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Autore: madelifje    28/07/2015    7 recensioni
Kajdena sapeva che non avrebbe dovuto lasciarsi coinvolgere. Una ladra balbuziente esiliata dal popolo ignjs non è fatta per questo genere di cose. La sua vita era già abbastanza miserabile anche senza le spie, i pirati, le leggende, i complotti, le maledizioni, le profezie scomode, le alleanze discutibili e gli omicidi.
Avrebbe dovuto scappare quando ancora poteva farlo.
Prima di finire nel posto sbagliato al momento sbagliato, cercando di scappare dalle schiere della Caccia Selvaggia.
Prima che la sua migliore amica ricevesse l'avvertimento che le avrebbe cambiato la vita.
Prima che uno degli otto consiglieri venisse brutalmente ucciso e Alles finisse sull'orlo della guerra.
Prima, perché adesso è tardi.
-
«Un uomo mi ha seguita, oggi. Come faccio a sapere che non l’hai mandato tu?»
«Lo sai e basta», disse Nioclàs con un sorriso. E il lampo di paura che attraversò gli occhi di quella ragazzina bionda glielo confermò.
-
Kaj deglutì, chiamando a raccolta tutto il poco coraggio che possedeva. La situazione era anche più assurda del previsto. Doveva fuggire, possibilmente in fretta. Perdi tempo
«Q-quest’agenzia non ha un n-nome?»
«Ce l’ha», disse pacatamente Occhi Verdi, «"Agenzia"».
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Se sapeste da quanto tempo lavoro a questo progetto e quanto sia importante per me, forse capireste la mia ansia all'idea di pubblicare. Dopo praticamente un anno di ricerche apparentemente assurde, di schemi, di elenchi puntati, di appunti, di continue riscritture... eccomi qua. Lo dico sempre, ma stavolta ho davvero davvero davvero bisogno dei vostri pareri perché è in assoluto il progetto più grande e ambizioso in cui mi sia mai lanciata. Per assurdo, penso che potrebbe funzionare. Saranno capitoli lunghi, ci saranno vari personaggi e var pov. Non sono George Martin, ma ci voglio provare. Non sarà facile, lo so, ma mi sono già affezionata a tutti questi personaggi e voglio arrivare fino alla fine. La struttura di questa realtà diventerà più chiara già a partire dal prossimo capitolo, ma in questo prologo ci sono un sacco di elementi fondamentali. 
Per iniziare a orientarvi:
Alles è composto da quattro regni: la Terra Ignjs, abitata dal popolo del fuoco - la Terra Crèhl, del popolo della terra - la Terra Vaya, popolo dell'aria - la Terra Laekur, popolo dell'acqua. Ogni regno ha la sua capitale, forma di governo e lingua, ma sono tutti sotto la Città Indipendente di Frey, governata dagli otto consiglieri, in cui le etnie si mischiano.
Quando dicevo che è lunga non scherzavo affatto, vi ho avvertiti.
Detto questo, mettetevi comodi e buona lettura :)

  




Prologo: La ladra
 



 
Se qualcuno fosse passato davanti al numero 48 della via principale di Flahm, in quella tiepida sera di settembre, non avrebbe notato nulla di strano. Probabilmente non avrebbe nemmeno degnato di una seconda occhiata quella grande villa che sovrastava tutte le altre. Una coppia di doberman vigilava attenta all’ingresso, il vialetto era illuminato da piccole lanterne e il prato sembrava essere stato appena tagliato. Tutto pareva assolutamente normale. Dopotutto, l’intrusa sapeva fare bene il suo lavoro.
Era passata dal retro, arrampicandosi su per il muretto e saltando giù, senza fare il minimo rumore. Non sapeva dell’esistenza di un terzo cane, che sonnecchiava sulla terrazza, ed eluderlo era stata la parte più difficile. Ci era riuscita, ovviamente. Il popolo del fuoco chiamava quelli come lei senka plesak, “danzatori dell’ombra”, il silenzio era il loro marchio distintivo. A quel punto aveva raggiunto una delle finestre del seminterrato e si era accinta a scassinare la persiana. Lì erano iniziati i problemi.
Doveva assolutamente entrare prima delle sette e mancava un minuto.
Funzionava così.
Non importava cosa tu stessi facendo, quanto importante fosse o quante precauzioni prendessi. Le sirene iniziavano a ululare alle sei e cinquanta, come promemoria – benché inutile – prima dell’assoluto silenzio delle sei e cinquantanove.  Immediatamente tutti spegnevano le luci e sbarravano porte e finestre. Se, malauguratamente, ti trovavi ancora per strada, riuscivi a vedere il cielo tingersi di rosso. Allora sapevi di non avere scampo. Non potevi pensare di contrastarla senza le giuste armi e alle sette tutte le raygun smettevano di funzionare. La maggior parte delle persone incolpava la Nebbia. Rossa, impregnata di magia, calava sulle città lasciandosi dietro solo il nulla. Il nulla e la paura.
Era lo squillo di trombe che annunciava il loro arrivo, si sapeva. Le sirene erano una precauzione, la Nebbia l’ultimo avvertimento. Scappa, diceva.
Alle sette passava la Caccia Selvaggia.
Il pugnale non le sarebbe servito a un granché. Era una questione psicologica, tenerlo nella tasca interna del giaccone le dava sicurezza. Suo padre le aveva insegnato a usarlo quando aveva appena dieci anni e passava i pomeriggi a lavorare con lui in officina. “Solo se sei veramente in pericolo” le aveva detto. Otto anni dopo, non aveva mai avuto il coraggio di usarlo. Ogni giorno si riproponeva di cercarsi un nuovo lavoro, spacciandola per un’impresa facile. Probabilmente non ne avrebbe trovato uno altrettanto redditizio – ti pagano bene, se corri costantemente il rischio di farti ammazzare o peggio – ma almeno avrebbe potuto evitare di girare armata.
Quella sera era iniziata male. Quando era uscita, la Nebbia era già calata quasi del tutto e le sirene stavano per iniziare a suonare. In strada c’era qualche altro ritardatario, che aveva dato per scontato che quella figura incappucciata stesse saggiamente correndo al rifugio e non l’esatto opposto.  Lei contava di arrivare alla residenza del consigliere per le sei e cinquantaquattro e di riuscire a entrare in circa due o tre minuti. Le cose non stavano andando secondo i piani.
La casa di Poljak non era lontana dalla sua, perciò non si spiegava come avesse fatto a metterci così tanto. Il proprietario era uno dei consiglieri del re, un uomo importante, che in quel momento avrebbe dovuto trovarsi a palazzo, per il Concilio della festa del dio Vulkan. In teoria. Ammesso che il suo segretario le avesse detto la verità. Sarebbe stato il colmo riuscire a sopravvivere alla Caccia solo per ritrovarsi tra le braccia delle guardie del corpo di Poljak.
Non appena si fu inginocchiata davanti alla finestra, le sirene tacquero. La Nebbia divenne improvvisamente più densa e il cuore della ladra mancò un colpo. Stavano arrivando. 
A Frey aveva comprato una specie di grimaldello che, a detta dell’inventore, era in grado di scassinare qualsiasi cosa. Finora aveva sempre funzionato e la ragazza non aveva un piano di riserva. Peccato che adesso non riuscisse a trovarlo.
Provò ancora a frugare nella sacca, ma era troppo buio perché riuscisse a vedere qualcosa. Avrebbe affrontato la Caccia Selvaggia armata solo di un pugnale.
Dèi, si sentivano già le trombe.
Avvertì un’ondata di panico, accompagnata dal fischiare delle orecchie e dal tremare delle mani.
Le urla di guerra erano sempre più vicine… Imprecando, la ladra rovesciò il contenuto della sacca per terra. L’artiglio, come lo chiamava lei, rimbalzò sulla punta dei suoi scarponi, lo afferrò in una frazione di secondo e si mise subito al lavoro.  A questo punto non le importava più di non fare rumore e i cani erano troppo impegnati ad abbaiare per curarsi di lei. Quando la persiana cedette, colpì più volte il vetro della finestra con il gomito fino a mandarlo in frantumi; infilò dentro la mano, fece scattare la maniglia e aprì. Buttò la sacca sul pavimento del seminterrato e saltò giù, proprio mentre i guerrieri della Caccia raggiungevano il giardino di villa Poljak.
La danzatrice dell’ombra tirò un mezzo sospiro di sollievo.
 
Si avventurò in un paio di stanze prima di trovare le scale. Schizzò al piano terra e quindi proseguì fino al primo. Se le piantine che si era procurata non erano errate, lo studio del proprietario avrebbe dovuto essere lì. E la cassaforte avrebbe dovuto essere nascosta da una libreria, sul lato opposto alla finestra. Lo sapeva bene, spiava la villa da settimane.
Trovò lo studio in pochissimo tempo, nonostante la casa fosse immensa. Corrugò la fronte davanti a una spia rossa che lampeggiava nel corridoio, ma sapeva di non avere abbastanza tempo per occuparsi anche di quello. Entrò nello studio. Era in perfetto ordine, senza fogli accartocciati sulla scrivania o libri fuori posto. C’era odore di legno e di cuoio e la brace del camino non era ancora del tutto spenta. L’unico problema era la libreria. La stessa libreria per cui lei era venuta fin lì.  La libreria che avrebbe dovuto coprire la cassaforte, non essere addossata all’angolo della stanza. Che Poljak, il paranoico consigliere Poljak, si fosse dimenticato di rimetterla al suo posto? Era altamente improbabile, ma poteva essere. Grazie a una telecamera posta nell’angolo della finestra dello studio, aveva avuto modo di memorizzare la combinazione, per cui non avrebbero dovuto esserci problemi. Le avevano fatto risparmiare un po’ di tempo.
Inserì il primo numero, solo allora capì.
Capì che Poljak non avrebbe mai lasciato in bella vista la sua cassaforte segreta, che la spia rossa nel corridoio poteva essersi attivata per un solo motivo e che quella storia non sarebbe andata a finire bene.
Tutti i sensori smettono di funzionare durante la Caccia Selvaggia, quindi la spia – che serviva appunto per le emergenze – doveva essersi attivata prima. Qualcun altro si era introdotto nella villa quella stessa sera. Quel qualcuno aveva fatto scattare l’antifurto. Poi era iniziato il coprifuoco delle sette, l’allarme doveva essersi confuso con le sirene, prima di cessare a causa della Nebbia. Nell’arco di tempo compreso tra il momento in cui Poljak era uscito di casa – cioè le sei e quarantasei – e le sette di sera, l’intruso aveva trovato la cassaforte. Quindi era iniziata la Caccia ed era arrivata lei.
L’intruso non poteva avere avuto il tempo di uscire.
Ciò significava che la danzatrice dell’ombra non era sola al numero 48 della via principale di Flahm.
Un brivido le attraversò tutta la colonna vertebrale. Tirò fuori il pugnale, lasciò perdere la cassaforte e agguantò tutte le cose che sembravano avere un minimo di valore, quindi corse fuori dalla stanza e giù per le scale.
Successe tutto troppo in fretta. La colpirono agli stinchi e cadde in avanti. Cercò allora di girarsi in posizione supina, in modo da potersi difendere meglio, ma qualcuno le stava immobilizzando le gambe. Provò con i calci e uno andò a segno. Si sentì un’imprecazione in lingua créhl e una voce maschile che gridava al compagno di non mollare la presa. La ladra si dibatté ancora, ma il suo avversario era troppo forte e la teneva schiacciata contro il pavimento. 
«Non si arrende, ‘sta stronza», borbottò il créhl. Lei si preparò a tirare un altro calcio, ma l’altro la colpì alla nuca e tutto sprofondò nell’oscurità.
 

 
***


 
Nioclàs era riuscito a conquistare un divanetto di pelle, zigzagando tra la massa di corpi che ballava, rideva e beveva. Si era seduto reggendo un cocktail in una mano e il comunicatore nell’altra. Non aveva ancora trovato la persona che stava cercando, ma era solo questione di tempo. Era sulle tracce di quella ragazza da due settimane e finalmente aveva qualcosa di concreto: la conferma all’invito della festa di tale Boran Matic, un ragazzo ignjs, la sera del dodici settembre. Lui, l’invito, non ce l’aveva, ma sperava che nessuno glielo chiedesse. Bastava mimetizzarsi e magari bere qualcosa a scrocco. La ragazza sarebbe arrivata. Doveva arrivare.
 
 
 
Dilara Eirdottir arrivò alla festa di Boran Matic con soli diciassette minuti di ritardo, sicura che non se ne sarebbe accorto nessuno. Sventolò l’invito davanti all’automa che fungeva da buttafuori e si tuffò nella mischia. La sua amica Kaj le aveva tirato pacco, così non le restava che individuare Hilma e Lorcàn.
La festa era nell’attico del ragazzo, il quale, da bravo ignjs, voleva rendere omaggio a modo suo al dio Vulkan. A dire la verità, lui e Dilara non si erano mai rivolti la parola. Aveva ricevuto l’invito per vie traverse – Hilma – e aveva accettato solo perché non aveva niente di meglio da fare.
Trovò i suoi amici dopo neanche cinque minuti. Erano all’angolo bar, con un altro automa che serviva loro un drink. Lorcàn vide Dilara e le fece degli ampi cenni con le braccia per attirare la sua attenzione, come se lei non li avesse visti, e la invitò a raggiungerli.
«Dilara!» Hilma la baciò sulla guancia. «Ci sono tre consumazioni gratis! Tre!»
Dilara rise per il suo entusiasmo e si fece servire della birra, quella buona ma dagli ingredienti incerti che producevano gli elfi.
Il locale era fantastico. Ampie vetrate dai telai in piombo decoravano le pareti altissime, la luce però non era sufficiente, così gli ignjs avevano dovuto ricorrere alle lampade a etere. Etere. Quanti soldi devi avere per sprecare l’etere nelle lampade? Nel suo appartamento, Dilara poteva a malapena permettersi l’olio. Nell’aria c’era odore di alcol e fumo, si vedevano già persone che si facevano aria con le mani per scacciare il caldo. Non erano ancora arrivati tutti i partecipanti, infatti c’erano ancora dei divanetti in pelle liberi. Dopotutto, Dilara non era così in ritardo.
«Kaj?» domandò Lorcàn.
Dilara roteò drammaticamente gli occhi. «Indovina», borbottò, «lavora.»
«Pensavo avesse superato quella fase…»
Anche Dilara, ma non lo disse. Kaj ultimamente era più introversa del solito e lei non osava tirare fuori L’Argomento. Sapeva quanto fosse difficile per la sua amica, tuttavia non riusciva a mettersi nei suoi panni. Era stata sfortuna, forse, qualcosa che nessuna di loro due poteva cambiare. Kaj doveva solo imparare ad accettarsi.
Hilma spostò i capelli da un lato, rivelando il simbolo laekur tatuato sul collo di cui andava tanto fiera, e Dilara si chiese se avrebbe mai visto Kaj compiere un movimento del genere.
Decisa a togliersi quei pensieri tristi dalla testa, si lasciò travolgere dalla musica. Non ballava benissimo, ma non le importava. In quel genere di feste nessuno stava a guardare come si muovevano gli altri.
Hilma si dimenava a tempo lì vicino, con il suo solito sorrisone stampato sulle labbra. Dilara la imitò. Forse poteva smettere di pensare a Kaj e godersi quella che si preannunciava la festa dell’anno. Forse. Quello che Dilara non sapeva era che quella festa le avrebbe cambiato la vita.
 
 
Nioclàs l’aveva vista passare di sfuggita, diretta probabilmente all’angolo bar, e non aveva avuto dubbi. Quella era la ragazza che stava cercando e per lui era arrivato il momento di agire.
 

 
***


 
La sconosciuta giaceva addormentata su una sedia di metallo, polsi e caviglie legati, all’interno della stanza degli interrogatori. I capelli neri e mossi le arrivavano circa alle spalle e coprivano solo in parte il suo volto. Era magra, lo si intuiva dai pantaloni aderenti neri, dal corpetto stretto e dal modo in cui la giacca grigia e larga le ricadeva sul busto. Ai piedi portava un paio di anfibi e uno dei due ragazzi – quello biondo con gli occhi di ghiaccio – si chiese se non avesse copiato quel tipo di abbigliamento dalle storielle che giravano sui ladri. Ridicola.
Lui e Klaus la tenevano d’occhio dall’altra parte del vetro antiproiettile, aspettando con una certa impazienza che si risvegliasse.
«Continuo a non capire perché tu l’abbia portata qui», buttò lì Klaus. Vide, dal riflesso sul vetro, le labbra di Lambert incresparsi in un sorriso enigmatico. Chissà cosa gli passava per la testa. Klaus si accese una sigaretta.
«Allora non l’hai guardata bene», fu la solita risposta sibillina.
«Cos’avrei dovuto guardare?»
«Il tatuaggio sul collo. Visto che non l’hai fatto, te lo dico io: è grigio». Klaus si accigliò, perfettamente consapevole di cosa significasse. Perché Lambert avrebbe dovuto catturare una Bandita di neanche vent’anni?
«Perché catturare una Bandita di neanche vent’anni?», domandò, stavolta a voce alta.
«Questa Bandita è riuscita a entrare nella casa del consigliere del re ignjs durante la Caccia Selvaggia e sarebbe anche riuscita a fare piazza pulita dei soldi, se non fossimo intervenuti noi».
Klaus finalmente capì, mentre l’espressione di Lambert mostrava tutta la sua soddisfazione.
«La vuoi reclutare», stabilì Klaus. «Ma cosa ti dice che non stesse facendo nella villa di Poljak quello che stavamo facendo noi?»
«Non lo so, Kalus», fece l’altro, serafico, «cosa è più probabile che stesse facendo una Bandita di neanche vent’anni nella villa di un uomo ricchissimo?»
Secondo Klaus, era stata ingaggiata da qualcuno. Lambert ammise che fosse possibile, l’aveva catturata anche per quello. Le avevano somministrato un sonnifero bello potente; la ragazza era rimasta fuori combattimento per tutto il volo da Flahm a Frey.
«Però con il Capo te la vedi tu», sbuffò infine Klaus. Lambert sorrise, stavolta per davvero, e gli diede una spallata.
«Come al solito, intendevi dire».
Klaus non fece in tempo a borbottare nulla, perché, con un lieve lamento, la prigioniera si svegliò.


 
***
 
 
Era già in quella fase della serata in cui la testa iniziava a pulsarle e i piedi le urlavano di fermarsi. Dilara però non voleva smettere di ballare. Probabilmente era colpa della birra che continuava a bere e di quell’automa che non la smetteva di mettere bella musica. C’era anche Lorcàn che baciava una ragazza con i capelli blu – mai vista prima – e Hilma che si disperava perché non riusciva a trovare nessuno. Una festa come le altre, quindi. Dilara le adorava.
A Hilma si avvicinò finalmente un ragazzo con i capelli chiari e Dilara prese la geniale decisione di lasciarli un po’ da soli. Si spostò verso il centro della pista e lì riprese a ballare, sentendo l’adrenalina scorrere nelle vene. Senza alcun dubbio una delle sensazioni più belle del mondo.
Un ragazzo alto e magro le si avvicinò un po’ troppo. «Vuoi ballare?», chiese con un sorrisetto. Dilara annuì. Lui le appoggiò le mani sui fianchi, intimandole di rilassarsi. Era carino, con dei bei lineamenti e due occhi piccoli ma espressivi. Si spostarono verso il lato opposto della sala rispetto a quello da dove Dilara era venuta, così lentamente che lei non se ne rese conto. Per cui, quando si ritrovò oltre gli ultimi divanetti, rimase interdetta per un secondo. Il ragazzo l’aveva prese per un polso e la stava trascinando lontano dagli altri. Aprì una portafinestra che Dilara non aveva notato e i due si ritrovarono su un piccolo terrazzo. Alla faccia dello spirito di iniziativa.
«Qui staremo più tranquilli», commentò il ragazzo. Schioccò le dita due volte e tutti i rumori provenienti dall’interno dell’attico sparirono. Dilara iniziò ad agitarsi.
«Come diamine hai fatto?» chiese, cercando di stare calma.
«È facile, se vuoi ti insegno», borbottò lo sconosciuto. Improvvisamente i modi di fare da “voglio baciarti fino a rimanere senza fiato” erano spariti, sostituiti da un’ansia e una fretta che spaventavano Dilara ancora di più, se possibile.
«Devi ascoltarmi», iniziò l’altro. «Mi chiamo Nioclàs Berne. Non sono stato invitato alla festa, non mi sono avvicinato a te perché mi piaci e non ho intenzione di farti del male. Quello che sto per dirti ti sembrerà assurdo, ma devi ascoltarmi senza interrompere fino alla fine. Chiaro?»
Dilara si chiese come avesse fatto a passare dalla festa a… quello, qualsiasi cosa fosse. Poi annuì. Non aveva esattamente altre alternative.
«Devi scappare. Lascia la città, cambia nome e non contattare la tua famiglia e i tuoi amici per nessuna ragione. Se vengono a cercarti, non andare dai Soldati».
«Ma chi dovrebbe-»
«Ascolta! Hanno trovato il ragazzo vaya. La prossima potresti essere tu. Se hai bisogno di me, questo è il mio numero». “Nioclàs” le passò un foglietto bianco con un numero di comunicazione stampato sopra. «Memorizzalo, poi assicurati di distruggere il messaggio. Se mi chiami, nascondi il tuo numero».
«Sei pazzo!» sbottò Dilara. «Non so di cosa tu stia parlando, forse ti sei solo sballato un po’ troppo. Di sicuro questo non ti autorizza a dirmi certe cose e-»
«Mi avevano detto che probabilmente non ne sapevi niente. Ma questo non è un gioco e non c’è più tempo. Devi andare via!»
«No! Io non vado da nessuna parte e, se provi ancora a rivolgermi la parola, mi metto a strillare». Dilara si divincolò dalle mani di Nioclàs e aprì la portafinestra, prima che lui potesse fare un altro dei suoi “giochetti”. I rumori erano ancora leggermente ovattati, ma iniziavano ad aumentare. Perché i tipi del genere dovevano per forza venire da lei? Dio, era tremendamente seccante. Si passò una mano tra i capelli, improvvisamente secchi e umidicci, e cercò di non apparire troppo sconvolta. Poi si buttò nuovamente nella massa.
Trenta secondi dopo aveva trovato Lorcàn, l’aveva separato dalla ragazza coi capelli blu e gli aveva detto di stare tornando a casa.
Il foglietto bianco con il numero di comunicazione sarebbe rimasto in tasca per molto tempo, lontano anni luce dai pensieri della ragazza.
Poverina, era solo l’inizio e non lo sapeva.
 
 
***


A Kaj faceva male la testa. Si trovava in una stanza asettica dai muri grigio chiaro, arredata solo da un tavolo di metallo e dalla sedia grigia a cui lei era legata. C’era poi uno specchio appeso a una delle pareti più lunghe e la ragazza era sicura che al di là di esso ci fosse qualcuno che la osservava. All’inizio non ricordava come fosse finita in quella situazione, poi le immagini della villa di Poljak le riaffiorarono alla mente. Era stata trovata dal padrone di casa? L’avevano arrestata? Oppure l’avevano catturata gli sconosciuti che si erano introdotti nella villa?
«E-Ehi! Lo so, c-che c’è q-qualcuno!» La ladra, la senka plesak, la Bandita che fingeva di non aver paura di niente balbettava. Non molto e non con le persone con cui era più in confidenza, ma era una cosa che odiava. Aveva imparato ad aspettare prima di parlare, quando era sicura che la propria voce non avrebbe esitato. Quella volta non fu così fortunata e, sicuramente, chiunque la stesse osservando pensò che fosse molto più spaventata di quanto desse a vedere – e non era vero, non ancora.
«V-Venite fuori!»
Nessuna risposta. Kaj cercò allora di liberarsi, scoprendo che quelle che le circondavano i polsi erano due manette piuttosto resistenti. Si dimenò, infiammandosi i polsi, e fu costretta a mordersi il labbro inferiore per non lamentarsi. Riuscì a far dondolare la sedia ma, invece di ritrovarsi in piedi, finì per cadere su un fianco. La porta si aprì cigolando.
«Cattiva idea», commentò il più alto dei due ragazzi che erano entrati. Aveva i capelli biondi non troppo corti e gli occhi più chiari che Kaj avesse mai visto. Era magro, con un giubbotto di pelle che metteva in risalto le spalle larghe. L’altro era più basso e minuto, con i capelli castani, la carnagione pallida e un paio di brillanti occhi verdi.
«Liberatemi», ringhiò Kaj.
«Quanta fretta!»
«Non vuoi neanche sapere chi siamo, Bandita?» Kaj si irrigidì a quell’appellativo. Cosa diavolo volevano da lei?
«Chi siete?» domandò allora con più calma, balbettando solo un po’ sulla “c”.
«L’Agenzia», rispose il castano.
«Tecnicamente per il Governo non esistiamo, in pratica lavoriamo per loro. Mai sentito parlare dei Servizi Segreti?» spiegò l’altro, con l’aria annoiata di chi ha ripetuto la stessa solfa decine di volte.
Perché le stavano raccontando tutto?
Kaj deglutì, chiamando a raccolta tutto il poco coraggio che possedeva. La situazione era anche più assurda del previsto, le conveniva pensare in fretta a un modo per fuggire.
Nel frattempo, decise che era meglio farli parlare. «Quest’agenzia non ha un nome?»
«Ce l’ha», disse pacatamente Occhi Verdi. «“Agenzia”. Non serve chiamarla in nessun altro modo. Immagino che anche tu abbia un nome…»
Kaj non sapeva cosa rispondere. Sembravano abbastanza sinceri, addirittura troppo. Che senso aveva portarla lì, legarla a una sedia e poi raccontarle la storia delle loro vite?
«Anna», rispose. Pessimo. Troppo, troppo comune e semplice.
Capelli Biondi sorrise. Non le credeva, Kaj avrebbe potuto giurarci.
«E cosa faceva una brava ragazza come te nella casa di Poljak, quattro ore fa?»
Quattro ore? Era passato davvero così tanto tempo? Il tranquillante doveva essere davvero potente.
«Mi hai chiamato “Bandita”, prima. Immagino tu lo sappia già», ribatté.
«In effetti sì», confessò lui. «Proprio per questo volevo proporti un patto».
Occhi Verdi lo guardò, forse stupito dalla sua franchezza. Sicuramente si erano preparati una linea d’azione e, altrettanto sicuramente, Capelli Biondi non la stava rispettando.
«Vieni a lavorare per noi». Kaj aprì la bocca e la richiuse immediatamente, per evitare di balbettare troppo. Quella era in assoluto l’ultima cosa che si sarebbe mai aspettata.
«Non penso che là fuori ci sia una fila di persone disposte ad assumerti, Anna», continuò l’altro, con quello che era veramente un colpo basso. «Allora?»
«N-Non lo so…» C’era sotto qualcosa. Doveva esserci sotto qualcosa. Non la conoscevano nemmeno!
«Perché io?» riuscì a chiedere.
«P-Perché, ragazzina», la scimmiottò, «se andassimo in giro a raccontare quello che è successo stasera, tu passeresti dei guai. Però, siamo impegnati in un progetto piuttosto serio e il tuo aiuto ci farebbe comodo».
Kaj rifletté. Avevano un secondo fine, quello era ovvio, per lei era fin troppo conveniente. Si era ridotta a rubare, santo cielo. Non aveva assolutamente nulla da perdere. Non avrebbe mai trovato niente di meglio. Non lei, non con quel tatuaggio sul collo.
«Potrei voler accettare», disse lentamente.
A Occhi Verdi scappò una risatina.
«Noi siamo Lambert», indicò il compagno, «e Klaus. Benvenuta.»
«State cercando di f-fregarmi?»
«Hai un debole per le domande ovvie, ragazzina».
La voglia di tirare un pugno sulla faccia pallida di Capelli Biondi aumentava ogni secondo di più. «Ok. Ci sto. Mi fate firmare un contratto?»
Probabilmente adesso sarebbero venuti a liberarla, ignorando la sua ironia. «Qual è questo progetto?» chiese Kaj a bruciapelo. Lambert tirò fuori una chiave e aprì le manette che la tenevano legata alla sedia. «Corri troppo, Anna.»
«Kajdena», mormorò lei.
«Come?»
«Il mio vero nome è Kajdena Jozic».
Il sorriso sul volto di Capelli Biondi si allargò trionfante.








 
  
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