Anime & Manga > Uta no Prince-sama
Ricorda la storia  |      
Autore: Starishadow    20/07/2015    3 recensioni
E proprio come il sole, notò Tokiya mentre lo stringeva ancora più, Otoya aveva brillato più che mai durante quell’eclissi, solo che nessuno aveva potuto ammirarlo, per quanto era stata abbagliante la sua luce.
[Terza classificata al contest Just let me cry indetto da Starhunter sul forum di EFP]
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Otoya Ittoki, Tokiya Ichinose
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Autore (su EFP e sul forum):  Starishadow   
Titolo storia: Eclissi
Fandom: Uta no prince sama
Rating: Arancione
Genere: Angst, triste, romantico
Avvertimenti: Tematiche delicate, TW: autolesionismo
Note autore:
Prompt usati: autolesionismo, suicidio, genere romantico*
Alla fine ho deciso di sviluppare una mia idea passata secondo cui Otoya, all’apparenza il più felice e vitale degli Starish, sia anche il più facilmente influenzabile e fragile, e quindi non è improbabile - a mio avviso - che in situazioni di grande stress, dopo aver visto ogni suo tentativo di non arrendersi fallire miseramente, arrivi a riversare ogni frustrazione, rabbia e negatività non sugli altri ma su se stesso. In poche parole, che imploda invece che esplodere.
NB: presente uno spoiler per chi non ha mai letto la wiki di Utapri su Otoya!
Disclaimers: utapri ovviamente non mi appartiene, la strofa di canzone che compone Otoya, invece, è una mia creazione, è in inglese per ovvi motivi ma potete anche immaginarla in giapponese ^^”
 
Eclissi
 
Dicono che la fama, a volte, stanchi.
Otoya non ci aveva mai creduto: per lui fare quel lavoro era ciò che aveva sempre sognato, non gli era mai pesato cantare, sorridere e brillare per le sue fan.
Almeno nei primi anni.
Dicono che essere al centro dell’attenzione, a volte, impedisca di avere relazioni.
Otoya aveva le prove del fatto che anche questo fosse falso: lui e Tokiya stavano insieme da poco più di due anni, e rifugiandosi ora nell’appartamento di uno, ora in quello dell’altro, erano riusciti ad eludere gli occhi vigili e famelici dei paparazzi.
Ma con una credenza popolare Otoya era d’accordo, ossia “la vita è imprevedibile”.
Gli impegni cominciarono a crescere sempre di più, lentamente ma inesorabilmente, fino a quando dire “no” ad uno era sempre più difficile e, talvolta, irrilevante: sarebbe solo stato sostituito da un altro.
Masato se ne accorse per primo e si affrettò a chiarire al suo manager che avrebbe accettato principalmente - e quasi esclusivamente - impegni inerenti al canto o alla recitazione; Ren lo imitò poco dopo, limitando la sua attività ai settori di musica e moda. Uno a uno, gli Starish si tirarono fuori dal baratro che si apriva pian piano sotto i loro piedi, solo uno non fu abbastanza veloce e finì col cadere nel buio: il piccolo sole del gruppo, il più ottimista, quello che li incoraggiava di continuo.
Otoya.
Non passò molto tempo prima che il ragazzo, ormai ventunenne, iniziasse a sentirsi sommergere dagli impegni e che l’aria cominciasse a mancargli, quasi fosse finito in una stanza con le pareti che gli si stringevano addosso in una morsa soffocante.
“Posso farcela”, si diceva mentre stringeva i denti e continuava a impegnarsi, a dare il meglio di sé.
Diventò bravo a nascondersi dietro un sorriso, così che nessuno dovesse preoccuparsi per lui. “È solo un periodo un po’ più impegnativo, passerà”.
Il periodo si allungò da settimane a mesi, e Otoya si sentiva sempre più schiacciato, frustrato… braccato.
Mentre per Tokiya restare ai vertici del successo era facile quasi quanto respirare - quel ragazzo era la personificazione della perfezione, dopotutto-, Otoya arrancava, doveva lottare, correre per non essere superato dai nuovi arrivati in costante aumento.
Il suo sorriso perdeva lentamente luminosità ed energia, mentre lui continuava ad accettare lavori su lavori, si sforzava fino allo sfinimento, ignorava la febbre, sfidava il mal di gola, giocava con i propri limiti.
«Otoya, devi prenderti una pausa», il tono di Tokiya era fermo e dolce allo stesso tempo mentre, una notte, teneva il minore stretto a sé, sentendo i suoi muscoli tremare per la fatica.
La risposta era stata inesorabile:
«Non posso. Non sono te, non sono Ren, non posso fermarmi! Se lo facessi, qualcuno migliore di me arriverebbe a prendere il mio posto e…»
Per il momento, Tokiya l’aveva zittito baciandolo e l’aveva stretto anche di più, ma si era ripromesso di parlarne con gli altri.
Gli sforzi dei suoi compagni furono vani; prendersi pause era impensabile per il rosso, il loro unico tentativo di costringerlo a stare a casa era risultato quasi in un attacco di panico, così avevano deciso di non ripetere l’esperienza.
Ma il peggio doveva ancora venire.
Scoprire di essere il figlio di Shining Saotome aveva aumentato la pressione, la preoccupazione e la paura che avevano attanagliato Otoya fino a quel momento, la pressione mediatica era salita alle stelle.
E il ragazzo non si sentiva degno del cognome Saotome.
Nonostante tutti i suoi tentativi, o forse proprio a causa di essi, ben presto Otoya si vide scivolare lungo le classifiche dei tabloid, superato dai novellini, sempre più lontano da quelli che erano i suoi amici, i suoi compagni, delle stelle luminose che lo fissavano dall’alto della loro costellazione mentre lui, piccola stella dalla luce ormai fioca, cadeva giù senza poter fare altro che guardarli diventare sempre più luminosi e distanti.
Tokiya non l’aveva mai visto così vicino alle lacrime fino a quel giorno, il suo morale era crollato, così come la sua determinazione e il suo ottimismo.
«Sono una delusione per la Shining Agency».
«Otoya, sai che non è v…»
«Lasciami in pace, Tokiya».
«Ascoltami!»
«Vattene».
Il tono basso e freddo del minore l’avevano convinto ad andarsene; non sapendo che altro fare, il viola aveva deciso di lasciargli qualche minuto di privacy, in fondo sapeva che, se fosse successo a lui, non avrebbe voluto avere nessuno, nemmeno il suo ragazzo, fra i piedi mentre si sfogava.
Ed era stato allora che quello era cominciato.
Otoya non aveva mai provato sentimenti di odio, o rabbia, o disgusto fino ad allora, in quel momento tutti quei sentimenti gli esplosero dentro: le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento si lanciarono lungo le sue guance con foga, scivolandogli lungo il viso, giù dal mento, fino a bagnargli il collo, lasciandosi dietro quelle che sembravano ferite sulle sue guance chiare, le mani corsero a coprirgli il viso e soffocare le grida che abbandonavano le sue labbra, mentre le unghie si conficcavano nella sua pelle.
Non vali a niente! Il peggiore degli Starish! Tirerai in basso tutto il tuo gruppo!
Quelle parole gli echeggiavano nella mente, non le aveva mai sentite da nessuno, eppure era sicuro di averle lette nello sguardo di suo padre quando l’aveva chiamato nel suo ufficio per comunicargli quanto era emerso dai sondaggi.
Qualcosa iniziò a cambiare nella sua mente: vide i volti dei suoi compagni, dei suoi amici, quelli che considerava fratelli ormai, riempirsi di disgusto nel guardarlo, e poi li vide voltargli le spalle uno ad uno.
Persino Tokiya, dopo avergli rivolto un sorriso di compatimento, se ne andava.
I singhiozzi e le grida si fecero più forti, mentre la testa gli girava, le orecchie fischiavano e si riempivano di parole in realtà mai sentite, ma che in quel momento erano più vere persino del dolore che si stava infliggendo graffiandosi ogni centimetro di pelle che riusciva a raggiungere.
Era solo, e spaventato. Non conosceva quelle emozioni, le aveva sempre ignorate o soffocate, perdonando tutto a chiunque.
Solo quando sentì il freddo del metallo in una mano e una fitta di dolore nell’altra realizzò di aver preso le forbici che tenevano in un armadietto, averle aperte e di aver stretto poi il pugno attorno ad uno dei due lati taglienti, sfilando poi la lama, lentamente.
Il dolore lo attraversò come una scarica di gelo, passando dalla mano al cervello per finire al cuore.
Quel gelo faceva meno male di tutto il resto, lo avvolgeva, lo calmava.
Rimase fermo, osservando il sangue scivolargli giù dal palmo, lungo le dita, quasi incantato mentre quello gocciolava lento ma inarrestabile sul pavimento.
Il rosso era il suo colore, ma l’aveva sempre collegato alla passione, all’amore, alla luminosità.
Non si era mai fermato a pensare che rosso era anche il colore del sangue che gli scorreva nelle vene.
Per quanto tempo era rimasto così, fermo a fissare quel liquido scarlatto che continuava a gettarsi fuori dalla ferita? Non ne era sicuro, ma di una cosa era certo: finchè era rimasto fermo a fissarsi la mano, il suo respiro era rimasto tranquillo, il dolore era sembrato ovattato, e tutte quelle emozioni sconosciute erano rimaste ferme, impercettibili.
Aveva trovato un modo per sentirsi in pace, stranamente.
Passò del tempo, e i tagli continuarono ad aumentare, ogni volta che riusciva a restare solo, il ragazzo metteva alla prova la propria pelle, le sue cellule e la sua sopportazione del dolore.
Non si accorse di essere diventato dipendente da tutto quello finchè non si scoprì ad essere quasi geloso di quei tagli.
Era diventato più bravo e abile nel farsi male ma lasciare poche tracce, le cicatrici sui suoi polsi o sui suoi fianchi erano facilmente copribili per la maggior parte delle volte.
In fondo solo Tokiya lo poteva vedere nudo, e negli ultimi tempi le possibilità di farlo erano state ben poche, e quelle volte la luce spenta e il fatto che il maggiore fosse “distratto” avevano giocato a favore del rosso.
Solo una notte, quando sussultò involontariamente dopo che Tokiya aveva stretto le mani su un fianco ferito di recente, destò qualche sospetto nel maggiore.
«Sono stati i cavi nell’ultimo film. La fibbia era un po’ troppo stretta».
La scusa aveva retto perché era credibile, non era la prima volta che succedeva a uno di loro, e soprattutto Otoya era quello che non mentiva mai, quindi perché dubitare delle sue parole?
Più i tagli crescevano, più la sua maschera diventava forte.
Era più facile sorridere, pensando che poi il sangue che avrebbe versato di lì a poco avrebbe lavato tutti gli errori della sua giornata. O della sua esistenza.
Quelli che l’avevano visto cadere, i suoi amici, suo padre, il loro manager, tutti pensavano che si stesse riprendendo, che stesse cominciando a uscire dalla buca in cui era finito, ma in realtà stava solo andando sempre più giù.
Solo una persona iniziava a sospettare, a fargli domande, a cercare di bloccarlo in modo da poterlo ispezionare a fondo.
Tokiya, come sempre.
Poteva essere quasi sempre lontano da lui per via del lavoro, o stanco morto quando tornava, ma era insistente, aveva capito che qualcosa non andava, sentiva qualcosa di più cupo aleggiare attorno al suo compagno, la luce che emanava di nuovo era fredda, sinistra.
Alla fine, una sera, si decise a confrontarlo, approfittando mentre l’altro era impegnato a lavare i piatti.
«Oto, possiamo parlare?» mormorò, strofinandosi la fronte con il palmo delle mani cercando di allontanare il mal di testa che iniziava a formarsi, fingendo di non notare il suono di un piatto che scivolava dalle mani per cadere nel lavello.
«D-di cosa?»
La voce di Otoya era calma, all’apparenza, ma il maggiore riuscì a intendervi inquietudine e sospetto, il che lo mise anche più all’erta.
«Di tutto quello che sta succedendo. Puoi anche prendere in giro gli altri, ma non me, lo so che qualcosa non va, e so che cerchi di nascondere qualcosa».
Stavolta il piatto che cadeva fu accompagnato da un sussulto violento delle spalle del rosso, che si voltò di scatto:
«Non sto cercando di nascondere nulla!»
In tutta risposta, Tokiya inclinò il capo da una parte, e con quello aveva cercato di rassicurarlo? Stava per replicare quando si accorse di qualcosa, qualcosa che gli fece correre un brivido lungo la schiena.
«Quella felpa è mia?» chiese, accigliandosi.
«No, è la mia, da quando tu hai qualcosa di bordeaux?» decisamente, questo aveva attirato l’attenzione di Otoya; erano anni che ce l’aveva, perché Tokiya se ne usciva con… E perché si stava alzando e gli andava vicino con quell’aria tremendamente seria? «Toki?»
«Otoya, ti sta enorme!» nel momento in cui gli occhi chiari del più grande si piantarono in quelli cremisi del minore, il secondo capì di essere seriamente nei guai, e ringraziò le maniche per essergli scivolate prontamente giù dall’avambraccio a coprire la sua pelle martoriata che era rimasta leggermente scoperta quando le aveva rimboccate per lavare i piatti. «Quanto pesi?»
«Eh?»
Al suo tentativo di fare l’innocente, Tokiya perse la pazienza e lo sollevò praticamente di peso, fino a trascinarlo in bagno e posizionarlo davanti alla bilancia.
«Spogliati», gli ordinò.
“Oddio, no. Non può essere. Non sta succedendo davvero”, spogliarsi sarebbe stata la fine, i tagli sul braccio sarebbero forse potuti passare inosservati, coperti dall’esercito di bracciali che si era procurato apposta su uno, e dal polsino rosso sull’altro, ma quelli sui fianchi, che stavano lentamente salendo verso le costole? Quelli sarebbero subito saltati all’occhio vigile di Tokiya, insieme al fatto che, effettivamente, aveva perso diversi chili.
Iniziò ad abbassare lentamente la zip della felpa, ma prima di poterla aprire del tutto, il suono del citofono lo salvò in extremis.
Rimasero immobili, lui e l’altro ragazzo, uno con le mani ancora ferme sulla felpa e gli occhi inchiodati sul viso del compagno e il secondo con gli occhi fissi sull’indumento e le mani inchiodate al bordo della vasca su cui era seduto. Sarebbero rimasti così ancora a lungo, se il citofono non fosse stato suonato ancora e ancora, insistentemente, costringendo alla fine il maggiore ad andare ad aprire.
Otoya approfittò di quel momento per rovesciare nel water la cena di quella sera e per assicurarsi di manomettere la bilancia.
“Mi dispiace, Toki. Ma se mi portassi via l’unica via di fuga che ho, non potrei sopportarlo” pensò tristemente, correndo in camera e cambiandosi rapidamente, prima di ficcarsi sotto le coperte.
Quando Tokiya lo raggiunse, finse di essere profondamente addormentato pur di evitare domande, ma quando, qualche minuto dopo, si sentì stringere delicatamente da dietro, fu difficile resistere all’impulso di rigirarsi nell’abbraccio e nascondere il viso nel petto di Tokiya.
«Che cosa ti stai facendo, Oto?» La voce del maggiore era un sussurro, flebile nella sua malinconia e nel tentativo di non svegliarlo. «Perché non mi permetti di aiutarti? Non posso farlo, se non so che cos’hai».
Per un momento fu tentato di confessargli tutto, di stringerlo e chiedergli aiuto, implorarlo di farlo smettere, ma poi il pensiero di dover rinunciare a quei momenti di vuoto beato, di pace e leggerezza che seguivano ogni taglio lo bloccò e gli fece tenere le palpebre abbassate, il respiro regolare.
Per quella notte nessuno dei due disse altro.
Il mattino dopo il rosso scoprì chi era la sera prima al citofono, felice di scoprire che si era trattato solo di un qualche seccatore con il tempismo di Napoleone che attacca la Russia d’ inverno, che aveva trattenuto Tokiya a suon di chiacchiere nonostante l’evidente impazienza del ragazzo di scrollarselo di dosso.
Aveva uno sconosciuto da ringraziare, a quanto sembrava.
«Riguardo a quello di cui cercavo di parlarti ieri sera», iniziò di nuovo Tokiya, senza alzare lo sguardo dalla sua tazza di caffè. «Ti prego…»
«Scusa! Devo scappare, ci vediamo stasera!» e con un rapido bacio sulle labbra, il minore scampò nuovamente la spinosa conversazione.
Quel giorno, al talk show a cui era stato invitato, invece di usare le pause per avvantaggiarsi col lavoro, Otoya le aveva impiegate tutte a cercare scuse credibili per giustificare tutti quei tagli, nel caso - ormai non proprio remoto - che Tokiya li vedesse e chiedesse spiegazioni.
Aveva un block notes su cui annotarle, eventualmente, ma tutto quello che vi trovò scritto quando fu ora di tornare a casa, era la strofa di un testo che nemmeno si era accorto di aver creato.
 
And let the blood spill
And let the blood flow
Just make sure your smile has always that same glow
Hide it with all of your might
Nobody will see
If you wear your smile!
 
Chiuse il blocco con un sospiro e lo fece sparire nella sua borsa, scuotendo leggermente la testa.
Era quello che faceva già: sorridere con tutte le sue forze, fingere, recitare il ruolo di un Otoya che ormai non esisteva più.
Non aveva problemi a continuare in quel modo, sapeva come fare.
Era solo Tokiya che continuava a lottare contro i suoi sforzi, a renderli vani, a insistere per sapere che problemi avesse.
L’avrebbe amato ancora se avesse saputo quale mostro si nascondeva dietro il suo viso ancora innocente?
Quella sera tornò a casa, sollevato nel trovarla vuota, con un biglietto che gli comunicava che per un paio di giorni sarebbe stato solo.
“Benissimo” pensò, con un sorriso freddo che non gli apparteneva.
Quei due giorni gli servirono ad abituarsi a stare senza Tokiya, a godersi il suo mondo senza maschere.
Saltava i pasti e nessuno se ne accorgeva, si trovava a terra tremante per la mancanza di energie, poteva scoppiare a piangere e urlare, poteva curarsi a modo suo, e nessuno lo notava.
Gli mancava il suo ragazzo?
Forse, ma anche quella era una piccola ferita che poteva bendare e curare col sangue.
Si sentiva libero di respirare, ma non si era accorto che, mentre godeva quella libertà, le pareti di una cella più alta si alzavano attorno a lui.
Il ritorno di Tokiya rivelò la verità, la base dell’iceberg che era rimasta nascosta fino a quel momento.
Mentre il viola era impaziente mentre saliva le scale e apriva la porta, il rosso si sentiva insofferente, irritato dal fatto che tutto ciò che aveva avuto stava per sparire di nuovo.
Il suo guardiano stava tornando.
Fu in quel momento che la sua coscienza, soffocata in quei due giorni, riuscì a farsi sentire, forse incoraggiata dalla presenza di Tokiya sempre più vicina.
“Lui ti ama. Come puoi pensare di star meglio senza di lui?! Lui ti tiene al sicuro, è dalla tua parte, vuole vederti star bene!”
Quella voce nella sua mente era fastidiosa, ma insistente abbastanza da non farsi ignorare.
“Sto bene senza di lui. Non ho bisogno di nessuno”.
“Lui ti rende vivo, non il dolore, non quei tagli, non il sangue. Tokiya. I suoi tocchi, i suoi baci, la sua voce!”
Sentì la chiave girare nella toppa, e il cuore gli si bloccò per un momento.
Cosa avrebbe fatto quando fossero stati faccia a faccia?
Qual’era diventato il vero sé? Era quello dolce e innamorato, o quello cinico e gonfio d’odio?
“Lo ami!”
“Lui mi costringe ad essere qualcosa che non sono”.
“È questo quello che sei, sei il suo Otoya, sei innamorato di lui e vuoi il suo aiuto!”
Il dibattito diventava più feroce, più acceso, più rapido, quasi come il battito impazzito di un cuore fuori controllo.
La porta era aperta, e Otoya era a terra.
 
«Non dovevo andarmene».
«Icchi, non serve a nulla torturarti così tanto ora. Sta bene, adesso, è quello che conta, no?»
Ren poteva dire quello che voleva, seduto con il compagno di band fuori dalla stanza di ospedale dentro cui riposava il rosso del gruppo, collegato ad una flebo che gli cacciava a forza sostanze nutritive nel corpo.
«Tutti quei tagli», sussurrò Tokiya, prendendosi la testa fra le mani e poggiando i gomiti sulle ginocchia, lasciando che i capelli gli scivolassero davanti al viso. «Era questo che nascondeva, e io non me ne sono mai accorto. Non me ne sono mai voluto accorgere!»
«Nessuno di noi l’aveva fatto», intervenne Syo, seduto di fronte a loro, leggermente più a destra. Era scuro in viso e teneva le braccia incrociate sul petto.
Anche lui avrebbe voluto capire prima che cosa stava succedendo al suo amico.
«Voi non vivete con lui, non…» Tokiya si zittì nuovamente, soffocando un gemito di frustrazione e rabbia verso se stesso. «Non toccare cibo per due giorni, e chissà quante altre volte senza che io notassi qualcosa!»
Ren alzò gli occhi al cielo e si alzò, lasciando il posto a Masato e Cecil, forse più indicati di lui in quel genere di cose.
«L’abbiamo tutti lasciato solo. Non ce ne siamo accorti, ma salvo i concerti e gli eventi di gruppo, ognuno seguiva la propria strada», mormorò, realizzando in quel momento quanto avevano realmente perso, «e l’abbiamo lasciato indietro. Nessuno di noi si è fermato ad aspettarlo, per paura di scivolare come lui. Che razza di gruppo…», si fermò e si corresse scuotendo la testa. «Che razza di amici siamo stati?».
Il resto degli Starish rimase in silenzio, poi uno a uno annuirono, lentamente, schiacciati dal senso di colpa.
I senpai, i sensei e Shining stesso li avevano messi in guardia, avvisandoli che qualcosa di simile sarebbe potuto succedere.
Nessuno di loro ci aveva veramente creduto.
E quando Otoya fu dimesso dall’ospedale, tutti erano decisi ad aiutarlo, a tenerlo sotto controllo.
Il peggio ormai era passato, giusto?
 
I primi tempi la vicinanza ritrovata dei suoi amici aveva aiutato effettivamente Otoya, si sentiva un po’ meno inadeguato quando osservava Natsuki tormentare Syo, Ren stuzzicare Masato, o quando scherzava con Cecil.
Sembrava che le cose fossero tornate alla normalità.
Ma l’abisso in cui si era gettato il ragazzo non era uno da cui era facile risalire: la sua pelle, certe notti, bruciava e prudeva, implorava di sentire di nuovo quel piacevole dolore.
Tenne duro il più possibile, si aggrappò a Tokiya quando da solo non riusciva a farcela, ma un pomeriggio, nascosto in bagno e fissando il suo riflesso, quella rabbia era esplosa di nuovo.
Gli occhi del suo riflesso divennero freddi, l’espressione crudele. Le labbra si mossero senza che lui facesse nulla e formularono parole che lui non pronunciava.
«Guardati. Non solo sei caduto in basso tu, ma hai anche trascinato con te i tuoi amici».
Fu come una gettata d’acqua gelida.
Ripensò a Tokiya, che aveva rifiutato alcuni contratti importanti con la scusa di “essere stanco”, Syo che non aveva voluto partecipare all’ultimo film di Prince of Fightings “per dar retta a suo fratello”, Cecil che dichiarava di “essersi preso un’infiammazione alla gola”… ora capiva che tutte quelle erano scuse, scuse per giustificare il fatto che tutti loro avevano rinunciato a qualcosa per scendere al suo livello.
Che razza di amico era lui?
«Sai cosa devi fare», aveva detto di nuovo il suo riflesso, stavolta sorridendo gentilmente, con tono ammaliante.
I rasoi erano lì vicino, avrebbe solo dovuto alzare una mano.
Ne prese uno.
“Allora? Stai meglio ora?” avrebbe dovuto intuire il sarcasmo nella domanda di Natsuki, quella volta in cui gli aveva proposto di accompagnarlo alla prima del suo ultimo film.
“Stai mangiando, adesso?” e avrebbe dovuto riconoscere il tono seccato di Masato quando si erano seduti insieme durante la pausa del programma a cui avevano partecipato.
“Fammi vedere i polsi”. Che idiota che era stato, a non vedere il disappunto nello sguardo di Tokiya quando, analizzando la sua pelle quasi immacolata, priva di nuovi tagli ma solo di vecchi errori, non vi aveva trovato nessuna nuova ferita.
Colpì più a fondo, con più odio, odio per se stesso per essere stato così stupido, con più rabbia, rabbia per gli altri che gli avevano mentito, poi pulì tranquillamente le macchie di sangue che non era riuscito ad impedire.
Aprì l’acqua nella doccia ma non vi entrò, si limitò ad appoggiarsi contro la porta chiusa a chiave, inspirando ed espirando lentamente, schiarendosi la mente.
Non sarebbe più stato un problema per nessuno, non li avrebbe più delusi.
Doveva solo trovare un po’ di coraggio.
 
«Mi auguro che tu ti senta meglio».
Otoya si guardava intorno intimidito, sebbene ormai avrebbe dovuto essere abituato a entrare nell’ufficio di suo padre.
Era strano vederlo in una versione quasi normale, per quanto poteva essere normale quell’uomo, sentirsi chiamare per nome e non “Mr. Ittoki”.
Era un richiamo all’ordine, un ricordare che fra loro due scorreva del sangue in comune, un destino simile, se Otoya fosse stato un figlio migliore.
«S-sì, signor Presidente».
Se Shining era stato rapido nell’abituarsi ad abolire le formalità, lo stesso non si poteva dire del figlio.
L’adulto aveva smesso di correggerlo:
«I tuoi colleghi sono preoccupati per te», notò, fissandolo negli occhi, anche se era difficile a dirsi, dati i suoi occhiali scuri.
Poteva anche fissargli le dita dei piedi e lui non se ne sarebbe accorto.
«Non ce n’è motivo».
“Non crollare ora”.
«Volevo mostrarti questo», con quelle parole, sempre strascicate e in un inquietante mix di inglese e giapponese, l’uomo voltò il suo tablet verso il ragazzo. «Stai risalendo la classifica, complimenti».
Otoya si permise un sorrisino prima di inchinarsi e prendere congedo.
Appena la porta si fu chiusa alle sue spalle, il primo pensiero che gli attraversò la mente fu che suo padre fosse avesse un qualche ruolo in quella sua improvvisa risalita.
Una volta a casa si lasciò abbracciare da Tokiya e gli riferì le buone notizie, ma tenne per sé il suo dubbio, sapeva che l’altro avrebbe negato.
Non si era più sentito irritato nei confronti del maggiore, per fortuna, e l’altro sembrava aver acquistato ulteriore fiducia in lui, dopotutto lo vedeva mangiare e controllava che non si provocasse il vomito subito dopo, notava che il suo umore migliorava…
Le volte in cui perdeva il controllo erano diventate rare, almeno agli occhi del maggiore.
Se solo avesse saputo che cosa nascondeva il rumore della doccia, la maggior parte delle volte.
 
Il peggio esplose la sera del 22 giugno.
Tokiya era dovuto correre a casa dei suoi genitori per qualche motivo che nemmeno lui aveva capito, gli altri Starish erano sommersi di lavoro, così come Otoya.
Era di nuovo stanco, spaventato, diffidente.
E soprattutto la sua coscienza e il suo riflesso non gli lasciavano pace.
La prima gli ricordava ciò che era, sotto tutti quegli strati di depressione e di rabbia, cercava di dargli speranza, di dargli forza.
Il secondo lo distruggeva, dava voce ai suoi pensieri più cupi, mischiava la realtà con la paranoia e gli succhiava via ogni forza, ogni promessa, ogni possibilità di risalita.
Era la sera in cui Tokiya sarebbe dovuto tornare, era riuscito a parlarci al telefono prima che la batteria dell’altro, rinomata per questa sua capacità, morisse al momento meno opportuno.
«Tu come stai?»
Per una volta, Otoya non era riuscito a mentirgli.
«Stanco. E… mi manchi, e ho paura. Sto… sto di nuovo perdendo il controllo, credo». Confessarlo era stata una delle cose più difficili che avesse mai fatto, solo ora se ne rendeva conto. Si era aspettato che Tokiya si allarmasse, urlasse, o perdesse la calma.
Invece gli aveva risposto con tutta la dolcezza che aveva:
«Sto tornando, Oto. Resisti ancora un po’, andrà tutto bene, ok?»
Quanto avrebbe voluto credergli!
«Sì».
«Mi manchi anche tu, fra l’altro», il modo rapido in cui aveva detto quella frase aveva fatto sorridere appena il rosso, abituato alla timidezza del compagno.
«Ci vediamo appena torni, Toki».
«Naturalmente… Ti amo, lo sai, vero?»
«Lo so. Toki, io…».
E la batteria aveva ceduto proprio in quel momento.
“Resisti ancora un po’, ancora per poco”, continuava a ripeterselo come un mantra, mentre l’odio del suo riflesso lo travolgeva come un’onda. “Tokiya sta arrivando, Tokiya sarà qui presto!”
La testa ricominciava a fargli male, aveva difficoltà a respirare, sentiva freddo e caldo contemporaneamente, e tutto girava e tremava attorno a lui.
Si aggrappò ancora una volta al rasoio, ma il primo taglio non lo calmò, il secondo non lo rinfrescò, il terzo non lo rassicurò.
«Tokiya non tornerà perché non ti sopporta più! Non è andato dai suoi, è scappato da te! Da quel peso inutile che sei diventato!»
Il quarto non mise a tacere la voce, il quinto non fece passare i brividi bollenti che lo attraversavano.
Superò il suo limite, cercando di risvegliare quelle sensazioni positive che venivano con quei tagli.
«Non lasciatemi anche voi», ansimò.
La testa girava troppo forte, e l’odore era troppo strano.
“Tokiya, dove sei?”
Lo realizzò un momento prima che il buio lo avvolgesse: aveva cercato troppo.
Aveva tagliato troppo.
Aveva oltrepassato il limite.
«T-to-k-i…».
 
Tornato a casa e non trovandolo, Tokiya aveva iniziato a sentire una sensazione spiacevole alla base della nuca.
«Otoya, sono a casa! Dove sei?»
Nessuna risposta, solo il rumore del suo battito cardiaco che aumentava nelle sue orecchie, insieme alla sua preoccupazione.
Raggiunse di corsa il bagno, ma quando fu il momento di aprire la porta esitò.
Era pronto a quello che avrebbe potuto trovare là dentro?
“Smettila. Starà bene! Forse è in camera, e non qui…”
I suoi occhi furono rapidi a smentirlo appena riuscirono a scorgere le piastrelle imbrattate di rosso, il liquido che avanzava su di esse.
E Otoya rannicchiato a terra, in mezzo a quel maledetto colore che lui aveva amato fino a quel momento.
Si inginocchiò accanto al ragazzo, tremando e lottando con le lacrime, concentrandosi sulla respirazione, che continuava a bloccarglisi, e lo prese fra le sue braccia, quasi fosse un bambino. Non l’aveva mai trovato così piccolo e fragile come allora.
Non riusciva a parlare, non riusciva a respirare.
Svegliati.
Rivide Otoya sorridente sulla soglia della loro camera, all’Accademia, dolce e imbarazzato come era sempre stato.
Svegliati.
La prova di registrazione di Otoya che lui aveva spiato di nascosto.
“Come fa a metterci tutta quell’emozione?”
Svegliati.
Il primo concerto degli Starish.
Svegliati.
Gli Utapri Awards.
Svegliati.
«Ne  ̴ Toki! Sei sotto il vischio!»
«E allora?»
«Beh bisogna baciarsi!»
Aveva immaginato il loro primo bacio più romantico. Ma così era anche meglio.
Svegliati…
Otoya in lacrime mentre Shining ribadiva la no love rule.
Svegliati.
Gli incontri di nascosto nel suo appartamento.
Svegliati.
L’abbraccio di gioia che li aveva uniti quando quella folle regola era stata abolita, i baci non più minacciati dal peso del divieto.
Svegliati.
«Hey Toki… potremmo vivere insieme, che ne dici?»
Svegliati.
Svegliati!
Gli occhi di Otoya che lentamente si svuotavano, e lui che se ne accorgeva a malapena.
Svegliati.
«Ci vediamo appena torni, Toki».
Svegliati!
«Non hai ancora risposto al mio “ti amo”».
Come se quello potesse essere un motivo sufficiente per riportare indietro il suo sole.
Quel sole che tutti avevano dato per scontato finchè non era stato soffocato durante l’eclissi.
E proprio come il sole, notò Tokiya mentre lo stringeva ancora più, Otoya aveva brillato più che mai durante quell’eclissi, solo che nessuno aveva potuto ammirarlo, per quanto era stata abbagliante la sua luce.
 
«To…k…ya»
Ma le eclissi passano, non è vero?

 
***********************
Nota dell’autrice:
Ai fini del contest a cui partecipa la storia- Come si è notato, il finale è aperto, per questo motivo non ho messo death-fic come prompt, perché è lasciato all’immaginazione del lettore: qualcuno salverà Otoya? L’ultima parte è un sogno di Tokiya? Io non ho una posizione, quindi non mi sembrava giusto scegliere un prompt invece che un altro… spero che quei tre vadano bene lo stesso.
 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Uta no Prince-sama / Vai alla pagina dell'autore: Starishadow