente perde il controllo, anche nelle situazioni più difficili. 
 
In quella prima settimana l'ho vista aiutare sua madre con i pazienti, l'ho osservata mentre lei credeva che lo facessi solo per imparare, per poi affiancarla nel suo lavoro, l'ho guardata passare dalla dolcezza con la quale rassicurava i bambini spaventati e atterriti, alla sicurezza di sè esibita davanti al sangue e al braccio rotto di un bimbo di cinque anni, che era stato rassicurato in attesa dell'intervento di Abigail. 
 
E ora la Principessa urla contro sua madre, per ragioni a me sconosciute, incurante di chi possa entrare e sentirla. 
«E allora fammi capire, Clarke» replica la Griffin, esasperata. «Fammi capire cosa vuoi.»
«Ciò che voglio non potrò mai ottenerlo» dice la ragazza con tono più contenuto, più basso, quasi incrinato. «Mai più.»
«Io sono qui, Clarke. Sono qui. E tutto ciò che vorrei è aiutarti, in qualche modo, farti capire che potrai sempre contare su di me.»
Non sento più niente, tranne silenzio. 
 
Eccola, la pace prima della tempesta. Quel barlume di serenità che anticipa un uragano. E il silenzio è così bello e immoto che mi ci perdo, in piedi al centro della sala d'attesa, lo zaino in spalla, lo sguardo vacuo. Immagino di non essere lì, di non essere mai entrato, di non aver mai picchiato quel dannato poliziotto e di essere lontano da Anacostia miglia e miglia, via dal passato e dall'aria rarefatta della periferia. Lontano da Clarke.
 
«Tu non sei papà, e non lo sarai mai!» grida lei improvvisamente. 
Poi, un rumore di passi, la porta che si apre, e Clarke è di fronte a me. Se ne sta in piedi, il viso rigato di lacrime salate, gli occhi lampeggianti e lucidi di un pianto mal trattenuto, le mani tremanti strette a pugno.
 
«Blake!» esclama, furente. «Cosa ci fai qui?»
Rispondo a mezza voce, forse perché capisco che alzare i toni non mi porterà da nessuna parte, in questa situazione, forse perché le sue lacrime calde su quelle guance rosee mi destabilizzano, forse perché vedere Clarke Griffin in lacrime è troppo per questa vita. «Sono qui per lavoro, ricordi?» 
«Hai sentito tutto?»
Mi stringo nelle spalle. «Ti direi una bugia se negassi.»
«Piaciuto, lo spettacolo?»
 
Mi chiedo perché debba per forza cercare a tutti i costi di farmi passare per lo stronzo che non sono - che almeno non sono in quel momento, con lei, oggi. 
«Che domanda del cazzo, Principessa» replico e a questo punto voglio comportarmi da stronzo, voglio ferirla anche io, voglio replicare, voglio levarle dalla faccia quel ghigno insopportabile da so-tutto-io.
«Vai al diavolo, Blake!» mi grida in faccia prima di passarmi accanto e prendere la via dell'uscita dell'ambulatorio. La porta d'ingresso sbatte dietro le sue spalle tese e io la guardo andare via, percorrere con foga e passo marziale il vialetto e sparire oltre una siepe. Andata. Scomparsa come fumo, o come un'apparizione infernale o una furia. 
 
E rimango lì, in piedi, le braccia lungo i fianchi, statico e cristallizzato. Mi chiedo come sarebbe andata se invece di provocarci come al solito fossimo rimasti in silenzio, se io l'avessi guardata andare via o semplicemente fossi andato via io stesso, lontano da casa Griffin e dai problemi di una famiglia incompleta e spezzata, lontano dalle lacrime di Clarke e dal suo viso sconvolto. Oppure sarei dovuto stare zitto, e muto, inerme di fronte alla rabbia di Clarke, senza mettere altra carne al fuoco. In tutti e due i casi, non sarei stato coerente con me stesso, è questo il punto. E non vorrei mai diventare incoerente, soprattutto agli occhi della Principessa di Anacostia. 
 
Abigail Griffin esce lentamente dal suo studio, il passo stanco di chi ha finito le parole e le intenzioni, scuotendo la testa mollemente. Poi si accorge di me, che me ne sto ancora in piedi lì in mezzo come un cretino. Ed è proprio così che devo apparirle. Un cretino.
 
«Bellamy?» mi chiede, stupita, come se l'ultima settimana si sia all'improvviso volatilizzata e lei si stupisca di vedermi nel suo ambulatorio.
«Non avrei dovuto sentire niente, lo so» la anticipo alzando una mano, sulla difensiva. Non ho affatto voglia di prendermi un'altra strigliata. Per altro immeritata, per una volta. 
«Stavo per dirti che mi dispiaceva, per qualsiasi cosa avessi sentito o ti avesse gridato addosso mia figlia.»
 
Ammutolisco. Un adulto si scusa con me, è incredibile. E suona così irreale...
«Non si deve scusare, sono arrivato troppo presto e-»
«No, Bellamy» questa volta è Abigail ad alzare una mano, scuotendo la testa «non avrei mai dovuto affrontare quel discorso adesso, qui all'ambulatorio, dove chiunque avrebbe potuto sentirci. Sei arrivato tu, e per assurdo è meglio così.»
Sto in silenzio, in attesa di altre parole che sento sospese sulle labbra della donna.
«Conosci Clarke, hai avuto modo di conoscerla ancora meglio in questa prima settimana di lavoro qui con noi, e so che potresti capirla, anzi, so che la capisci. È una cosa che sento.»
Non so cosa replicare e scelgo ancora una volta la via del silenzio e capisco quanto sia sacro e quanto poco lo abbia considerato, prima di questo momento.
 
«Quello che ti sto per chiedere è forse troppo, lo capisco» continua la Griffin passandosi una mano tra i capelli castani legati in una coda scomposta. 
So già cosa sta per chiedermi. Lo so e mi risale dalle viscere un sapore di bile. Il pensiero è amaro e sorprendentemente elettrizzante allo stesso tempo, come qualcosa che temi ma che aneli, che ti fa paura ma che comunque non vedi l'ora di affrontare, e forse capisci quanto tu lo abbia desiderato, in fondo.
«Parleresti con Clarke?» mi chiede in un soffio, timorosa della mia reazione. «Magari ti manderà al diavolo» e quelle parole sulle bocca di Abigail Griffin mi strappano un sorriso «ma magari potrebbe ascoltarti, invece, chi lo sa, e addirittura parlare con te...»
 
Un istinto irrazionale mi raschia la gola, l'innata tendenza a proteggere i deboli - coltivata a lungo con mia madre e poi con Octavia - mista ad un senso di ineluttabile obbligo mi spingerebbe a mettere un braccio sulla spalla della donna, per rassicurarla e dirle che farò del mio meglio, perché è questo che faccio, con le persone che sono gentili con me gratuitamente, la maggior parte delle volte senza ricevere da me nulla in cambio, pur non volendo effettivamente nulla. Abbatto le mie mura e faccio uscire il vero me, ciò che ero tanti anni fa, nella mia vita ingenua di bambino, nella mia cameretta con i poster di Superman. 
 
Vorrei ma non posso. Non posso travalicare quel confine che mi separa dalla verità e non posso e non voglio che altri la vedano, chiara come la sto vedendo io adesso, così mi limito ad annuire, silenzioso. Di nuovo il silenzio, compagno di questa mia strana giornata. «Ci proverò.»
La Griffin mi sorride. È stanca e all'improvviso tutti gli anni che ha le esplodono negli occhi, si riversano nelle rughe che le increspano la fronte, nelle mani che tremano e che cercano un appiglio, nelle gambe malferme che la portano a sedersi su una sedia lì accanto, gli occhi bassi, quelle stesse mani sul viso teso, a coprire gli occhi lucidi.
 
E di nuovo vorrei sederle accanto, stringerle quelle mani tra le mie, grandi e ferme, e borbottarle che andrà tutto bene, che avrebbe imparato a parlare con sua figlia senza averlo mai fatto prima, che Clarke l'avrebbe perdonata, che sarebbe riuscita a riempire i vuoti lasciati dalla morte del padre, che un giorno si sarebbe svegliata e avrebbe capito di essere andata avanti e sua madre sarebbe sempre stata lì, accanto a lei. Quindi non doveva mollare, non doveva arrendersi, perché Clarke era come lui: respingeva chi le voleva bene, in un gioco pericoloso e controproducente che la spingeva verso la solitudine e sere nere passate nella sua stanza, a chiedersi come sarebbe stato, mentre fuori il mondo mutava e lei era sempre la stessa, cristallizzata e immobile, imbalsamata nel suo dolore. 
 
«Ci proverò» ripeto passandole accanto.
Abigail alza il viso su di me e mi sorride debolmente. «Grazie, Bellamy.»
Quel ringraziamento suona come un congedo.
 
 
* * *
 
 
{Clarke}
A quest'ora del pomeriggio il parco è praticamente deserto. Comincia a fare caldo e le solite mamme con bambini urlanti e casinisti si riparano all'ombra delle loro case prima di portarli a giocare nel tranquillo parchetto dietro casa. L'acqua del piccolo laghetto è tranquilla e immota e fissarla mi restituisce una parvenza di calma. Osservo un gruppo di papere che nuota placido e il mio sguardo si perde all'orizzonte, sul profilo degli alti edifici del centro di Washington, luccicanti al sole, e sulle cime verdi degli alberi lì intorno. Uno stormo di uccelli si alza in volo e per un momento oscura il cielo. 
 
La rabbia sorda che mi ha attanagliato lo stomaco poco prima comincia pian piano ad affievolirsi, sgonfiandosi come un palloncino. È così da un po': l'iniziale ribellione è passata da un tetro mutismo a scoppi d'ira improvvisi. Forse è tutta questa dannata situazione a farmi perdere il controllo, e stento a riconoscermi. Forse è la palpabile mancanza di mio padre a farsi sentire più che mai, è la mancanza di fiducia da parte di mia madre da quando hanno scoperto il mio "raggiro ai danni della sanità pubblica" e mi hanno mandata alla Correction, è la presenza destabilizzante di una terza persona all'ambulatorio e nell'orbita gravitazionale della mia vita a casa, nei rapporti già tesi con mia madre, nella percezione che ho di me stessa. 
 
Ammettere con me stessa che Bellamy Blake mi confonde non è facile e la rivelazione ha un che di soprannaturale. Non posso permettermi di dargli questo potere su di me, eppure è così: lui con i suoi silenzi discreti - totalmente differenti dalla sua irritante presenza a scuola -; lui che osserva - e mi osserva - senza dire niente, quasi come se gli importasse veramente; lui che appare così diverso dall'idea di Bellamy Blake che presenta al mondo da spingermi a stare zitta io stessa, ad abbandonare il sarcasmo e l'ironia pungente, ad affiancarlo e dargli indicazioni senza malizia alcuna e senza filtri. Mi spinge ad essere me stessa ma in una maniera nuova e disarmante, lontana dai modi bruschi di cui mi sono appropriata negli ultimi tempi, distanziandomi da quella nuvola di malumore che mi accompagna da mesi, abbandonando le maschere con le quali mi proteggo dal mondo e lasciandomi così ogni paura alle spalle.
 
Un rumore di passi alle mie spalle mi riscuote e l'oggetto dei miei pensieri si materializza di fronte a me, alto e silenzioso, ed è così strano, quel silenzio, che mi chiedo quando e come se ne sia appropriato e se sia davvero possibile pensare a Bellamy Blake come una presenza rassicurante e insieme incalzante, mentre lui, guardandomi, mi spinge ad essere coraggiosa, a tirare fuori la vecchia me - la Clarke che rideva spesso e volentieri, che sorrideva ad una giornata di sole, che sapeva divertirsi con poco e che coltivava l'ironia con spirito logico e un'innata acutezza -, a sotterrare l'ascia di guerra che brandisco contro gli altri, a distendere la fronte e aprire lo sguardo. Ed è strano e spiazzante quanto l'idea di Bellamy sia diversa da Bellamy, quanto le maschere che ha sempre indossato non corrispondano a chi c'è sotto di esse, quanto quello sguardo fisso e fiero possa trasmettermi, se in modo consapevole non posso saperlo, ma comunque con intenzione ferma e modi schietti e diretti. 
 
«Ero certo che ti avrei trovata qui» dice lui prendendo posto accanto a me sulla panchina ricoperta di scritte e incisioni sulla quale sono seduta. Non mi chiede il permesso. 
«Ah, sì?»
Annuisce. «Venivi sempre qui, da bambina, quando io e gli altri ti facevamo arrabbiare e volevi scappare via.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Una volta ti ho seguita. Avevamo litigato furiosamente, come dei matti, per il predominio sullo scivolo. Ti ricordi?»
Quasi quasi mi scappa una risata. Eccome se me lo ricordo...
«Come fosse ieri» rispondo solo annuendo, divertita.
«Ecco, quella volta ti ho seguita fin qui. Ero curioso di sapere dove scappavi ogni volta. »
«Perché non hai mai detto niente?»
 
Bellamy sospira e il suo sguardo si perde lontano, anche il suo sulle cime degli alberi verdi. «Perché ti capivo. Capivo la tua voglia di scappare via, per stare da sola e leccarti le ferite» e devo aver fatto una smorfia piuttosto rumorosa perché lui si volta a guardarmi e scoppia a ridere. «Ammettilo, la nostra è sempre stata una guerra alla pari, con alti e bassi piuttosto oscillanti.»
«Se lo dici tu» borbotto. Non mi va di ammettere che il piccolo Blake è riuscito a ferirmi ben più di una volta, in passato. 
«E niente, ti capivo perché anche io scappavo via. Scappavo via da casa quando la situazione si faceva insostenibile e mi rifugiavo nel giardino di Atom, nella sua casa sull'albero, dove prima o poi lui mi trovava  e allora mi trascinava dentro e l'arrabbiatura passava.»
 
Annuisco, silenziosa. La situazione famigliare di casa Blake è nota in tutta Anacostia. E l'abbandono del capofamiglia subito dopo la nascita di Octavia è ancora sulla bocca di tutti, come se fosse l'unico evento mai accaduto nel quartiere. Cose ben peggiori si sono succedute, negli anni, eppure i Blake fanno ancora notizia e pettegolezzo, soprattutto per via delle "strane abitudini" di Aurora Blake. Personalmente, non ho mai badato molto alle dicerie e ai "gossip". Più della metà di essi sono cavolate.
 
«Scappi ancora?» gli chiedo alla fine, quando il silenzio diventa troppo spesso.
«Ogni tanto» sospira di nuovo. «La maggior parte delle volte vorrei, poi mi dico che sono grande, sono il capofamiglia, ormai, e tocca a me proteggere mia madre e mia sorella, anche da loro stesse. E allora resto.»
Osservo per un momento il suo profilo fermo, la curva del naso e delle labbra piene, i capelli scompigliati e mossi, scuri e selvaggi, la linea del collo e delle spalle, le braccia poggiate sulle ginocchia, le mani serrate. In parte imbarazzata, in parte spaventata, distolgo lo sguardo quando lui si volta verso di me. Non voglio che mi legga dentro, non voglio svelargli troppo. Non voglio e non posso. Abbassare la guardia con Bellamy significherebbe dargli troppo vantaggio, un potere che so potrebbe annientarmi, una confidenza che è troppo difficile da concedere. Non sono pronta a cambiare idea su di lui, non ancora. E sento il petto dilaniarsi, contratto, diviso tra ciò che vorrei e ciò che devo. 
 
«Stai cercando di dirmi qualcosa?» gli chiedo ancora. 
Lui apre le braccia, come a volermi dire "forse, ma mi ritrovo inerme".
«Qualunque cosa io ti dica, molto probabilmente tu faresti l'esatto opposto, Principessa. Nonostante tu non voglia ammetterlo, io ti conosco. Forse non in modo convenzionale, ma conosco le parti di te che rifiuti di mostrare e che cerchi disperatamente di nascondere. Le conosco perché siamo uguali, tu e io. La cosa sconcerta me per primo, sia chiaro, ma l'ho sempre saputo, e forse anche tu.»
Mi alzo in piedi, spolverandomi i jeans, prendendo tempo.
 
Bellamy ha ragione. Ha dannatamente ragione. Il bello è che mi piacerebbe abbassare le armi e dichiararmi sconfitta, oppure annunciare una resa che non mi uccida del tutto, e ammettere che sì, siamo uguali, e lo so anche io. Lo so da tempo, forse, e i segnali sono sempre stati fin troppo evidenti persino per chi non voleva cercarli. 
 
«Cosa vuoi che ti dica, Bellamy?» Pronunciare il suo nome ha un che di intimo, sulle mie labbra, come se lentamente stessi valicando ostacoli e abbattendo mura.
«Non mi aspetto niente» risponde lui con il tono rassegnato e tipico di chi sa già che dovrà battere in ritirata. «Non mi aspetto assolutamente niente.»
Scrollo le spalle e osservo ancora una volta il laghetto, gli alberi, gli scivoli e gli altri giochi per bambini disseminati nel parco, le panchine sparse, e assaporo la quiete che ci circonda, irreale e quasi onirica, spruzzata di sole e di un inizio d'estate. 
 
«Bene» inizio facendo qualche passo. Bellamy non si muove dalla panchina e segue attento ogni mio movimento. Mi studia e mi chiedo se ne sia consapevole. 
«Immagino che tu debba scappare via» mi sorprende rompendo il silenzio. E lo guardo per un attimo negli occhi, dove una scintilla di divertimento misto a rassegnazione mi coglie impreparata, così distolgo lo sguardo altrettamente velocemente, fissandomi le Converse luride. 
«Ci vediamo dopo all'ambulatorio, Blake» dico solo, incamminandomi.
«A dopo, Principessa» mi grida dietro lui, mentre io lentamente mi allontano. 
 
Sento i suoi occhi piantati sulla mia schiena, come se fossi un bersaglio mobile. Solo quando esco dal parco e faccio ancora qualche metro e mi lascio alle spalle Bellamy e tutto ciò che ci siamo detti mi permetto di respirare. Poggio la schiena al muro di una casetta a schiera lì vicino, la prima della mia via, e respiro. Mi chiedo quando Bellamy abbia cominciato a farmi vacillare: nel momento in cui ha preso posto accanto a me o quando, infine, con quell'ultima domanda, ha solo confermato le sue parole? Davvero sono scappata via, ancora una volta? Davvero sono scappata via da lui e dalle sue parole così come sono scappata via da mia madre, da casa mia, dal passato, dai ricordi troppo dolorosi, dalle fotografie appese alla parete e che mi parlano di una vita fa, di pomeriggi spensierati e domeniche al lago? Davvero sono scappata via da me stessa, per tutto questo tempo? 
 
Ripenso alle parole chiare e limpide di Bellamy Blake, a quella strana conversazione in un altrettanto strano pomeriggio, mentre sulle mie palpebre è ancora impresso il suo profilo serio e la sua voce risuona nelle mie orecchie. E capisco ciò che Bellamy ha cercato di dirmi. Siamo uguali, lui e io. Siamo uguali e questa cosa mi consuma, mi disturba, mi destabilizza. Questa cosa mi rende insicura, mentre in solitudine rifletto tra me e me e mi perdo nei miei pensieri e il silenzio mi avvolge, nell'immobilità di quel primo pomeriggio. Per la prima volta nella nostra vita, Bellamy e io ci siamo "capiti". Ci siamo capiti così chiaramente che sa di epifania. E capisco che la comprensione di un'altra persone è un po' come un regalo inaspettato, soprattutto se arriva da chi meno ti aspetti. 
 
È strano, quando essere capiti diventa all'improvviso più importante di essere amati. Mia madre mi ama con tutta se stessa, ma non mi capisce. Non mi capisce e forse non mi capirà mai. Bellamy invece mi capisce, nonostante tra noi non ci sia nessun sentimento. Mi capisce e, per la prima volta in quel giorno strano, so che non è un male. Non è un male. Inesplicabilmente, sorrido e mi allontano lungo la via, diretta a casa. 

 


NOTE
  • La citazione iniziale è tratta da quel capolavoro che è "1984" di George Orwell {straconsigliato, tra l'altro}; il titolo significa, letteralmente, "corri, ragazzo, corri" ed è il titolo dell'omonima canzone di Woodkid {ascoltatela, gente, se ancora non l'avete fatto}.

Non ho particolari note da fare su questo capitolo, sono sincera. Vediamo un Bellamy ancora più consapevole e credo che questa prima settimana di lavoro con la dottoressa Griffin abbia cominciato a cambiarlo notevolmente. Come avrete intuito, è Bellamy quello che capirà per primo i sentimenti che lo legano a Clarke, mentre lei - testona - ci metterà di più, ma ovviamente, avendo entrambi i POV, sarà più facile per voi comprendere i due protagonisti. In questo capitolo, Clarke comincia a considerare Bellamy sotto una luce differente: capisce che qualcosa c'è, un legame, una connessione latente, un trait d'union che la unisce a Blake, e ne è spaventata e attirata allo stesso tempo, insomma, vuole capire cosa succede e vedremo una vera e propria evoluzione nei loro rapporti a partire dal prossimo capitolo. Specifico solo un'ultima cosa: nella serie tv siamo abituati ad un'Abby poco gentile con Bellamy, insomma, non le piace granché. Qui invece Abby chiede a Bellamy di parlare con sua figlia, di aiutarla, e sembra capire lei stessa Bellamy e i suoi problemi - per quanto possa saperne lei, ovviamente. Quindi Abby è molto meno acida, ecco, e si adatta molto meglio all'Abigail Griffin di questa storia. Ci tenevo a fare questo appunto per spiegarvi bene la cosa. 

E niente, ringrazio come sempre le anime belle che recensiscono, leggono e seguono e mettono tra i preferiti: aumentate sempre di più <3 E ovviamente a tutti coloro che hanno aspettato pazientemente un aggiornamento :3

Marti.

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