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Autore: holls    24/07/2015    1 recensioni
11 Settembre 2001.
L'attentato alle Torri Gemelle distrugge la tranquillità di ogni cittadino americano, altera gli equilibri del mondo, distrugge migliaia di vite.
Ed è proprio sotto le macerie che giace Mike, che è morto sperando nella vita, e che ha lasciato in questo mondo la moglie Melanie, incinta del loro primo figlio.
E che vive sperando nella morte.
[Storia scritta per un vecchissimo contest e mai consegnata]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NEW YORK, AGAIN
 

Si tocca il pancione, Melanie. Il cicaleccio di voci intorno a lei non bastano a distogliere lo sguardo da quella coltre di macerie, da quei cumuli di cemento mischiati a qualcosa di riconducibile a una scrivania o una sedie girevole. Lo sguardo è fisso su quegli uomini che ancora razzolano in mezzo al nulla nel tentativo di trovare un sopravvissuto, o un corpo, per offrire un degno ricordo ai familiari. Tacciono, quasi volessero concentrare le loro energie solo sulla ricerca, come se qualsiasi parola fosse sprecata.

Si tocca il pancione e sente un piedino scalpitare. Chiude gli occhi e pensa alla sua creatura, alla loro creatura, che freme dalla voglia di esplorare il mondo, quel mondo che l'ha privato di una parte di lui, anche se ancora non lo sa.

E pensa, Melanie, a dove sarà la pompa per la bicicletta - lo sa solo Mike, se deve rinnovare il bollo per la macchina - ci penserà Mike, a come scacciare un insetto entrato la sera dalla finestra - solo Mike è abbastanza coraggioso! Fissa il cielo e tra le nuvole intravede uno sguardo, un paio di occhi grandi e labbra carnose. Intravede il suo sorriso, gli occhi rugosi per la spinta delle labbra, e un "Ciao!" di sottofondo la fa sussultare. Si volta, Melanie, ma è solo un gruppo di amici. Si asciuga le lacrime col dorso di una mano, fissa nuovamente il cielo; ma le nuvole non sono nient'altro che cirri.

È la pausa pranzo per quei volontari scavatori, e si alzano abbandonando le ricerche. Per un attimo abbandona anche lei. Si volta, riuscendo a contrastare quella forza magnetica che la trattiene là, come se udisse l'urlo disperato di un uomo senza volto che le tende la mano, implorandola di non abbandonarlo. Finalmente torna alla realtà, e la fermezza dei suoi passi la porta verso le scale della metropolitana. Le scende poggiandosi al corrimano, non prima di aver dato un’ultima occhiata a quello spazio stranamente vuoto, troppo vuoto per essere vero.

Attende la sua metro, Melanie, e si guarda intorno. Pensa a quella fitta ragnatela sotterranea e a quanto sia estremamente delicata, a quanto potrebbe bastare per farla crollare e portare tutti via con sé. Chiude gli occhi e per un istante lo immagina; essere portata via, crollare come un castello di sabbia, essere risucchiata in una voragine soffocante per poi ritrovarsi lassù. Insieme a Mike.

Scrolla la testa e sente il cuore dolere. Mike è ancora lì con lei. Lo sa. Non può vedere quel suo naso schiacciato, non può toccare il suo gessato con la cravatta sempre slacciata, non può odorare l’aroma della sua pelle scura. Ma è lì. Alza appena un braccio, come per allungare la mano di fronte a qualcosa che è solo nella sua mente. Ma l’annuncio della metro in arrivo la distrae.

Si fa trascinare dagli spintoni, e sulla metro è come trasportata. È grande abbastanza per contenere la coltre di gente delle sette di sera. Non sono lavoratori, né studenti: perlopiù pensionati e donne che portano i figli al parco o i cani a spasso. Lo sguardo di Melanie si sposta, ondeggia vacuo in mezzo a tutte quelle persone. Distingue due uomini di strada, neri, con calzoni larghi e bassi, il cappellino e l’accento africano. Uno di loro ha in mano uno stereo. Parlano tra loro, e sembrano privi di alcuna sofferenza. Ma la storia che hanno scritto fino lì è dolorosa almeno quanto la sua, e solo ora si sofferma a pensarlo.

Nota una donna sola e scruta il suo sguardo. Lo osserva più e più volte. Gioca con suo figlio, la donna, ma non c'è gioia in lei; e si chiede, Melanie, se quella donna possa in qualche modo capirla, se possa spartire il suo dolore. Il bambino sorride porgendole un giocattolo e pronunciando suoni ancora senza senso, e la donna si permette solo un sorriso tirato. Non parla al bambino, non gioca con lui. Poi osserva meglio: lo stringe forte a sé, lo tiene sulle sue gambe stretto in un'area sicura, vicino a lei. Nessuno potrà fargli del male, così. Non parla, la donna, ma l’amore non ha bisogno di parole.

Poi lo vede. Un uomo sulla trentina si avvicina alla donna e blatera qualcosa riguardo a una macchinetta rotta. La donna sospira e finalmente sorride. Melanie si guarda intorno. Cerca nuovamente quei due uomini neri, ma non li vede più. Si guarda attorno, si mette in punta di piedi per scrutare meglio. Volta la testa a destra e a sinistra, senza risultato. Aspetta anche lei di vedere arrivare il suo Mike, con il suo accento africano, e sentirlo lamentarsi di una macchinetta rotta. E forse non lo avrebbe nemmeno ascoltato: avrebbe solo osservato ogni lineamento del suo volto, per imprimerlo bene in memoria, avrebbe udito solo il suono della sua voce, per ricordarlo nei momenti di difficoltà. Ma Mike non c’è. Inesorabilmente, non c’è.

Scende alla sua fermata, e dopo pochi passi è finalmente a casa. L’immagine di una cena pronta le passa improvvisamente la mente. La cena pronta. Si aspetta un piatto fumante già servito, Melanie, o un bigliettino di un ritardo nel rincasare.

La serratura scatta e il portone di casa si apre. Il profumo del frutto della passione le invade le narici come varca la soglia. Tenta di accendere la luce, ma non accade nulla. Preme ancora il pulsante, senza alcun risultato. Spasmodicamente corre per tutta la casa, premendo ogni interruttore per la luce. Nessuno di essi funziona. Si accascia sul muro del soggiorno, fino a che non siede per terra. Fissa la finestra, e il buio che presto arriva. Stringe i denti e trattiene le lacrime.
«Mike…»
«Mike, la luce…»
Grida un po’ di più, Melanie.
«Mike! È andata via…»
Respira a fatica, le parole escono a tratti.
«La luce, è andata…»
Esplode in un pianto, Melanie.
«Mike!»
Apre affannosa la clip della borsa, razzola dentro senza prestare cura agli oggetti. Trova il cellulare. Lo afferra, cerca un numero nella rubrica. Preme il tasto verde per effettuare la chiamata.
«… Siamo spiacenti. Il telefono della persona da lei chiamata è spento o non raggiungibile. La preghiamo di… »
 
Riattacca d’istinto, scaraventando il cellulare a terra. Si porta le mani sul viso, fino a che non lo adagia sulle ginocchia. E piange, scoppia in un pianto dirottato, in grida di una persona mutilata.
 
Decide di non cenare. Sale le scale, e il silenzio di quella casa la assorda. Si guarda attorno e le pare di scorgere un’ombra. Corre verso quell’entità, trafelata, e spalanca la porta. Deglutisce amara alla vista dello spazzolone per pulire i pavimenti, nascosto nell’ombra del ripostiglio.
Poggia una mano sulla maniglia della camera e la tira giù. Esita prima di aprire la porta. Scopre la stanza piano piano, allungando il capo per scrutarla meglio. In mezzo nota solo il letto matrimoniale. E, sotto la finestra, un pesante scatolone. Si porta una mano sul braccio, per constatare che i muscoli per sollevare quella cassa non li ha. Teme che rimarrà lì per molto, molto tempo ancora. Si sfila le scarpe e si abbandona sul letto. Non pensa a nulla; si limita a fissare il soffitto chiaro finché, a poco a poco, non diventa solo banale oscurità.  
 

Si alza di buon mattino, Melanie. Come sua abitudine, del resto. È già pronta quando decide di uscire. Scende anche quel giorno gli scalini della metropolitana. Sono passati dieci giorni da quando Mike non è ancora rincasato.
La metro la sballotta ancora una volta, e ancora una volta osserva i visi solitari delle altre persone. Oggi li osserva ad altezza d’uomo, perché nessuno l’ha fatta sedere. Arriva presto alla sua fermata. Scende lo scalino che la porta sulla piattaforma, e un odore familiare la fa fermare. Annusa ancora e ancora l’aria, ma quell’odore ormai è perso. Si avvia a passi svelti verso la scalinata, che la catapulta in un baleno in quella che è la realtà. Pochi passi, ed è nuovamente là. Si aspetta di trovare i due grattacieli più svettanti  di tutta Manhattan, ma quello che vede è solo grigiume.

Si tocca il pancione, ancora, e di nuovo sente un battito di vita. Avanza a piccoli passi verso l’orrore che il mondo, e così lei, sembra non aver ancora realizzato. C’è un pupazzo logoro e sporco tra i calcinacci, un portafogli senza più proprietario, un cellulare con lo schermo crepato. Gli uomini scavano, i cani annusano in cerca di corpi sepolti, i vecchi osservano le ricerche con l’usuale interesse; ma non parlano, non si scambiano occhiate né chiacchiere da bar. Annusa l’aria, Melanie: c’è odore di morte. Riecheggiano nell’aria le grida disperate, gli occhi infuocati dall’esplosione e la disperazione di una vita che nessuno avrebbe più potuto salvare. È come se li vedesse, come se lo vedesse, sul ciglio del cornicione di un piano troppo alto, a dare un’ultima occhiata dietro di sé, a scegliere di quale morte morire. Un passo dopo l’altro, verso il vuoto, e un volo che non lascia scampo. Un impatto troppo forte, troppa la resistenza del terreno. E le macerie sopra il suo corpo, irrispettose, che lo coprono con un cumulo indistinto: mattoni, cemento, corpi. Non ha più importanza.

Le fiamme si spengono e Melanie torna lì, alla realtà. Un calcio dal pancione le ricorda che lei è ancora lì, tra i vivi. Che non può smettere di lottare, che da quelle macerie nascerà di nuovo qualcosa.

Una fitta al basso ventre le ricorda che deve sopravvivere, per lei e per Mike; e quell’inno alla vita la colpisce ancora una, due, tre volte, sempre più forte, finché un rivolo caldo non le suggerisce che sì, è giunta l’ora.

E quegli uomini, che da giorni scavano per dare onore ai morti, ora collaborano per dare un futuro ai vivi, a coloro che raccoglieranno le briciole di ciò che è stato l’Undici Settembre.

È in ospedale, Melanie, e piange e spinge per far nascere il loro bambino.

In mezzo a tanta morte, la vita.


 

Note: ho scritto questa storia ormai nel lontano 2012, con l'idea di farla partecipare a un contest di quel periodo. Purtroppo non sono mai riuscita a finirla, e così è rimasta nel mio computer per anni e anni. Stasera, finalmente, sono riuscita a dare la conclusione che volevo a questa storia, e quindi ho deciso di proporvela, nella speranza che vi sia piaciuta.
A presto! :) 

 
   
 
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