Anime & Manga > Magi: The Labyrinth of Magic
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Autore: Alex Wolf    29/07/2015    0 recensioni
Nessuna introduzione per questa storia.
Nessun racconto per questa ragazza.
Nessuna certezza di un finale felice, in questo mondo corroso dalle tenebre che soffocano la luce.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sinbad, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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҉   Capitolo III   ҉
 

Dungeon.
 



Quando la luce si dissolse, Tennah si ritrovò completamente fradicia. Era atterrata in una grossa pozzanghera fangosa, che le aveva sporcato i capelli e i vestiti. Sentiva male alle ginocchia, e sapeva di essere sudicia. Si passò una mano sul volto sentendo la melma scivolarle contro la pelle, rinfrescarla e al contempo inorridirla. Detestava la sporcizia. Si alzò, muovendo convulsamente le braccia per liberarsi da quella cosa marrone che la opprimeva.
Ora che si era calmata, e non era più accecata dalla luce, poteva ammirare il mondo che le si apriva davanti. Una distesa dal diametro abbastanza grande e rotonda abbellita con alberi giganteschi che si allungavano verso il soffitto aperto, dal quale si poteva distinguere un cielo azzurro come l’acqua del mare. Fra le folte chiome ombrose passavano liane, sulle quali sostavano piccoli volatili variopinti. Le loro voci si diffondevano nell’aria fresca veloci e acute, fischi simili a canzoni di un mondo ormai estinto. La giovane riusciva a  scorgere, inoltre, qualche occhio curioso spiarla dall’alto dei rami e dal fondo di un torrente poco lontano. Scimmie e pesci la scrutavano silenziosi, simili a giudici muti. Era tutto così bello, così verde e armonioso da sembrare finto. E SE LO FOSSE STATO?
Con due dita snelle la giovane arpionò un pezzetto di pelle e la rigirò strizzandola con forza. Il dolore le pervase il braccio immediatamente, portandola ad abbandonare il movimento. Gemette, mentre si accarezzava la zona divenuta rossa. Sbatté curiosamente le palpebre, uscendo dalla pozza marrone. Sentiva ancora quella cosa molliccia sulle scarpe, la affaticava e la infastidiva. Con due poderosi calci la scacciò via, pulendo le suole sull’erba ancora bagnata di rugiada.
«Tennaaaah» piagnucolò qualcuno alle sue spalle. La bionda si voltò, trovando uno Yunan alquanto fradicio di fango al limitare della pozza. I lunghi capelli pallidi erano diventati castani, gli abiti avevano assunto lo stesso medesimo colore e il viso, prima pallido come la neve, ora sembrava sormontato da una maschera di bellezza.
«Yunan?» La donna piegò leggermente la testa di lato. Il cuore le batteva forte per la felicità: non era sola, in quel luogo dove tutto era troppo bello. Dove ogni cosa sembrava finta.
Fece qualche passo verso di lui. «Mi sono tutto sporcatooooo.» Aveva una voce così infantile che Tennah si ritrovò a spazzare via il fango dal suo viso in un battito di ciglia. Sorridendogli, passò al collo.
 Si sa, dopo che il primo impatto con un luogo nuovo è passato si viene travolti da un’ondata di incertezze, inquietudine e –molto spesso- rabbia. Quindi, dissoltosi l’alone di tenerezza che gravava attorno a Yunan la donna si sentì pervadere da un sentimento che iniziò a corroderle l’anima. Strinse con forza le dita attorno alla laringe dell’uomo e iniziò a sbatacchiarlo avanti e indietro.
«Mi hai gettato in un dannato dungeon, razza di idiota!» Yunan tentò di fendere l’aria con le mani, come per liberarsi, ma non ci riuscì. «CHE TI PASSAVA PER LA TESTA, SOTTO SPECIE DI BAMBINO TROPPO CRESCIUTO?! MA SEI IMPAZZITO!?» Lo strattonava come fosse stato un semplice sacco vuoto, mentre la sua faccia diventava rossa e poi viola, e ancora rossa.
 L’uomo tentava di dire qualcosa, farfugliava cercando di non mordersi la lingua quando finalmente Tennah si decise a lasciarlo andare. Allora, si allontanò velocemente da lei ‘carezzandosi il collo con delicatezza. Di sicuro sarebbero rimasti i segni per un po’.
«Sei sempre così aggressiva!» si lamentò, dopo essersi messo al riparo.
La bionda lo fece impallidire con un’occhiata fulminea, lanciandogli contro una pietra trovata per caso a terra. Poi, presa dallo sconforto, si gettò a terra e racchiuse il viso fra le mani. Scomparve la meraviglia di quel luogo fatato e tutti i suoi canti, i rumori. Rimasero solo lei e il silenzio che desiderava. Com’era potuta succedere una cosa simile? Perché aveva permesso a Yunan di avvicinarla così tanto a quel luogo? Perché aveva avvicinato Yunan?! Maledetta lei e il suo buon cuore. E anche la sua voglia di non restare sola!
«Tennah» sussurrò l’uomo, poggiandole una mano tremante sulla spalla.
Lei si voltò, stringendogli il polso fra le lunghe dita con cattiveria. «Mi dici come usciamo da QUI’?! Io non ci voglio morire in ‘sto posto, è chiaro?!» Sembrava più un cane degli inferi, un rukh nero divenuto donna.
Forse, si ritrovò a pensare il magi, era maglio non spingercela contro la propria volontà qui dentro. Perché non ci aveva pensato prima? Si maledisse lentamente, deglutendo un fiotto di saliva.
«D-dobbiamo af-af-affrontare le p-prove del dungeon, p-per f-forza» spiegò balbettando, guadagnandosi un’altra occhiata.
«Dio» sospirò allora lei, coprendosi nuovamente il volto con le mani. Sembrava davvero distrutta. «Beh, se non ci rimane altro da fare, tanto vale darci una mossa.» Si alzò, legandosi i capelli con un laccio. Indossava lo sguardo più sicuro che lui gli avesse mai visto addosso. «Beh, allora vieni o no, scansafatiche?» gli gridò contro, quando era ormai già lontana.
Passarono diversi minuti a battibeccare, come una di quelle vecchie coppie che sono solite trovarsi a gestire una locanda. Tennah borbottava tutta intenta a scalare un albero, più che altro ignorando l’uomo, mentre Yunan tentava di farle capire il perché si trovassero li dentro. Alla fine, quando anche l’ultima goccia dell’ennesima frase andò a sperdersi nel vento, il biondo sbatté il bastone a terra e sbuffò. «Un magi, ecco cosa sono in realtà. Non c’entra niente con “gli idioti”, o come preferisci chiamarmi adesso, sono un MAGI. M-A-G-I.»
Tennah lo fissò di traverso. «Credi che questo ti salvi dall’essere un idiota? Tzk, allora sbagli di grosso. Comunque, che diamine è un magi?» Testò la solidità di un ramo, mentre con una delle gambe faceva leva. Sentiva ancora quella moltitudine di occhi che la osservavano seguire ogni suo movimento, non lasciarla mai andare ma non le importava. Pur di uscire da quel luogo avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Yunan dietro di lei sembrava faticare parecchio. Per l’ennesima volta districò la lunga treccia dalle fronde degli alberi. «E’ un po’ difficile da spiegare, Tennah. Io… diciamo che io assieme ad altri due siamo i portatori della luce, in un certo senso. Noi scegliamo i re e le regine che a nostro parere dovrebbero regnare in questo mondo e…»
«Woo, raggio di sole fermati un attimo.» Gli occhi d’oro della bionda lo incatenarono in una stretta mortale. «Re e regine? Portatori di luce? Magi? Si può sapere perché queste cose me le dici solo ora?» abbaiò, visibilmente alterata.
Il magi sorrise, più innocente di un bambino. «Se te le avessi dette prima mi avresti accompagnato fino all’entrata del dungeon?»
«No» rispose secca Tennah, ricominciando a salire. Di tanto in tanto i capelli le restavano impigliati nel fogliame ma non se ne preoccupava, strappava via le foglie e non si curava di toglierle dalla capigliatura. Probabilmente adesso somigliava più a una siepe con le gambe che a una donna.
«Esattamente» annuì il biondo, muovendosi con goffaggine. Sembrava la brutta copia di un qualche camaleonte. «Però, io volevo che lo facessi. Desideravo avere te come conquistatrice di dungeon e regina, sebbene sappia che tu non ne hai alcuna intenzione.»   
«Puoi dirlo forte» borbottò dall’alto la giovane. Sentiva la testa pulsante e pesante.
Apprendere tutte quelle informazioni in così poco tempo era stato un po’ come ricevere una martellata secca sulle tempie: dolorosa. Si sentiva stordita, non poteva crederci. Insomma, conosceva i magi per aver sentito dire: grandi esseri con poteri sovrannaturali. Talmente lucenti e pieni di vita da riuscire a vedere le anime delle persone, da essere in grado di far sbocciare fiori in inverno. Ne aveva incontrato uno una volta, quando il suo penultimo padrone l’aveva portata in viaggio. Solo che quello non le era sembrato proprio “pieno di luce”. Ma forse ognuno di loro era diverso. Comunque, non avrebbe mai pensato di poter venir scelta da uno di loro per diventare “regina”. In più, era alquanto strano pensare che Yunan faceva parte di quella cerchia di esseri. Lui, che sembrava così… normale.
«Io regina, pff, ma non scherziamo» continuava intanto a borbottare fra se e se la giovane, mentre saliva sempre di più. «Un magi che mi sceglie per diventare conquistatrice, tzk.» Chi l’avrebbe mai detto che proprio lei ne avrebbe incontrato uno? Che sarebbe stata scelta per conquistare un dungeon? «Come può una come me, una schiava, diventare regina mh?» Però, stranamente, non poteva trattenersi dal sorridere di tanto in tanto.
 
«Che diamine sono quelli?!» le urla di Tennah vibrarono nel rifugio di fortuna in cui si erano praticamente tuffati, mentre da fuori arrivavano delle grida acute, che squarciavano l’aria. Urla di bestie feroci che combattevano un’armata di uomini appena atterrati nel dungeon, la cui furia non era riuscita a scorgere i due compagni che si erano prontamente riparati nella cavità –enorme- di uno dei grossi alberi.  
Con un nodo in gola Ten si fece forza e avanzò a carponi verso l’uscita del cunicolo. Si affacciò in tempo per vedere una di quelle strane scimmie alate alzarsi in volo con un corpo umano fra le mani. Gli occhi della creatura brillavano di colori cangianti contro i raggi chiari del sole, sembravano felici e soddisfatti. Fieri delle azioni appena compiute. Assomigliavano agli occhi di un essere umano divenuto pazzo.
Tennah deglutì a vuoto, affacciandosi ancora un poco fuori dal buco. Una lama di luce di si depositò fra i suoi capelli trasformandoli in fili di neve, contro il suo volto accecandola lievemente ma non le evitò di vedere l’animale poggiarsi su un ramo poco più in basso di loro e sbattere ripetutamente la faccia della preda contro la dura corteccia. Riusciva a vedere l’agonia negli occhi di quel guerriero malcapitato. Quell’uomo che aveva, probabilmente, una famiglia e che stava tentando di vivere scalciando e graffiando l’attentatore. Tennah avrebbe voluto aiutarlo, muoversi e correre in suo soccorso ma qualcosa la stava trattenendo. Qualcosa di primitivo: l’istinto di sopravvivenza, che le diceva di restare ferma dov’era e di non provare a muoversi.
Poi d’un tratto, senza che se né accorgesse le sembrò di aver preso un pugno in pancia. Secco. Duro. Dato con cattiveria, con l’intento di rompere delle costole. La donna si portò una mano alle labbra, cercando di trattenere i conati di vomito che le salivano nell’osservare quella scena. L’uomo gridava, la scimmia rideva con quei suoi strani versi e continuava imperturbabile. Ten avrebbe voluto staccare gli occhi da li, lo desiderava ma non ci riusciva.
Si piegò leggermente in avanti, trattenne un gemito, pronta a vomitare quando ormai riusciva a vedere la testa dell’uomo spappolarsi. Il sangue schizzava ovunque, ormai era morto ma l’animale non sembrava soddisfatto. Continuava a sbattere e ringhiare, e sbattere e ringhiare divertito.
Il magi, che le era rimasto alle spalle per tutto il tempo a osservare i suoi movimenti, sobbalzò e si gettò verso di lei. Aveva capito cosa stava succedendo.
«NON GUARDARE!» Yunan fu veloce: le circondò il bacino con le braccia e la tirò indietro, dentro il buio del nascondiglio, nascondendole il viso contro il proprio petto. La tenne stretta, poggiando persino la propria fronte contro la sua testa.
Non tremava, Tennah, semplicemente gemeva di tanto in tanto cercando di dire qualcosa, ma non riusciva che a sussurrare e continuava a tenere le mani davanti alle labbra. Probabilmente cercava di non vomitare.
Alla fine, la giovane si decise ad alzare lo sguardo e incontrò gli occhi di Yunan. All’interno di quelle iridi d’oro c’era qualcosa che fece deglutire il magi; che gli fece indebolire la presa su quel corpo all’apparenza fragile.
«E’ una cosa ripugnante» mormorò lei, stringendo un poco la casacca di lui. Yunan annuì, sempre leggermente scosso alla vista di quella scintilla dormiente. «Quella povera gente» la voce di Tennah tentennò un poco all’inizio per poi indurirsi alla fine. «Ora vado giù e le ammazzo, quelle bestiacce.»
 
Seguire quella ragazza, anche solo con lo sguardo, si era rivelato più difficile del previsto. Scattava, si muoveva più fluentemente di un felino e non faceva rumore. Riusciva a evitare di essere vista dalle scimmie, troppo concentrate sui corpi morti di quegli uomini brutalmente uccisi. Yunan sapeva che riusciva a fare tutte quelle cose grazie al suo passato, che l’aveva plasmata e fatta divenire quella che era adesso. Quel passato duro e difficile per cui l’aveva scelta, e che sapeva l’avrebbe resa forte e praticamente indistruttibile. Per un momento si ritrovò a chiedersi se in un prossimo futuro alcuni ricordi della sua vita  l’avrebbero potuta portare sulla via dell’oscurità, poi, però, scosse la testa tentando di non pensare a cose del genere. Tennah era forte e determinata, buona. Si, era buona e il suo spirito non poteva essere corrotto.
Deglutendo, Yunan sbatté forte le palpebre per tornare ad osservarla.
Il magi affilò lo sguardo, in tempo per vedere la mano di lei che rubava da un corpo un’alabarda. La strinse forte, poteva chiaramente vedere le sue nocche semi-abbronzate divenire bianche.  Le dita sottili arpionarono il corpo pallido dell’arma come fossero state create per tenerla nella loro presa; le due lunghe e larghe lame – quella in testa ricurva, quella in fondo dritta- brillarono alla luce del sole. Letali.
Yunan poggiò una guancia contro la mano e socchiuse le palpebre, curioso. Cosa sarebbe successo adesso?
 
Con un colpo secco la gola della scimmia saltò lontano dal collo peloso. Il corpo dell’animale cadde a terra. Era il quinto animale che sopprimeva, e ancora non smetteva di stupirsi quanto morbide fossero le loro gole. Il cadavere sfrigolò, riducendosi a una poltiglia simile al fango che venne riassorbita dalla terra. Tennah non represse la smorfia di disgusto che le salì sulle labbra, mentre si voltava a guardarsi attorno. Stranamente sembrava che nessuna delle altre scimmie l’avesse vista, per fortuna. Aveva deciso che uccidere tutte quelle bestiacce sarebbe stata un’impresa troppo grande. Doveva ridursi a portare via Yunan da li. Doveva salvare loro due, perché per gli altri ormai non c’era più speranza. Approfittò della situazione e sgattaiolò dietro il busto di una grossa pianta. Poteva sentire i versi grotteschi prodotti dalle creature che azzannavano i corpi morti. Le facevano venire la pelle d’oca.
Ora che sono qui, cosa faccio?
Stringeva l’alabarda fresca al tatto. Aveva riconosciuto immediatamente i materiali con cui era stata costruita e abbellita l’arma: madre perla e due diversi tipi di onice (una nera striata di bianco usata per il busto, e l’altra verde acqua e d’orata usata per il collo e l’inizio della lama). Non era la prima volta che aveva a che fare con pietre simili, e sapeva che se qualcosa andava storto poteva essere colpa loro. Riflettevano la luce con facilità, e anche un minimo raggio di sole avrebbe attirato quelle scimmiacce. Doveva stare attenta.
Si guardò attorno, mentre attorcigliava con attenzione una striscia di stoffa strappata dalla maglia attorno al manico. Finì, e in quell’esatto momento con lo sguardo trovò un’intercapedine all’interno del grande albero sotto cui sostava. Brillava, attirando la sua attenzione. Lassù c’era qualcosa. Qualcosa che sarebbe stato suo, molto presto.
Provò a sbirciare le scimmie. Litigavano fra di loro per pezzi di carcassa, si mordevano con ferocia e strillavano. Tennah scosse il capo, colta dal ribrezzo, e si agganciò l’arma sulla schiena come meglio poteva. Per fortuna che fra le proprie scorte aveva vestiti di ricambio, e che quelli che indossava ormai erano rovinati a tal punto che poteva strapparli come se niente fosse.
Iniziò ad arrampicarsi, stringendo fra le mani le liane che andavano a diramarsi per la corteccia. Alcune foglie le impedivano il completo aderimento dei piedi, e l’alabarda la spingeva verso terra a causa del forte peso. Sentiva le lame sfiorarle i capelli e i polpacci.
Poteva farcela. Credeva in se stessa. Ma un solo passo falso e sarebbe caduta preda di quegli esseri.
Ancora un altro passo. Riusciva a vedere la rientranza del tronco. Vi poggiò dentro una mano e s’issò. All’inizio fu difficile, le sembrò che tutta la stanchezza di quella scalata le fosse finita sulle spalle e pensò di non riuscire a farcela ma, quando poggiò le ginocchia sul tronco ruvido tirò un sospiro di sollievo.
Si concentrò per qualche secondo sul respiro. Doveva calmare il proprio cuore.
Che gli Dei siano benedetti, alzò il volto al cielo e assaporò il fresco vento che le accarezzava la pelle. Poi si ritrovò a pensare che all’interno di un albero non ci sarebbe dovuto essere vento.
Spalancò le palpebre sorpresa e socchiuse le labbra. Il cielo si stendeva infinito davanti ai suoi occhi; azzurro e immenso, solcato da nubi pallide e simili a batuffoli di cotone. Il sole splendeva silenzioso riscaldandole la pelle.
Si alzò, camminando silenziosamente. Lo stridio dei gabbiani le arrivava alle orecchie come un canto di vittoria, forse era riuscita a trovare un’uscita, ma c’era ancora qualcosa che non la convinceva. Era stato troppo facile arrivare lassù. Il Dungeon doveva mettere lo sfidante davanti a delle prove, allora perché lei sembrava non averne affrontata nessuna? Certo, aveva ucciso qualche strana scimmia alata, le aveva aggirate, era riuscita a procurarsi un’arma e scalare un albero ma non poteva essere tutto li.
Si accigliò. Non andava bene quella cosa.
E proprio mentre muoveva un altro passo qualcosa la colpì da dietro e lei svenne.
 
Yunan si morse il labbro. Era arrivato lassù con facilità, come ci si aspetterebbe da un Magi, ma nonostante la splendida vista del Dungeon numero ventidue non riusciva a farselo piacere. Forse perché la sua protetta stava per affrontare l’ultima prova dei quell’intricato labirinto.
La guardò, stando ben nascosto dietro i batuffoli di quelle finte nuvole, mentre una grossa gabbia andava a chiudersi sopra la sua testa. La cascata di capelli biondi di Tennah venne oscurata da una grossa grata. Yunan smise di tormentarsi il labbro e prese a torturarsi la maglia.
L’aveva portata in quel Dungeon perché conosceva i suoi trascorsi. Quel luogo era predestinato a lei. Sembrava costruito solo per la giovane. Ma quell’ultima prova, aveva paura che la distruggesse. Perché non ci aveva pensato prima? Sperava solo che lei fosse più forte di quell’illusione, che dimostrasse la sua forza.
Pregò che lei riuscisse a superare la sua paura più grande, e in fretta.
Sospirò. «Avanti Tennah, devi riuscirci» la spronò silenziosamente.
Il corpo di lei fremette, poi urlò. Un grido acuto di dolore, che la portò a inarcare la schiena e coprirsi il viso con le mani.
Yunan distolse lo sguardo, cercando di non ascoltare.
 
 
La frusta continuava a colpirla. Sentiva il sibilo che produceva contro la sua pelle; provava il dolore che pensava di aver ormai dimenticato. Se l’era lasciato alle spalle, ma allora perché era li? Forse quel viaggio era stato tutto un sogno, un lunghissimo sogno. Perché adesso, se si guardava attorno, vedeva solamente schiavi, lavori forzati, fruste, catene. Ne aveva un paio anche lei: le stringevano i polsi e lasciavano segni rossi e brucianti; azzannavano le sue caviglie come mascelle di lupi affamati.
«Alzati, lerciume!» l’ordine della guardia le passò da un orecchio all’altro. Voleva alzarsi, doveva farlo ma era troppo debole.
Perché non moriva?, continuava a domandarselo. Se lo chiedeva sempre, ogni giorno, ogni minuto.
«Ho detto alzati!» L’ennesimo colpo di frusta le arrivò dritto sul viso, colpendole il naso e facendola sanguinare.
Tennah gridò. Poi venne fatta alzare e spinta in avanti. Le catene ai suoi piedi tintinnarono. Voleva morire. Voleva lasciare quel mondo pieno di dolore che la circondava. Ma non poteva, non gliel’avrebbero permesso. Era troppo importante per quel posto, era una delle preferite del suo nuovo signore. Tutta via questo non le impediva di essere toccata da altri, martoriata di colpi.
Si strinse le braccia al petto, o almeno ci provò, quando le strapparono di dosso i vestiti e iniziarono a pulirle la pelle a spatolate. Raschiavano e lei si mordeva le labbra. Raschiavano e lei tentava di non gridare. Raschiavano, finché Tennah non riuscì più a non sentire nulla.
Si perse nei meandri dei suoi ricordi. Le parve di sentire lo stridio dei gabbiani, l’aroma salmastro che tanto le piaceva. Sperò di ricadere in quel sogno da cui si era svegliata. Non accadde.
La giovane si lasciò trasportare fino a una stanza, con le catene che strusciavano a terra appesantendole la camminata. Le avevano buttato addosso uno straccio, forse di qualche sacco di patate che le irritava la pelle.
Guardò il cielo. Osservò gli altri schiavi. Deglutì capendo dove la stavano portando. Era giovane, fresca di commercio (l’avevano pagata fior di quattrini), ed era appena arrivata in quel mercato dopo settimane di traversata: era arrivato il momento di marchiarla. Era l’unico motivo per cui l’avevano pulita, per non far infettare la ferita che presto le avrebbero aperto.
«E datti una mossa» ringhiò una guardia spingendola con forza. Tennah inciampò, cadde, fu colpita più volte al viso, venne rialzata e spinta nuovamente.
Le faceva male ovunque, ma nulla sarebbe stato comparabile al bruciore sfrigolante. Quando incontrò gli occhi del fabbro, più grigi del cielo d’inverno, le si bloccò il respiro. Provò a dimenarsi, scuotendo il capo e puntando i piedi. Non voleva essere marchiata. Non di nuovo. Non se lo meritava. Non aveva fatto niente di male, allora perché questo mondo l’aveva posta davanti a un destino tanto inverso?
«Mettetela li», il fabbro indicò una sedia di vimini distrutta.
Lei lo seguì mentre eseguiva tutti i processi: indossava i guanti, prendeva il marchio, lo abbandonava tra i tizzoni ardenti, sputava e passava la lingua sui denti marroni. Sentì lo stomaco contorcersi dalla paura.
Non voleva essere marchiata come un’animale. Non voleva. Non voleva. Non voleva. Non di nuovo.
Ma successe tutto talmente in fretta che nemmeno ci fece caso. Era stata troppo presa a pensare di non volere quella cosa che quando arrivò non le parve vero. Gridò, la voce le raschiava la gola con forza, e chiuse gli occhi inarcando la schiena. Si coprì il viso con le mani per nascondere la smorfia di dolore alle guardie. Non voleva che si beassero delle sue sofferenze.
La alzarono, sentiva bruciare. Strinsero la presa sulle sue spalle, sentiva bruciare. La spinsero, sentiva bruciare. Bruciare. Bruciare. Bruciare.
Perché era li?, si chiese  per l’ennesima volta. Lei non era più una schiava da tre anni. Era fuggita quella sera, tanto tempo fa. Era libera, adesso. Libera come il vento, le onde del mare e i loro abitanti. Libera di viaggiare e conoscere, senza marchi a fuoco o catene che la trattenessero, senza uomini che la maltrattassero. Allora COSA CI FACEVA IN QUEL POSTO?
Senza pensarci, accecata da una rabbia sopita dentro di lei da molto tempo, troppo, Tennah si fermò all’entrata dell’acciaieria. Lei li non ci doveva essere. Non c’entrava nulla in quel luogo. Si voltò, con gli occhi d’oro vuoti come due buchi neri. Una delle guardie le intimò di muoversi, ma lei non lo ascoltò. Si stava concentrando solo sulla sua prossima mossa, che le brillava davanti come un diamante. Vedeva solo il filo di una lama brillare. Proprio alla sua destra stava un’arma affilata, non troppo lunga, facile da raggiungere. Si mosse e straordinariamente spezzò le catene al primo colpo.
«IO NON SONO UNA SCHIAVA!» urlò con tutta la forza che aveva in corpo. «NON PIU’! IO SONO UNA PERSONA E SONO LIBERA!» e la lama della spada trapassò la corazza della prima guardia.
 
Yunan corse, l’aiutò a sollevarsi e le sorrise accarezzandole i capelli, come aveva visto fare a delle mamme con i propri figli. Non sapeva se sarebbe stato d’aiuto, ma almeno lui si sentiva più a suo agio. Sentiva il sudore di lei scendergli fra le dita, inzupparle i capelli che iniziavano ad arricciarsi a causa del caldo.
«Tennah» sussurrò, con un sorriso dolce sulle labbra.
«Non entrerò in un Dungeon mai più» la sentì sussurrare, mentre incontrava i suoi occhi d’ambra. Avevano la pupilla dilatata, impaurita ma con dentro una coscienza enorme: lei aveva capito che quella era una prova.
 Yunan rise un poco, allentando la tensione che gli attorcigliava i muscoli, aiutandola ad alzarsi.
Non voleva sapere cosa lei avesse sognato, a quali atrocità fosse stata sottoposta durante la prova perché aveva ancora le sue urla che gli rimbombavano nelle orecchie. Acute, graffianti. Sotto le palpebre vedeva ancora il suo corpo che si contorceva.
Non voleva ricordarselo. Al contempo, non poteva dimenticarselo.
«Si, beh, non ne dubito.»
 
Si accarezzò i mossi capelli biondi, arricciati dal calore e dal sudore. Si sentiva stordita, ma non voleva darlo a vedere. Se restava in silenzio poteva sentire ancora il rumore delle fruste e lo sfrigolio del marchio, che andavano a inciderle la pelle. Perciò tentò di non rimanere mai in silenzio, o almeno di concentrarsi sulla voce dell’amico che le stava affianco.
«Come diavolo ci sei arrivato quassù?» Lo incastrò in uno sguardo di ferro, avanzando fra sbuffi di nuvole e raggi di sole.
«Mi sono arrampicato», e per dar conto alle sue parole le mostrò i palmi rossi e pieni di taglietti. Tennah scosse il capo.
Forse, dopo tutto, Yunan non era il pappamolle che aveva creduto all’inizio di quell’avventura. Se era riuscito a scalare fino a quell’altezza la sua forza doveva superare di molto le aspettative che lei aveva su di lui.
Si pulì il dorso delle mani contro le gambe graffiate.  «Come usciamo da qui?»
Tutto attorno a loro era azzurro, bianco e marrone ma di vie di fuga non c’era traccia. Sembrava di essere stati trasportati nel bel mezzo della strada che conduceva al paradiso. Ma se anche così fosse stato, dov’era l’entrata per accedervi completamente? Era forse destinata a restare in quel luogo per l’eternità?
Yunan si grattò una guancia. «Dobbiamo cercare», gli occhi di Tennah si fissarono su un punto fisso all’orizzonte, brillante, «una porta. Una grande por-»
«Trovata.» Lo superò assicurandosi l’arma sulle spalle.
«Co- Ah! Aspettami!» Lui tentò di starle dietro.
Quando lei si trovò di fronte all’enorme uscio non poté fare a meno di fischiare sorpresa. Quella porta era enorme, completamente placcata in oro e intarsiata con gemme preziose che brillavano fino a farle male agli occhi. C’era un’aura potente che la circondava, quasi volesse avvertire chi la raggiungeva che oltre quel confine stava qualcosa di mistico e antico più della storia stessa. Tennah si sentiva messa in soggezione. Quella porta sembrava parlarle di un racconto che presto sarebbe cambiato a causa sua. La bionda guardò le grandi mani destre incise su quelle ante e arricciò il naso.
Con gli occhi d’oro persi in quell’immensità, la donna non si accorse dello sguardo del compagno finché non lo sentì sospirare. «Viva la semplicità» affermò ironica, riprendendosi.
«Tennah» la riprese benevolo Yunan. Lei alzò le spalle, passando una mano fra i suoi capelli disastrati.
Ci fu silenzio, che durò un attimo, e poi il ragazzo disse: «Cosa vuoi fare ora, Tennah?»
«Uscire di qui. Il prima possibile.» Gettò la mano destra  contro l’anta più vicina a se, e poi lanciò uno sguardo al compagno.
La luce lo colpiva in viso facendolo sembrare eterno, ma non era questo che la portava a non togliergli gli occhi di dosso. Più che altro, era il fatto che non capisse che anche lui doveva spingere quell’enorme porta. Però, sembrava che lui non lo capisse.
«Yunan» lo chiamò. Lui la guardò, sorridendo. Sembra non essersi accorto di quello che lei volesse fargli intendere. «Yunan» ripeté allora Tennah, più seria questa volta, «metti la tua mano destra su quella parte di porta. Adesso.»
«Mh? Oh. Si certo.»
 
Quando entrarono all’interno dell’enorme stanza antecedente la porta, Tennah si fermò sorpresa. Alte colonne di onice e marmo si alzavano a reggere un soffitto a cupola, dove i vetri riflettevano la luce del sole e la gettavano a terra, sulle pareti cariche di oggetti impolverati e dimenticati. In quel luogo il tempo sembrava essersi fermato da molto ormai.
Camminando fra gli scaffali, con l’alabarda che le sfiorava i capelli, Tennah osservava ogni singolo oggetto nel dettaglio. Ne era come rapita. Da ognuno di loro. Sembravano tutti così antichi: lo capiva dal modo in cui erano decorati, dalla vernice ora scrostata con cui erano stati dipinti.
Continuò a camminare fino a che, superata un piccola scalinata laterale, non si ritrovò innanzi a un piccolo altare, o almeno le sembrava tale. Sul ripiano di marmo bianco, nascosto da uno strato di spessa polvere grigia sostava un’incisione strana. Sembrava una stella, intrappolata dentro un cerchio.
«Che meraviglia.» Tennah non aveva più pensato a come uscire da quel luogo, ne a come uccidere Yunan per avercela portata perché adesso non riusciva più a distogliere gli occhi da quel simbolo.
Si sentiva attratta da lui, come se una forza maggiore la stesse chiamando a se. Mise un dito su una delle punte e lo fece passare per tutto il disegno finché non venne alla luce. Spazzò via la polvere, velocemente e con foga. E la stella le brillò davanti agli occhi, bella e in un certo senso letale.
«Splendida.» La donna poggiò l’alabarda sul tavolo e impresse le proprie mani sulla stella.
Una profonda luce gialla esplose in tutta la stanza, illuminandola a giorno. L’impatto iniziale fu talmente forte che Tennah si trovò catapultata contro la ringhiera che divideva l’altare dal piano sottostante. Se non avesse avuto la prontezza di aggrapparsi con le mani alle colonne alle sue spalle sarebbe stata spinta oltre, sarebbe caduta. 
Il vento durò ancora per qualche minuto, facendole schioccare i capelli come le fruste delle amazzoni. Poi cessò e, quando Tennah alzò gli occhi davanti a se vide quello che mai si sarebbe aspettata.
Una gigantesca figura blu la osservava con i penetranti occhi. Sembrava vederla e al contempo non farlo, studiarla e cercare di comprenderne l’essenza. Tennah si sentiva improvvisamente piccola e indifesa.
La creatura aveva la pelle blu, quasi nera. Sulla fronte aveva incastonate lunghe gocce d’oro, e nascoste da quella che sembrava una sciarpa pallida affioravano delle iridi di un brillante grigio, senza pupilla, in contrasto col nero che lo contornava interamente. Le polsiere che indossava dovevano essere d’oro e molto pesanti a giudicare dal modo in cui brillavano e facevano silenzio, ma lei –perché di una lei si trattava- non sembrava farci caso. La corta gonna dell’ennesimo materiale delle gocce copriva una lunga coda che finiva in una nube di fumo, saliva verso l’alto e andava a creare un’aura mistica.
Era estremamente bella. Antica. Regale.
«Io sono Feronia», la sua voce si espanse per l’intera sala inondandola di vita, «protettrice dei boschi, degli schiavi e della forza.»
Tennah tenne gli occhi ben aperti, scoprendosi spaventata dalla vicinanza che aveva con l’essere. «Yunan» sussurrò. Il suo sguardo non si spostò dall’enorme genio nemmeno un attimo.
Feronia era bellissima, Tennah non poteva fare a meno di pensarlo. Meravigliosa in quei suoi movimenti lenti, intimidatori.
«Yunan» tentò nuovamente la giovane, ma l’uomo non rispose.
«Il tuo giovane Magi è già andato via» la informò il genio, abbassando il proprio corpo verso di lei.
Ora poteva sentire il suo respiro muovere l’aria che le stava attorno. L’ombra enorme della creatura oscurò il sole, immergendo la luce nelle tenebre. Qualcosa si mosse nello stomaco della donna: paura e incomprensione. Perché Yunan non l’aveva portata con se? Non le aveva mai detto che era un Magi?
Forse, aveva potuto vedere nel suo passato e aveva capito che non l’avrebbe mai avvicinato se fosse stata a conoscenza di quel suo piccolo segreto.
Chiuse gli occhi, la bionda, scuotendo il capo. «Che imbroglione» sussurrò a se stessa.
«E’ stato bravo», rispose invece Feronia, «mi ha finalmente portato un contendente al trono.»
Tutto le tornò in mente: le intere storie che aveva sentito raccontare sui prescelti dai magi, i dungeon, i loro tesori, la forza immensa che gli oggetti sacri donavano ai proprietari.si chiese perché non le fossero tornate alla mente tutte quelle cose prima. Perché?
Ora si trovava immersa in quella melma fino al collo, senza volerci davvero stare.
«Ragazza» la richiamò il genio, «qual è il tuo nome?»
«Tennah.»
Feronia alzò il busto, incrociando le braccia al petto nudo coperto dalla grande sciarpa. «Tennah» lo ripeté come se fosse qualcosa di prezioso, di un valore così intenso da emanare luce senza essere visto. Allungò una mano verso l’alabarda e l’impugnatura brillò. «Hai superato tutte le mie prove, hai dimostrato la tua forza. Io, Feronia, ti dono il miei servigi.» un forte vento si alzò, e al suo passaggio ogni cosa presente all’interno della stanza divenne d’oro tornando al suo antico splendore. «Il potere del vento è tuo, mia padrona.»
 
«Tutti ai propri posti! Salpiamo!»
Gli stridii dei gabbiani tornarono nelle sue orecchie, portandola a scuotere il capo. D’istinto toccò l’alabarda legata alle sue spalle e sorrise, voltandosi verso la scogliera in cui tutto era iniziato.
Ora, dove prima si ergeva il meraviglioso dungeon di Feronia ora stava il vuoto. Rimaneva ad assicurarne l’esistenza solo un grosso buco cavo, la forma arrotondata di un pezzo della parete rocciosa e alcuni pezzi d’oro donati ai cittadini da Tennah. Si chiese cosa ne avrebbero fatto adesso che lei se ne sarebbe andata, cosa avrebbero raccontato ai viaggiatori che venivano per conquistare il famigerato dungeon. Ma poi si disse che non era più affar suo. Lei, adesso, aveva solo una cosa a cui pensare.
Terre da esplorare.
Un posto in cui tornare.
Magari, un luogo che finalmente avrebbe potuto chiamare casa.

 
 
  
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