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Autore: CJ only    26/07/2015    1 recensioni
B.R.O.Q. Brevi Racconti di Orrori Quotidiani è una raccolta di storie di vite vissute; drammi comuni, affrontati da persone ordinarie. "Il Vuoto" è incentrato su un momento della vita di una donna alla quale viene a mancare una persona a lei molto cara...
Genere: Drammatico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Non sento nulla.
Solo un profondo e cupo dolore nel petto. Tutto attorno a me sembra inerte, come se mi fossi improvvisamente materializzata in una fotografia. Statica e priva di qualunque suono. Nonostante io mi trovi in pieno centro, nulla turba la quiete del momento.
Il silenzio è così oppressivo da risultare assordante.
Un peso enorme mi grava sul petto, lo stomaco è chiuso in una morsa ferrea.
Seduta su una vecchia panchina fatiscente, osservo il mondo immobile attorno a me.
Il cielo è terso, poche nuvole leggere e soffici lo attraversano. I palazzi si ergono nitidi, ben illuminati dal sole.
Mio marito, a qualche metro da me, sembra non sapere cosa fare: saltella da un piede all’altro, fissandosi la punta delle scarpe, le mani dietro la schiena.
Chino il volto e fisso le mie mani, giunte in grembo. Le dita, rigide per il freddo, sono quasi esangui per la forza con cui le stringo.
Le premo contro lo sterno, come ad impedire al cuore di scoppiare.
All’improvviso una colomba gruga, rompendo il torpore del momento e facendomi sussultare. Pochi istanti dopo un treno sfreccia davanti a me, facendo stridere le ruote sulle rotaie, squarciando l’aria.
È come se qualcuno mi avesse schiaffeggiato.
Se n’è andata.
Non posso fare a meno di pensare, ma non riesco ancora a crederci. Non posso.
Nuove lacrime affiorano nei miei occhi e scivolano, bollenti in confronto al freddo esterno, sulle mie guance gelide.
Inizio a battere i piedi, come se questo movimento potesse scaricare il mio dolore a terra.
Non è vero. Non può essere vero!
Inizio a sentire delle voci avvicinarsi.
Mio marito, sempre più confuso, fa un passo verso di me ma senza accostarsi troppo, come se avesse paura che io lo aggredisca.
E forse ha ragione. Sono arrabbiata… È più facile gestire la rabbia che non il dolore.
Facce sconosciute, vecchi volti ormai dimenticati e sbiaditi dal tempo della mia memoria, fanno gruppetto in un angolo, accanto al portone.
Si salutano, si abbracciano, commentano e poi iniziano a chiacchierare.
Vorrei urlare.
Vorrei dire loro di andarsene, che non siamo al bar: non è un ritrovo di vecchi amici… ma non dico nulla.
Lei non vorrebbe. Non è giusto: tutti hanno il diritto di salutarla.
Lei era speciale, teneva testa a tutti, sapeva gestire tutti. Ci amava tutti.
Non si poteva non volerle bene.
Arrivano altre persone, in auto, e parcheggiano di fronte a me. Mi fissano tutti di sottecchi, forse chiedendosi chi sono.
Non saluto nessuno, nemmeno quelli che conosco.
Non ne ho voglia.
Il motore di un’altra auto si avvicina, lentamente, e qualcosa mi si spezza dentro.
È arrivata.
Dietro questa, una serie di vetture, colme di visi devastati dal dolore, segnati dalle lacrime.
Mi alzo e mi avvicino al capannello di persone.
Qualcuno mi riconosce, e tutti, uno dopo l’altro, mi si avvicinano e mi abbracciano.
Vorrei scansarli ma non posso farlo.
Vedo mia madre, affranta e corro ad abbracciarla. La stringo forte, un po’ per consolare lei, un po’ per farmi consolare.
Poi abbraccio mio fratello e a seguire i miei cugini e i miei zii.
Per ultima, abbraccio la zietta. Ci dondoliamo a vicenda, aggrappandoci l’una all’altra disperate.
Cerco di respirare, ma mi sembra impossibile. L’aria sembra pesante, dura.
Dopo un tempo interminabile, mi stacco e mi avvicino al carro, che nel frattempo è stato aperto.
La cassa, semplice, con un crocefisso posto sopra, è color miele. Dolce. Come lei.
Non può essere vero…
Però è così. L’ho vista. L’ho toccata… e questa dannata cassa lo dimostra!
Ma com’è possibile? E perché?
Certe cose non dovrebbero mai succedere. Mai. Perché si è dovuta ammalare?
L’unica cosa che mi consola è che ha smesso di soffrire…
Il prete è in ritardo.
Appoggio una mano sul feretro, come a cercare un ultimo contatto. Un’altra mano si aggiunge alla mia. È quella di mia cugina.
Non riesco a sopportare l’idea che sia chiusa là dentro!
Mi allontano. Con la coda dell’occhio vedo mio marito parlare con mio padre, in disparte.
Mio fratello sostiene mia madre.
Mi avvicino a mio cugino e resto al suo fianco, in silenzio, ad aspettare.
Altre persone si avvicinano.
«Ciao! Scusa, non ti avevo riconosciuta, è passato così tanto tempo! Condoglianze!»
Annuisco, incapace di parlare.
Sento mio cugino muoversi irrequieto.
«Come se a me fregasse qualcosa…» mormoro.
«Infatti.» risponde lui a mezza voce.
«Non riesco nemmeno a capire chi sono tutte queste persone» confesso «Non capisco nulla… è tutto così astruso… Vorrei che sparissero tutti.» 
«Sì, anch’io. Ringrazio tutti senza nemmeno guardarli.» ammette a sua volta.
Finalmente il parroco arriva.
Ci stringiamo attorno a lui che benedice la bara, in cerchio.
Mentre parla un altro treno passa sui binari e lui cerca di urlare, di sovrastare il rumore, ma è costretto a fermarsi e ad attendere che si sia allontanato, prima di continuare.
Infine seguiamo il feretro fino in Chiesa.
Mi sembra un incubo.
Il suo nome, a lettere cubitali all’ingresso della Chiesa, rende tutto ancora più reale e scoppio a piangere un’altra volta.
Attorno a me c’è il vuoto. Dentro di me, c’è il vuoto.
Prendo posto nella seconda panca, lasciando libera la prima per mia madre e i miei zii.
Alla mia sinistra, a circa trenta centimetri, siede l’amico di mio zio. A destra una sconosciuta.
Mi volto e vedo mio marito accanto a mio fratello, nella panca dietro la mia. Faccio loro segno di raggiungermi, ma fanno spallucce.
Dopo qualche minuto, la sconosciuta si allontana e un’altra delle mie cugine si siede accanto a me. Suo marito è al suo fianco e le stringe la mano.
A malapena ci salutiamo.
La funzione è struggente. Vedo la zietta piegarsi in due dal dolore mentre il prete dice che adesso lei è felice, serena.
Chiede ai parenti e ai suoi affetti di benedire la bara e ci mettiamo tutti in fila per salutarla un’ultima volta.
L’ultima tappa è al camposanto.
«Conosci la strada?» chiedo a mio marito.
«No, ma basterà seguire qualcuno.» replica in tono leggero.
Ovviamente sbagliamo strada e quando arriviamo ci stanno aspettando tutti.
Mio fratello, al cancello, mi accarezza dolcemente la testa, poi s’inoltra tra i vialetti.
Sembra di non arrivare mai.
Mio zio prende mia zia sottobraccio. Il marito di mia cugina le poggia un braccio sulle spalle. L’altro, tiene la mano della moglie tra le sue…
Ci mettiamo quasi un quarto d’ora a raggiungere il campo 20.
Qualcosa non mi torna. Sono perplessa.
Una struttura di ferro fa da contenitore per la cassa, in modo che la terra non vi scivoli sopra.
Degli operai calano la bara al suo interno con un paranco.
Mia mamma prende delle rose rosse da una delle corone portate dai necrofori ed inizia a consegnarne una a ciascuno di noi nipoti.
«Buttatele sulla bara…» ci dice.
Scioccamente, tolgo tutte le spine dallo stelo prima di gettarla nella fossa. Mia cugina solleva un sopracciglio, e fa un mezzo sorriso.
Contraccambio con un’alzata di spalle. So che è stupido, ma non posso buttargli sopra una rosa piena di spine… nonostante tutto, nonostante la bara, nonostante sia morta.
Alla fine, gli operai chiudono delle ante di ferro sopra la fossa.
«Lunedì queste strutture verranno tolte e verrà messa la terra» dice uno dei tre, rispondendo alle nostre mute domande.
Mio cugino inciampa sui fiori della fossa accanto e il mio occhio cade sulla struttura.
“171 – Gilberto Rocca”
Un fremito mi percuote.
E lei dovrà riposare qui, accanto a degli emeriti sconosciuti?
Questo pensiero mi invade l’anima, lacerandomela.
Guardo i miei parenti. Le zie piangono convulsamente, mormorandole parole di addio.
I miei cugini per allontanarsi, calpestano la struttura 171.
E altre persone verranno qui, oggi, domani o dopo, e le metteranno i piedi sopra?
Mi viene la nausea.
Non ci posso pensare.
Devo allontanarmi. Mi manca il fiato.
Raggiungo mia mamma, che sta sfilando i fiori dalle altre corone per portarli a casa. M’inginocchio accanto a lei e inizio ad aiutarla. Si aggiungono altre persone ed in pochi minuti le ghirlande sono spoglie.
Lentamente ci incamminiamo.
Mi accosto a mia zia, camminandole accanto. Di mio marito ho perso le tracce, ma non mi curo di cercarlo. Avrebbe potuto raggiungermi in qualunque momento: sono sempre rimasta in prossimità del feretro.
Metto un piede davanti all’altro, sforzandomi di non pensare… la mia mente torna alla mattina di due giorni fa. Ero così eccitata mentre infilavo il mio nuovo cappottino di marca, dai colori accesi e gli stivali col tacco… Come ogni giorno ho portato i miei figli a scuola e mi sono incamminata verso il bar dove mi trovo con le amiche per bere un caffè prima di iniziare la giornata.
Nulla turbava la mia tranquilla routine.
Finché il telefono non ha squillato.
Era mio padre. Ricordo di ave pensato che fosse strano che mi chiamasse a quell’ora.
«Ciao, papà.» ho risposto.
«Ciao. Dove sei?» mi ha chiesto.
«Sto uscendo adesso dal cancello della scuola…» ho risposto in tono ovvio.
«Beh…. Vedi che la nonna è morta.» mi ha annunciato a disagio.
È stato come se mi avesse colpito un fulmine. Il cervello ha smesso di funzionare e il mondo mi è crollato addosso.
«Ah. Ok.»
Ho risposto come un’automa.
«Tuo fratello sta cercando di organizzarsi per andare all’ospedale.» ha aggiunto mio padre.
«Va bene. Allora digli di chiamarmi quando è pronto. Vado anche io.»
Sembrava tutto così irreale.
Ho interrotto la comunicazione e tutto attorno a me è diventato nero. Ho perso l’equilibrio perché le gambe hanno smesso di rispondere ai miei comandi. Sarei caduta a terra se alcune mamme non mi avessero sorretta.
Da lì in poi tutto è confuso…
Ricordo di aver chiamato mio marito per avvisarlo. E di aver telefonato a mia mamma per sapere come stava. Ma il resto è tutto annebbiato, fino all’arrivo in camera mortuaria.
Non scorderò mai l’effetto che mi ha fatto vederla là, sdraiata su quel lettino asettico, priva di vita.
Serena come se dormisse, le labbra leggermente curvate quasi stesse sorridendo, come a dirci di non preoccuparci, che andrà tutto bene.
E penso all’ultima volta che l’ho vista, una settimana fa, all’ospedale.
Era lucida, mi stringeva convulsamente la mano, facendomela tremare come la sua, e con occhi liquidi mi diceva di aver paura, che stava morendo e non voleva.
E pochi istanti dopo, si calmava appena e chiedeva di lasciarla andare, che non ce la faceva più perché soffriva troppo… per poi tornare a tremare e ricominciare ad aver paura.
Infine ci guardò tutti, uno alla volta, e ci mormorò semplicemente:
«Vulitivi bene.» come fosse un mantra.
E ora se n’è andata e non tornerà mai più.
Non riesco a credere che non sentirò più la sua voce, ruvida e dolce al tempo stesso; non posso immaginare che non s’intrometterà più nei nostri giochi, barando platealmente per vincere, facendoci ridere a crepapelle; non sentirò mai più le sue mani nodose accarezzarmi o stringermi forte a sé…
È inaccettabile, ma lo devo accettare.
Forse un giorno il dolore passerà, si attenuerà, diverrà sopportabile. Forse. Per ora no.
Adesso è uno squarcio in pieno petto, che mi dilania l’anima. Ma devo dirle addio.
Lancio un’occhiata alle mie spalle, al campo 20, e a fior di labbra mormoro appena:
«Ti voglio bene nonna Concetta.»
   
 
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