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Autore: vannagio    25/07/2015    6 recensioni
«Salve, questo è il numero di Sam Winchester. Se avete bisogno di aiuto, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, sarete richiamati al più presto».
Biiiip.
«Ehm, ciao, mi chiamo Laurel Lance. Non c’è un modo delicato per dirlo, tanto sono sicura che avrai già riconosciuto la mia voce. Sono il corpo che Ruby aveva posseduto sei anni fa. Ho bisogno del tuo... vostro aiuto. Spero che tuo fratello sia ancora vivo. Dio, spero che tu sia ancora vivo. Il numero è attivo, vorrà pur dire qualcosa, no? Ma sto divagando. Vivo a Starling City, California, e sono quasi certa che qui ci sia un caso di tua... vostra competenza. Ieri notte un ragazzo è stato completamente eviscerato. Per favore, richiamami a questo numero».
Biiiip.

[Cross-over con Arrow; storia ambientata durante la seconda stagione di Arrow e la nona stagione di Supernatural]
[Seconda classificata al contest "Lunghe, anzi... lunghissime", indetto da Ili91 sul forum di EFP]
Genere: Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: Cross-over | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Guida alla lettura:
Questa storia è ambientata nella seconda stagione di Arrow, dopo l’episodio 2x16 “Suicide Squad” e prima dell’episodio 2x17 “Birds Of Prey”, e nella nona stagione di Supernatural, in un momento imprecisato dopo l’episodio 9x16 Blade Runners. Deve essere considerata come un episodio filler, che non va a intaccare le trame orizzontali delle due serie tv.
Per il resto, ci vediamo nelle note in fondo. Buona lettura.







Team-up




Settant'anni di fumetti all'improvviso avevano un senso. Finalmente capii perché i supereroi lavoravano in coppia. Non era perché si vergognavano. Non era perché si sentivano meno stupidi ad andare in giro con altre persone con addosso maschere e mantelli. I team up si facevano per una ragione molto semplice.
Erano divertenti.

(Kick-Ass)




Capitolo 1



Starling City, California


Mercoledì

Quella mattina, mentre inseriva le chiavi nella toppa della camera ventisei, Consuelo non pensava ad altro che ai blocchi di cemento che aveva al posto delle gambe e alle restanti trentaquattro stanze da pulire prima di mezzogiorno. Si fermò davanti allo specchio dell’ingresso e storse la bocca in una smorfia. I polpacci che facevano capolino dall’orlo della divisa sembravano delle mappe geografiche. Presto o tardi quelle venuzze bluastre sarebbero esplose, Consuelo lo sapeva. La scena che si figurava spesso era degna dei film splatter che piacevano tanto al suo Pedrito: la carne dei polpacci si apriva in lunghe e strette crepe zigzagate come un’anguria matura e il sangue sgorgava fuori a fiotti. Quell’immagine era così vivida nella sua mente che in un primo momento scambiò le tracce di rosso sul tappeto per un prodotto della sua immaginazione.
Consuelo strabuzzò gli occhi.
Si voltò lentamente, seguendo con lo sguardo le macchie che attraversavano la stanza una dietro l’altra. Gli venne in mente il suo Pedrito che la faceva imbufalire, perché non si asciugava mai le mani dopo essersele lavate e si lasciava dietro sempre una scia di gocce d’acqua. Ecco, sembrava proprio che qualcuno si fosse spostato dalla camera da letto all’ingresso sgocciolando qualcosa di rosso sul pavimento. Col cuore in gola, Consuelo percorse la scia fino davanti al letto matrimoniale. Quando sollevò lo sguardo, l’aria nei suoi polmoni coagulò in qualcosa di vischioso, rendendole impossibile respirare, figuriamoci urlare.
Il corpo disteso sul letto era quello di un ragazzo dagli occhi rivoltati e con un foro al centro del petto che era grosso come il suo pugno. Solo che non era semplicemente disteso tra le coperte rosse (non bianche come al solito, rosse), era... afflosciato su se stesso. Come un soufflé mal riuscito. O, peggio, come un frutto maturo che è caduto a terra e che è stato spolpato dall’interno dalle formiche.
La sostanza vischiosa che le occludeva i polmoni si spostò nello stomaco. Consuelo ebbe appena il tempo di boccheggiare e piegarsi in avanti.
Poi vomitò proprio davanti al letto.


Al termine di ogni incontro degli alcolisti anonimi lei e suo padre rimanevano a corto di parole. Anche se al momento non poteva più esercitare, Laurel rimaneva comunque un avvocato e in un certo senso le parole erano il suo mestiere. Le aveva sempre immaginate come le tessere di un puzzle e lei era molto brava con i puzzle. Sapeva meglio di chiunque altro come disporre ogni singolo pezzo per assemblare la perfetta arringa conclusiva. Durante gli incontri degli alcolisti anonimi ognuno svuotava la propria scatola al centro del tavolo e si cercava di comporre i vari puzzle insieme. Alla fine, quando le tessere erano esaurite, la scatola era vuota e il quadro completo, non rimaneva nient’altro da dire.
Solo che nel corso dell’incontro di quella sera suo padre aveva tenuto la sua scatola ben sigillata e continuava a farlo tutt’ora, mentre camminavano fianco a fianco lungo il marciapiede umido, diretti verso il Big Belly Burger più vicino. Di tanto in tanto Laurel lo spiava di sottecchi, cercando di decifrare l’espressione cupa con cui fissava la strada. A un certo punto non riuscì più a trattenersi.
«Papà, ti senti bene?».
Lui la guardò con l’aria smarrita di chi si è appena riscosso da un incubo.
«Sì, tesoro», disse, abbozzando un sorriso tirato. «Sono solo un po’ stanco».
Laurel aggrottò la fronte.
«É solo che... non fai che ripetermi quanto sia importante condividere durante gli incontri e invece stasera non hai aperto bocca. Mi chiedevo...».
«Va tutto bene, sul serio. Non sto pensando di attaccarmi alla bottiglia».
«Ma qualcosa è successo, non è così?».
Suo padre sospirò pesantemente e annuì.
«C’è un caso. Un omicidio. Non potevo parlare di un indagine in corso all’incontro, però non riesco a smettere di pensarci. Non essere più un detective, non potermi occupare in prima persona di casi come questo, mi fa sentire...».
«...impotente. Lo so». Laurel lo prese a braccetto. «So cosa si prova a guardare gli altri fare il lavoro che ami. Però forse parlarne ti farà stare meglio».
«Come ho già detto, non posso parlare di un’indagine in corso».
«Papà, non sono una giornalista. Non sono nemmeno più un...», deglutì a fatica, «...un avvocato. Non c’è più conflitto di interessi».
«Lo so».
«E ti prometto che non comincerò ad accusare Blood dell’omicidio, se è questo che ti preoccupa».
Laurel provò a nascondere il disagio dietro a una risata che probabilmente non sortì l’effetto desiderato, perché lui le passò un braccio intorno alle spalle stringendola forte a sé. In un attimo tornò la bambina impaurita che cerca conforto nell’abbraccio del padre. Odiava sentirsi così.
Nessuno dei due aprì più bocca fin quando non si sedettero l’uno di fronte all’altro a un tavolo del Big Belly Burger e una sorridente cameriera di colore non servì loro le loro ordinazioni. Laurel si fece portare un piattino vuoto in più e ci sparò sopra mezzo flacone di ketchup. Un’abitudine, quella, che le era rimasta addosso da un’altra vita.
«Il cadavere è stato trovato stamattina», esordì suo padre.
Laurel si bloccò con gli occhi sgranati e il flacone sospeso a mezz’aria.
«Nella stanza di un motel. Dalla donna delle pulizie», continuò lui. «Quel povero ragazzo... ne ho viste di scene del crimine raccapriccianti ma, credimi, questa le supera tutte. Aveva il petto squarciato».
Laurel sapeva che suo padre non intendeva squarciato letteralmente. Non nel senso di artigli che strappano costole o sradicano cuori dal petto. Però lei era un’esperta di parole e la sua esperienza le diceva che quando un testimone usa involontariamente un determinato vocabolo, in realtà sotto sotto un motivo c’è se il suo inconscio ha scelto proprio quel termine e non un altro.
«Squarciato... come da un colpo da arma da fuoco?».
«No, non c’è traccia di proiettile, o di polvere da sparo, o di foro di uscita. Il medico legale non si spiega cosa possa aver causato quell’enorme... buco. Ma non è la cosa più assurda. Il corpo è stato... eviscerato. Completamente». Suo padre si passò una mano sulla faccia. «Cristo, forse non è stata una buona idea parlarne proprio a cena, vero?».
Laurel abbassò lo sguardo sulla pozzanghera rossa che inondava il suo piattino.
«No, forse no».


Laurel era figlia di suo padre, dopo tutto. Se si fosse trattato di un omicidio normale probabilmente avrebbe lasciato perdere, perché tutta la sua attenzione in quel particolare momento della sua vita doveva essere rivolta esclusivamente a rimanere sobria. Tuttavia l’idea che quello non fosse un omicidio normale si era insinuata nel suo cervello come un tarlo che non riusciva a estirpare. Dopo la cena con suo padre, una volta tornata nel suo appartamento, aveva resistito per la bellezza di cinquantatré minuti prima di accendere il portatile e fare delle ricerche.
Sul web le notizie riguardanti l’omicidio del ragazzo (Mike Johnson, ventitré anni, nubile, neolaureato in economia aziendale, originario del Wisconsin), non erano molto dettagliate. A quanto pareva la polizia aveva mantenuto il massimo riserbo sul caso. Era riuscita a trovare solo una foto molto sfocata della scena del crimine, scattata di straforo da un inserviente del motel in cui Mike Johnson era stato ucciso, ma non era altro che una macchia rossa su un letto altrettanto rosso.
Davanti allo scatto, Laurel fu costretta a stropicciarsi gli occhi e prendere un respiro profondo, cercando di cacciare indietro il rigurgito di ricordi non suoi ma suoi che da sei anni a quella parte aveva cercato di rimuovere. Non poteva avere la certezza che si trattasse di quel tipo di caso (anche se il tarlo nel suo cervello le diceva che sì, lo era, e lo diceva con la sua voce), ma anche se fosse stata una probabilità su un milione, era suo dovere fare qualcosa.
Già, ma cosa?
Chiuse il portatile con stizza e andò in cucina. Prese un bicchiere, lo riempì sotto il getto del rubinetto e mandò giù l’acqua tutta di un fiato, immaginando che fosse vino rosso. Dio solo sapeva se aveva bisogno di qualcosa di forte! Posò il bicchiere vuoto nel lavello e lanciò un’occhiata di sbieco al cellulare.
Avrebbe potuto chiamare Arrow e cercare di spiegargli la verità, sapeva essere comprensivo quando voleva. In realtà, però, Laurel aveva scartato l’idea ancora prima di prenderla in considerazione. Dopo l’abbaglio colossale su Blood, dopo essere stata radiata dall’albo degli avvocati per possesso illegale di farmaci, dopo che aveva ammesso di essere un’alcolizzata, con che coraggio gli avrebbe parlato dell’esistenza dei mostri? E quante possibilità c’erano che l’avrebbe presa sul serio e non fatta rinchiudere in un centro di igiene mentale?
Laurel prese a mangiucchiarsi l’unghia del pollice.
Un’altra opzione c’era, però. Conosceva il suo numero a memoria. O, meglio, lei conosceva il suo numero a memoria, Laurel glielo aveva visto comporre tante di quelle volte attraverso il vetro appannato della sua coscienza, che ormai ce lo aveva tatuato nel cervello. Sempre che lui non fosse morto, naturalmente. Lei aveva dei piani per lui, piani orribili. Mentre afferrava il cellulare e componeva il numero, Laurel si augurò con tutta se stessa che non fossero andati in porto.
Del resto, se il fatto che il mondo e il genere umano esistevano ancora poteva considerarsi un indizio, forse allora c’era una buona possibilità che Sam Winchester fosse ancora vivo.


«Hai degli occhi bellissimi. Verdi, luminosi».
«Grazie...».
«...Jennifer».
«Jennifer, giusto. Scusa, sono una frana con i nomi. Anche tu, comunque». Lui lasciò cadere lo sguardo per poco più di un secondo sulla profonda scollatura di Jennifer. «Occhi stupendi, davvero».
Lei gli rivolse un sorriso ampio, seducente, che lo lasciò abbagliato. Non era mai stato abbordato da una tipa così. Non era una bellezza classica. Aveva il naso un po’ adunco e la pelle talmente lentigginosa da sembrare maculata, eppure c’era qualcosa di ipnotico nel modo in cui si muoveva. Forse era merito di quel vestito rosso, che le fasciava il corpo come un guanto e metteva in bella mostra la mercanzia. Oppure del modo in cui lo guardava, come se volesse papparselo in un sol boccone. Qui, adesso e subito.
Si asciugò il sudore sulla fronte.
«Cavolo, è una mia impressione o fa un caldo infernale qui dentro?».
Le luci stroboscopiche della sala da ballo non aiutavano di certo a farlo sentire a suo agio. Quella sera il Cuori Solitari era pieno come un tacchino ripieno. Un tacchino ripieno che era stato già messo in forno.
«No, fa caldo sul serio». Jennifer si fece aria con un tovagliolino. Il braccialetto che portava al polso, una specie di catenina a cui erano stati fissati una coppia di gemelli da uomo d’argento e un ciondolino a forma di scarpetta, tintinnò allegramente. «Che ne dici se andiamo fuori a prendere una boccata d’aria fresca? Mi manca il fiato».
A chi lo dici, pensò lui, che fissava come se ne andasse della sua stessa vita il tovagliolino con cui lei si stava tamponando la pelle sull’attaccatura del seno.
«Certo, sicuro».
La prese per mano e lei gli sorrise di nuovo. Col cuore colmo di speranze, si aprì un varco nella folla in direzione dell’uscita.


Giovedì

«Salve, questo è il numero di Sam Winchester. Se avete bisogno di aiuto, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, sarete richiamati al più presto».
Biiiip.
«Ehm, ciao, mi chiamo Laurel Lance. Non c’è un modo delicato per dirlo, tanto sono sicura che avrai già riconosciuto la mia voce. Sono il corpo che Ruby aveva posseduto sei anni fa. Ho bisogno del tuo... vostro aiuto. Spero che tuo fratello sia ancora vivo. Dio, spero che tu sia ancora vivo. Il numero è attivo, vorrà pur dire qualcosa, no? Ma sto divagando. Vivo a Starling City, California, e sono quasi certa che qui ci sia un caso di tua... vostra competenza. Ieri notte un ragazzo è stato completamente eviscerato. Per favore, richiamami a questo numero».
Biiiip.

«Ascoltarlo altre cento volte non sbroglierà questa situazione del cazzo».
Dean aveva una mano sul volante e una sul cambio, e fissava serio la strada oltre il parabrezza. Sam ripose il cellulare nella tasca con un sospiro.
«Avremmo dovuto richiamarla».
«No, avremmo dovuto cancellare quel messaggio e fare finta di non averlo mai ascoltato, ma siccome tu mi hai rotto le palle fino allo sfinimento dicendo che volevi andare, allora preferisco sfruttare l’effetto sorpresa. Sei anni, Sam. Sono passati sei anni. Non posso credere che tu ti stia facendo infinocchiare da quella puttanella. Di nuovo. Non posso credere che io ti abbia dato retta. Di nuovo».
Sam alzò gli occhi al cielo.
«Ho ucciso Ruby con le mie mani, Dean. C’eri anche tu, ricordi?».
«Oh, certo, fantastico. Perché nelle nostre vite non è mai successo che qualcuno venisse risputato fuori dall’inferno o dal purgatorio o dal paradiso a calci in culo, dico bene?».
«Abbiamo fatto delle ricerche su Laurel Lance e sul caso di cui parlava e abbiamo appurato che esistono entrambi. Quante altre prove ti servono? Mi sento responsabile per questa ragazza, se non fosse stato per me, Ruby non avrebbe mai preso il suo corpo».
Dean lo fulminò con un’occhiataccia.
«Tu quando vedi la figa diventi tutto scemo».
«Parla quello che ha rotto un voto di castità per fare sesso con una ex-porno star e scatenato l’ira della dea Vesta». Prima che Dean potesse rispondere, Sam lo zittì alzando una mano. «Ascolta, Dean. Al contrario di quello che pensi, non sono uno sprovveduto. Anche se avessi ragione tu e Ruby fosse tornata e si trattasse di una trappola... be’, meglio così! Voglio occuparmi di lei personalmente e assicurarmi che scompaia dalle nostre vite una volta per tutte».
Dean aveva ancora la bocca aperta, pronto a snocciolare una delle sue repliche al vetriolo. Ci pensò su, parve cambiare idea e chiuse la bocca.
«Fantastico», borbottò alla fine.
Sam abbozzò un sorriso e guardò fuori dal finestrino.
L’Impala aveva appena superato il cartello “Welcome to Starling City!”.


Laurel capì che qualcosa non andava mentre si chiudeva la porta del suo appartamento alle spalle, con la busta della spesa tra le braccia. C’era puzza di vernice fresca, e anche se di per sé la puzza di vernice fresca non è sintomo di pericolo, risultava del tutto fuori luogo dato che le sue pareti non venivano ritinteggiate dalla scorsa primavera. Prima ancora che potesse pensare di svignarsela, la luce si accese da sola.
Sam Winchester era seduto sul suo divano. Dean Winchester era appoggiato alla parete vicino all’interruttore. Braccia incrociate al petto e coltello-ammazza-demoni (Il mio coltello, disse l’eco della sua voce) in mano. Laurel sapeva di doversi sentire sollevata. I Winchester erano ancora vivi, avevano ricevuto il suo messaggio ed erano arrivati a Starling City in meno di ventiquattro ore. Però, ecco, c’era il piccolo dettaglio che probabilmente la sua faccia non era associata a bei ricordi e che loro non si fidavano molto facilmente della gente. Perciò no, sollevata non era la parola giusta per descrivere il suo stato d’animo. Ansiosa sì, invece.
«Bentornata a casa, Ruby».
Per l’appunto.
«Non sono Ruby. Posso dimostrarvelo, immagino abbiate dell’acqua santa con voi».
Il volto di Sam era inespressivo, quello di Dean scettico. Entrambi sembravano tesi, la fissavano come in attesa di qualcosa. Che sputasse fumo nero dalla bocca da un momento all’altro, probabilmente. Oppure... Laurel abbassò lo sguardo.
Be’, questo spiega la puzza di vernice fresca, almeno.
Laurel lanciò un’occhiata di sfida a Dean e uscì dalla trappola del diavolo tracciata di fronte alla porta d’ingresso con un semplice passo.
«Mi aspetto che mi rimborsiate i soldi che spenderò per far ripulire il parquet».
«Non così in fretta, tesoro».
Dean estrasse dalla tasca un coltellino, sicuramente d’argento, e le si avvicinò.
«Non sono né un mutaforma né un licantropo».
«Questo lascialo decidere a noi».
Laurel roteò gli occhi e gli porse la mano. Dean la punse sul polpastrello con la punta del coltello e a parte un leggero pizzicore lei non sentì altro. Gli sorrise trionfante.
«Come volevasi dimostrare».
Più diventava evidente che era umana, più Dean si incazzava. Sembrava quasi gli dispiacesse non avere una scusa per farla fuori.
«Apri la bocca».
«Oh, andiamo! Posso almeno posare la busta della spesa, prima?».
«Apri. La. Bocca».
Aprì la bocca.
Dean le tastò le gengive con un cotton fioc.
«Niente zanne retrattili», sentenziò alla fine.
«Bene, i test sono...». Una spruzzata di acqua la colpì in pieno viso. «...finiti finalmente?»
«Adesso sì». Il bastardo sorrideva soddisfatto. Si voltò verso Sam e fece spallucce. «Direi che è a posto». Poi le sottrasse la busta della spesa dalle mani e la poggiò sulla penisola della cucina. Cominciò a frugarci dentro. «Non ti dispiace, vero? È stato un viaggio molto lungo e sto morendo di fame. Ehi, non è che hai anche una birra, per caso?».
Laurel si tolse la giacca e si asciugò il viso con uno strofinaccio.
«L’unica cosa che Ruby ed io avevamo in comune, Dean, era l’antipatia nei tuoi confronti».
Dean si era appena infilato un’intera ciambella in bocca.
«Il senfimenfo è refifrofo, feforo». Mandò giù il boccone. «E comunque ti preferivo bionda».
«É stata Ruby a tingermi i capelli. Odiavo quel colore».
«Come sei sopravvissuta?». Laurel e Dean si voltarono verso Sam, che la stava ancora fissando intensamente. «Quando Ruby e Lilith hanno abbandonato il tuo corpo... pensavo fossi morta».
Laurel gli si sedette accanto, con cautela.
«Non lo so, Sam. So solo che mi sono svegliata in un ospedale qualche settimana più tardi. Non ho fatto domande, volevo lasciarmi quell’incubo alle spalle. Ero solo contenta di essere viva e di poter tornare dalla mia famiglia».
Lui annuì, la faccia contrita.
«Quando ti ha preso?».
Laurel si massaggiò l’attaccatura del naso. Le sarebbe piaciuta una bella birra ghiacciata, adesso.
«Nel duemilasette. Avevo» appena perso il mio ragazzo e mia sorella in un naufragio e scoperto che il suddetto ragazzo mi tradiva con la suddetta sorella «subito un lutto. Mi sono allontanata da casa con la scusa dell’università. I miei... anche loro non se la passavano bene in quel periodo e non era mia abitudine farmi sentire o tornare a casa spesso. Ruby era abbastanza scaltra da far avere loro qualche notizia di tanto in tanto, giusto per non farli preoccupare».
Non avendo trovato alcolici, Dean si era accontentato di un succo di frutta.
«Ricordi ogni cosa di quello che è successo?».
«Su per giù. C’erano giorni in cui ero più cosciente, altri meno. Ma avevo accesso alla sua mente, ai suoi ricordi. Per questo so così tante cose del... vostro mondo».
Dean aggrottò la fronte.
«Aspetta, stai dicendo che sapevi del doppiogioco di Ruby e non hai pensato di avvertire Sam dopo che ti sei svegliata in ospedale?».
Laurel incrociò le braccia sotto al seno.
«Scusa, è biasimo quello che sento nella tua voce? Perché allora anch’io ho un paio di cosette da rinfacciarvi. Non mi pare che abbiate mosso un dito per esorcizzare Ruby dal mio corpo e liberarmi dalla sua possessione. Non vi devo nulla. Al massimo siete voi che dovete qualcosa a me».
Dean fece per replicare, ma Sam lo fermò scuotendo la testa.
«Ha ragione lei, Dean». Si rivolse a Laurel. «Parlaci del caso».


Venerdì

«Ci sono stati altri due omicidi, dico bene? Stesso modus operandi?».
«Proprio così, Agente Page», rispose il Capitano di polizia di Starling City. «I nomi delle vittime sono...», consultò velocemente il fascicolo, «...Jennifer Amell e Paul Wesley. Jennifer è stata uccisa due sere fa. Paul ieri sera. Tre omicidi in tre giorni. Ormai pensiamo a un serial killer. Anche l’FBI deve esserne convinta, se ha mandato voi due».
Dean e Sam si rivolsero un’occhiata, poi annuirono simultaneamente.
«C’era qualche collegamento tra le vittime?», chiese Sam.
Il Capitano si strinse nelle spalle.
«Frequentavano lo stesso locale per single, il Cuori Solitari. Tutte e tre le vittime avevano il bollino del locale impresso sul dorso della mano».
Sam si accomodò meglio sulla poltrona.
«E che mi dice di Mike Johnson? È stato ritrovato in un motel. Il proprietario o chi per lui non ha visto la persona che lo accompagnava?».
Dal suo lato della scrivania, il Capitano prese una sigaretta dal pacchetto che teneva nel taschino interno della giacca e l’accese ignorando con nonchalance il cartello “vietato fumare” alle sue spalle.
«No, la stanza era registrata a nome di Mike Johnson ed era da solo quando ha pagato».
«Anche Jennifer e Paul sono stati trovati in un motel?».
Il Capitano espirò una boccata di fumo.
«No, la ragazza era nel suo appartamento. Paul in un alberghetto da quattro soldi. Anche in questo caso la stanza era registrata a nome della vittima».
«E nessuno ha visto niente?», chiese Dean.
«C’è solo la testimonianza della barista del Cuori Solitari, Agente Plant», rispose il Capitano. «Stando alla sua dichiarazione, Jennifer sarebbe andata via insieme a un uomo dagli occhi verdi e i capelli biondi».
«C’è un identikit?».
«No, la barista non è stata in grado di fornircelo».
Sam aggrottò la fronte.
«Scusi, ma come è possibile? Ha visto il colore degli occhi!».
Il Capitano riaprì il fascicolo e lesse ad alta voce la dichiarazione della barista.
«L’ho visto solo di spalle. Poteva essere sulla trentina. Stavano flirtando. Lei gli ha fatto un complimento. Qualcosa sui suoi occhi. Verdi e luminosi, mi pare abbia detto così».
Dean si accasciò contro lo schienale della sua poltrona e sbuffò.
«Fantastico! Potrebbe essere chiunque».
Qualche minuto più tardi, Sam e Dean stavano uscendo dal distretto di polizia con un pugno di mosche in mano.
«Che si fa adesso? Non abbiamo niente».
Dean aprì la portiera dell’Impala e si sedette dal lato del guidatore.
«Stasera andiamo in quel locale. Tre omicidi in tre giorni. Si presume che anche stasera il mostriciattolo vada a caccia».
Sam aveva preso posto dal lato del passeggero.
«Certo, un gioco da ragazzi. Ci basterà tenere d’occhio tutti gli uomini sulla trentina con capelli biondi e occhi verdi che abbordano ragazze indifese. In un bar per single». Sam gli rivolse un sorriso sornione. «A questo punto comincerei da te».
Dean gli mostrò il dito medio e mise in moto l’auto. Per un po’ rimasero in silenzio, fin quando Sam non cominciò a digitare qualcosa sul suo cellulare.
«A chi scrivi?».
«Ru... Laurel. Mi ha chiesto di tenerla informata. Le sto mandando anche l’indirizzo del motel in cui alloggiamo, in caso avesse bisogno di aiuto».
«Uhm».
Sam sollevò lo sguardo dal display del cellulare.
«Uhm che cosa?».
«Niente».
«Dean».
Lui sbuffò.
«Non apri bocca su Laurel da ieri sera e adesso le mandi un messaggio. Era un uhm pensieroso, tutto qua. Immagino non sia facile per te avere a che fare con una tizia che ha la faccia di Ruby, ma non è Ruby».
«Quella non è mai stata la faccia di Ruby, Ruby non aveva una faccia. E non ho aperto bocca perché non c’è niente da dire».
L’occhiata di Dean era eloquente.
«Tu hai sempre qualcosa da dire, Sammy. Soprattutto quando metti su quel muso da Stitico Tormentato. E ieri sera... oh, avresti dovuto vederti! Sembrava che avessi bisogno di un intero flacone di lassativo».
«Vai a farti fottere, Dean».


«La prossima persona che si ferma a questo tavolo per farci notare che la Serata Gay Pride è sabato e non oggi si becca un cazzotto in faccia, sei avvisato».
Sam trattenne a stento una risata.
«Dovresti avvisare loro, non me».
Dean lo ignorò e continuò a mandare giù la sua birra, guardando in cagnesco la folla di gente che si dimenava sulla pista da ballo e si accalcava a ridosso del bancone. Proprio lì, appollaiata su uno sgabello, una biondina strizzata dentro a un tubino turchese sorseggiava un cocktail rosa, guardandosi intorno di tanto in tanto come se stesse cercando qualcuno. A una decina di metri da lei, un uomo sulla trentina, biondo e occhi verdi, non la perdeva di vista. Era bravo a non farsi notare, ma per due come Dean e Sam che avevano ricevuto un’educazione paramilitare quel tipo di comportamento saltava all’occhio come una spogliarellista in un convento.
«L’ho notato anche io». Sam aveva intercettato la direzione dello sguardo di Dean. «Ormai sono più di quaranta minuti che la fissa. È inquietante».
«Non è ancora un reato sbavare su una ragazza a distanza», disse lui.
«Guardalo, quello non è il tipo d’uomo che sbava. Quello è il classico... te. Solo in abiti più eleganti e firmati. Se è interessato, perché non si fa avanti?».
Dean lo squadrò dall’alto in basso.
«Ehi, Signor Eggelhoffer! Adesso so perché ci prendono sempre per gay».
«Dean... corrisponde all’identikit».
Lui sollevò le mani in segno di resa.
«Va bene, va bene. Facciamo così. Io abbordo lei e tu tieni d’occhio lui».
«Perché a te tocca sempre la ragazza?».
Dean ghignò.
«Perché tu fai colpo solo sulle vecchie signore, i demoni e i mostri».
L’occhiataccia di Sam gli disse che era meglio se si toglieva dai coglioni al più presto, così si tirò in piedi e si avviò verso il bancone. Si sedette con disinvoltura su uno sgabello alla destra della biondina e dato che la barista era impegnata fece un cenno al cameriere.
«Cosa ti porto, amico?».
«Una birra e...», lanciò un’occhiata al bicchiere della ragazza, che ormai conteneva soltanto due dita di quell’assurdo cocktail rosa, «...un altro di qualsiasi-cosa-sia per lei».
Il cameriere annuì.
«Agli ordini!».
La biondina intanto si era voltata nella sua direzione con una faccia da “Ma chi, io?”. Dean le fece l’occhiolino.
«Nessuna ragazza dovrebbe starsene sola al bancone con un bicchiere vuoto».
Lei arrossì lievemente.
«Be’, tecnicamente non sono sola. Voglio dire, questo posto scoppia di gente. E poi credo sia meglio essere sole con un bicchiere vuoto, che brille nel bagagliaio di uno sconosciuto. Con questo non sto dicendo che tu abbia cattive intenzioni, ma...», prese un respiro profondo e scosse la testa come per resettare il cervello, «Quello che cercavo di dire è grazie. Per il drink. Grazie per il drink».
Il cameriere portò la birra e il cocktail rosa proprio in quel momento. Aveva l’aria di aver sentito gran parte dello sproloquio e di ridersela sotto i baffi. Letteralmente, dato che portava un paio di baffi alla Jude Law. Intanto Mr Biondo Occhi Verdi stava fissando ancora la biondina, se possibile più intensamente di prima. Dean si chiese se avesse la vaga idea di quale impiastro su due gambe (due gambe da schianto, però) aveva puntato. Non sapendo se scoppiare a ridere o scappare il più lontano possibile, le porse la mano.
«Dean».
Lei gliela strinse titubante e brevemente, per poi tornare a giocherellare con la cannuccia del suo drink.
«Megan».
«Non sembri molto a tuo agio qui».
Megan succhiò un sorso di rosa dalla cannuccia, che probabilmente le andò di traverso perché tossì un paio di volte. Quando riprese fiato, mise via il bicchiere come se volesse prenderne le distanze.
«I posti come questi mi mettono ansia», disse infine. «Non sono abituata ad avere tutta questa gente intorno».
«Allora come mai sei qui?».
«Immagino che la risposta giusta sia...», cominciò a elencare sulle dita di una mano, «perché vivo da sola, ho un divano comodo, la serie completa di Doctor Who in blue-ray e un grosso grasso gatto nero. Mi manca tanto così e un paio di pantofole per diventare la perfetta zitella pantofolaia e... probabilmente lo diventerò davvero continuando a parlare a vanvera in questo modo».
Quella tizia sembrava sbucata fuori da un anime giapponese. La vide grattarsi l’orecchio e poi sussultare.
«Che c’è?», le chiese.
Megan alzò lo sguardo su Dean, gli occhi tondi e lucidi come biglie. Assomigliava tantissimo al gatto con gli stivali di Shrek.
«Ti andrebbe di fare due passi fuori?».
Questa poi? Prima faceva la timida e ora prendeva l’iniziativa? Dean valutò il da farsi. Mr Biondo Occhi Verdi continuava a non perdersi una loro mossa. Forse poteva sfruttare Megan come esca e attirarlo fuori. Magari poi sarebbe saltato fuori che lui era il pappone e Megan la sua puttana, ma intanto valeva la pena vedere chiaro in fondo alla storia.
«Sì, perché no? Ho proprio voglia di fare due passi».
Mentre si incamminavano verso l’uscita, si mantenne alle spalle di Megan il tempo necessario per mandare un messaggio a Sam.
Esca Viva.


Esca Viva.
Sam non ebbe il tempo di leggere il messaggio in codice, che Dean e la biondina erano già usciti dal locale. Un po’ gli dava fastidio questo suo modo di fare. No, diciamo pure che lo faceva incazzare. Era il modo di fare di loro padre. Decido tutto io, capisco meglio tutto io, me ne occupo io, improvviso io, lo so io cosa è meglio per te. Se doveva essere onesto, non era tanto il comportamento in sé a farlo incazzare, ma il fatto che, nonostante tutte le discussioni che avevano avuto sull’argomento, Dean continuava imperterrito a fare il cazzo che voleva. Proprio come loro padre.
Esca Viva era un buon piano, se conoscevi la creatura da cacciare e sapevi come ucciderla. In quella situazione, però, il piano di Dean era più simile a Mosca Cieca.
Sam si sfregò la faccia con entrambe le mani, più per frustrazione che per stanchezza. Giusto un attimo. Ma per il tizio biondo con gli occhi verdi fu più che sufficiente per dileguarsi.
Cosa? Dove cazzo è finito?
Si alzò in piedi e si guardò freneticamente intorno, fin quando per fortuna non lo individuò mentre scompariva nel bagno degli uomini. Sam non voleva rischiare di quasi-perderlo di nuovo, ma non voleva nemmeno seguirlo in bagno, il tizio avrebbe potuto insospettirsi. Perciò si piazzò vicino alla porta della toilette, facendo finta di bighellonare qua e là.
Trascorsi dieci minuti, passati per lo più a scrollarsi di dosso due cougar dalle minigonne succinte e leopardate (meno male che Dean non c’era, altrimenti le prese per il culo non sarebbe finite più), Sam cominciava a temere di aver commesso un errore madornale. Dopo alcuni interminabili secondi di tentennamento, decise di entrare.
Trovò solo dei vestiti eleganti e firmati ammucchiati sul pavimento e la finestra che dava sulla strada spalancata.
Merda.


«...ogni volta che cercavo di baciarlo, gli veniva un attacco di allergia, starnutiva fino a star male. All’inizio pensavo che fosse allergico al mio rossetto o al mio fondo tinta. Ho speso un capitale in prodotti anallergici, ma niente. A un certo punto sono addirittura arrivata a ipotizzare che fosse allergico a me. Poi un pomeriggio, stavo facendo shopping con mia madre, l’ho visto al centro commerciale e ho capito».
«Aveva un’altra?».
«No, un altro. Era allergico alle donne».
Dean scoppiò a ridere e lei gli diede un pizzicotto sul braccio.
«Ehi, non è per niente carino ridere delle disgrazie altrui! Sai per quanto tempo ho dovuto sopportare le prediche di mia madre? “Per una volta che esci con un ragazzo carino, è proprio da te!”».
Megan stava per attraversare la strada e proseguire dritto, ma Dean la trattenne per un braccio.
«No, aspetta, andiamo di qua».
Megan guardò il vicoletto buio che lui le stava indicando e si strinse nelle braccia come se sentisse freddo.
«Ma è un vicolo cieco, non credo che ci sia molto a parte cassonetti dell’immondizia e ratti».
Dean le si fece vicino e le sistemò una ciocca dietro l’orecchio. La vide deglutire a vuoto come una bambina e sorrise.
«Pensavo che poteva essere un buon posto per... appartarci».
«In un vicolo buio, con i ratti e tutto il resto?».
Dannazione, aveva bisogno di un vicolo cieco per Esca Viva! Per fortuna aveva il suo asso nella manica...
Le mise due dita sotto il mento invitandola a sollevare il viso e fissandola dritto negli occhi le rivolse il migliore Sguardo Che Conquista del suo repertorio. A quel punto era fatta, il serpente aveva incantato la preda. Gli occhi di Megan erano tornati a essere due biglie grandi e lucide. Dean si era già chinato su di lei per baciarla, quando...
«Etciù!».
Meno male che si era scostato prima di starnutirle in faccia.
Megan sbatté le palpebre un paio di volte, ancora un po’ stordita.
«Non sarai allergico alle donne anche tu, vero?».
Dean tirò su col naso.
«No, solo al pelo di gatto. Hai detto di averne uno, no?».
Questa volta fu lei a scoppiare a ridere.
Dean colse l’occasione al volo per afferrarla per il braccio e strattonarla dentro il vicolo buio. Megan smise di ridere immediatamente e tentò di opporre resistenza.
«Ehi, ma che fai? Non voglio andarci, lì!».
«Non c’è tempo per spiegare, ti basti sapere che sei in pericolo!».
«Certo che lo sono! Sei un pazzo maniaco!».
«Non sei la prima che me lo dice, ma non è di me che...».
«Lasciala andare. Subito».
Dean si freddò sul posto e allentò la presa sul braccio di Megan, che aveva smesso di dimenarsi. Con la coda dell’occhio si accorse che aveva ancora il fiatone e gli occhi sgranati, però stava sorridendo. Si tolse qualcosa dall’orecchio, una specie di... auricolare? Dean serrò la mascella, imprecando tra i denti. Alla fine Megan aveva fatto da esca viva, eccome. Solo che il pesce preso all’amo era lui.
«Voltati. Lentamente», disse la voce alle sue spalle. Era profonda, artificiale.
Quando si girò, si ritrovò davanti la sagoma incappucciata di un uomo e la punta di una freccia puntata in mezzo agli occhi. Una cazzo di freccia. E un cazzo di arco. Come i cazzo di indiani. Megan non era in combutta con un mostro, questo era poco ma sicuro.
«Te lo sei cucito da solo quel costumino o l’hai comprato in un negozio di cosplay?».
La punta della freccia gli pizzicò la pelle sudata tra le sopracciglia.
«Mike Johnson. Jennifer Amell e Paul Wesley. Risponderai dei loro omicidi».
«Che? No, no, no. Hai preso una cantonata, amico, non sono stato io».
Megan puntellò i pugni sui fianchi.
«Già, come non volevi trascinarmi in quel vicolo?».
Dean alzò gli occhi al cielo.
«Sì, perché mi servivi come esca!».
Lei spalancò la bocca, oltraggiata.
«COSA?».
«Perché, Riccioli D’oro, cosa pensi di aver fatto per lui fino ad ora?».
«Con lui c’è un rapporto consensuale». Non appena si rese conto di quello che aveva detto, Megan arrossì. «Ne-nel senso di partnership alla pari, non di...».
«Esca per cosa?», chiese l’incappucciato ponendo fine al battibecco.
Aveva serrato le labbra in due linee sottilissime. Chissà se per stizza o se per trattenere le risate.
«Non mi crederesti», disse Dean.
L’arco si tese di più.
«Mettimi alla prova».
Il click di un colpo che andava in canna gli tolse le parole di bocca.
«Oh, mio dio!».
Megan aveva una pistola puntata alla tempia adesso e il suo volto era diventato livido come un cencio.
Dean trasse un respiro di sollievo.
«Cazzo, Sam! Era ora! Si può sapere perché ci hai messo tanto?».







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Note autore:
*si schiarisce la voce*
Tanto per cominciare, precisiamo che questa storia ha partecipato al contest Lunghe, anzi... lunghissime!, indetto da Ili91 sul forum di EFP, classificandosi al secondo posto. Le regole del contest erano molto semplici: scrivere una long-fiction di almeno 10000 parole che prendesse ispirazione da un prompt scelto tra quelli presenti nella lista.
Il prompt che ho scelto è “collaborazione”, che mi ha fatto pensare all’espressione “team-up” (letteralmente “far squadra”): viene utilizzata in ambito fumettistico, in particolare della tradizione dei supereroi di editori statunitensi, per riferirsi a quelle storie in cui vengono fatti incontrare personaggi di serie diverse. Da qui, il titolo della storia.
L’idea per il crossover è arrivata però prima, intorno al primo di aprile, dopo aver letto di un riuscito Pesce D’Aprile ideato dal sito TVserial.
In realtà questa storia implica un mini-crossover con un’altra serie tv, ma non posso segnalarlo, perché altrimenti farei spoiler sulla risoluzione del caso. Vediamo più in là se qualcuno ci arriva da solo!
Alcune piccole precisazioni:
- su Wikipedia ho letto che Starling City (nel fumetto Star City) è sì una città immaginaria, ma riprende alcuni aspetti della realtà dell’area di San Francisco e Oakland, perciò do per scontato che la città si trovi in California. Non mi pare che nel corso della serie Arrow venga detto di quale stato degli USA faccia parte. Se sì, deve essermi sfuggito e allora chiedo venia;
- il dettaglio del cocktail rosa che Megan sta bevendo al bancone è una citazione a questa bellissima fanfiction AU;
- nel mio head-canon e in quello di nes_sie Felicity ha un gatto nero; che Dean sia allergico al pelo dei gatti è canon, viene detto nell’episodio 8x15 “Man's Best Friend with Benefits”.
Credo sia tutto. La long conta quattro capitoli, che sono già tutti scritti, pronti per essere pubblicati. Gli aggiornamenti avranno cadenza settimanale, quindi ci rivedremo (?) sabato prossimo col secondo capitolo.
Spero che la storia possa piacere a qualcuno, è il mio primo vero crossover!
A presto, vannagio
   
 
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