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Autore: yingsu    29/07/2015    0 recensioni
"«Sono Leda e Giove» disse facendo riferimento al mito, ricordando che sopra la porta in legno di quella camera da letto aveva visto il motto “Genio et voluptati”, «Al genio e al piacere» tradusse mentre sul volto di Tyki sbocciava un sorriso che colorava quei petali di un rosa più intenso, tendente al rosso."
• piccolo esperimento Lucky | AU!1800 |
Partecipa ma non gareggia al Contest "Briciole di Letteratura" indetto da Radioactive sul Forum di Efp.
Genere: Malinconico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Bookman, Rabi/Lavi, Tyki Mikk | Coppie: Tyki/Rabi
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Nick autore sul Forum e su EFP: yingsu

Pacchetto + prompt utilizzati: Gabriele d’Annunzio, prima e seconda citazione.

Titolo storia: Genio et voluptati.

Fandom: D.Gray-Man.

Personaggi + eventuali coppie: Tyki Mikk, Lavi Bookman Jr, Bookman + Tyki/Lavi (Lucky).

Genere: Malinconico, Storico, Romantico.

Avvertimenti: AU, Lime.

Note: Eccomi qui, ho un po’ di cose da dire, quindi ci terrei che le note venissero lette diligentemente.

Innanzitutto ho pensato di fare un AU nell’Ottocento in cui Lavi fosse il nipote adottivo di Bookman, mantenendo il fatto che per lavoro siano costretti a viaggiare parecchio, mentre Tyki è semplicemente un eccentrico esteta dell’epoca a cui piace divertirsi.

Forse per un AU del genere sarebbe servita una mini-long (che probabilmente svilupperò e scriverò), ma avendo un limite di parole potevo solo fare ciò che ho fatto, quindi mi tocca spiegarvi un po’ la storia generale.

L’idea è che Bookman e Lavi arrivino in una zona di montagna situata in nessun posto ( ho preferito non contestualizzare il luogo, immaginatevelo dove volete, insomma) e che siano ospiti di una vecchia amica di Bookman. Qui Lavi conosce Tyki, uno dei tanti rappresentati della borghesia/nobiltà dell’epoca, e attratto dai cimeli storici e dall’immensa biblioteca della villa di questo uomo incomincia a passare del tempo con lui. Inutile stare a dire che finiscono con l’avere dei rapporti sessuali e che incominciano una relazione basata principalmente sul sesso, oltretutto illegale a quell’epoca.

Detto questo devo fare un po’ di precisazioni, la camera da letto di Tyki è basata su quella di Gabriele d’Annunzio, la famosa Stanza della Leda, così come il resto dei riferimenti alla villa vengono ripresi dal Vittoriale degli Italiani, posto fantastico che consiglio vivamente di visitare.

Il titolo è il motto inciso sulla porta della camera di d’Annunzio, e significa “Al genio e al piacere”.

Per quanto riguarda la prima parte della fan fiction ho cercato di riprendere il tema centrale de “La pioggia nel pineto”, utilizzando sia il pineto che la pioggia come ambientazione, ma anche il tema del Panismo. Spero che sia tutto chiaro e che non sia una totale schifezza.

Lavi non è un bookman, quindi ho cercato di far diventare le caratteristiche dei bookman parte del suo carattere, così come Tyki non è il Noah del piacere, ma rendendolo un esteta penso che sia giustificabile la sua passione per la seduzione e per ciò che è bello.

Ora sparisco, lo giuro.

Buona lettura!

 



 

«Arrivi portando brividi e scappi lasciando lividi».

L’amore eternitFedez feat. Noemi.

 

 

«Perché siete fuggita? Nike, non volete essere il mio grande amore? Il solo coraggio vi manca perché non avete mai sentito tutto il mondo dentro di voi, non avete mai appartenuto a voi stessa. […] Vi amo. Vi amo. E di questo amore e in questo amore sono folle e smarrito».

— Lettera scritta ad Alessandra Carlotti di Rudinì.

 

 

 

 

 

Una goccia d’acqua gli sfiorò la guancia mentre la mano di Tyki gli accarezzava il petto, percorrendo la strada che aveva inciso sulla sua pelle con le labbra. Non aveva il coraggio di dirgli che stava incominciando a piovere, di fermare quelle carezze sul suo corpo, sotto quell’alto e imponente pino che non aveva fronde abbastanza grandi da nasconderli.

Il respiro caldo vicino alla sua coscia lo fece tremare, unito alla pioggia che gli toccò la spalla e poi il collo, come dita di mani invisibili che lo facevano sussultare, aiutando Tyki a strappargli quei sospiri che faticava a contenere.

«Piove» mormorò mentre stringeva quei ricci scuri, morbidi sui polpastrelli, incominciavano ad inumidirsi per via dell’acqua che cadeva con sempre più insistenza, scivolando sulle foglie prima di precipitare sui loro corpi. Non ottenne risposta, l’erba sotto il suo corpo era fredda, si appiccicava ai suoi talloni, allacciandogli le caviglie come bracciali.

Pioveva. Lo sentì sul petto e la fronte, fra i capelli bagnati mentre ogni goccia scivolava sul suo viso, incastrandosi fra le sue ciglia prima di diventare una lacrima, incollandosi alla schiena di Tyki come le sue mani, strette sulle spalle in un gesto di convulso piacere.

Pioveva e sembra una musica lontana, il canto degli alberi che li circondavano e avvolgevano con il loro manto verde e fresco, mentre il vento suonava fra le frasche, ululava fra le chiome. Sentì quella bocca mordergli il labbro, baciargli la guancia e le tempie, catturare ogni perla sulla sua pelle bianchissima costringendolo a pregare, e ogni sua parola restava sospesa, diventava parte di quella nenia che gli accarezzava l’udito, che lo convincevano che non ci fosse nulla di sbagliato in tutto quello, che l’amore non era così brutto come gli avevano detto, e che il cuore che pulsava nel suo petto seguendo il ritmo incessante di quel temporale estivo aveva il diritto di gridare.

Guardò il viso di Tyki, gli scostò indietro quei ricci pregni d’acqua mentre le sue labbra appena schiuse sfioravano le sue, lisce come petali di un fiore macchiato di rugiada. Sembrava piangesse anche lui mentre pioveva sulle sue ciglia nere, mentre la sua voce carica di quell’accento straniero chiamava lentamente il suo nome marchiandolo, deformandogli l’anima per renderla il suo perfetto incastro.

Le mani sui suoi fianchi lo stringevano con una forza tale da fargli quasi male, a tratti gli accarezzavano vecchi lividi sul petto, segni violacei sulle clavicole che aveva faticato a nascondere. Tyki lo plasmava poco a poco, lo mordeva e lo baciava, gli segnava la pelle come a volergli ricordare che fosse di sua proprietà, e che chi sarebbe venuto dopo avrebbe visto ogni sua impronta, avrebbe sentito il profumo di arancia su tutto il suo corpo.

La pioggia alimentava l’incendio della sua carne, poteva immaginare le piante bruciare come stava facendo lui, all’interno, minuscoli focolari accesi dentro la corteccia, dove l’acqua non avrebbe potuto spegnerli, dove si sarebbero alimentati fino a quando non avrebbero consumato tutto quanto.

L’amore era un mostro e lo stava divorando. Sarebbe andato a fuoco, l’acqua non lo avrebbe dissetato. Sarebbe appassito anche lui, morto come i fiori di campo arsi dai raggi del primo sole di Agosto.

 

 

Lavi entrò in casa mentre la signora che li ospitava trillò come un campanello, osservandolo mentre si sfilava la giacca fradicia. Riusciva a intravedere il ciuffo del Vecchio, sbucava dalla poltrona, si vedeva solo quello.

«Oh cielo!» affermò mentre lui cercava di non gocciolare sul tappeto dell’ingresso, «Così vi prenderete un malanno» aggiunse, ordinando poi ad una cameriera di preparare un bagno caldo per il signorino. Lavi si sfilò il cravattino allacciato male attraversando il soggiorno, il Vecchio sembrava serio e arrabbiato mentre lo scrutava, fissando ogni più piccolo dettaglio del suo abbigliamento, probabilmente incominciando dalla camicia allacciata male che sbucava dal panciotto slacciato.

«Non ho preso l’ombrello» provò a giustificarsi, ma quello che era diventato il suo nonno adottivo da quando ne aveva memoria emise un verso gutturale – sembrava che stesse per soffocare, ma probabilmente aveva solo da ridire sulla sua banale scusa.

«Dove sei stato, Lavi?» il tono inquisitorio con cui gli pose quella domanda lo fece rabbrividire più del freddo che incominciava a farsi strada anche dentro il suo corpo. Sapeva che se non si fosse asciugato e lavato in fretta probabilmente sarebbe rimasto lì tutta la notte, impedendogli di dormire bene, senza brividi.

«A fare un giro» gli rispose passandosi una mano fra i capelli bagnati, e il Vecchio sospirò passandosi una mano sul viso, vicino a quelle occhiaie scure che lo facevano sembrare un panda. Erano in quella tenuta di campagna da almeno tre mesi, ed era evidente che fosse più che stufo di ogni sua improvvisa e duratura scomparsa.

«Siamo venuti qui per studiare e lavorare in pace, non per fare giri e conversazioni con il Signor Mikk» lo ammonì alzandosi dalla poltrona, avvicinandosi a lui con quella sua pipa dall’odore insopportabile fra le labbra.

Lavi era certo che sapesse, ma non quanto. Poteva semplicemente pensare che si fosse aggregato alla bella vita di quell’uomo che aveva la sua villa oltre il bosco, che lo seguisse nei suoi bordelli, a fumare oppio con belle donne succinte, ma non ne era poi così certo. Il modo in cui lo fissava sembrava ripetergli quanto fosse malsano e sbagliato, che una semplice denuncia sarebbe bastata per far finire entrambi in prigione. Una sola parola di troppo da parte di qualcuno li avrebbe condannato entrambi, e forse era proprio perché era a conoscenza di quello che succedeva che aveva anticipato la loro partenza all’indomani.

«Lo so» sorrise al Vecchio che lo guardava sbuffando il fumo dall’angolo delle labbra, «Dopo cena devo restituirgli un libro» spiegò incamminandosi verso le scale che portavano al piano superiore, «Non ci metterò molto, e poi mi pare il minimo ringraziarlo, dato che vuoi partire domani» aggiunse poggiandosi al corrimano, e le sopracciglia del vecchio si aggrottarono in un’espressione di muto disappunto.

«Lavi» lo chiamò poi, bloccandolo a metà della rampa, costringendolo a voltarsi «A volte anche il cigno più bello nasconde ali nere sotto le piume» gli disse prima di dargli le spalle, tornando a sedersi sulla sua poltrona.

 

 

Lavi inspirò profondamente socchiudendo l’occhio, l’odore di tabacco e sesso sembrava aver impregnato le lenzuola di seta ricamata che lo avvolgevano. Era rimasto anche sulle dita di Tyki, incollato ai polpastrelli che gli sfioravano il viso disegnandogli il profilo del naso, sembravano fatti di carta mentre lo toccavano, dipingendo strani arabeschi sulla sua pelle sudata.

Gli sarebbero mancati.

Era la prima volta che scivolava in quel letto, che entrava in quella stanza. Non avevano mai fatto l’amore lì, quella villa era talmente grande che Tyki si era potuto permettere una stanza apposita solo per i suoi passatemi notturni, e quando era entrato in camera non aveva avuto tempo materiale per osservare quel calco di Michelangelo, e nemmeno per posare gli occhi sul magnifico cigno in gesso sul caminetto. Era bellissimo, tendeva il becco verso una donna come se avesse voluto baciarla, abbracciandola con le sue imponenti ali.

«Ti piace?» la voce di Tyki aveva sempre quel tono sensuale che gli scioglieva il petto, lo rendeva molle com’era successo quel pomeriggio nel pineto, ebro di pioggia, di lui.

Lavi annuì incontrando il suo sguardo, «Sono Leda e Giove» disse facendo riferimento al mito, ricordando che sopra la porta in legno di quella camera da letto aveva visto il motto “Genio et voluptati, «Al genio e al piacere» tradusse mentre sul volto di Tyki sbocciava un sorriso che colorava quei petali di un rosa più intenso, tendente al rosso.

L’uomo non gli rispose, le sue labbra si posarono semplicemente sulla sua clavicola scendendo poi sul cuore che perse un battito sotto quel tocco leggero.

I mobili erano tutti in stile orientale, Lavi li aveva visti durante l’ultimo viaggio in Cina con il nonno, così come gli elefanti in maiolica. Aveva viaggiato abbastanza da riuscire a dare un luogo di provenienza a tutte quelle cianfrusaglie che riempivano la stanza, ma non a Tyki. Lui sembrava arrivare da mille posti, il suo accento aveva il suono di una canzone di cui non riusciva a ricordare il titolo, la sue pelle profumava di agrumi, e ogni volta che lo baciava avrebbe potuto giurare di averlo già fatto prima in qualche altro luogo desolato della terra.

Era come avere davanti un’opera d’arte dallo stile inconfondibile, essere certo di aver già visto quello stile inconfondibile, ma non conoscerne l’autore.

Gli scostò un lungo riccio nero dietro la spalla, attorcigliandoselo attorno all’indice prima di abbandonarlo, pensando e ripensando a come gli avrebbe detto che se ne sarebbe andato, che per quanto avesse desiderato che il loro rapporto proseguisse aveva il folle timore che crescesse e che si sarebbe tramutato in una malsana dipendenza che avrebbe portato entrambi in carcere. L’amore faceva paura, farsi inghiottire da un sentimento, abbandonarsi a una persona completamente e interamente lo terrorizzava.

Voleva scappare, ma voleva restare. Voleva restare con lui, ma non voleva amarlo. Voleva che Tyki lo amasse, ma che lo lasciasse andare.

Tese una mano ad accarezzargli i capelli, deciso a memorizzarne la consistenza sotto le dita, a imparare a memoria il luogo di ogni singolo neo che gli macchiava la pelle, partendo da quello sotto l’occhio fino ad arrivare a quello minuscolo sul fianco sinistro.  «Parto…» ammise in un sussurro, come se fosse un segreto, se il tono alto della voce avesse potuto rendere più doloroso quel discorso che non aveva assolutamente voglia di affrontare.

Tyki inarcò il sopracciglio posandogli la mano sull’addome, «A fine mese, me lo hai già detto».

«Veramente domani mattina» lo corresse posando la mano sopra la sua, e l’espressione di Tyki si tese per una frazione di secondo.

«Bene» si limitò a dire, e poi lo spinse con la schiena sul materasso mettendosi a carponi su di lui.

Non era bravo a mentire che non gli importasse, che non c’era altro fra loro se non semplice sesso. Non era bravo come lui, Tyki.

Ogni bacio gli sapeva di addio, ogni sospiro o mormorio, la sua pelle contro le sue labbra, le sue dita nella schiena. Tutto. Tutto quanto urlava un addio.

Era insopportabile, il modo disperato in cui si toccavano gli faceva quasi male, lo feriva, gli macchiava la pelle di lividi e graffi che sarebbero spariti in una settimana, che non sarebbero serviti a ricordare quello che avevano passato in quei mesi.

L’amore era un mostro, e a lui gli aveva venduto il cuore.

 

 

Tyki osservò il liquido smeraldo ondeggiare nel bicchiere mentre la carrozza attraversava il viale davanti alla sua villa, allontanandosi carica di valige.

Gli sembrava di aver perso qualcosa, di aver dimenticato un pezzo di sé su quel corpo madreperla che non avrebbe mai più rivisto.

Poteva immaginarlo ancora lì, la prima volta che si erano incontrati, seduto sulla poltrona accanto a suo nonno, il cravattino allacciato male e i capelli rossi spettinati. Aveva un che d’intrigante, il fascino di una statua greca, e lui lo aveva voluto, aveva desiderato che fosse suo, esattamente come gli altri oggetti preziosi della sua collezione.

Voleva lui, ma adesso che se n’erano andato gli sembrava di non aver avuto mai niente.

Si portò il bicchiere alle labbra mentre la carrozza spariva dalla sua visuale, e poi sistemò la tenda tornando verso il suo studio, certo di avergli rubato qualcosa d’infinitamente prezioso, qualcosa che prima o poi sarebbe venuto a riprendersi.

 

 

Lavi poggiò la testa al vetro mentre il Vecchio lo guardava in silenzio, cercando di capire che cosa gli passasse per la testa.

«Il Portogallo ti piacerà, vedrai» gli disse senza troppe pretese, «È meglio così».

Lavi si chiese per l’ennesima volta quanto sapesse, se lo aveva sentito rientrare all’alba, se aveva visto i graffi sul suo corpo, i segni lividi di quella bocca sulla sua spalla. Non era certo di volerlo sapere, così come non voleva ammettere che più la carrozza si allontanava, più lui si sentiva dannatamente incompleto e infelice, ma non spaventato.

Non aveva più paura.

 

 

 

 

 

   
 
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