Nick autore sul Forum e
su EFP: yingsu
Pacchetto + prompt utilizzati: Gabriele d’Annunzio, prima e seconda
citazione.
Titolo storia: Genio et
voluptati.
Fandom:
D.Gray-Man.
Personaggi + eventuali
coppie: Tyki Mikk, Lavi Bookman Jr, Bookman + Tyki/Lavi (Lucky).
Genere: Malinconico,
Storico, Romantico.
Avvertimenti: AU, Lime.
Note: Eccomi qui, ho un
po’ di cose da dire, quindi ci terrei che le note venissero lette
diligentemente.
Innanzitutto ho pensato
di fare un AU nell’Ottocento in cui Lavi fosse il nipote adottivo di Bookman, mantenendo il fatto che per lavoro siano costretti
a viaggiare parecchio, mentre Tyki è semplicemente un
eccentrico esteta dell’epoca a cui piace divertirsi.
Forse per un AU del
genere sarebbe servita una mini-long (che probabilmente svilupperò e scriverò),
ma avendo un limite di parole potevo solo fare ciò che ho fatto, quindi mi
tocca spiegarvi un po’ la storia generale.
L’idea è che Bookman e Lavi arrivino in una zona di montagna situata in
nessun posto ( ho preferito non contestualizzare il luogo, immaginatevelo dove
volete, insomma) e che siano ospiti di una vecchia amica di Bookman.
Qui Lavi conosce Tyki, uno dei tanti rappresentati
della borghesia/nobiltà dell’epoca, e attratto dai cimeli storici e
dall’immensa biblioteca della villa di questo uomo incomincia a passare del
tempo con lui. Inutile stare a dire che finiscono con l’avere dei rapporti
sessuali e che incominciano una relazione basata principalmente sul sesso,
oltretutto illegale a quell’epoca.
Detto questo devo fare
un po’ di precisazioni, la camera da letto di Tyki è
basata su quella di Gabriele d’Annunzio, la famosa Stanza della Leda, così come il resto dei riferimenti alla villa
vengono ripresi dal Vittoriale degli Italiani, posto fantastico che consiglio vivamente
di visitare.
Il titolo è il motto
inciso sulla porta della camera di d’Annunzio, e significa “Al genio e al piacere”.
Per quanto riguarda la
prima parte della fan fiction ho cercato di riprendere il tema centrale de “La pioggia nel pineto”, utilizzando sia
il pineto che la pioggia come ambientazione, ma anche il tema del Panismo. Spero che sia tutto chiaro e
che non sia una totale schifezza.
Lavi non è un bookman, quindi ho cercato di far diventare le
caratteristiche dei bookman parte del suo carattere,
così come Tyki non è il Noah
del piacere, ma rendendolo un esteta penso che sia giustificabile la sua
passione per la seduzione e per ciò che è bello.
Ora sparisco, lo giuro.
Buona lettura!
«Arrivi portando brividi e scappi
lasciando lividi».
— L’amore eternit – Fedez feat. Noemi.
«Perché siete fuggita? Nike, non
volete essere il mio grande amore? Il solo coraggio vi manca perché non avete
mai sentito tutto il mondo dentro di voi, non avete mai appartenuto a voi
stessa. […] Vi amo. Vi amo. E di questo amore e in questo amore sono folle e
smarrito».
—
Lettera scritta ad Alessandra Carlotti di Rudinì.
Una goccia d’acqua gli
sfiorò la guancia mentre la mano di Tyki gli accarezzava
il petto, percorrendo la strada che aveva inciso sulla sua pelle con le labbra.
Non aveva il coraggio di dirgli che stava incominciando a piovere, di fermare
quelle carezze sul suo corpo, sotto quell’alto e imponente pino che non aveva
fronde abbastanza grandi da nasconderli.
Il respiro caldo vicino
alla sua coscia lo fece tremare, unito alla pioggia che gli toccò la spalla e
poi il collo, come dita di mani invisibili che lo facevano sussultare, aiutando
Tyki a strappargli quei sospiri che faticava a
contenere.
«Piove» mormorò mentre
stringeva quei ricci scuri, morbidi sui polpastrelli, incominciavano ad
inumidirsi per via dell’acqua che cadeva con sempre più insistenza, scivolando
sulle foglie prima di precipitare sui loro corpi. Non ottenne risposta, l’erba
sotto il suo corpo era fredda, si appiccicava ai suoi talloni, allacciandogli
le caviglie come bracciali.
Pioveva. Lo sentì sul
petto e la fronte, fra i capelli bagnati mentre ogni goccia scivolava sul suo
viso, incastrandosi fra le sue ciglia prima di diventare una lacrima,
incollandosi alla schiena di Tyki come le sue mani,
strette sulle spalle in un gesto di convulso piacere.
Pioveva e sembra una
musica lontana, il canto degli alberi che li circondavano e avvolgevano con il
loro manto verde e fresco, mentre il vento suonava fra le frasche, ululava fra
le chiome. Sentì quella bocca mordergli il labbro, baciargli la guancia e le
tempie, catturare ogni perla sulla sua pelle bianchissima costringendolo a
pregare, e ogni sua parola restava sospesa, diventava parte di quella nenia che
gli accarezzava l’udito, che lo convincevano che non ci fosse nulla di
sbagliato in tutto quello, che l’amore non era così brutto come gli avevano
detto, e che il cuore che pulsava nel suo petto seguendo il ritmo incessante di
quel temporale estivo aveva il diritto di gridare.
Guardò il viso di Tyki, gli scostò indietro quei ricci pregni d’acqua mentre
le sue labbra appena schiuse sfioravano le sue, lisce come petali di un fiore
macchiato di rugiada. Sembrava piangesse anche lui mentre pioveva sulle sue
ciglia nere, mentre la sua voce carica di quell’accento straniero chiamava
lentamente il suo nome marchiandolo, deformandogli l’anima per renderla il suo
perfetto incastro.
Le mani sui suoi
fianchi lo stringevano con una forza tale da fargli quasi male, a tratti gli
accarezzavano vecchi lividi sul petto, segni violacei sulle clavicole che aveva
faticato a nascondere. Tyki lo plasmava poco a poco,
lo mordeva e lo baciava, gli segnava la pelle come a volergli ricordare che
fosse di sua proprietà, e che chi sarebbe venuto dopo avrebbe visto ogni sua
impronta, avrebbe sentito il profumo di arancia su tutto il suo corpo.
La pioggia alimentava
l’incendio della sua carne, poteva immaginare le piante bruciare come stava
facendo lui, all’interno, minuscoli focolari accesi dentro la corteccia, dove
l’acqua non avrebbe potuto spegnerli, dove si sarebbero alimentati fino a
quando non avrebbero consumato tutto quanto.
L’amore era un mostro e
lo stava divorando. Sarebbe andato a fuoco, l’acqua non lo avrebbe dissetato.
Sarebbe appassito anche lui, morto come i fiori di campo arsi dai raggi del
primo sole di Agosto.
Lavi entrò in casa
mentre la signora che li ospitava trillò come un campanello, osservandolo
mentre si sfilava la giacca fradicia. Riusciva a intravedere il ciuffo del
Vecchio, sbucava dalla poltrona, si vedeva solo quello.
«Oh cielo!» affermò
mentre lui cercava di non gocciolare sul tappeto dell’ingresso, «Così vi
prenderete un malanno» aggiunse, ordinando poi ad una cameriera di preparare un
bagno caldo per il signorino. Lavi si sfilò il cravattino allacciato male
attraversando il soggiorno, il Vecchio sembrava serio e arrabbiato mentre lo
scrutava, fissando ogni più piccolo dettaglio del suo abbigliamento,
probabilmente incominciando dalla camicia allacciata male che sbucava dal
panciotto slacciato.
«Non ho preso
l’ombrello» provò a giustificarsi, ma quello che era diventato il suo nonno
adottivo da quando ne aveva memoria emise un verso gutturale – sembrava che
stesse per soffocare, ma probabilmente aveva solo da ridire sulla sua banale
scusa.
«Dove sei stato, Lavi?»
il tono inquisitorio con cui gli pose quella domanda lo fece rabbrividire più
del freddo che incominciava a farsi strada anche dentro il suo corpo. Sapeva
che se non si fosse asciugato e lavato in fretta probabilmente sarebbe rimasto
lì tutta la notte, impedendogli di dormire bene, senza brividi.
«A fare un giro» gli
rispose passandosi una mano fra i capelli bagnati, e il Vecchio sospirò
passandosi una mano sul viso, vicino a quelle occhiaie scure che lo facevano
sembrare un panda. Erano in quella tenuta di campagna da almeno tre mesi, ed
era evidente che fosse più che stufo di ogni sua improvvisa e duratura
scomparsa.
«Siamo venuti qui per
studiare e lavorare in pace, non per fare giri e conversazioni con il Signor Mikk» lo ammonì alzandosi dalla poltrona, avvicinandosi a
lui con quella sua pipa dall’odore insopportabile fra le labbra.
Lavi era certo che
sapesse, ma non quanto. Poteva semplicemente pensare che si fosse aggregato
alla bella vita di quell’uomo che aveva la sua villa oltre il bosco, che lo
seguisse nei suoi bordelli, a fumare oppio con belle donne succinte, ma non ne
era poi così certo. Il modo in cui lo fissava sembrava ripetergli quanto fosse
malsano e sbagliato, che una semplice denuncia sarebbe bastata per far finire
entrambi in prigione. Una sola parola di troppo da parte di qualcuno li avrebbe
condannato entrambi, e forse era proprio perché era a conoscenza di quello che
succedeva che aveva anticipato la loro partenza all’indomani.
«Lo so» sorrise al
Vecchio che lo guardava sbuffando il fumo dall’angolo delle labbra, «Dopo cena
devo restituirgli un libro» spiegò incamminandosi verso le scale che portavano
al piano superiore, «Non ci metterò molto, e poi mi pare il minimo
ringraziarlo, dato che vuoi partire domani» aggiunse poggiandosi al corrimano,
e le sopracciglia del vecchio si aggrottarono in un’espressione di muto
disappunto.
«Lavi» lo chiamò poi,
bloccandolo a metà della rampa, costringendolo a voltarsi «A volte anche il
cigno più bello nasconde ali nere sotto le piume» gli disse prima di dargli le
spalle, tornando a sedersi sulla sua poltrona.
Lavi inspirò
profondamente socchiudendo l’occhio, l’odore di tabacco e sesso sembrava aver
impregnato le lenzuola di seta ricamata che lo avvolgevano. Era rimasto anche
sulle dita di Tyki, incollato ai polpastrelli che gli
sfioravano il viso disegnandogli il profilo del naso, sembravano fatti di carta
mentre lo toccavano, dipingendo strani arabeschi sulla sua pelle sudata.
Gli sarebbero mancati.
Era la prima volta che
scivolava in quel letto, che entrava in quella stanza. Non avevano mai fatto
l’amore lì, quella villa era talmente grande che Tyki
si era potuto permettere una stanza apposita solo per i suoi passatemi
notturni, e quando era entrato in camera non aveva avuto tempo materiale per
osservare quel calco di Michelangelo, e nemmeno per posare gli occhi sul
magnifico cigno in gesso sul caminetto. Era bellissimo, tendeva il becco verso
una donna come se avesse voluto baciarla, abbracciandola con le sue imponenti
ali.
«Ti piace?» la voce di Tyki aveva sempre quel tono sensuale che gli scioglieva il
petto, lo rendeva molle com’era successo quel pomeriggio nel pineto, ebro di
pioggia, di lui.
Lavi annuì incontrando
il suo sguardo, «Sono Leda e Giove» disse facendo riferimento al mito,
ricordando che sopra la porta in legno di quella camera da letto aveva visto il
motto “Genio et voluptati”,
«Al genio e al piacere» tradusse mentre sul volto di Tyki
sbocciava un sorriso che colorava quei petali di un rosa più intenso, tendente
al rosso.
L’uomo non gli rispose,
le sue labbra si posarono semplicemente sulla sua clavicola scendendo poi sul
cuore che perse un battito sotto quel tocco leggero.
I mobili erano tutti in
stile orientale, Lavi li aveva visti durante l’ultimo viaggio in Cina con il
nonno, così come gli elefanti in maiolica. Aveva viaggiato abbastanza da
riuscire a dare un luogo di provenienza a tutte quelle cianfrusaglie che
riempivano la stanza, ma non a Tyki. Lui sembrava
arrivare da mille posti, il suo accento aveva il suono di una canzone di cui
non riusciva a ricordare il titolo, la sue pelle profumava di agrumi, e ogni
volta che lo baciava avrebbe potuto giurare di averlo già fatto prima in
qualche altro luogo desolato della terra.
Era come avere davanti
un’opera d’arte dallo stile inconfondibile, essere certo di aver già visto
quello stile inconfondibile, ma non conoscerne l’autore.
Gli scostò un lungo
riccio nero dietro la spalla, attorcigliandoselo attorno all’indice prima di
abbandonarlo, pensando e ripensando a come gli avrebbe detto che se ne sarebbe
andato, che per quanto avesse desiderato che il loro rapporto proseguisse aveva
il folle timore che crescesse e che si sarebbe tramutato in una malsana
dipendenza che avrebbe portato entrambi in carcere. L’amore faceva paura, farsi
inghiottire da un sentimento, abbandonarsi a una persona completamente e
interamente lo terrorizzava.
Voleva scappare, ma
voleva restare. Voleva restare con lui, ma non voleva amarlo. Voleva che Tyki lo amasse, ma che lo lasciasse andare.
Tese una mano ad
accarezzargli i capelli, deciso a memorizzarne la consistenza sotto le dita, a
imparare a memoria il luogo di ogni singolo neo che gli macchiava la pelle,
partendo da quello sotto l’occhio fino ad arrivare a quello minuscolo sul
fianco sinistro. «Parto…» ammise in un
sussurro, come se fosse un segreto, se il tono alto della voce avesse potuto
rendere più doloroso quel discorso che non aveva assolutamente voglia di
affrontare.
Tyki
inarcò il sopracciglio posandogli la mano sull’addome, «A fine mese, me lo hai
già detto».
«Veramente domani
mattina» lo corresse posando la mano sopra la sua, e l’espressione di Tyki si tese per una frazione di secondo.
«Bene» si limitò a
dire, e poi lo spinse con la schiena sul materasso mettendosi a carponi su di
lui.
Non era bravo a mentire
che non gli importasse, che non c’era altro fra loro se non semplice sesso. Non
era bravo come lui, Tyki.
Ogni bacio gli sapeva
di addio, ogni sospiro o mormorio, la sua pelle contro le sue labbra, le sue
dita nella schiena. Tutto. Tutto quanto urlava un addio.
Era insopportabile, il
modo disperato in cui si toccavano gli faceva quasi male, lo feriva, gli
macchiava la pelle di lividi e graffi che sarebbero spariti in una settimana,
che non sarebbero serviti a ricordare quello che avevano passato in quei mesi.
L’amore era un mostro,
e a lui gli aveva venduto il cuore.
Tyki
osservò il liquido smeraldo ondeggiare nel bicchiere mentre la carrozza attraversava
il viale davanti alla sua villa, allontanandosi carica di valige.
Gli sembrava di aver
perso qualcosa, di aver dimenticato un pezzo di sé su quel corpo madreperla che
non avrebbe mai più rivisto.
Poteva immaginarlo
ancora lì, la prima volta che si erano incontrati, seduto sulla poltrona
accanto a suo nonno, il cravattino allacciato male e i capelli rossi
spettinati. Aveva un che d’intrigante, il fascino di una statua greca, e lui lo
aveva voluto, aveva desiderato che fosse suo, esattamente come gli altri
oggetti preziosi della sua collezione.
Voleva lui, ma adesso
che se n’erano andato gli sembrava di non aver avuto mai niente.
Si portò il bicchiere
alle labbra mentre la carrozza spariva dalla sua visuale, e poi sistemò la
tenda tornando verso il suo studio, certo di avergli rubato qualcosa
d’infinitamente prezioso, qualcosa che prima o poi sarebbe venuto a
riprendersi.
Lavi poggiò la testa al
vetro mentre il Vecchio lo guardava in silenzio, cercando di capire che cosa
gli passasse per la testa.
«Il Portogallo ti
piacerà, vedrai» gli disse senza troppe pretese, «È meglio così».
Lavi si chiese per
l’ennesima volta quanto sapesse, se lo aveva sentito rientrare all’alba, se
aveva visto i graffi sul suo corpo, i segni lividi di quella bocca sulla sua
spalla. Non era certo di volerlo sapere, così come non voleva ammettere che più
la carrozza si allontanava, più lui si sentiva dannatamente incompleto e
infelice, ma non spaventato.
Non aveva più paura.