Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: balakov    22/01/2009    5 recensioni
è una storia costruita con due voci narranti: due anime perdute destinate inevitabilmente ad incontrarsi, o forse solo a sfiorarsi... Un uomo abituato a vivere di bassi espedienti, violentando la propria vita e destinato a bruciare all'inferno; una ragazza disillusa che cerca di costruirsi faticosamente il proprio avvenire. Due anime opposte ma allo stesso tempo convergenti. Due sguardi destinati ad incrociarsi.
Genere: Generale, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


CONTROVENTO

a Luisina: alla sua simpatia, alla sua intelligenza ed alla sua bravura


Ho sempre pensato che la vita non fosse poi cosa così difficile: e mi sbagliavo.
Il problema non è vivere una vita intera, brutta o bella che sia. Il problema è vivere la mia vita, giorno per giorno.
Ci sono giorni in cui lancerei volentieri la mia testa su nel cielo, per vedere se tra le nuvole ed i gas di scarico degli aerei i pensieri sono davvero più leggeri e più distanti dalla terra. Altre volte la testa invece la sotterrerei, perché ho sempre ammirato gli struzzi: loro sono gli unici ad aver finora capito che vigliacco è colui che fugge, non colui che non vede e non sente.
Ed io un vigliacco proprio non lo sono: non lo sono mai stato e mai lo sarò.
Ci saranno al mondo almeno una trentina di persone che mi vorrebbero vedere morto, e sarebbero state anche più di trenta se non avessi provveduto io, in prima persona, ad abbassare questo gravoso numero a colpi di revolverate.
E sì, perché il migliore amico di un uomo è sempre una pisola. Ed il proprio silenzio.
Ogni mattina che mi sveglio sono sempre più spiazzato: non so se dover essere grato a Dio per essere ancora in vita, o bestemmiare il suo nome perché ancora non mi ha richiamato a sé e mi costringe a vivere di espedienti così bassi.
Furto, stupro, rapina, omicidio: sono termini che mi si addicono, familiari come una voglia tatuata sulla coscia sin dalla nascita.
Avrò senz’altro peccato, e questo non lo posso negare in alcun modo: eppure sento che se sono giunto fino a questo punto della mia vita, il merito è anche e soprattutto delle scellerate azioni che ho compiuto. Si tratta di azioni deplorevoli, concordo: ma sommate tutte fra loro hanno saputo dare un equilibrio ai miei giorni, marchiando la mia immagine come una vacca destinata al macello.
Tanto, prima o poi, a tutti tocca di andare al macello, e quando ti troverai lì – ne sono certo – non importerà a nessuno sapere se la tua immagine è stata quella di uomo dell’anno sulla copertina di “Time” o quella meno nobile di ricercato nella pagina di cronaca nera.
Ma tanto, giunti alla soglia dei cinquantasette anni, la via percorsa è troppo maggiore della via da percorrere perché quest’ultima possa invertire la prima.
E dire che c’hanno scritto miliardi di pagine su queste cose, sul destino: ma in realtà il destino è solo una parte della vita. È quella parte che comincia quando il più è stato già fatto, e ti sei compromesso quello che resta. Questo è il destino, questo è quello che mi resta da vivere.



Guardo attraverso il finestrino del vagone treno e, come ipnotizzata, assisto allo spettacolo naturale che si sta svolgendo all’esterno: il sole lotta con il manto di nuvole e cerca di farsi spazio tra di esse. I fili di raggi rossastri si infiltrano nel bianco vaporoso e si riflettono sul blu cristallino del mare sottostante, creando un sublime gioco di colori arancione e verde acqua. Osservo con dedizione questa “lotta naturale” e mi lascio riscaldare dal tepore dei raggi luminosi, che dolcemente mi sfiorano il viso.
Ogni tanto, un cartellone pubblicitario, o semplicemente alberi, si frappongono tra me e questo spettacolo, richiamando i miei occhi.
Oggi mi sento come il sole: dopo una lotta incessante riesce ad imporsi e a realizzare il suo vero ed unico obiettivo, la ragione della sua esistenza.
Oggi: il giorno in cui la mia vita avrà finalmente una svolta.
Mi specchio negli occhi della ragazza del vetro; lei sorride mestamente e mi fissa smarrita, non sa che quella di fronte, in realtà, è la nuova parte di lei stessa.
D’un tratto, però, ne distolgo lo sguardo per dirigerlo in direzione di un cartello pubblicitario. La frase riportata a caratteri cubitali mi incanta e risveglia in me ricordi passati:
“Se non sai dove stai andando, girati per vedere da dove vieni”
Sembra che questa frase sia stata inviata appositamente per me: in quelle poche semplici parole, è racchiuso il significato della mia intera esistenza.
Credo arrivi per tutti un momento nella vita in cui ci si senta … perduti; un momento in cui si ha l’impressione di vivere la propria esistenza senza una meta precisa, senza un traguardo. Ecco, a quel punto ogni individuo, in balia di questa crisi esistenziale, decide puntualmente di fermarsi per riflettere. Paradossalmente, questi vorrebbero avere la possibilità di immortalare e trasformare la propria vita in una macchina da presa cinematografica, per guardare a rallentatore e cercare di capire cosa bisogna cambiare: tagliarne le parti considerate inadeguate, sbagliate, ed aggiungerne altre a proprio favore.
Non male come prospettiva.
Eppure mi domando: non sono forse gli errori a formarci, a renderci le persone di oggi?
Io, per esempio, chi sono?
Ventisei anni della mia vita trascorsi a pormi a questa domanda, senza tuttavia trovarne una risposta ben precisa. Cominciando proprio dalla mia famiglia, quella che sarebbe dovuta essere una base, un punto di partenza per me … in realtà non è mai esistita.
Figlia unica.
Ho vissuto insieme a mia madre, senza sapere mai chi fosse mio padre.
Padre, mi domando se ne ho mai avuto uno. Tutto quello che so, è che mi ha abbandonata quando ero molto piccola, ecco perchè mi è impossibile ricordare.
Ho sofferto molto; ormai ho perso il numero delle notti in cui mi nascondevo sotto le coperte, avvolgendo la testa nel cuscino, e piangevo disperatamente.
Versavo lacrime e continuavo a chiedermi: perché? Qual è il vero senso della sofferenza? Siamo noi che scegliamo di soffrire o è un destino a cui ogni essere umano non ha il potere di sottrarsi?


Vivere alla giornata significa provare a vivere il giorno dopo: e vi assicuro che fra debiti, conti da saldare e nemici che ti cercano armati, anche il sorgere puntuale e quotidiano del sole inizi a metterlo in dubbio.
La mia fortuna è che non ho affetti, e quindi posso limitarmi a pensare solo a me stesso, a come cavarmela in questo mondo di merda.
In realtà delle persone a cui pensare che differiscano dal sottoscritto ce ne avrei anche, ma ormai è tutta acqua passata.
Un tempo ero sposato: lei era una donna troppo diversa da me perché potesse durare come storia.
Si chiamava Manuela, ed aveva studiato. Non so che cosa l’aveva attirata di me: forse l’aria ribelle (perché a tutti piace ciò che è trasgressivo…), o forse era riuscita a leggere in me uno spiraglio di bontà che il tempo ha rivelato essere effimera, ed oggi non è altro che un retaggio.
Dalla nostra breve storia nacque pure Maura…o almeno così credo si chiami. È passato così tanto tempo che non me ne ricordo più. E se oggi la incontrassi per strada, probabilmente, neppure la riconoscerei. Quello che è certo è che sicuramente non la saluterei. Questo è dovuto un po’ al fatto che dopo tanto tempo si può dire che tra me e lei non sia rimasto niente che ci possa legare in alcun modo; ma soprattutto questo è dovuto al fatto che sono scappato, stufo della routine della vita di coppia, e quindi né Manuela né tanto meno Maura farebbero un torto a Dio se mi odiassero.
A ripensarci oggi quelli erano bei tempi, dove la vita costava di meno e non richiedeva spargimento di sangue dietro di me.
Ma quando si è giovani si è meno esperti e più stupidi: forse si è anche più impulsivi e sinceri con se stessi. Ma sta di fatto che si è sempre e comunque anche più stupidi.



Cameriera in locali notturni; addetta alle pulizie nelle stazioni ferroviarie; responsabile nel settore del magazzino con tanto di datore di lavoro che ti mette le mani addosso in cambio di un misero stipendio da portare a casa … questi sono i lavori che sono stata costretta a svolgere a partire dai miei quindici anni.
Vi state chiedendo se andavo a scuola? Pulivo anche quelle, se è questa la risposta che state cercando.
Ditemi: un’esistenza permeata dalla completa accettazione di tutti gli eventi, luridi e disonesti, si può definire ‘dignitosa’?
No, non credo …
È pur vero che oggi non so dove sto andando. Non posso sapere dove la vita mi condurrà. Nessuno lo sa.
Non è concesso conoscere ciò che accade dopo; il futuro non ci appartiene. Quello che posso affermare con piena certezza, è che ho visto bene cosa è successo “ieri”; conosco, senza alcuna ombra di dubbio, da dove vengo.
Questo è il mio consiglio: se siete arrivati a questo punto della vostra vita in cui tutto ciò che vi circonda vi rende semplicemente infelici e apatici, sbirciate nella memoria più recondita del vostro passato, a quel punto vi accorgerete che vale la pena proseguire la strada che si apre davanti a voi.

Oggi, per me, sarà il giorno della rinascita; avrò la possibilità di mostrare la mia criniera di raggi solari e di far capolino nel manto di nuvole grigie: ritroverò quella stima in me stessa e avrò finalmente l’occasione di vestire un tailleur elegante ed essere guardata con assoluto rispetto.
Se è questo il prezzo da pagare per poter raggiungere la piena realizzazione di sé … allora fatemi tornare indietro nel tempo: rifarei gli stessi errori, poiché è solo da quest’ultimi che si esce vincitori.

Scendo dal treno del mio “passato” con un sorriso stampato sulle labbra.
Non ho fretta, non c’è alcun bisogno di affannarsi: il prossimo treno, quello del mio vero futuro, è proprio lì che aspetta di essere sfruttato appieno.


Ora mi trovo qui, seduto su una panchina: la staticità del tempo, dell’aria fredda che mi si posa sulla faccia, dimostra in maniera incontrovertibile l’incoerenza del cuore rispetto al tempo. Infatti a questa immobilità esteriore, il mio animo risponde con un vago ed indefinito senso di angoscia, che lentamente però mi sta consumando dentro.
Domani devo ridare una grossa somma di denaro ad un tizio, e se non lo faccio mi auto-condanno a morte, senza possibilità di appello.
Questo tizio non è persona con cui scherzare: fa male guardarlo dritto negli occhi. Ma fa molto più male non rispettare la parola data.
Non è come tutti gli altri: a lui non si può sfuggire, nonostante la mia decennale esperienza di latitante.
E poi, arrivato a questo punto, non ha neppure più alcun senso fuggire: non ne ho più le forze, sono stanco. Verrebbe quasi la voglia di abbandonare tutto, accettare la morte come l’unica ed estrema fuga possibile da questo mondo.
Ma l’ho già detto: non sono un vigliacco. E gli occhi li chiuderò solo il giorno che Dio mi chiamerà a sé per ricordarmi l’infinito elenco di torti e di peccati mortali dei quali sono stato autore.
Ora devo ancora procacciarmi il vivere, devo in qualche disperato modo cercare di noleggiare altre ore alla mia inutile vita. Ma non so proprio come fare.
I soldi che mi servono sono tanti, ed anche la paura inizia ad essere troppa: mi tremano le gambe.
In questi casi faccio sempre una cosa: mi guardo con attenzione le mani.
Guardare le mani vuol dire un po’ guardare la propria anima: se sono ferme, rigide e non danno segno alcuno di cedevolezza, allora vuol dire che posso fare qualsiasi cosa ancora; se invece tremano, anche solo un poco, allora vuol dire che sono giunto al capolinea, e non ha più senso avventurarsi in nuovi espedienti per guadagnarsi la giornata.
Faccio la prova: ho paura, perché so che potrei vedere per la prima volta in vita mia le mie mani tremare. Non importa, è una prova alla quale non mi sono mai sottratto, e non lo farò di certo oggi.
Ferme, rigide: non tremano.
Tiro un sospiro di sollievo. La vita ha deciso di sorridermi ancora per un po’.
Tiro su con il naso, mi schiarisco la voce (ed i pensieri) con un recitativo colpo di tosse, e decido risoluto il da farsi.
Francesco, Giuseppe, Michele e Gennaro: sono quattro disgraziati messi anche peggio del sottoscritto. Un mio vecchio amico definisce la gente come loro “quelli che non hanno neanche gli occhi per piangere”. Ben venga tutto ciò: del resto io non voglio femminucce piagnucolanti.
Ho deciso ormai: vorrà dire accettare di rischiare la propria vita, ma se il colpo riesce ci mettiamo tutti e cinque a posto per un po’. E chissà: se il colpo va ben oltre anche le più rosee aspettative, forse è la volta buona che me ne vado via da questo paese di merda.
Ho sempre sognato di andare a vivere al caldo equatoriale, in qualche isoletta sperduta nell’oceano. Molti dicono che questi posti si sognano solo perché non ci si è mai stati; per il semplice fatto che ognuno di noi è sempre e comunque attratto dall’ignoto. Non lo so: non so dirvi se ha ragione chi dice questo. Ma avrei tanta voglia di provare…



Il rumore dei tacchi batte sul pavimento lucido e riecheggia in tutta la banca, unendosi al vocio dei clienti in coda ai vari sportelli.
“Lei deve essere la signorina Rossi Maura, non è vero?” Mi domanda, improvvisamente, un uomo di bell’aspetto, in giacca e cravatta. A giudicare dai capelli brizzolati e dall’aria da “superuomo”, lo classificherei come uno dei “pezzi grossi” della banca.
“Sì, in persona.” Gli rispondo, stringendogli saldamente la mano.
“Lieto di conoscerla: io sono Giacomo Franchi, uno dei maggiori assistenti del direttore. Venga, le mostro la sua postazione di lavoro.” Pronuncia, un attimo prima di darmi le spalle e indicarmi la strada. Cosa vi avevo detto a proposito dei “pezzi grossi”?
“Il direttore mi ha detto che è la sua prima esperienza in questo campo.” Asserisce continuando a rivolgermi le spalle. Mi limito ad un semplice “Sì”.
Se vi state domandando come ho fatto ad ottenere un lavoro così “prestigioso” (in un certo senso), non avreste tutti i torti. Sbaglio o vi avevo detto che uno dei miei datori di lavoro mi metteva le mani addosso in cambio di uno stipendio?
Ebbene, è lo stesso espediente che ho dovuto trovare per arrivare fin qui. Il direttore della banca, durante uno dei nostri ‘incontri ravvicinati’, mi ha offerto questo posto da impiegata in cambio di altri ‘lavoretti’. Ovviamente privacy e riservatezza sono una garanzia.
Per cui, non mi sorprendono minimamente gli interrogativi dei suoi collaboratori.
Per ovvie ragioni, mi limiterò a risposte brevi e a non fornire dettagli.
“Ecco questa è la sua postazione.” Mi indica una specie di gabbia di vetro con tanto di sedia girevole.
“Sarò chiaro con lei signorina Rossi: la parola raccomandazione non è contemplata nel mio vocabolario. Pertanto, non mi farò scrupoli ad informare il direttore di un suo eventuale comportamento errato. Il mio compito è assicurarmi che i dipendenti di questa banca siano competenti e soprattutto affidabili. Svolga il suo lavoro in modo efficiente e andremo d’accordo.”
Mi fissa con guardo analizzatore, tanto che ho l’impressione di essere appena passata sotto una risonanza magnetica. Una sola parola basterebbe a tenergli testa e a bucare quel pallone gonfiato che si ritrova al posto della testa… la stessa parola che potrebbe rovinarmi all’istante la giornata di oggi, e troncare il mio futuro sul nascere. Meglio optare per il silenzio, con un cenno del capo in segno di assenso.
“Domande?” Mi chiede, anche se il tono assunto lascia intendere che la risposta ce l’abbia già.
“Avrei tante domande da porle, signor Franchi. Ma ho la sensazione che sprecherei soltanto fiato.” Gli rispondo con un sorriso beffardo disegnato sul volto. Mi sono imposta di mantenere il silenzio, ma il mio orgoglio di donna non me l’ha concesso.
“Durante la settimana di prova ha avuto modo di conoscere come funziona il lavoro qui. Quindi non è necessario dirle cosa dovrà fare. Per qualsiasi dubbio chieda alla signorina Rinaldi, alla sua destra.”
Non male come primo approccio lavorativo, sempre se il voltare le spalle possa ritenersi uno degli elementi di un rapporto tra datore e dipendente.
Bene Maura: un passo falso e il signor “ti tengo d’occhio dall’ufficio di fronte alla tua postazione” ti butta fuori all’istante.
Riesco quasi a percepire lo sguardo del signor Franchi, ho la sensazione che si sia piazzato sulla mia spalla come un avvoltoio. Cerco, quindi, di sembrare il più naturale possibile: siedo lentamente sulla sedia accavallando le gambe, guardo la piccola scrivania che mi fa sentire in prigione.
Neanche il tempo di girare il cartellino con su scritto “cassa aperta” appeso sulla mia postazione, che ecco arrivare il primo cliente. Il primo cliente della mia nuova vita.


“Buongiorno” mi dice sorridendo la cassiera.
“Buongiorno” mi risponde il tizio senza guardarmi negli occhi, e tenendo costantemente lo sguardo basso.
“In cosa le posso essere d’aiuto?” mi chiede cortesemente la cassiera senza potersi neanche rendere conto che quello che sta vivendo sarà un giorno che le resterà per sempre indelebile nella memoria.
“Questa è una rapina”


I miei quattro sgherri tirano fuori repentinamente ognuno la propria pistola.
Giuseppe prende una cliente che era in fila come ostaggio, mentre gli altri tre puntano le loro revolver verso i dipendenti della banca, intimandoli a non fare stronzate tipo avvisare la polizia o concedersi inutili slanci eroici.
Io intanto sollecito a modo mio la cassiera che ho di fronte affinché mi riempia il sacco che ho in mano nel più breve lasso di tempo possibile. In questi casi ogni istante è prezioso all’ennesima potenza: ogni rapina è come un orologio svizzero, e non è permesso di sgarrare neanche d’un secondo. C’è la vita di mezzo, e con la vita non ci si deve scherzare mai.



Porca miseria: è il mio primo giorno di lavoro, e questo qui davanti, improvvisamente, da primo di una lunga serie di clienti si trasforma in un feroce rapinatore.
Che devo fare adesso?
Qui, sotto alla mia postazione, c’è un pulsante rosso che ci tiene in contatto con la polizia. Devo cercare di pigiarlo in qualche modo, e la scusa di inchinarmi per prendere i soldi da dare al rapinatore potrebbe essere un ottimo diversivo per premerlo senza dare dell’occhio.


“Non fare stronzate, ragazzina! Tieni bene in vista le mani! Inchinati piano e non fare cazzate, altrimenti ti faccio saltare il cervello!” intimo alla cassiera, che vedo particolarmente agitata: se prova soltanto a pigiare uno di quei tasti per avvisare la polizia che notoriamente si trovano sotto ad ogni bancone, io l’ammazzo. Un morto in più o uno in meno sulla mia fedina penale non fa più alcuna differenza. Oramai.


“Allora! Ti vuoi muovere? Tirali tutti su questi cazzo di soldi e non farla lunga!”.
Mentre mi apostrofa nuovamente, con tono minaccioso e violento, i miei occhi incrociano i suoi, che finalmente si degnano di guardarmi in faccia. Ed in questo preciso momento, nella mia testa (ma forse farei meglio a dire nel mio cuore…) qualcosa si ferma di colpo.
Quegli occhi: uno sguardo tremendo, che mi brucia l’anima e mi arroventa il respiro già reso affannoso dagli eventi che sto vivendo.
Quegli occhi: iniettati di sangue, di astio, di odio verso il mondo intero. Occhi da incompreso che non vuole farsi comprendere. Occhi di recluso dalla vita, di estirpato dal mondo come la gramigna.
Quegli occhi: gli occhi di mio padre.
Ne sono certa.
Mi ha abbandonato troppo presto perché io mi possa ricordare del suo sguardo quando si incrociava col mio. Sarà stato certamente uno sguardo dolce, perché anche il peggiore dei padri quando guarda gli occhi di un innocente non può restare impassibile se si tratta di sangue del proprio sangue.
Io non me lo ricordo il mio papà di persona. Ma l’ho visto mille volte in foto.
Le pochissime foto che conserva gelosamente mia madre per ricordare, per ricordarsi.
Io quegli occhi ce li ho stampati nella mente, e non posso dimenticarli.
Ogni volta che ho visto quelle foto ho provato odio per quel lurido uomo che ci aveva abbandonato, segnando la mia vita, costringendomi a stenti, miserie e rinunce.
Ho sempre meditato la vendetta, la rivincita sul mio destino a suo danno.
Ed ora, tutto quello che ho bramato da anni, e forse da sempre, è qui a portata di mano.
Mi basterebbe pigiare questo pulsante rosso, ed il mio rancore sarà calmato. Per sempre.
Eppure non ce la faccio. Il mio istinto mi dice di non farlo. È più forte di me.
Dopotutto è mio padre. Un padre sciagurato, un criminale ed un uomo senza cuore. Ma pur sempre mio padre.
E poi quegli occhi pieni d’odio sembrano gli occhi di un bambino geloso e deriso dai compagni.
Sembra lo sguardo di un animale in fuga: in fuga da se stesso, in fuga dal mondo.
E sempre correndo ha preso la vita mio padre. Correndo e di petto, scontrandosi contro il vento che ha sempre soffiato in direzione opposta. Ma lui il vento l’ha sempre vinto, ha vinto la natura degli eventi e delle cose. Ha vinto sul cuore per assecondare l’istinto da uomo libero che ognuno di noi somatizza sempre, tenendolo nascosto. In lui ha vinto la libertà, l’anarchia sui sentimenti.
E dire che qualcuno è convinto che si viene al mondo per essere liberi…
Ma ogni libertà ha un prezzo, e quella di mio padre ha dovuto sacrificare la mia. Ma io non posso odiarlo. Io non posso fare come lui. Non posso andare anch’io controvento, ma devo assecondare la natura umana. Ecco: io non farò come lui.
Chiamatela pure complicità, ma tra me e lui c’è solo questo, un legame di sangue che non si può spezzare in alcun modo. Io sarò legata a lui per sempre, anche dopo la morte. Questa è l’unica cosa certa che mi resta.
E così desisto dai miei intenti eroici, e gli do tutte le banconote che trovo, senza pigiare quel fottutissimo pulsante rosso e senza battere ciglio.


La ragazza è collaborativa: c’ha messo un po’ a decidersi, ma alla fine mi sta dando tutti i verdoni che aveva in cassa. Dovrebbero essere tutte così queste maledettissime cassiere. Dopotutto anche il mio è un prelievo, no?


In lontananza, odo una sirena della polizia: qualche altra cassiera deve aver avuto meno scrupoli di me, e deve aver pigiato il suo pulsante rosso. Niente di strano: di certo le altre cassiere non sono figlie dei propri rapinatori…
I cinque lestofanti si mobilitano febbrilmente: mio padre mi strappa di mano le ultime banconote, riempie il suo sacco e se la dà a gambe levate. Senza più incrociare il mio sguardo.
Gli altri quattro sgherri lo emulano, e repentinamente scattano con mio padre fuori dalla banca.
Sembrano topi inseguiti da un gatto. Ma il bello è che non c’è nessun gatto. Fuggono da loro stessi, dalle loro paure. E lo fanno con una naturalezza agghiacciante, come se si trattasse di un movimento naturale, innato. Un movimento ripetuto chissà quante volte.

Ora nella banca non rimane più niente: solo silenzio. Un terribile e fastidiosissimo silenzio.
Si ritorna lentamente all’ordine, alla quotidianità da cui siamo stati tutti estirpati per appena dieci minuti.
La gente in terra si rialza e si ricompone, le cassiere riprendono fiato: e fuori, per la strada, uno sparo intacca il silenzio convulso che qui dentro ci radica alla nostra incostante realtà.
Io, appena odo lo sparo, non posso rimanere vittima della staticità che mi circonda, e dimenticando tutto, scordandomi del mio lavoro, mi precipito in strada.
Quello sparo potrebbe voler dire molto per me: potrebbe significare del sangue in terra. Del sangue tale e quale al mio. Il sangue di mio padre.
Mi faccio largo a spintoni fra la folla, che non disdegna mai di accorrere da spettatrice non pagante a questi spettacoli così biechi e poco edificanti.
E non appena mi accorgo che quello in terra, colpito a morte da un proiettile esploso da un poliziotto, non è mio padre, cinicamente e forse incoscientemente tiro un sospiro di sollievo.
Mio padre e gli altri tre se la sono data a gambe levate, e la polizia non ha potuto farci niente.
Forse sarebbe stato un bene che invece ad essere colpito fosse stato mio padre: così magari si sarebbe finalmente fermato dopo un’intera vita vissuta di corsa, senza mai guardarsi indietro.
Ma egoisticamente sono felice che non sia stato ucciso l’uomo che più di tutti odio a questo mondo, e che più di tutti amo.

Rientro lentamente in banca, a testa bassa, quasi a voler espiare le mie colpe.
Ora so benissimo cosa mi aspetta: Giacomo Franchi mi verrà incontro urlando, rimproverandomi di non aver posto alcuna resistenza al rapinatore (“ma mica siamo carne da macello!” gli risponderò io…) e soprattutto di essermi allontanata dal posto di lavoro per andare a vedere cosa stava succedendo in strada.
Forse tutto questo mi costerà caro. Potrei anche perdere il lavoro. Ma questo conta poco, anzi nulla, a confronto del fatto che ho ritrovato mio padre. Anche solo per un istante, ma come se durasse tutta l’eternità. Il suo sguardo riflesso nel mio, come a volerci scambiare un saluto.
Un saluto che non verrà mai, che rimarrà eternamente racchiuso in noi.
Il saluto di una figlia al proprio padre.
  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: balakov