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Autore: dilpa93    26/07/2015    1 recensioni
Il Capitano, accigliato, scosse la testa. Il giovane lanciò in aria il bastoncino e si pulì le mani sfregandole tra di loro. "Ok, niente bastoncini di pesce", si massaggiò le tempie cercando di concentrarsi, strizzando gli occhi e arricciando il naso.
"Ehm... Lei è?"
"Ma certo, che sbadato. Io sono il Dottore!"
"Dottore chi?"
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Doctor - 11, TARDIS
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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"Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato"
William Faulkner




 
Steve portò un braccio dietro la schiena di Peggy cingendole la vita, lasciando che tenesse la testa sulla sua spalla nella speranza che nessuno facesse domande. Il Dottore aveva ragione, non era il caso di attirare ulteriore attenzione e se qualcuno avesse pensato che stava facendo qualcosa di male sicuramente si sarebbe visto costretto ad usare la forza, e quello non era certo il momento adatto per dar luogo ad una rissa. Ripassando davanti al bancone del bar, si ricordò della borsetta che Peggy aveva abbandonato sullo sgabello accanto al quale era seduta, probabilmente troppo scossa da quell'incontro che, se mai qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe ritenuto impossibile.
Quando raggiunse il Tardis, la porta della cabina era già aperta e da dentro poteva sentire un tintinnare metallico, come se il Dottore stesse armeggiando con attrezzi di ogni genere. Ma quando varcò la soglia, tenendo Peggy in braccio, lo vide immobile poggiato ad una delle pareti, le braccia incrociate e la gamba destra piegata così da avere maggiore equilibrio.
"Sai, quasi 1200 anni e ancora la stupidaggine di voi umani riesce a sorprendermi."
Steve si accovacciò, posando a terra l'Agente Carter come fosse un fiore delicato, un oggetto sul punto di rompersi da un momento all'altro. Facendo leva sulle ginocchia si alzò con un lieve sospiro, di certo non dovuto ad un inesistente affaticamento. "Volevo solo ballare con lei..."
"Beh, la prossima volta chiedilo nella letterina a Babbo Natale."
Steve inarcò il sopracciglio, "Dottore, sono cresciuto, non scrivo più a Babbo Natale."
"Io si!", urlò allargando le braccia esaltato. Fece un giro su se stesso, fermandosi poi nuovamente davanti a Steve. "Ora ricordo! Adesso dovrò assicurarmi che non ci siano state alterazioni temporali... Diamine!"
"Linguaggio!", quell'ammonizione uscì naturale dalle labbra del Capitano, e per la seconda volta un'espressione di sorpresa si dipinse sul volto del Dottore.
Steve iniziò a passeggiare avanti e indietro, poi in cerchio, cercando il punto di partenza migliore per raccontare la sua storia. Non ci avrebbero creduto in molti, persino lui stesso a volte faticava ancora a crederci, ma stranamente nel ventunesimo secolo nessuno aveva fatto domande. Era anche vero che non ne fecero neppure quando il Dottor Banner si trasformò nel pieno centro della città, tra civili urlanti e in preda al panico per l’attacco orchestrato da Loki -un bestione verde che gira per la città è piuttosto difficile da non notare-, ma poi si ricordò che il Dottore di stranezze ne doveva aver viste molte di più, ancora stava cercando di capire che razza di pianeta potesse essere Exxilo e di capacitarsi del fatto che il Dottore avesse detto di avere più di mille anni. Erano troppe cose nuove persino per lui, persino per un uomo che aveva visto letteralmente il cielo aprirsi, che aveva scoperto l’esistenza di altri luoghi abitati sparsi nell’Universo, luoghi come Asgard.
“Oh, per tutti i Sontaran! Steve vuoi fermarti?”, si massaggiò le tempie e ancora una volta l’immagine di Amelia Pond si materializzò davanti a lui. Quella folle rossa gli mancava più di quanto fosse disposto ad ammettere persino con se stesso, e ora che anche River lo aveva lasciato di nuovo solo aveva ripromesso che non si sarebbe più legato a qualcuno.
Steve obbedì grattandosi la nuca. Non era da lui mostrare tutto quel nervosismo, non che il Dottore sapesse cosa fosse da lui o non da lui.
Strinse gli occhi, come accecato dai salubri raggi solari e fece un sorriso sghembo in segno di scuse per quel suo camminare incessante. “Nel 1943 feci domanda per essere arruolato. A essere sincero feci più di una domanda, ma venni sempre respinto, almeno fino a che non incontrai il Dottor Erskine. Non so perché scelse me, non avevo nulla di speciale. Piccolo, gracile, malaticcio e bruttino.”
Il Dottore lo guardò stranito. Neanche ora era bello. Capelli radi, soprattutto non rossi, sopracciglia troppo folte, muscoli ovunque… no, decisamente non era bello, non quanto lui almeno.
“Capisco perché nessuno mi volesse nell’esercito. Erskine stava cercando qualcuno su cui sperimentare un siero che avrebbe dovuto potenziare il mio fisico. E così è stato.”
“Quindi non sei nato con quei muscoli?”, chiese gesticolando come se al posto delle mani avesse dei piccoli tentacoletti.
“No”, confermò stupito dal fatto che, di quello che fin’ora gli aveva raccontato, lo avesse colpito solo quel particolare. “C’è stato uno scontro con la Germania. Più di uno scontro. L’Hydra si stava lentamente infiltrando ovunque e siamo dovuti intervenire. Verso la fine del ‘43 mi sono scontrato faccia a faccia con il capo dell’Hydra, era in possesso di un’arma aliena e-”
“Aliena?”, il Dottore si raddrizzò immediatamente, avvicinandosi di qualche passo a Steve. “Che genere di arma?”
“È chiamato Tesseract", il Dottore non disse nulla, tentò di aggrottare le sopracciglia, ricordandosi poi che chiunque avesse incontrato gli aveva sempre fatto notare che erano pressoché inesistenti, così si limitò a corrugare la fronte. "È… è un cubo. Fornisce una particolare ed illimitata forma di energia a chiunque la possieda. Lo scopo dell’Hydra era di utilizzarla per potenziare il loro armamentario bellico. Ed è così che mi sono ritrovato su quell’ala volante, cercando di impedire a Schmidt di distruggere l’intera New York e, ecco, ci sono riuscito.”
“Ovvio che tu ce l’abbia fatta o non potremmo trovarci qui in questo momento. Il punto è come tu ci sia riuscito.”
“Schmidt è scomparso nel nulla, i comandi erano bloccati, puntavano dritti sulla città. Non potevo andarmene e lasciare che l’Hydra l’avesse vinta, ho dovuto dirottare l’aereo che si è schiantato nell’Artico.”
“E come hai fatto a sopravvivere? Un cuore solo, di certo non sei un signore del tempo, nessun manipolatore Vortex, antiquato ma efficace. Quindi?”
“Sono rimasto congelato tra i ghiacci per settant’anni. Quando mi sono risvegliato ero in una realtà del tutto diversa. Fu come se il mio mondo fosse svanito nel nulla. Certo, la città non era stata distrutta, ma per me è stato un po’ come se lo fosse.”
Gallifrey fu il primo pensiero del Dottore al sentire quelle parole e ancora una volta si trovò a scacciare quel ricordo. Non era il momento adatto per pensare al suo rimorso più grande.
"Okay, uomo del mistero... Uh, curioso, di solito chiamano me in questo modo", si tolse il fez, lo lanciò come fosse un freesbe dall'altro lato del tardis e si passò le dita tra i capelli lunghi. Sfregò le mani tra loro congiungendole, per poi portarsele davanti al viso lasciando che gli indici giocassero con il naso. "Come arriviamo a lei?", indicò Peggy con gli indici ancora uniti, come i bambini quando fingono di sparare a qualcuno usando la fantasia per trasformare le dita in una delle pistole più potenti al mondo, che neanche la bacchetta di Sambuco, in quanto a potenza, potrebbe eguagliare.
"L’Agente Carter, insieme al Colonnello Phillips, era al comando della sezione nel quale ero stato trasferito. Lei mi ha notato anche quando ero invisibile. La sua voce è l'ultima cosa che ho sentito prima che l'aereo precipitasse."
"Bene, quindi vediamo di vedere se ho capito... Ragazzino ignorato, guerra, un'agente donna per cui evidentemente provavi qualcosa, arma aliena, aereo che precipita, ghiacciolo umano. È corretto?"
"Si, tranne per il fatto che..."
"Tranne per che cosa?"
Steve si limitò a scuotere la testa abbozzando un sorriso. Il fatto era che lui non provava qualcosa per Peggy. Lui l'amava, ma se avesse dovuto dirlo per la prima volta, lei avrebbe dovuto sentirlo. Invece era ancora addormentata, o almeno sperava che lo fosse, non gli era ben chiaro cosa il Dottore le avesse fatto ma stranamente, forse per quel viso buffo e in un certo qual senso rassicurante, si fidava di lui.
Il Dottore gli si avvicinò con aria minacciosa, come quella volta che si era ritrovato nel Far West, nella città di Mercy, e aveva tentato di intimorire chi gli stava intorno. Per l'ennesima volta prese tra le mani il cacciavite sonico puntandolo contro il petto di Steve. La luce verde si accese e comparve il solito e leggero sibilo.
"Cosa...?"
"Shhh!"
"Ma...", tentò di nuovo il Capitano con l'unico risultato di essere zittito un'altra volta. Il Dottore si mosse con attenzione molleggiando sulle gambe, come una marionetta mossa da fili invisibili. Alla fine sospirò sollevato, "La tua linea temporale non sembra aver subito cambiamenti. Ora muoviamoci a portare a casa la Bella Addormentata prima che qualcosa di grave accada sul serio. Ragazzone, mi serve un indirizzo."
"Non lo so, eravamo nell'esercito. Si è in continuo spostamento, la caserma e le trincee sono la tua casa."
"Questo è un bel problema. Potremmo lasciarla in una trincea se vuoi, ma non credo che abbia il vestito adatto."
In quel momento Rogers si ricordò della borsetta che aveva afferrato al volo prima di lasciare il locale. Si avvicinò a Peggy, chinandosi accanto a lei. Le scostò i capelli dalla fonte accaldata sfiorandole appena la guancia, seguendo quella linea immaginaria che andava dallo zigomo al mento. Quando prese la borsa, le sfiorò involontariamente le dita della mano sentendola, nel sonno, rispondere al tocco con un piccolo scatto delle dita. Mentre il Dottore armeggiava con il monitor del Tardis, premendo tasti all'apparenza a caso, Steve frugava nella borsa sorridendo divertito dal minimalismo del suo contenuto. Un fazzoletto con le sue iniziali ricamate, un rossetto che, conoscendola, era sicuro nascondesse qualcosa di più, e una chiave. Si alzò portandola alla luce riuscendo a leggerne la scritta in basso rilievo impressa sull'impugnatura della stessa.
"Griffith Hotel", scandì lentamente.
"Bene, bene, bene, direi che abbiamo ufficialmente una meta! Tenetevi forte", strinse il cilindro della leva tra le dita e l'abbassò intonando il suo grido di battaglia.
 
Lasciarono il Tardis in un vicolo che costeggiava il lato est del palazzo. Steve si caricò Peggy, ancora incosciente, sulla spalla anticipando il Dottore nell'uscire dalla cabina.
Salirono i gradini, il Dottore trotterellò attraversando l'arcata per arrivare alla porta d’entrata. Una volta lì, bussò energicamente contro il vetro riuscendo a vedere, appena oltre quello, una figura in veste da camera e bigodini. La donna sobbalzò colta alla sprovvista da quel frastuono nel cuore della notte. Si strinse ancora di più nella vestaglia andando titubante ad aprire.
“Chi desiderate? Non sono ammessi uomini qui!”, precisò subito, pronta a richiudere la porta bloccata però prontamente dal braccio del Dottore, il quale sventolò per aria la carta psichica sperando che, come sempre, potesse aiutarlo anche questa volta ad ottenere ciò che voleva.
La donna strizzò gli occhi cercando di leggere, nonostante il movimento convulso della mano del ragazzotto che si trovava di fronte le causasse qualche difficoltà. Sbarrò gli occhi quando finalmente riuscì a distinguere le parole Ispettore di igiene, così si affrettò ad aprire per bene la porta e a chiedergli se il braccio gli doleva avendoglielo chiuso tra i due stipiti. Dopo aver ricevuto una scrollata di capo, iniziò a calmarsi. “Posso chiedere come mai un’ispezione a quest’ora di notte?”. Si sfiorò il capo per assicurarsi che i bigodini fossero tutti al loro posto. “Non mi fraintenda, non ho nulla da nascondere. Qui ho delle severissime regole e faccio in modo che tutti le rispettino.”
Il Dottore camminava allontanandosi dall’ingresso, cercando di dare modo a Steve di entrare senza essere visto. Annuiva ad ogni cosa che gli veniva detta senza prestare ascolto. D’improvviso si fermò, voltandosi verso la donna. “Lei sarebbe?”
“Come chi sono?”, chiese scocciata. “Sono Miriam Fry, proprietaria del Griffith!”
“Mh…”, mugugnò grattandosi poi la tempia. “Avrei bisogno di controllare delle stanze”.
“A quest’ora?”, la Signora Fry si portò una mano alla bocca, perplessa. Le regole che aveva imposto erano molto rigide. Erano rare, rarissime le occasioni in cui dava il permesso a degli uomini di entrare nel solo edificio, figuriamoci in una stanza, ma si trattava pur sempre di un ispettore, non poteva rischiare che ci fossero dei problemi.
Nonostante il corpifuoco, si ricordò che la Signorina Carter non era ancora rientrata. Se non avesse voluto essere mandata via, l’ispezione della sua stanza sarebbe dovuto essere il prezzo da pagare. “Veramente una delle ragazze non è ancora rientrata…”
“Di chi sarebbe la stanza?”
“Ecco… io non so se sia il caso di dirlo…”, ci pensò su qualche secondo, ma fu facile per la Signora Fry capitolare. “Alla signorina Carter, la nuova arrivata. Non credo abbia ancora capito come ci si debba comportare qui al Griffith Hotel, ma del resto è inglese e certe cose…”
“A che piano si trova la stanza?”, chiese interrompendo quella valanga di parole, facendo roteare il farfallino tra le dita.
“Al primo piano, l’accompagno.”
“No! Quando lavoro preferisco essere solo”, camminò rapidamente verso le scale che portavano al piano superiore, sentendo la donna urlargli le indicazioni. “In fondo al corridoio, ultima porta sulla destra!”.
Salì le scale, tenendo il cacciavite sonico in mano pronto ad ogni evenienza. Non appenò svoltò sulla sinistra per imboccare il corridoio, si trovò  Rogers a un palmo da naso.
“Eccoti ragazzone. Porta in fondo, sulla destra, tieni il passo.”
Adagiò meglio Peggy sulla spalla cercando di star dietro all’andamento buffo del Dottore, il quale puntò il cacciavite contro la serratura aspettando che compiesse la sua magia e la porta si aprisse, completamente dimentico di avere con sé la chiave.
Quando varcò la soglia, Steve si guardò intorno in cerca di qualsiasi cosa potesse suggerirgli come fosse stata la vita di Peggy dopo che lui se n’era andato, ma il Dottore gli mise troppa fretta perché potesse veramente concentrarsi su ciò che vedeva e cercare di ricavare qualche indizio. La posò delicatamente sul letto, guardandola aggiustare la posizione nel sonno con qualche piccolo stiracchaimento.
“Oggettini curiosi…”, commentò il Dottore sficcanasando qua e là. “Forza, dobbiamo andare!”.
Steve ignorò le sue parole, accovacciandosi accanto a lei. “Sono felice di aver finalmente potuto avere quel ballo”, le sussurrò all’orecchio scostandole i capelli dal viso.
“Ragazzone, il tempo scorre! Beh, scorre, si riavvolge, va avanti e indietro. Del resto il tempo è elastico, e se lo dico io che sono un Signore del tempo!”
Il Capitano continuò ad ignorarlo, alzandosi e chinandosi su Peggy per un ultimo bacio. Avrebbe voluto darglielo là, sulla pista da ballo, ma il Dottore li aveva interrotti prima che ne avesse avuto l'occasione.
Sebbene fosse diventato un super soldato, era rimasto il timidone di sempre.
Le sfiorò appena le labbra e quando si staccò da lei la guardò per un'ultima volta, voleva una nuova immagine di lei da ricordare.
“Ora possiamo andare…”, sussurrò al Dottore precedendolo.
Steve uscì di soppiatto, mentre la Signora Fry si preparava un tè, tuttavia non le sfuggì quell’ombra alta e muscolosa che pensava di andarsene indisturbata. Miriam Fry era sempre molto attenta e vigile, si mormorava in giro che avesse gli occhi anche dietro la testa. Lasciò il tè sul tavolo andando verso la porta, quando si sporse per vedere al di là del vetro chi fosse il misterioso uomo, venne travolta dal Dottore.
“Allora, Madame, tutto a posto!”, esclamò entusiasta e frizzante avvolgendo un braccio attorno le spalle della donna, che osservò la mano che ora la toccava appena sopra la veste da camera con circospezione e sospetto. “Ma io ho visto un giovanotto uscire di qui proprio adesso.”
“Le posso assicurare che non c’era nessuno. La saluto, la ringrazio e arrivederci.”
“Ma il rapporto? Cosa scriverà, era tutto in perfetto stato? Come le dicevo la Signorina Carter è nuova, ancora non sa…”, per la seconda volta venne interrotta mentre tentava di giustificarsi usando le origini inglesi di Peggy.
“Tutto pulito e in ordine. In ordine… se voi umani lo chiamate così”, bofonchiò appena,, abbassando lo sguardo. Quando lo rialzò notò la perplessità negli occhi della Signora Fry, testimoniata anche da quella ruga formatasi in mezzo alla fronte. “Oh beh, buona serata allora!”, e scappò via prima che la donna potesse chiedergli altro.
 
Non si dissero nulla camminando verso il Tardis, stranamente perfino il Dottore riuscì a mettere a freno la sua parlantina. Era tempo che Steve tornasse a casa, così lo riportò nell’esatto punto in cui lo aveva incontrato.
Come all’andata il viaggio fu breve, talmente breve che Rogers si accorse di essere arrivato solo per lo scossone dovuto all’atterraggio e il consueto sibilo della cabina. Il Dottore si affacciò alla porta, restando a guardarlo uscire con quell’aria pensierosa dipinta in volto.
“Dottore…”, esordì Steve con tono pacato.
“Lo sapevo, lo sapevo che c’era dell’altro. A voi non basta mai! Qualcuno vi offre una mano e voi vi prendete tuuuuutto il braccio. Un solo viaggio, era questo l’accordo. Scommetto che ti sei pentito di aver lasciato scegliere alla tua testolina. Chi lo sa, magari ci rivedremo un giorno, anche se… no, credo di no. Ho tantissime cose da fare e problemi da risolvere! Perciò ragazzone è stato un piacere.”
“Dottore”, ripeté ignorando il discorso senza logica appena udito. “Lei starà bene?”
Di nuovo quell’espressione di stupore sul viso giovane del Dottore. Steve fu certo di leggere dolcezza, per quella domanda, nei suoi occhi.
“Si, starà bene”, sussurrò estremamente serio, e avrebbe avuto ragione. Perché la mattina seguente, quando Peggy si svegliò, si sentì riposata come non le capitava da mesi. Si sfiorò le labbra con le dita sentendo una stretta al cuore e, quando si accorse di essere ancora vestita, capì che ciò che era accaduto non poteva essere solo un sogno. Ancora non sapeva come fosse possibile, ma non le importava.
Per la prima volta da tempo sorrise, sorrise davvero.
Steve si limitò ad annuire con la bocca piegata in un sorriso appena accennato, portandosi la mano sinistra alla fronte per poi muoverla in direzione del Dottore in quel saluto militare poco rigoroso. Riprese a camminare come se non fosse accaduto nulla in quelle ore, invece tanto era successo e anche lui sentì il cuore più leggero avendo avuto un’ultima occasione di rivedere la sua Peggy. Udì ancora una volta il rumore dei freni del Tardis e quando si voltò la cabina era già sparita e il Dottore con lei.
 
Il Tardis era di nuovo vuoto, mentre volteggiava tra il cielo stellato impossibile da vedere ad occhio nudo. Non importava quanto fosse grande, pieno di cianfrusaglie, cerchi alle pareti e innovazioni che le prime rigenerazioni non si sarebbero mai sognate. Per quanto amasse la sua casa non faceva altro che sentirsi solo. Aveva pregato River di restare con lui, non si era mai abbassato a tanto con nessuno, solo con i membri della famiglia Pond. Prima Amy, testarda e cocciuta, che non aveva voluto seguirlo e aveva smesso di guardare quell’angelo solo nella speranza di poter raggiungere Rory. E poi River, tale e quale a sua madre. “Dolcezza, una signora ha le sue esigenze”, si era giustificata. Gli aveva lasciato un ultimo bacio a stampo sulle labbra e si era sistemata il manipolatore vortex. “Arrivederci, Dottore”.
In un attimo era sparita.
Quello era il destino legato alle persone a cui si affezionava, sparire. Per questo la regola del solo ed unico viaggio, ma quella sera, senza saperne il motivo, era riuscito a legarsi anche a Steve e alla sua storia. Con 900 anni sulle spalle stava diventando sentimentale. Forse era l’età, o forse no. Nonostante tutto, però, non poteva rischiare che qualcun altro si facesse male per colpa sua. In alcuni casi aveva avuto la fama dell’egoista, del distruttore, colui che non pensa mai prima di agire, che non ha un piano.
Questa volta il piano però era ben preciso. Si sarebbe ritirato in isolamento, da solo, offrendo il suo aiuto solo quel tanto che bastava perché il genere umano non andasse distrutto, ma restando sempre nell’ombra e usando le dovute precauzioni.
Si, avrebbe funzionato.
“Vediamo, vediamo, vediamo, dove potrei andare… niente posti caldi, ho la carnagione chiara, e niente New York, l’America non fa per me.” Ci pensò su qualche secondo sentendo il motore del Tardis iniziare a borbottare. “Dammi un minuto per pensare!”, esclamò sistemandosi il cravattino, e in quel momento ebbe l’illuminazione. “Ci sono!”, si avvicinò al monitor iniziando ad impostare le coordinate. “Perché non ci ho pensato prima?”. Rimase in silenzio, come a voler creare un po’ di suspence in quel dialogo tra lui e la sua amata cabina blu. “Londra, epoca vittoriana. Posto perfetto, clima ideale e poi adorano i papillon! Ah, gli inglesi…”. Strinse la leva tra le dita pronto ad abbassarla. La bocca si schiuse per far uscire la parola Geronimo nel consueto grido, ma subito si richiuse senza dar voce neanche ad una singola lettera. Non ne valeva la pena, non da solo. Inspirò a fondo e, abbassando la leva, la cabina partì alla volta della Gran Bretagna vorticando su se stessa.
Si sentiva sicuro, nessuno lo avrebbe disturbato. Eppure, per quanto spesso lui stesso si vantasse del suo intelletto e della sua arguzia, non poteva sapere che, a Londra, il suo cammino si sarebbe incrociato con quello di un’apparentemente innocua e semplice ragazza, Clara Oswald.
Passato e futuro si sarebbero intrecciati ancora una volta e non ci sarebbe stato nulla che il Dottore avrebbe potuto fare per evitarlo.





Diletta's coroner:
Siamo giunti alla fine... Peggy si sente di nuovo felice, Steve meno in colpa ed Eleven riparte verso la Londra vittoriana.
Spero vi sia piaciuta e irngrazio coloro che hanno letto questa piccola follia!
Baci
Diletta
  
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