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Autore: malpensandoti    18/07/2015    4 recensioni
Lei rotea le pupille, stringendo con più forza la pochette firmata. “Connie – lo corregge – E tu sei quello che si è beccato quattro giornate di squalifica perché evidentemente non sa che sputare sugli arbitri è disumano?”
~
Louis Tomlinson è il terzo giocatore più pagato al mondo e Connie - semplicemente - non lo sopporta.

one-shot divisa in tre capitoli
Genere: Generale, Sentimentale, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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non ho molto da aggiungere, questa è decisamente la parte più angst/importante di tutte!
grazie di cuore per avere pazienza come sempre!
vi adoro!
un baaaaaaaaaaaaaaacione immenso,
caterina
 




fever pitch
3/3



 
 
Louis entra ufficialmente nella sua vita con l'ufficializzazione del loro rapporto, la settimana successiva.
Niente comunicati stampa o cose del genere, basta semplicemente un bacio negli spogliatoi di Manchester UnitedNewcastle, a fine partita dopo un 1 a 0.
Il Daily Mirror si sente in dovere di dire la propria, ovviamente. Li paragona ai nuovi Posh and Becks, elogiando la bravura di Connie nell'aiutare Louis a 'uscire dal tunnel'. Il che, pensandoci bene, non è del tutto falso.
Si sono aiutati a vicenda.
Vanno a cena con Elsa quasi obbligati da quest'ultima, che per tutta la serata non fa che guardare la figlia con una strana luce negli occhi verdi, come se fosse tremendamente fiera di lei.
È così.
 
 
 
~
 

 
“...Insomma, è strano, no? Voglio dire. Louis. Louis Tomlinson. Louis Tomlinson ed io abbiamo una relazione, non è divertente? Solo qualche mese fa lo avrei ritenuto un cretino e adesso...beh, è ancora un cretino, ma-”
“Ma è il tuo cretino, giusto?” la interrompe Niall, alzando gli occhi dal paio di scarpe che si sta infilando.
La sua migliore amica in risposta arriccia le labbra e incrocia le braccia al petto, guardando fuori dalla vetrina di Foot Locker. “Se la vuoi mettere sotto il punto di vista di uno parecchio sfigato, allora sì”
Niall si alza in piedi e rotea le pupille, senza commentare. Cammina verso lo specchio appeso alla parete e gira su se stesso un paio di volte, l'espressione tesa.
“Queste?”
“Sono esattamente uguali a quelle che hai provato venti minuti fa” esclama Connie, il tono esasperato.
Il ragazzo fa schioccare la lingua e le dita, poi scuote la testa con un sorriso buffo: “No, mia piccola sbadatella. Queste hanno i lacci bianchi
La sua migliore amica gonfia il petto e impreca a bassa voce: lei odia fare shopping, specialmente se è qualcosa che richiede più di dieci minuti. Non sopporta stare chiusa dentro un negozio per secoli a decidere cosa prendere, è noioso e irritante.
Lo è ancora di più quando con lei c'è Niall, la persona più indecisa del pianeta.
“Vuoi provare anche quelle completamente nere?” il commesso gli chiede, vedendolo in difficoltà.
“No, non vuole” risponde Connie prontamente, osservando con un certo disgusto quelle righe monotone della divisa da lavoro.
Niall non sembra neanche averla in nota quando “Volentieri, grazie” sorride all'uomo, che si congeda subito.
“Basta, io me ne vado” dichiara lei allora, rimettendosi sulle spalle lo zaino di scuola lasciato sul divanetto rosso.
Afferra prima il telefono nella tasca, però: ancora nessuna risposta da parte di Louis.
“Ferma! – Niall quasi urla, agitato – Perché te ne stai andando?”
Indossa ancora le scarpe che si è provato ed è buffo poiché sta cercando disperatamente di non avvicinarsi troppo alle porte d'uscita per evitare che scatti l'allarme. Ha il volto arrossato da qualcosa molto simile alla paura.
“Perché sono ore che siamo chiusi qui dentro, Niall – ribatte Connie, spalancando gli occhi – Ti sei provato almeno sedici paia di scarpe e tutte uguali! Devo andare a casa e fin-”
No! – il suo migliore amico l'afferra per le spalle con lo sguardo angosciato, tenendola stretta – Non puoi andare a casa! Voglio...voglio dire, non puoi andare! Tu sei. Sei la mia migliore amica, Connie! Dovresti supportarmi”
Io ti supporto – scandisce seccamente la ragazza, liberandosi da quella presa con uno strattone – Non supporto il tuo essere così indeciso, però”
“Devi aiutarmi. Me lo devi” le dice quindi lui, gli occhi sgranati e chiarissimi.
La sua voce è piccola, come quella di un bambino ferito.
“Non giocare quella carta, Niall”
“Sei la mia migliore amica, Connie – mormora, come se neanche l'avesse sentita – Ho bisogno di te”
“Sei uno sfigato”
Tu! Tu dovresti sostenermi, aiutarmi in qualsiasi difficoltà! Invece ti stai arrendendo come una codarda e – si blocca con la vibrazione del suo telefono nella tasca della divisa. Afferra il Samsung dallo schermo rotto e legge presumibilmente il messaggio appena ricevuto. Quando torna a guardare Connie, l'espressione che aveva solo pochi secondi prima è come scomparsa – Sai una cosa? Vai pure a casa. Compro queste” e ora il suo tono è semplicemente Niall, il solito ragazzo di sempre.
“Tu. Sei. Pazzo” scandisce Connie, impietrita.
Deve ricordarsi sempre di quanto gli uomini della sua vita siano lunatici o non ne uscirà viva.
Neanche farlo apposta, l'altro si fa sentire l'attimo successivo. Il suo telefono vibra tra le sue dita.
Buon pomeriggio a te, girasole. X”
 
 
 
L'appartamento di Louis è molto più piccolo e privato di quello di Payne. Ricorda molto la sua persona, perché è pieno zeppo di oggetti contrastanti: Louis non ha di certo buon occhio per queste cose, ma a Connie piace lo stesso, così come adora l'abitazione semplice degli Horan.
Elsa non permetterebbe mai l'accostamento di un vaso persiano accanto a una lampada cinese, Louis invece le mostra entrambi con orgoglio, spiegandole che provengono dai viaggi fatti con la nazionale inglese.
Poi si accomodano nella cucina che s'affaccia sul soggiorno grande, sulla tavola già apparecchiata nel più semplice dei modi. Louis sembra impacciato: continua a studiare le sue espressioni in attesa e Connie gli risponde con dei sorrisi di rassicurazione e le guance calde per via dell'atmosfera.
Si guardano con quegli occhi da amanti inesperti, ridendo piano senza dire nulla, con la consapevolezza di star pensando alle stesse cose, magari con parole differenti.
“Cosa hai fatto oggi?” le domanda a un certo punto, con un sorriso strano.
Connie forse non lo nota – o fa finta di non notarlo – e “Scuola – risponde in modo indifferente – Poi ho accompagnato Niall a comprare un paio di scarpe”
Gli occhi di Louis s'accendono di consapevolezza, le chiede: “Ah sì? È stato divertente?”
“No, è stato... – lei si blocca e aggrotta le sopracciglia, percepisce le guance arrossarsi ancora – Perché diavolo mi stai guardando così?”
Louis sbatte le palpebre, con quella odiosa faccia da schiaffi innocente. “Pardon?”
“Non funziona con me, Tomlinson – Connie schiocca la lingua e scuote la testa – Il tuo muso da bambino può rimorchiare una ragazza in discoteca, non di certo quella che hai davanti”
Lui si schiarisce la voce e “Miele – mormora – Non solo questo muso da bambino potrebbe rimorchiarti, ma potrebbe senz'altro farti perdutamente innamorare”
A quel punto, Connie sa che dovrebbe ridere. Lo sguardo ilare di Louis glielo suggerisce, il suo corpo glielo suggerisce. Eppure non ci riesce e quello che fa è una misera risatina di petto, le labbra subito morsicate dall'ansia e il volto che all'improvviso impallidisce.
Lo sente ridere e ancora non sa se sia perché non vuole metterla in imbarazzo o perché semplicemente non gli interessa.
“Ah, ma allora l'ha già fatto!” esclama Louis, pieno d'orgoglio.
Gli arriva il tovagliolo di stoffa dritto nei denti. Ride più forte.
Poi però la bacia.
 

 
 
~

 
 
 
Esther le ha letto l'oroscopo, stamattina.
Con il suo accento latino, molto più marcato di quello di Elsa, le ha preparato la colazione continuando a mormorare: “Deve essere forte oggi, señorita. Deve essere forte”
Connie non crede negli oroscopi, non crede nemmeno nel karma o in Dio. Crede nei fatti, perché solo di quelli ti puoi fidare.
Quindi quando quel pomeriggio la sua Range Rover affonda le ruote nel parcheggio interno della società, lei capisce subito che sì, quel giorno deve essere forte. D'altronde siamo nel bel mezzo della Premier League, non potrebbe essere altrimenti.
Tra i corridoi degli uffici c'è un via vai discreto di persone, un continuo spostarsi e parlare a bassa voce che Connie ancora non capisce. Controlla per l'ultima volta la piega dei suoi jeans neri e procede spedita verso le ascensori, salutando con un sorriso gentile la ragazza alla reception, che spalanca gli occhi e ricambia con un certo timore.
Dall'interno dell'ascensore non ancora aperto, Connie riesce a distinguere in modo leggero il tono di voce potente di Sexton che “È quasi un miracolo!” esclama.
Lei fa un passo indietro, non capisce. Le porte le si aprono davanti, i suoi occhi si riempiono di giacche e cravatte e poi tutto si fa confuso, astratto. Percepisce le dita tremare, il respiro bloccarsi sulla lingua, la sensazione destabilizzante del vuoto e della paura.
“Papà”
Gabriel è al centro della cabina, circondato da vecchi colleghi. Indossa una polo firmata e un paio di pantaloni larghi, in netto contrasto con gli abiti costosi degli uomini che per anni sono stati il suo braccio destro.
È...è suo padre, suo padre. È smagrito, qualche ruga più vecchio ma è lui, non c'è alcun dubbio. Le sue guance sono lisce, pallide come quelle di un tempo e i suoi occhi sembrano più scuri, intensi. La guardano e subito si spalancano per la sorpresa, si fanno colpevoli mentre il mondo continua a girare senza sosta.
Connie ha le vertigini e quello è suo padre.
“Papà” balbetta, per l'ennesima volta.
“Connie” lui risponde, spiazzato.
Accentua il tono ripetendo il suo nome poi, quando la vede dargli le spalle e iniziare a correre tra chi non capisce.
 
 
 
 
Ha iniziato a piovere piano, quando raggiunge l'uscita, spedita verso la macchina.
È una pioggia così leggera da sembrare aria bagnata, Connie stringe con rabbia i denti e si costringe a non voltarsi.
È così furiosa da sentire i polsi tremare per la forza con cui le sue mani sono chiuse, ha il respiro rotto e milioni di parole che la persona dietro di lei non si merita di sentire.
“Connie, ci dobbiamo calmare”
Fa ridere sentire la sua voce. Ha un che di divertente, di quella simpatia bastarda da far venire i brividi alle ginocchia. Vorrebbe disperatamente piangere, invece continua a camminare veloce finché non riesce a scorgere la sua macchina in mezzo alle altre.
“Connie, adesso basta”
“Non ti meriti niente!”
Non si era ancora resa conto di quanto Gabriel le fosse vicino fino a quel momento: si volta di scatto e quasi gli sbatte contro, poi lo spinge lontano e respira a bocca aperta, come un animale in fuga.
“Non ti meriti niente! – esclama ancora, la voce che si spezza – Tu pensi di poter tornare così dal nulla dopo tutto questo tempo e dirmi solo 'basta'? Non ti meriti niente”
“Mi dispiace”
“Non è abbastanza!”
Se non altro, suo padre ha la decenza di stare zitto, adesso. China appena la testa in modo colpevole e gli occhi gli si incurvano di dolore, pentiti.
Ha sofferto tanto, Gabriel, e dentro di sé, Connie sa di star sbagliando. Non vorrebbe realmente urlargli contro quella rabbia, non senza sentirsi in colpa. È solo sorpresa, in un modo che ancora non riesce a comprendere del tutto: non si aspettava un ritorno fulmineo alla vita di tutti i giorni, non lo voleva.
Non è giusto, non è giusto.
Il suono dei tacchetti sul cemento è ciò che precede l'arrivo di Louis, alle spalle dell'uomo ancora in silenzio. Ha gli occhi blu tinti di preoccupazione e la bocca socchiusa, come se fosse pronto per intervenire. Indossa la divisa d'allenamento completamente bianca e sembra del tutto incurante del fatto che le sue scarpe da trecentoventi sterline si stiano irrimediabilmente distruggendo sull'asfalto.
“Tu ci hai abbandonate – Connie adesso piange, dignitosamente senza singhiozzi – Tu sei morto quella sera. E adesso ti presenti come se niente fosse successo?”
Lo sguardo di Gabriel s'illumina di consapevolezza: ha capito.
“Sai che non così, Connie” mormora, aprendo le mani.
Smettila! – lei urla, gli va più vicino solo per spingerlo ancora e dentro di sé percepisce il panico fiorire tra il sangue – Smettila di parlare così! Smettila di fare finta di niente!”
Le sue mani smaltate iniziano a tremare in modo impercettibile, piano piano, come un terremoto in lontananza.
Gabriel subisce nonostante la differenza sostanziale di fisico, nonostante lei sia così fragile in questo momento da poter essere disintegrata senza il minimo sforzo.
E c'è di nuovo quel senso di vuoto, di confusione totale, di una paura che ingloba l'aria, tutto.
“Connie – la voce di Louis è come ovattata – Devi calmarti”
Lei respira a pieni i polmoni e sbatte gli occhi, sentendo una lacrima solleticarle il mento.
Sembra che non abbia più niente da dire, Gabriel sfrutta quel momento di silenzio e fa un passo avanti. “Ascolta, Louis è venuto da me ieri e-”
Non lo lascia neanche finire, semplicemente s'infila in macchina e parte.
 

 
 
Elsa è di spalle, quando Connie entra in cucina. Si volta nel sentirla arrivare e non si accorge del volto arrossato dal pianto.
Nena – la saluta, con un sorriso costoso – Sei tornata presto. Esther ha fatto i biscotti al burro, quelli che ti piacciono tanto”
“Mamma...”
“Ci ha messo anche il cioccolato – la voce della donna s'inclina appena, in modo comunque percettibile - Sono più calorici del solito”
“Mamma” Connie ora singhiozza, le tremano le spalle mentre vede quelle di sua madre incurvarsi.
La sente che sospira a bocca aperta, come in cerca di aria. Probabilmente sta sbattendo forte gli occhi nella speranza di non piangere.
“Lo so” mormora semplicemente, e adesso il tono è liquido, scivola sulle consonanti senza pronunciarle realmente.
Ed è strano sentirla così fragile, perché Elsa non è mai stata una persona particolarmente emotiva. Non ha mai ceduto ai sentimenti, non si scompone di fronte a nulla. È fatta così, Gabriel la chiamava 'donna di ghiaccio' con un sorriso sulle labbra, una caratteristica di lei che gli aveva fatto perdere la testa.
E più che strano, Connie si ritrova a pensare, è distruttivo. È come vedere crollare i ponti, i muri creati apposta per essere sicuri di non cadere, come sentire – ancora, ancora, sempre – sulla propria pelle il dolore lancinante di chi non può più tornare, quella sensazione d'impotenza di fronte a qualcosa che cessa d'esistere, di fronte alla consapevolezza che non ci saranno altri giorni in cui crescere insieme, altre parole, altri sguardi e altre sensazioni. Non c'è più nulla e il nulla è proprio lì, a distruggere le persone forti come Elsa, che ora trema e guarda fuori, verso la finestra e il mondo che gli ha portato via un figlio.
“Mi manca – Connie piange, fissa il soffitto – Vorrei che non mi mancasse, ma mi manca. Sempre”
“Sempre – sua madre ripete, senza ancora voltarsi – Così tanto che certe volte vorresti morire, così tanto da arrivare a sperare che tuo marito rimanga chiuso in quella stanza ancora, per paura di non riuscire a guardarlo negli occhi, perché credi sia la soluzione migliore. Così tanto da non riuscire a respirare”
Connie si asciuga il volto coi polsi azzurri, si lascia scappare un singhiozzo dalle labbra morsicate e sbatte le ciglia lunghe e bagnate. “Perché non smette? Perché non smette di fare così male?”
Elsa abbassa la testa e la volta appena, concedendole uno squarcio del suo profilo elegante. Fa un piccolo sorriso triste, con gli occhi spenti e la voce ora ferma, di nuovo contenuta: “Non smette mai – risponde semplicemente – Non per davvero. Ma va bene, sai? Il dolore, intendo. Imparerai a conviverci. È ciò che ti ha lasciato, è ciò che serve per non dimenticarlo. Tuo padre lo ha capito, Connie. Ora tocca a te”
 

 
~
 
 
Niall porta il gelato, quello al caramello salato che piace tanto a tutti e due.
Connie gli sorride riconoscente e lo lascia accomodarsi tra le pieghe del piumone, lasciandogli lo spazio necessario per sfilarsi le scarpe e stendersi accanto a lei. Fa passare il braccio bianco dietro il suo collo e “Scusa se ci ho messo così tanto – le dice – L'autobus non arrivava”
“Non fa nulla” lei risponde, la voce bassa.
Le luci bianche che pendono dagli scaffali pieni di libri sono le uniche fonti di luci presenti in quella stanza dalla moquette crema, rendono l'atmosfera tranquilla, rilassante, nulla a che vedere con le lacrime che macchiano i cuscini sul letto dietro le loro schiene.
“Ti ricordi la famosa serata al Venus?” esordisce Niall, dopo qualche minuto di silenzio.
“Onestamente? Non mi ricordo nulla di quella serata. Se non il mal di testa da sbronza colossale”
(e le mani di Louis dentro al suo letto sul mio corpo)
“Io lo sapevo – mormora lui, nel tono accentato una piccola traccia di sensi di colpa – Sapevo che Louis fosse lì. Uno dei miei compagni di fisica mi aveva mandato un messaggio, lui lavora lì part-time”
Connie non accenna a staccarsi dall'abbraccio, rimane immobile a guardare lo schermo grande del computer appoggiato sulla scrivania, vuoto.
“Perché?” gli chiede, senza tono.
“Perché avevi bisogno di lui, e perché era giusto così”
Lei gli si stringe contro a quel punto, seppellendo le guance fredde contro l'accogliente incavo del suo collo e chiudendo gli occhi.
“Sapevi anche che sarebbe andato a parlare con mio padre, giusto? – gli domanda – Per questo mi hai costretto ad accompagnarti, per questo hai esitato così tanto. Non volevi che tornassi a casa”
Lo sente annuire velocemente, muoversi appena. “Mi ha scritto quella stessa notte, dal tuo cellulare. Mi ha detto che stavi bene e mi ha chiesto se poteva salvarsi il mio numero. Credo di aver pianto un po'”
Connie ride e gli fa il solletico col respiro ora calmo, lento.
Niall aggiunge: “Credo anche che abbia deciso in quel momento. Di parlare con tuo padre, intendo”
Lei non risponde a quel punto, preferendo di gran lunga quel silenzio placido della sua stanza. Si sente meglio, più leggera, ha ancora gli occhi che bruciano ed è stanca, ma non è sola e questo è ciò che conta.
Per l'ennesima volta quel giorno, si chiede cosa abbia potuto far scattare così tanto suo padre al punto di farlo tornare in vita dopo così tanto tempo.
È arrabbiata sì, ma non con Louis, con Gabriel e tanto meno con Niall. È furiosa con se stessa, per non essere stata abbastanza, per non essere stata in grado di prendere in mano la situazione e aiutare suo padre a resistere, a non arrendersi.
“Devi parlare con Louis – è ciò che Niall dice, rompendo la catena dei suoi pensieri – È preoccupato per te”
“Siete diventati migliori amici o qualcosa del genere?”
Il ragazzo ridacchia, le bacia la fronte: “Beh, l'autobus non arrivava...”
 
 
 
Louis ha in mano una delle tazzine cinesi di sua madre, quando Connie entra in salotto. Elsa è a gambe accavallate sulla poltrona e sul suo volto non compare nemmeno una piccola macchia di dolore: è di nuovo quella di sempre.
“Per la cronaca – mormora Niall all'orecchio della sua migliore amica, prima di superarla – Louis guida molto meglio di te”
Poi si annuncia con un sorriso, facendo in modo che sia la donna che il calciatore si voltino verso l'entrata.
Connie è agitata, molto più di quanto si aspettasse. Vedere Louis le ha sempre, in qualche modo, scatenato qualcosa addosso, dentro. All'inizio non era che fastidio, ribrezzo perfino. Con l'andare avanti – con lo scoprirsi, spogliarsi – tutto ha preso una forma diversa, più armoniosa, meno rigida.
Ora qualcosa brucia, qualcosa sotto i polmoni strilla di un sentimento caldo, che ti consuma.
Si guardano negli occhi e lui sembra leggere in quelli di lei solo tanta tristezza. Sembra fargli male.
“È stato come sempre un piacere, Elsa – sta dicendo intanto Niall, baciando le guance della donna – Mi piace come ha arredato il giardino. Verrò a rompere anche questo gazebo”
Elsa ride e gli accarezza goffamente il braccio, “Quando vuoi”
Il ragazzo si volta verso Louis a quel punto e “Vogliamo andare?” gli domanda, le guance che assumono una sfumatura appena più scura.
Quello annuisce velocemente e appoggia la tazza sul tavolino di legno davanti alle sue ginocchia, alzandosi in piedi e pulendosi i palmi delle mani sui jeans neri. Si schiarisce la voce e “Grazie, signora Johnson” mormora.
Elsa fa un sorriso riconoscente: “Grazie a te, Louis”
Niall si è già infilato la giacca quando “Viene anche Connie – dichiara, per poi guardarla – Giusto?”
Lei trema, sospira.
Annuisce.
 
 
~

 
 
“Non sono arrabbiata con te, se questo è quello che pensi”
Louis guida decisamente meglio di lei.
Hanno lasciato la via di Niall da qualche minuto, persi nel traffico pomeridiano di Manchester.
Connie sta torturando la manica del suo cappotto blu, cercando di apparire solo distratta. Louis guida con il braccio destro dritto e la mano sinistra che non smette di accarezzare il cambio.
È la prima cosa che si dicono da quando Niall ha sbattuto la portiera posteriore di quella BMW Series 1.
Le lancia un'occhiata incerta per poi tornare con gli occhi blu fissi sulla strada e mormorare: “No?”
Connie si schiarisce la voce e guarda fuori. “No. Voglio dire, non più”
“Volevo dirtelo”
“No, non volevi”
Louis sospira e annuisce appena. “No, non volevo farlo”
Lo avrebbe fatto. Se lui avesse davvero voluto dirle le sue intenzioni, lo avrebbe fatto. Esattamente come l'ha baciata alla serata di beneficenza, esattamente come hanno fatto l'amore.
Connie non è arrabbiata perché ha capito. Vuole solo che lui glielo racconti.
C'è un altro tipo di silenzio adesso, quello fatto dalle persone come Louis, quelle che parlano tanto ma dicono sempre poco, quelle che sanno come ferire per non essere ferite.
Ci mette un po' a trovare le parole, ma quando torna a parlare, sono semplicemente le più adatte.
“Era l'unico che avesse mai creduto in me. Intendo in me come persona. Gli allenatori che hanno fatto parte del mio percorso calcistico mi hanno sempre visto come l'indisciplinato a cui Dio aveva regalato un paio di piedi magici, lo stronzo che voleva vincere e voleva farlo da solo. Ma non li biasimo, sai? Era quello che la gente sapeva di me. Non c'era bisogno che sapessero altro”
S'interrompe per riprendere fiato, con le labbra sottili socchiuse dall'emozione e la voce che vacilla appena. Non piangerà, è solo la novità di essere vulnerabile, la sensazione di cadere a occhi chiusi sperando che qualcuno sia abbastanza forte da sorreggerti.
“Con tuo padre è stato diverso. Di tanto in tanto mi chiamava a parlare noi due da soli, nel suo studio. Mi chiedeva perché fossi di cattivo umore, perché avessi quel muso così serio, se stavo bene, se avevo bisogno d'aiuto. E sai una cosa? Non accennava mai agli allenamenti. Voglio dire, era chiaro che mi vedesse strano in campo, ma non c'è mai stata una volta in cui in quello studio lui abbia accennato al calcio. Voleva sapere come stessi io, non i miei piedi, non il mio corpo. Io. Certe volte era talmente presente da farsi odiare. Gli urlavo contro, mi prendevo gioco di lui, facevo finta che fosse solo uno dei tanti stronzi che non avevano capito nulla. E sai cosa faceva, allora? Mi lasciava il mio spazio, il tempo per capire quanto in realtà lo stronzo fossi solo io. È...è probabilmente la figura più paterna che abbia mai avuto nella mia vita e quando ho saputo delle dimissioni ho cercato in tutti i modi di dimenticarlo, di tornare la persona orrenda che ero prima di lui. Ci sono riuscito, eh?”
“Non dire così” sussurra Connie, con gli occhi tristi.
Louis sbuffa una risata amara, scuotendo leggermente la testa. Si tocca il labbro inferiore con le dita e accelera un poco.
“A ogni modo – riprende poi – Io non ho fatto nulla per farlo uscire da quella stanza. Sono effettivamente andato a parlarci, sì. Ma solo grazie a te. Grazie all'amore che prova nei tuoi confronti e lasciami finire, Connie. Ti sto dicendo la verità. Tu forse non te lo ricordi, ma al Venus, quella sera, tu hai detto una cosa. Una cosa che mi...mi ha fatto rabbrividire e mi ha letteralmente mandato fuori di testa. La tua mente è arrivata a pensare che morendo, saresti riuscita a riavere indietro tuo padre. Capisci? So cosa stavi passando e non...non riuscivo a sopportarlo. Tuo padre neanche, bisognava semplicemente farglielo capire”
No, non ricorda di averlo detto. Connie ricorda di averlo pensato però, diverse volte, per diversi giorni. Non si è mai spinta troppo oltre i pensieri però, non ne ha mai avuto il coraggio e dubita di riuscirci in generale, ma il sapere che nonostante tutto Louis si sia così preoccupato per lei è abbastanza da farla bruciare tutta. Si sente così stupida per essersi comportata come una bambina capricciosa ed egoista, e si vergogna per aver provato quella gelosia infantile tipica dei fratelli nei confronti dei genitori: suo padre non preferisce di certo Louis, ma aveva comunque bisogno di lui. Proprio come lei.
Manchester è ferma nel traffico dei semafori lunghi e i bambini in divisa che corrono sulle strisce, Connie guarda fuori dal finestrino e ha le guance in fiamme dall'imbarazzo dei suoi stessi pensieri.
“Se devi fare qualcos'altro, puoi lasciarmi qui e prendo un taxi” mormora, e sa tanto di 'puoi lasciarmi' e basta.
Louis nemmeno la guarda mentre “Non se ne parla neanche” risponde.
Non se ne parla neanche.
 
 
 
 
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Connie sta facendo finta di leggere quando suo padre si chiude piano la porta della stanza dietro di sé.
Indossa gli stessi abiti di quel pomeriggio e la medesima espressione colpevole, gli occhi piegati come se ciò che provasse fosse un dolore fisico.
Lei non sa se sia pronta o meno per quel confronto, non ha voglia di rifletterci su. Si sistema semplicemente sul letto e chiude il libro, appoggiandoselo in grembo.
È strano vederlo fare gli stessi movimenti, sedersi nella medesima postura sul materasso e accavallare le dita tra altre dita come se non ci avesse pianto contro per un anno intero.
Ovviamente Gabriel non parla, sarebbe troppo semplice. Si limita a respirare piano e fissare la parete davanti a lui, come per studiarsi le parole scritte nella sua testa.
Alla fine è Connie quella che si fa sentire per prima, con la voce priva di forze, piena di paure.
“Ci sei riuscito?” gli domanda.
Suo padre si volta verso di lei, osservandola grazie alle piccole luci accese.
“Sei riuscito a stare bene?” ripete allora la ragazza, deglutendo poi con forza.
Le labbra di Gabriel si aprono all'istante come per rispondere, non esce alcun suono però. Scuote la testa e sospira, socchiudendo gli occhi.
“Non te lo insegnano – mormora, schiarendosi la voce – Voglio dire, non è una materia di studio, non c'è una specializzazione, nessun preparatore in grado di prepararti davvero. Non ti insegnano a superare la morte di un figlio, giusto? E io non sto bene, non ho ancora imparato dopo tutto questo tempo. Devo...devo abituarmi. Forse non ci crederai, ma ho sofferto più oggi che in tutti questi mesi”
Il suo indice traccia le pieghe del piumone, creando sentieri in cui gli occhi di Connie possano annegare: è così difficile sentirlo parlare.
“Prima era molto più semplice – continua l'uomo, dopo qualche secondo – Non esisteva altro che il dolore, l'apatia più totale, il vuoto. Oggi ho capito che c'è dell'altro, che il mondo è andato avanti, che io devo andare avanti con lui. E fa paura”
Il tono di Connie è quello di una bambina spaventata: “Lo so”
“Tu e tua madre siete tutto ciò che mi rimane – dice ancora Gabriel, guardandola – E mi dispiace avervi messe da parte per così tanto tempo. Ma Manny è... - la sua voce trema a quel nome – Manny è qui, da qualche parte, e sarebbe fiero di te. Proprio come lo sono io”
Connie vorrebbe dire altro, questo è certo, ma le lacrime sono troppe e i singhiozzi troppo forti.
Piange tra le braccia che l'hanno cresciuta.
Forse davvero non stanno ancora bene, ma stanno meglio e per oggi questo basta.
 
 
 
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“Mi sarebbe piaciuto fartelo conoscere. Era una persona splendida”
Connie fissa quel pezzo di marmo con lo sguardo indecifrabile e i capelli che il vento sta facendo danzare sul suo volto. La foto di Emmanuel è appena un po' sbiadita, giusto quel minimo indispensabile per non farle scordare il conteggio dei giorni.
Il piccolo mazzo di fiori che tiene tra le mani appassirà da lì a qualche ora per via del freddo, lei sospira forte e sente il petto riempirsi d'aria gelata.
“Beh, non credo sarei potuto piacergli. Non finché vado a letto con la sua sorellina, per lo meno”
Poi ride esasperata, perché Louis ha il potere di tranquillizzarla ed essere un emerito imbecille nello stesso momento.
Lui l'affianca, circondandole la vita con il braccio mentre lei gli si stringe contro, arricciandosi e appoggiando le labbra sul suo collo.
“Non era un tipo geloso – riflette – Più che altro, forse si sarebbe arrabbiato perché sapeva che meritassi di meglio”
Ouch – mormora il ragazzo – Questa era veramente cattiva. Ti avverto, bambina, smettila subito o dovrò prendere dei seri provvedimenti”
Connie infila la mano dentro la tasca calda del giubbotto di Louis, abbracciandolo. Non gli risponde, sospira e sbatte gli occhi.
“Mi sembra passato così tanto tempo – dice – Eppure è come se fosse ieri”
“Sarà sempre così – risponde Louis, il tono rammaricato – Un giorno sono cento passi avanti, quello dopo duecento indietro. L'importante è restare in piedi”
Connie chiude gli occhi contro la pelle profumata di lui, scrollando le spalle. “Come se fosse facile” si lascia sfuggire a bassa voce.
Louis però la sente perché la presa sui suoi fianchi si fa più forte. “Come se io non fossi qui” ribatte.
È una promessa che sa di futuro.
Connie lascerà i fiori sul prato congelato, sfiorando appena il volto sorridente di suo fratello.
Il vento poi trascinerà via i petali chiari e sarà come il respiro di chi non se ne è mai andato.
Di chi, nonostante tutto, è ancora qui.

 


 
 
  
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