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Autore: darkrin    25/07/2015    4 recensioni
Li aveva visti davanti al Pantheon. Era stata la voce dell’uomo a tradirli e a farle voltare di scatto la testa, prima di potersi trattenere, di potersi fermare perché non aveva alcuna intenzione di farsi riconoscere e di essere costretta a parlarci. Era stata la sua voce, che un tempo le aveva fatto scorrere brividi lungo la schiena, solo accarezzando le sillabe del suo nome – Ca ro li ne –, e che in quel momento era intenta a raccontare a una ragazza dai capelli scuri e la pelle nivea di come Michelangelo considerasse quell’opera una creazione degli Angeli. / o di quella volta in cui Caroline andò in vacanza a Roma e incontrò Klaus in dolce compagnia di una ragazza dagli occhi azzurri e i capelli scuri.
(Klaroline | future!fic | tiene conto solo parzialmente degli avvenimenti della s6 di TVD e di TO | ORA UNA RACCOLTA IN TRE PARTI)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Klaus, Mikael
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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So many Note, so little time:
- Ho iniziato questa storia a febbraio e l'ho ripresa e abbandonata innumerevoli volte. Tiene conto (ma solo parzialmente) degli eventi della s1 di TO e non tiene affatto conto della s2, soprattutto per quanto riguarda la storia di Hailey e solo parzialmente di quello che accade nella s6 di TVD perché non l'ho vista  la metà delle cose che ho letto a riguardo per me non hanno alcun senso e quindi non le considero.
- Nella storia cito un paio di opere d'arte: a)  Passi di Alfredo Pirri; è l'opera all'ingresso della Galleria Nazionale d'Arte Moderna e a cui Caroline fa riferimento in varie fasi della storia; b) La Gorgone e gli eroi è quella davanti alla quale Caroline si ferma e fa un incontro del terzo tipo; c) la leggenda sul Colosseo l'ho trovata qui; d) quelle sul Pantheon e su quello che ne diceva Michelangelo invece qui; e) i riferimenti alle commedie di Plauto invece sono frutto di un vago ricordo del liceo. 
- Questa storia è stata un parto ed è, per me,  la nemesi e l'immagine speculare di Là dove muoiono le speranze (andiamo). Le due, pur essendo assolutamente scollegate, rappresentano le due faccia di una stessa medaglia.
- Ringrazio Niglia per essersi letta gran parte (salvo qualche aggiunta dell'ultimo minuto) in anteprima e di essersi sorbita il mio livestream mentre scrivevo e tutti i miei: "Ma non sono sicura! Mi sembrano manchino dei passaggi logici tra quello che si dicono e quello che fanno e Klaustidoiosonoarrugginitaenonsopiùscrivereèunpolpettonenoiosoliodiooradefenestrotutto."
- Era tantissimo che non scrivevo una cosa così lunga su Klaus e Caroline e ho un'ansia da prestazione spaventosa.
- Segnalatemi sempre qualsiasi svista, errore, strafalcione.

Passi
(incontri del terzo tipo)
 
 
 
«But did you see the flares in the sky?
Were you blinded by the light?
Did you feel the smoke in your eyes, did you, did you?
Did you see the sparks, feel the hope?
You are not alone, cause someone's out there
Sending out flares»
(Flares, THE SCRIPT)
 
 
 
Li aveva visti davanti al Pantheon. Era stata la voce dell’uomo a tradirli e a farle voltare di scatto la testa, prima di potersi trattenere, di potersi fermare perché non aveva alcuna intenzione di farsi riconoscere e di essere costretta a parlarci. Era stata la sua voce, che un tempo le aveva fatto scorrere brividi lungo la schiena, solo accarezzando le sillabe del suo nome – Ca ro li ne –, e che in quel momento era intenta a raccontare a una ragazza dai capelli scuri e la pelle nivea di come Michelangelo considerasse quell’opera una creazione degli Angeli.
A farle distogliere lo sguardo più ancora della morbidezza con cui le parlava, erano stati il sorriso che gli piegava le labbra rosse e la luce con cui la guardava e tutto quell’amore che Caroline non aveva mai visto.
 
 
 
(Anni prima, Niklaus Mikaelson, ibrido originale e terrore di tutto il mondo soprannaturale, le aveva offerto il mondo intero, ma Caroline aveva ben presto scoperto che, a differenza di quanto tutti gli abitanti di Mystic Falls avevano creduto, non era stata un’offerta così unica, la sua. Era venuto fuori che, come sempre, Caroline Forbes non era poi così speciale.)
 
 
 
Li aveva incontrati di nuovo – perché Caroline Forbes oltre a non essere speciale non era neanche fortunata – alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Era la prima domenica del mese e il museo era gremito di romani, attirati dalla possibilità di visitare le ampie sale della galleria senza dover spendere una lira. In mezzo alla folla, Caroline aveva intravisto la chioma castana della ragazza –avrebbe riconosciuto ovunque dei capelli così perfetti, indipendentemente dalla presenza di Klaus, davvero! – e si era lasciata trascinare dalla folla nella speranza di venir ingoiata da quella fiumana di persone, di sparire in mezzo a tutti quei volti e che per favore, per favore, Klaus non la vedesse, non la sentisse. E che, per favore, quel qualcosa, a cui Caroline si rifiutava di dare un nome, dentro di lei smettesse di sentirsi frantumato come il pavimento di vetro su cui aveva camminato entrando nel museo.
Una parte di lei le aveva sussurrato all’orecchio che come avrebbe fatto Klaus ad accorgersi di lei? Per farlo avrebbe dovuto distogliere lo sguardo dalla ragazza che lo accompagnava, cosa che non sembrava in grado di fare. Caroline non aveva sentito quel qualcosa spezzarsi a quella consapevolezza.
Si era morsa a sangue il labbro inferiore per distogliere la mente da quei pensieri e concentrarsi sul dipinto davanti a cui si trovava. Era una bell’opera, nel suo essere terribile, e Caroline aveva rimpianto le misere lezioni di Storia dell’Arte che aveva seguito al liceo d Mystic Falls, tra un dramma soprannaturale e l’altro.
Scrutando, la Gorgone che si stagliava in tutto il suo spaventoso splendore sui corpi degli eroi riversi ai suoi piedi, Caroline Forbes aveva sentito il desiderio di avere accanto qualcuno che le spiegasse, che le raccontasse l’arte dietro ogni pennellata e la storia dietro quei colori, dietro quella posa maestosa – e quel qualcuno non aveva il volto di Klaus né il suo accento.
Era ancora intenta a pensare che non avrebbe mai dovuto ricordare certe persone – certi visi, certe voci - , quando sentì qualcosa premerle contro la schiena all’altezza del cuore e una voce gelida sibilarle all’orecchio:
- Cosa vuoi? –
Caroline lanciò un’occhiata in tralice alla ragazza che le era comparsa accanto e che oltre ad i capelli aveva anche un volto perfetto, tutto occhi azzurri e labbra da baciare – che forse erano state appena baciate e no, Caroline, smettila.
- Ti ho fatto una domanda – la incalzò la ragazza, spingendo con maggior forza le dita – perché erano solo dita quelle che le premevano sul costato come a volerlo lacerare - contro la schiena di Caroline, tanto da costringerla a stringere le labbra per non esalare un gemito di dolore che sarebbe solo servito ad attirare su di loro l’attenzione degli altri visitatori e a metterli in pericolo.
Così, anche quella ragazza era un vampiro. Dalla forza che possedeva, Caroline dedusse che doveva essere anche più vecchia di lei. La ragazza si chiese, distrattamente e senza alcuna amarezza, se Klaus la conoscesse già quando era arrivato a Mystic Falls con le sue promesse e le sue moine a cui non stava pensando.
- Nell’immediato, ammirare questo quadro. Nel futuro, pensavo di spostarmi nella stanza successiva – ribatté la bionda, con una punta di acredine che non aveva nulla a che fare con il rapporto di quella ragazza con Klaus.
- Non cercare di prendermi in giro – sibilò l’altra donna, riducendo gli occhi a due fessure e tenendoli ostinatamente fissi sul corpo della fanciulla dipinta.
Caroline scosse le spalle.
- Non lo sto facendo. –
- È la seconda volta che ci incontriamo. –
- E immagino che tu sia solita aggredire tutti quelli che incontri due volte – la rimbrottò Caroline, piccata. – I tuoi vicini di casa devono essere decisamente sfortunati. -
La ragazza finalmente si degnò di voltarsi verso di lei.
- Non tutti quelli che incontro sono vampiri e non tutti riconoscono Niklaus – sputò.
Oh. E così per lei era Niklaus, non Klaus come per i suoi nemici o sottoposti, non Nik come per la sua famiglia; semplicemente Niklaus. Era stranamente intimo il modo in cui quella ragazza pronunciava il nome di una delle creature più antiche sulla faccia della terra. Come se lasciandolo scivolare tra le labbra e i denti sancisse anche il suo diritto su ogni frammento di quell’uomo, su tutto il male e tutto il bene che, anni prima, Caroline aveva intravisto oltre il sangue e la violenza; oltre tutte le morti.
Anni prima Caroline aveva pensato che un giorno sarebbe riuscita anche a toccarlo. Una Caroline diciottenne si era crogiolata nella certezza di avere una porta che sarebbe rimasta sempre aperta, di aver un luogo in cui recarsi, una volta pronta. Anni prima. Ora quel posto era stato occupato da una ragazza con i capelli scuri e il volto perfetto, intenta a minacciarla pur di proteggere un uomo che non poteva essere ucciso – che Caroline non era stata in grado di voler uccidere neanche quando aveva posseduto un’arma per farlo – e Caroline si sentiva come se le avessero strappato un pezzo dal petto, come se stesse per essere ingoiata dall’immenso vuoto di quella possibilità che le era stata promessa e strappata con la stessa violenza.
Caroline pensò distrattamente che quella ragazza doveva essere riuscita a toccarlo quel bene, che lei aveva solo visto, o non sarebbe stata così pronta ad intervenire pur di proteggere Klaus, e che Klaus doveva essere proprio accecato dall’amore che provava per quella donna per non essersi reso conto della sua presenza – ma forse non l’aveva fatto solo perché non gli importava più nulla di lei - ; né di essere stato lasciato solo.
- Tesor… -
Caroline chiuse gli occhi e serrò la mascella perché, ovviamente, quel maledetto ibrido doveva giungere subito a contraddire i suoi pensieri.
La voce dell’uomo si spense prima che potesse terminare la parola, quando Tesoro, si voltò a guardarlo insieme alla ragazza che le stava accanto e Klaus avrebbe riconosciuto ovunque quegli occhi azzurri e quei capelli biondi; per anni aveva sognato di vederla presentarsi alla sua porta e ora…
- Caroline – mormorò, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal visto della vampira bionda.
- Klaus – lo salutò lei, con un leggero cenno del capo e un sorriso timido a piegarle le labbra.
 
L’anno prima, Caroline era stata in Grecia con Enzo e l’uomo, una sera, l’aveva trascinata a teatro a vedere un’opera di Plauto di cui la ragazza non aveva capito assolutamente nulla (perché era in greco, grazie tante!) salvo il fatto che le vicende di tutti i personaggi si intrecciassero fino a formare un groviglio di incomprensioni e fraintendimenti da cui non sembrava che il protagonista potesse salvarsi, almeno fino a quando non interveniva uno degli schiavi a sciogliere, progressivamente, tutti i nodi, fino al lieto fine.
Quando Tesoro si voltò di scatto a guardarla ed esalò, facendo un passo indietro: - Tu sei Caroline? -, la ragazza non poté fare a meno di sentirsi precipitata, a sua insaputa, dentro alla rappresentazione di una di quelle incomprensibili commedie.
Caroline inarcò un sopracciglio, lanciando un’occhiata interdetta a Klaus, che si portò una mano alla nuca e chiuse gli occhi per un attimo, prima di riposarli sulla sua compagna di viaggio – ed eccolo di nuovo lì, tutto quell’amore, che faceva stringere lo stomaco di Caroline in una morsa.
- Hope, ti presento Caroline Forbes e Caroline –
Caroline, ti presento la mia ragazza. O forse era moglie? Chissà se Klaus credeva nel matrimonio. No, forse, no, forse era solo…
- ti presento Hope. –
Forse era solo Hope, come lui era solo Niklaus per lei. Forse non c’era bisogno di aggiungere alcun titolo al suo nome perché la sua importanza era evidente agli occhi di tutti.
- Mia figlia. –
Sì, probabilmente era solo Ho…
Aspetta.
Cosa?
Caroline fu risvegliata dal suo stupore, dalla risata trillante di Tesor- Hope – si chiamava Hope -, che la osservava divertita, ogni ombra di minaccia scomparsa dagli occhi chiari e dalla posa rilassata del corpo.
- Papà, penso che dovrai darle qualche spiegazione più dettagliata. –
Papà?
Okay. Bene. Aveva davvero bisogno di una spiegazione. E di sedersi. Aveva davvero bisogno di sedersi per affrontare la sua stupidità e come aveva fatto a fraintendere in quel modo –
Lo sapeva, aveva sentito le voci sulla figlia di Klaus, eppure aveva pensato e si era comportata come una pazza e –
- Caroline. –
La voce di Klaus era spaventosamente vicina al suo orecchio e quando le si era accostato tanto? E quando una delle mani dell’uomo era scivolata a posarsi alla base della sua schiena?
Caroline inarcò un sopracciglio con fare inquisitorio e Klaus sollevò entrambe le mani in segno di resa, allontanandosi di qualche passo.
- Sembravi aver bisogno di sostegno – le offrì come unica giustificazione.
- Dubito di aver mai mostrato di aver bisogno del tuo sostegno – lo rimbrottò lei.
Klasu schioccò la lingua.
- Se non ricordo male, c’è stato un ballo in cui hai decisamente avuto bisogno del mio sostegno – ribatté lui, con un ghigno a piegargli le labbra.
Caroline non poté fare a meno di arrossire al ricordo di quella serata, di come fosse piombata a casa sua perché era stato la prima persona a cui avesse pensato quando la commessa del negozio l’aveva informata che non esisteva più alcun vestito a nome Caroline Forbes. Una Caroline diciassettenne aveva pensato che solo lui poteva salvarla da quella crisi e che, nonostante i suoi mille anni, Klaus non avrebbe riso dei suoi desideri; aveva pensato che lui, forse, li avrebbe compresi.
La ragazza incrociò le braccia davanti al petto e gli lanciò uno sguardo di sufficienza.
- Ho avuto bisogno dei cimeli di Rebekah – lo informò. – Mi serviva soltanto qualcuno che mi aprisse la porta. –
- Qualcuno che ti aprisse la porta? – inquisì lui.
- Esattamente. E devo dire che sei stato un usciere appena passabile – concluse lei, dandogli una leggera pacca sul petto e facendo esalare un verso di sdegnato divertimento all’uomo.
La replica dell’ibrido venne interrotta dalla risata squillante di Hope, che era rimasta ad osservarli in silenzio fino a quel momento. Caroline si ritrovò ad arrossire furiosamente, improvvisamente consapevole di essersi dimenticata della presenza dell’altra ragazza e di aver, fino a quel momento, flirtato con Klaus come se non fosse passato neanche un istante dall’ultima volta che si erano visti, come se Klaus non fosse mai stato suo nemico e non si ritrovassero davanti a sua figlia. Sua figlia. Cosa c’era di sbagliato in lei?
- Caroline, tesoro – Klaus richiamò la sua attenzione. – Perché non permetti a me ed Hope di offrirti un caffè? In onore dei vecchi tempi – aggiunse alla vista dell’espressione che si era dipinta sul volto della ragazza.
La ragazza inarcò un sopracciglio perché di quali vecchi tempi? Nei vecchi tempi avevano condiviso un bicchiere di champagne ed un ballo ed era sempre stato solo un inganno, salvo quando, improvvisamente, non lo era stato più.
Caroline sapeva che c’erano migliaia di motivi per cui avrebbe dovuto rifiutare quell’offerta: Klaus era pur sempre l’ibrido originale e lei doveva ancora capire e catalogare quella nuova realtà in cui le voci sulla figlia di Klaus non erano più solo voci e Hope sembrava sua coetanea e...
 
 
 
Caroline chiuse gli occhi, per un istante, accecata dalla luce che rifletteva sulla tovaglia bianca che ricopriva l’elegante tavolino del Caffè delle Arti. Hope non riuscì a trattenere un risolino a quella vista e Caroline pensò che, per essere la figlia di un uomo che aveva attraversato secoli e continenti massacrando villaggi e città per aprirsi la strada, sorrideva davvero un sacco. Molto più di quanto non avesse fatto la Caroline Forbes che era cresciuta a Mystic Falls sotto le cure di una madre lavoratrice e di un padre che aveva preferito un’altra famiglia alla sua.
I tavolini erano stipati su una terrazza circondata da vasi di piante e riparata dalla leggera brezza che frusciava tra le foglie degli alberi e dal sole da una tenda bianca, che sventolava debolmente nell’aria profumata di quel primo pomeriggio di primavera.
- Dunque – iniziò Hope, prima di mordersi le labbra piegate in un sorriso e lanciare un’occhiata a suo padre, che si stava accomodando accanto a lei e, di conseguenza, accanto a Caroline. Maledizione a chi aveva inventato i tavolini rotondi e aveva ritenuto appropriato metterli in un locale di tutto rispetto.
- Dunque – ripeté Caroline.
C’era qualcosa nella consapevolezza che Hope sapeva di lei che la metteva in soggezione. Quali storie poteva averle raccontato Klaus? Le aveva raccontato di come avevano tentato di ucciderlo? Di come l’aveva tradito? Caroline non si era mai sentita in colpa per averlo fatto fino ad ora, davanti allo sguardo azzurro di quella ragazza che aveva l’aspetto di una sua coetanea e sembrava immensamente più giovane e che non sarebbe mai nata se i loro piani fossero andati a buon fine.
C’era qualcosa nell’essere a Roma con Klaus senza esserci venuta con lui che la agitava, come se fosse stata scoperta nell’infrangere delle regole tacite, ma condivise. C’era qualcosa, nel rivedere Klaus, che risvegliava cose che una Caroline diciottenne era convinta di aver sepolto insieme ai frammenti di un vecchio disegno e che, invece, sembravano essersi solo assopite per il tempo necessario a ritrovarlo.
- Cosa prendete? – chiese Klaus con un sorriso da gentiluomo d’altri tempi.
- Un cornetto – cinguettò Hope.
- È l’una – le fece notare l’uomo, con un sopracciglio inarcato.
La ragazza si limitò a scuotere le spalle con totale noncuranza.
Caroline non poté fare a meno di rabbrividire all’assurda normalità di quella scena, in cui un padre immortale si preoccupava delle abitudini alimentari della figlia, incurante del fatto che non sarebbe stata certo la sua alimentazione sregolata a poterla uccidere. C’era stato un tempo in cui anche suo padre aveva fatto la stesso (- Carebear, non mangiare quei biscotti o ti rovinerai l’appetito per la cena - ), ma aveva smesso ben prima che lei diventasse immortale, ben prima che lei fosse in grado di decidere da sola se poteva o meno mangiare delle patatine alle undici di sera. C’era qualcosa che la faceva sentire come un’intrusa, come se non avesse nessun diritto di essere lì, con loro, a spiare nella loro intimità.
- Siamo in Italia – ribatté la ragazza scuotendo le spalle, come se potesse essere una giustificazione.
- Caroline? – la richiamò lui, con una gentilezza, che chiunque altro si sarebbe sorpreso di trovare nella voce dell’ibrido originale, e negli occhi quella stessa luce con cui l’aveva guardata anni prima e di cui Caroline non voleva parlare.
- Un caffè andrà bene – borbottò.
Klaus inarcò un sopracciglio per la richiesta o per il tono con cui l’aveva pronunciata, ma si limitò ad annuire e richiamare il cameriere con un gesto elegante della mano.
 
 
 
Hope aveva sentito parlare di Caroline Forbes - ovviamente l’aveva fatto -, ma non era mai stato suo padre a nominarla, non all’inizio almeno. All’inizio erano state battute taglienti sibilate da sua zia nel cuore della notte e della villa che avevano conquistato insieme a New Orleans; erano stati ritratti, ritrovati tra i cassetti e la polvere in vecchi studi abbandonati, di cui solo ora Hope poteva riconoscere la spaventosa somiglianza degli occhi e della piega delle labbra, dei capelli e dell’ovale del volto con quelli dell’originale.
All’inizio Hope non aveva capito che Caroline Forbes fosse il nome di qualcuno d’importante, qualcuno di reale e non un personaggio con cui zia Bekah si divertiva ad irritare suo padre. Quando aveva chiesto per la prima volta chi fosse la bionda cheerleader di cui Rebekah parlava sempre, suo padre aveva digrignato i denti così forte, che una Hope tredicenne si era chiesta, con preoccupazione, se gli ibridi potessero scheggiarsi le zanne, e sua zia era scoppiata a ridere tanto da piangere.
- Guarda cosa hai fatto – aveva sibilato Klaus.
Rebekah non l’aveva degnato di uno sguardo e si era chinata per guardare la nipote negli occhi.
- Solo una sciocca ragazzina che hai rischiato di avere come matrigna. Come se questa famiglia non fosse già abbastanza complicata e non avesse già abbastanza legami con la feccia – aveva aggiunto, storcendo il naso in un’espressione che Hope associava immancabilmente a sua zia.
Quando aveva chiesto delucidazioni ad Elijah, suo zio aveva inarcato un sopracciglio e aveva affermato:
- Era un’amica della doppelganger che tuo padre ha usato per spezzare la sua maledizione, ma perché Rebekah si ostini a darle tanta importanza è anche per me fonte di grande mistero. -
Hope aveva corrugato la fronte ed era rimasta con la stessa espressione, fino a quando sua madre non l’aveva presa da parte con un sospiro e aveva affermato.
- Era una ragazza che non sopportavo – le aveva spiegato e Hope aveva pensato di interromperla e chiederle quale fosse la parte importante di tutto ciò. – Ma tuo padre… -- Hailey si era interrotta per umettarsi le labbra, come se fosse incerta se avesse il diritto di andare avanti, poi aveva scosso il capo come a scacciare tutte quelle incertezze e aveva ripreso a parlare. –Tuo padre ha sempre avuto un debole per lei. Tua zia Rebekah è convinta che ne fosse innamorato. –
- Ed è morta? – aveva inquisito Hope, con un pigolio, perché se suo padre ne era innamorato, lei sarebbe dovuta essere lì con loro, no? A meno che non fosse morta.
- Quando tuo padre è venuto a New Orleans, Caroline non ha voluto seguirlo – aveva risposto la donna. Anni prima avrebbe aggiunto una qualche battuta amara su come avesse fatto bene a tenersi lontana da Klaus o su come fosse stata un’idiota per aver tenuto a lui, abbastanza da avere il dubbio di seguirlo, ma gli anni passati in compagnia dei Mikaelson e di Hope l’avevano ammorbidita. O forse si era solo rassegnata ad accettare i commilitoni che le aveva assegnato la sorte bastarda che le era toccata alla nascita.
– A volte penso che la sua amicizia con Camille sia dovuta solo al fatto che lei gli ricordi Caroline – si limitò ad aggiungere, come sovrappensiero.
Negli anni successivi, Hope aveva raccolto altre notizie, altri stralci di discorsi e d’informazioni su quella donna che, sua zia Rebekah, era convinta suo padre avesse amato al punto da essere disposto ad aspettarla per sempre - suo padre che non era in grado neanche di aspettare che il bollitore del tè suonasse senza iniziare corrugare la fronte in quel modo che, fosse stato umano, gli avrebbe fatto venire rughe d’espressione -, e aveva ricostruito un collage di quella che, ben presto, aveva perso i confini di carne di una vampira ed era diventata una creatura mitologica come l’Idra di Lerna con tre teste e sei paia d’occhi per incantare gli uomini.
Era stato suo zio Kol a mostrarle i ritratti di Caroline, ma era ormai troppo tardi: Hope l’aveva immaginata con tutte le caratteristiche della sua donna ideale e quel volto da ragazzina, disegnato su innumerevoli fogli bianchi, era ben presto finito nel dimenticatoio.
 
 
 
Hope inclinò leggermente il capo, osservando Caroline Forbes – la vera, unica, Caroline Forbes, che aveva rubato il cuore a suo padre e che per anni lei aveva immaginato – e suo padre, il suo sorriso e il modo in cui la ragazza lo guardava, inclinava leggermente il capo e cercava di trattenere i sorrisi che sembravano fiorirle spontaneamente sulle labbra. Quello non era il volto di chi non aveva voluto seguirlo.
- Posso fare una domanda – chiese, con un boccone di cornetto a riempirle le guance e a farla somigliare a un criceto castano.
- Hope – la redarguì suo padre e la ragazza si limitò a fare spallucce, senza distogliere gli occhi azzurri da Caroline, che arrossì e balbettò un assenso.
Hope ingoiò il cornetto e corrugò la fronte in un’espressione di pura concentrazione, prima di decidere che forse non sarebbe stato saggio chiedere a Caroline: perché non sei mai venuta a New Orleans? e che avrebbe solo finito con il farla scappare a gambe levate fino all’aeroporto più vicino.
- No, ci ho ripensato – affermò, quindi, scuotendo leggermente le spalle.
- Hope –la richiamò, nuovamente, suo padre, passandosi una mano sugli occhi, come se fosse già stanco e…
- È imbarazzante? – gli chiese subito. – Averci qui tutte e due, dico. Se volete posso andare a fare un giro. –
A quelle parole, suo padre abbassò subito la mano e le lanciò un’occhiata tagliente.
- Così potrai andare a cercare il ragazzo che ci ha seguito per tre sale, prima che io riuscissi a seminarlo? Non credo proprio, Hope – sibilò l’uomo.
La ragazza fece spallucce.
- Valeva la pena di tentare – rispose con un sorriso smagliante. - È sempre così – aggiunse di fronte allo sguardo interdetto di Caroline.
- Oh, no, io… posso immaginare – balbettò la vampira bionda e Hope le sorrise, di nuovo.
- Era così anche con te? – inquisì, allungandosi sul tavolo con fare cospiratorio, accompagnata dal suono di uno sbuffo di suo padre.
Caroline lanciò una rapida occhiata a Klaus, alla ricerca di aiuto. Ed era ridicolo che dovesse chiedere aiuto a lui, ma era sua figlia e lei non aveva assolutamente idea di cosa fare. Doveva dirle la verità? Dirle di come avesse minacciato Tyler e lei e di come l’avesse morsa e di come avesse mostrato clemenza, per lei?
Improvvisamente le sembrava tutto così distante e così faticoso e c’era una parte di lei che voleva solo arrendersi e smettere di scappare –
per anni non aveva fatto altro che viaggiare e visitare paesi che non le ricordassero le promesse di quell’uomo e quella porta sempre aperta, ma lui era sempre lì, ad ogni angolo di strada, ad ogni svolta e ad ogni piazza; la sua voce era lì ad accompagnarla di fronte alla scoperta di ogni nuova meraviglia che il mondo avesse da offrirle, ogni paesaggio che le ricordasse che sua madre non c’era più, ma che c’era ancora vita, c’era ancora qualcosa per cui valesse la pena
- da quell’uomo che le aveva promesso la vita e l’eternità.
- Hope, lasciala in pace – Klaus intervenne di nuovo, posando una mano sulla spalla della figlia e costringendola a sedersi nuovamente composta.
Caroline gli sorrise, timidamente, grata per quell’intervento.
- Da quanto siete qui? –
Caroline decise, infine, di prendere il controllo di quella conversazione e della situazione e della sua vita, perché era Caroline Forbes e non bastavano due ibridi a farle dubitare di sé stessa e trasformarla in una bambina balbettante.
- Qui? In questo caffè? Da dieci minuti, come te. A Roma da una settimana – rispose Hope con un sogghigno divertito, che le fece guadagnare un’altra occhiataccia da suo padre.
- Pensavamo di fermarci ancora – aggiunse Klaus.
- Nessuna tragedia soprannaturale a richiamarti da qualche altra parte? – domandò Caroline, con un sorriso malizioso.
Klaus scosse il capo.
- Non da qualche anno a questa parte – affermò. – Non ci sono più i gruppi di ragazzini di una volta – aggiunse con un sogghigno, che gli fece guadagnare un’occhiataccia dalla vampira bionda che gli sedeva accanto.
E, oh, gli era mancata e l’aveva sempre saputo, ma non aveva realizzato quanto gli fosse mancata, fino a quando non l’aveva avuta nuovamente di fronte ad i suoi occhi con i capelli biondi e le guance arrossate. Klaus aveva sentito in il desiderio di ritrarla ancora – e ancora e ancora - per tentare di intrappolare quella luce che Caroline si portava dietro ovunque andasse.
Negli anni, Klaus l’aveva fatta seguire e aveva tenuto tabelle sui suoi spostamenti: aveva saputo della morte di Liz Forbes e della relazione con Stefan (e, per l’ennesima volta, si era pentito di non avergli strappato il cuore dal petto la prima volta che ne aveva avuto l’occasione), ma c’era una guerra a New Orleans e non aveva potuto far altro che ingoiare la bile che quelle informazioni gli avevano fatto montare in gola. Quando Caroline aveva lasciato gli Stati Uniti, Klaus aveva seguito tutti i suoi spostamenti con assoluta fascinazione. Era stato con immensa soddisfazione che aveva realizzato quali città Caroline si ostinasse ad evitare nei suoi spostamenti.
Il pensiero di Caroline – di cosa facesse, di cosa stesse guardando, in quel momento, se vedesse quello che lui le avrebbe mostrato – non aveva mai lasciato la sua mente, ma c’era Hope e c’era New Orleans ed il pensiero della cheerleader bionda di Mystic Falls era, progressivamente, passato in secondo piano nella sua mente. Era passato in quella parte del suo inconscio dedicato all’attesa ed ai piani ben congegnati.
 
 
 
- Quindi, perché non ci racconti cosa hai visto in questi giorni? – chiese Hope con un sorriso malizioso.
Caroline arrossì e si morse il labbro. Non voleva dire a Klaus – Klaus, tra tutte le persone dell’universo – di aver visto il Colosseo e passeggiato per i Fori con un vestito bianco, mangiando un gelato e sentendosi come una star di un qualche film romantico in bianco e nero; di aver ammirato San Pietro, dall’ombra gettata dal suo immenso colonnato. Non voleva dirgli che, le uniche cose che aveva visto, di una delle città che lui le aveva promesso, erano stati luoghi che avrebbe potuto trovare in qualsiasi cartolina, che qualsiasi adolescente americano avrebbe visitato. O forse non voleva citargli tutte le cose che aveva visto senza di lui.
- Il Colosseo – cedette, alla fine, sotto il peso degli sguardi dell’uomo e di sua figlia.
La bocca di Klaus si piegò in un sogghigno e l’uomo dovette mordersi il labbro per non lasciarsi sfuggire una risata perché era così ovvio e così Caroline.
- Smettila – esclamò, la ragazza bionda che gli era seduta a fianco, prima che lui potesse dire qualsiasi. – Smettila immediatamente di ridere di me – continuò, minacciandolo con il suo cucchiaino macchiato di caffè.
Klaus levò le mani in gesto di resa.
- Non oserei mai – affermò, tentando, vanamente, di rimanere serio.
-Non tutti possiamo essere esperti di arte come te o aver già visto tutto! – continuò imperterrita, come se l’uomo non l’avesse mai interrotta, gesticolando furiosamente. - E non m’interessa se pensi che il Colosseo sia scontato o sopravvalutato, non è scontato per chi non l’ha mai visto e per giudicare una cosa bisogna vederla almeno una volta e… -
- Caroline, non avevo alcuna intenzione di criticare la tua scelta – la interruppe lui.
- Oh – esalò la ragazza, che arrossì e parve sgonfiarsi, una volta privata dell’impeto con cui stava difendendo le sue posizioni. – Bene, allora. –
- Ho, anzi, avuto sempre una particolare ammirazione per il Colosseo e trovo che sia un luogo particolarmente adatto alle creature come noi. Una delle leggende che vi girano intorno vuole che esso rappresenti la porta d’ingresso per gli inferi e che, all’imbrunire, le anime dei trapassati errino alle sue radici alla ricerca della pace eterna. Piuttosto adatto alla nostra situazione, non trovi, tesoro? – concluse con un sorriso, volto a smorzare l’amarezza delle sue parole.
La voce, la sua voce, e il modo in cui si piegava e si avvolgeva sui nomignoli che le dedicava. Caroline sentì un brivido correrle lungo la schiena, come decenni prima, come se non fosse passato neanche un giorno.
- Se non ti conoscessi, saresti quasi riuscito a convincermi che davvero desideri la pace eterna – soffiò, sagace.
- Dipende tutto da cosa si intenda per pace eterna. La morta è un concetto che non mi affascina affatto, tesoro, lo sai bene. –
Caroline si lasciò sfuggire uno sbuffo incredulo perché alla faccia del minimizzare. Klaus riprese a parlare con un leggero sorriso ad aleggiargli sulle labbra rosse.
- Ma la pace eterna intesa come felicità… Neanche io sono del tutto immune al fascino di quest’idea.-  
Mentre parlava e la guardava, Klaus aveva negli occhi quella luce e Caroline era quasi certa che lei facesse parte della sua idea di felicità.
Fu quello il momento – quello in cui lei e Klaus non facevano altro che guardarsi, che non distoglievano lo sguardo pur di non doversi arrendere e dover dire: Ho perso, o peggio: mi importa ancora – che il cellulare di Hope scelse per iniziare a squillare, sulle note dell’ultimo successo di Miley Cyrus e Caroline aveva avuto diciassette anni abbastanza a lungo da conoscere quel trucco. Dio solo sapeva quante volte lei si era ritrovata all’altro capo della linea, Dio solo sapeva quante volte aveva chiamato Elena e Bonnie per salvarle da un appuntamento sgradevole e da un ragazzo imbarazzante. Non si era mai trovata nella posizione di Hope, però, non era mai stata quella chiamata all’inizio perché era così grata che un ragazzo volesse uscire con lei e dopo perché, improvvisamente, non aveva più alcun bisogno di aiuto – e non aveva neanche amici che avessero tempo d’aiutarla ché c’era sempre qualcosa di peggiore di un ragazzino sgradevole di cui occuparsi.
Caroline conosceva quel trucco e, dalla smorfia che si dipinse sulle labbra di Klaus, l’uomo non doveva apprezzare minimamente quella canzone. E le venne un po’ da ridere ad immaginarli, Klaus e Hope, a condividere una casa immensa, riempita del suono della musica di Hope e degli sbuffi del padre. Le venne un po’ da ridere in quel modo che la commuoveva e le apriva il cuore, che le ricordava di come, quando aveva diciassette anni, Klaus fosse in grado di toccarla come nessun altro.
Forse, pensò, quando Hope rispose e la voce di Elijah, leggermente ovattata dalla distanza, raggiunse anche le sue orecchie, forse, pensò Caroline, la smorfia di Klaus era dovuta a quello. Si chiese in quale fase del loro rapporto si trovassero, lui e Elijah. Volevano uccidersi o erano di nuovo alleati? O fingevano solo di esserlo per tramare alle spalle l’uno dell’altro? Ed era stata quella stessa curiosità a fregarla una volta, ma Caroline non riusciva a resistere. A lui, a quell’umanità che indossava, sotto tutto il sangue, al modo in cui la guardava.
Era una battaglia persa la sua, pensò, mentre Hope si alzava con un sorriso e una scusa poco convinta e Klaus borbottava sottovoce e malediceva suo fratello e quella maledetta lupa e di chi stava parlando? – e Caroline si sentì cedere come quel pavimento frantumato sotto ai suoi piedi, all’ingresso della Galleria. Quel pavimento su cui aveva abbassato gli occhi per osservare una miriade di frammenti del suo volto e aveva pensato: è così, è così che sono e aveva pensato al pezzo di sé che era morto con sua madre, a quello che Stefan aveva spezzato, con la sua malagrazia e la sua indecisione, a quello che avrebbe riposato per sempre con Bonnie ed Elena – ché nonostante le innumerevoli volte che si erano scagliate l’una contro l’altra, nonostante le maledizioni e gli incantesimi che avevano portato via Elena, almeno per un po’, erano sempre state loro tre contro il mondo. Pensò a quello che aveva seguito Klaus nelle città che si era proibita di visitare e a quello che rideva, accanto ad Enzo.
Pensò che non si era mai sentita così sé stessa e completa come in quel momento, sotto il sole primaverile di Roma, con Klaus accanto che la guardava e si mordeva il labbro, come se indeciso, per poi scuotere il capo e mormorare, così piano che solo loro potessero sentire.
- Mi dispiace per tua madre. –
L’aria le riempì i polmoni con un udibile wooosh e Caroline si morse la lingua per non parlare, per non insultarlo per la malagrazia con cui l’aveva tirata fuori, per osar citarla.
- Quando ho saputo… Ho contattato i migliori medici che conoscessi, ma non esisteva cura ad esclusione di quella che tua madre non desiderava. Ammetto di aver accarezzato l’idea di tornare a Mystic Falls, ma eravamo in guerra, all’epoca, e non era quello che tu avresti voluto – continuò.
Caroline scosse il capo.
- Non è ver… -
- Caroline, non c’è bisogno di mentire. -
C’era solo una punta di sconfitta a tingere la morbidezza eccessiva della voce dell’uomo, solo una punta di resa nel modo in cui distolse lo sguardo per posarlo su Hope, che passeggiava a pochi passi dal locale e rideva, stringendo il telefono tra le dita bianche.
- Non era neanche quello di cui avresti avuto bisogno – aggiunse, sottovoce.
Caroline non riuscì a trattenere uno sbuffo sardonico.
- Nulla di quello che è accaduto in quel periodo è qualcosa di cui avessi bisogno – mormorò, con le guance perché parlare di quello con Klaus era l’ultima cosa che potesse desiderare. Non perché temesse per la vita di Stefan – era quasi certa che Klaus sapesse ogni e che se avesse voluto il più giovane dei Salvatore morto, l’avrebbe già ucciso -, ma perché Klaus era sempre stato attratto da tutto quello che Caroline, in quel momento, non aveva dimostrato di essere.
A volte pensava ancora a quello che aveva fatto, a quello che aveva detto, a come si era arresa a come sua madre avrebbe voluto altro da lei, per lei e sentiva montarla dentro la stessa onta di sempre, ma era diventata brava a controllarla, a metterla in ordine, come i post-it sulla sua scrivania, come le penne colorate in tutti gli astucci della sua infanzia, come i pensieri nella sua mente.
Un angolo della bocca di Klaus si piegò leggermente verso l’alto e, quando si voltò nuovamente a guardarla, l’uomo aveva un’espressione divertita dipinta sul volto.
- Non la vedrai più così tra qualche secolo. –
La ragazza alzò gli occhi al cielo e scosse il capo, in un gesto di pura esasperazione.
- Smetterai mai di vantarti della tua età? –
- Le persone non cambiano, tesoro, quindi direi di no. –
- Soprattutto non raggiunta la tua età – soffiò, con un sorriso sardonico a piegarle le labbra.
Klaus chiuse gli occhi e abbassò il capo in un segno di assenso.
- Per quel che vale, non ho mai visto nessun vampiro avere tanto controllo di sé dopo aver spento la propria umanità –
Caroline sentì la gola stringersi in una morsa e gli occhi tornare a pizzicarle, come quando gli aveva riaperti per la prima volta, dopo essere tornata in sé e aveva realizzato quello che aveva fatto, quello che…
- Non… -
Klaus alzò una mano in una muta richiesta di farlo finire.
- Tesoro, devi capire che se anche non fosse accaduto per la morte di tua madre, prima o poi avresti sentito l’irrefrenabile impulso di spegnere la tua umanità e l’avresti fatto. Tutti finiscono con il farlo almeno una volta, quando realizzano davvero quale sia il peso dell’immortalità, quale sia lo scotto da pagare. Nessuno resiste per sempre al fascino dell’ignoto a questa promessa di pace da qualsiasi sofferenza, ma sei riuscita a controllarti. Avresti potuto sterminare e radere al suolo l’intera Mystic Falls, avresti potuto tentare di uccidere la tua migliore amica e non l’hai fatto. Ancora una volta hai dimostrato di essere un vampiro eccezionale. –
Caroline si lascò sfuggire una risata tremula e colma di autoaccusa.
- Sarah Salvatore… - mormorò sottovoce quel nome che ancora pesava come un macigno sulla sua coscienza.
L’uomo scosse il capo.
- Era poco più di una sconosciuta e di una pedina. -
- Dovrebbe farmi sentire meglio? – domandò con acredine.
- No, quello che può farti sentire meglio è la consapevolezza che ora che sai cosa significhi spegnere la tua umanità, non sarai più così propensa a farlo, qualora si ripresentasse l’occasione in cui ti sentirai tentata. E che tua madre non se la sarebbe presa per quello che hai fatto, non se la sarebbe presa perché hai sofferto per lei. –
Caroline si morse il labbro e scosse il capo.
- Non la conoscevi neanche – mormorò e c’era quel pavimento, fatto di lastre di vetro frantumate, nella sua voce.
L’uomo scosse leggermente le spalle.
- Mille anni finiscono con l’insegnare due o tre cose sulle persone, tesoro. -
Caroline avrebbe voluto ribattere, avrebbe voluto dirgli che non sapeva nulla che non… ma era così falso ed erano passati così tanti anni da quando Klaus era giunto a Mystic Falls, così tanti anni da quando Elena le aveva sorriso l’ultima volta, da quando Elena aveva baciato Damon – Damon, fra tutti! – per l’ultima volta e Stefan e Damon e Bonnie avevano una nuova vita da qualche parte, nel mondo, e Caroline era stanca di portare avanti una guerra che non era mai stata sua.
- Anche venti – ammise, con un soffio.
Klaus le sorrise in quel modo che dedicava solo a lei ogni volta che faceva qualcosa che era così completamente Caroline  e– non era incredibile solo a pensarlo? – per quello seducente. L’uomo allungò una mano, come per toccarla, come per…
E Hope si risedette accanto a loro.
Caroline decise che la ragazzina era specializzata nell’avere un pessimo tempismo e non osava neanche immaginare cosa questo potesse rappresentare per la figlia immortale dell’ibrido originale sul lungo periodo, ma ecco, sì, pessimo tempismo.
- Ho interrotto qualcosa? – domandò Hope, con il sorriso da iena di chi conosceva alla perfezione l’ultimo modello di tutti gli articoli che potevi acquistare in un sexy shop e che sapeva esattamente cos’aveva appena fatto.
Klaus ringhiò qualcosa e Caroline scosse la testa, cercando di nascondere le guance rosse tra i capelli. Come da lontano, come da duemila miglia sotto il mare, sentì Hope riferire, con ampi gesti delle mani e locuzioni colorite – ed era così piena di vita - al padre le notizie raccontatele da Elijah e da sua madre – che era la compagna di Elijah?! E, uuugh, ma gli Originali non si stancavano mai di essere la famiglia più complicata sulla faccia della terra? Come da lontano, perché Klaus le aveva sfiorato la gamba nuda con la mano, come per errore, come per confortarla, e Caroline non riusciva a concentrarsi su altro che sul calore che si dipartiva dalla sua coscia nuda e sull’immagine di quel pavimento frantumato e la sensazione di pienezza che le riempiva i polmoni.
Era strano ed alienante, stare lì, seduta con le due creature più potenti sulla faccia della terra e sentirli parlare di Elijah e della madre di Hope, sentirli citare una casa, lontana migliaia di kilometri e una cucina e quella volta che Hope l’aveva fatta esplodere per preparare dei biscotti (- Ti ricordi? La mamma continua a cogliere ogni occasione per rinfacciarmelo, anche se sono passati anni! - - Hope, è accaduto solo il mese scorso, - ); sentirli battibeccare e ridere come la famiglia (madre, padre e due bambini biondissimi) che Caroline aveva incrociato il giorno prima sul tram. Era strano ed alienante sentire montarle sulle labbra un sorriso che non riusciva a trattenere e, nel petto, il desiderio di sentirli e vederli ancora e il terrore, il terrore di lasciarsi trascinare in qualcosa per cui non era pronta.
C’era ancora una porta, una possibilità, lasciata aperta per lei, da qualche parte nel mondo e per quanto Caroline fosse grata, per quanto ne fosse rassicurata da essa, non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che, una volta varcata quella soglia, non sarebbe più potuta tornare indietro e che non era pronta a compiere quel passo. Che forse non sarebbe mai stata pronta a Klaus e a quello che aveva da offrirle.
Fu quel timore a spingerla ad allontanare, impercettibilmente, la sedia dal tavolino, la sua persona da Klaus e Hope.
Klaus riportò gli occhi su di lei, osservando con uno sguardo tagliente quello spazio che prima non li separava e l’espressione che si era dipinta sul volto di Caroline. Chiuse gli occhi, per un istante, di fronte alla delusione perché aveva sperato… ma era ovvio che fosse troppo presto, che Caroline non fosse pronta.
- Devi andare – e non era una domanda.
Caroline piegò le labbra in un sorriso di scuse. Odiava quel lampo di amarezza che gli era passato negli occhi e odiava l’idea di esserne la causa, ma non era pronta. Annuì e Klaus lasciò sfuggire dalle labbra socchiuse un sospiro amaro.
- Molto bene, lasciami almeno pagare il conto, così possiamo accompagnarti fino alle scale, prima di tornare a visitare la Galleria. -
Hope osservò lo scambio con occhio critico, tamburellando le dita sul tavolino. Così non andava bene, non andava affatto bene: Caroline si era improvvisamente spaventata senza alcun motivo (neanche le avessero sgozzato un branco di lupi davanti al naso!) e suo padre, invece di mostrarle che si stava spaventando per tutte le ragioni sbagliate, aveva deciso di lasciarla andare, di lasciare che continuasse a scappare. Erano due idioti e non andava affatto bene.
La ragazza decise che era giunto il momento di prendere la situazione nelle sue mani: doveva convincere Caroline a rivederli, senza farla sentire costretta o imprigionata e se le storie su Caroline, sulla sua lealtà ed empatia e meravigliosità erano vere, Hope era certa di avere appena avuto l’idea perfetta. Se poi, lei ci avesse ricavato un qualche beneficio alternativo, beh, sarebbe stato giustamente guadagnato!
 
 
 
- Caroline – la richiamò Hope, quando già una decina di scalini le separavano. La ragazzina superò con una breve corsa i pochi passi, che aveva calcolato scientificamente, in modo che Caroline fosse abbastanza lontana da Klaus da non sentirsi più sopraffatta da cose che erano solo dentro di lei, ma non troppo.
– Visto che hai intenzione di rimanere a Roma, per le prossime settimane, e che lo faremo anche noi – si voltò per un istante verso Klaus, che le fece un cenno di incoraggiamento con il capo, a cui Hope rispose con un sorriso. – Potresti venire a visitare la città con noi. Voglio dire, non potresti trovare da nessuna parte una guida più preparata di mio padre e se vieni con noi – proseguì chinandosi leggermente verso la ragazza per mormorare, in tono cospiratorio. – Mio padre avrà qualcun altro su cui concentrare le sue attenzioni e smetterà di terrorizzare tutti i ragazzi che mi si avvicinano. Ti prego, sono italiani! Hai sentito la fama degli uomini latini? Siamo in Italia da due settimane e prima siamo stati in Spagna e non ho mai potuto accertarmi che la loro fama fosse meritata perché papà li terrorizza tutti prima che possano dirmi anche solo la prima sillaba del loro nome! – esclamò.
Caroline lanciò un’occhiata oltre le spalle della ragazza, a Klaus e alla sua espressione rabbuiata.
- Sai che ha sentito ogni parola, vero? – domandò, divertita.
Hope fece spallucce.
- Se sono riuscita a convincerti a venire con noi, mi dovrà un favore e dovrà chiudere un occhio – affermò. – Possibilmente – aggiunse, dopo aver lanciato uno sguardo al padre. - Quello che non avrà perennemente puntato su di te. -
 
 
 
 
   
 
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