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Autore: Angie Mars Halen    29/07/2015    3 recensioni
Fin dal loro primo incontro Nikki e Sharon capiscono di avere parecchi, forse troppi, punti in comune, particolare non indifferente che li porta ad aggrapparsi l’uno all’altra per affrontare prima la vita di strada a Los Angeles, poi quella instabile e frenetica delle rockstar. Costretti a separarsi dai rispettivi tour, riusciranno a riunirsi nuovamente, ma non sempre la situazione prenderà la piega da loro desiderata: se Sharon, in seguito ad un evento che ha rivoluzionato la sua vita, riesce ad abbandonare i vizi più dannosi, Nikki continua a sprofondare sempre di più. In questa situazione si rendono conto di avere bisogno di riportare in vita il legame che un tempo c’era stato tra loro e che le necessità di uno non sono da anteporre a quelle dell’altra. Ma la vita in tour non è più semplice di quella che avevano condotto insieme per le strade di L.A. e dovranno imparare ad affrontarla, facendosi forza a vicenda in un momento in cui faticano a farne persino a loro stessi.
[1982-1988]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mick Mars, Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee, Vince Neil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo
HEAVEN





Hollywood, CA, agosto 1988

Agguantai l’avambraccio destro di Nikki e lo strattonai nonostante le mie condizioni fossero delle peggiori.

“Esci subito da qui! Sei un sadico approfittatore, ed è tutta colpa tua!” gridai con tutto il fiato che avevo in gola.

Nikki si limitò a scuotere il capo e cercò di passarmi una mano tra i capelli, ma io lo scacciai e scoppiai di nuovo a piangere, ora implorandolo di restare.

“Sherry, tesoro, se evitassi di strapparmi un arto te ne sarei grato,” squittì infastidito dalla mia mano che lo stava stritolando da ormai tre lunghissime ore.

Roteai gli occhi e scostai la frangia sudata dalla fronte. “Tu non saprai mai cos’è il vero dolore, io sì! Quindi taci e lasciami in pace!”

Nikki sospirò rassegnato e rivolse un’occhiata disperata a un’infermiera, la quale gli porse l’ennesimo bicchier d’acqua della giornata e tentò di rincuorarlo. “Non si preoccupi. Dopo sette ore di travaglio chiunque inizierebbe a delirare. Cerchi di portare pazienza.”

“È tutta la notte che porto pazienza,” ribatté Nikki. “Non avete niente che possa aiutarla? Che ne so, del paracetamolo, o qualcos’altro. Me lo dica lei, siete voi i medici, non io.”

“Qui niente di nuovo,” saltò su l’ostetrica dopo essere riemersa da dietro il lenzuolo celeste teso tra le mie ginocchia, poi si rivolse a una collega. “Va’ a chiamare l’anestesista. Lei non ce la fa più e se entro un quarto d’ora non avrò visto dei miglioramenti, interverremo.”

Non appena la mia mente accecata dal dolore riuscì a elaborare il significato di quella frase, tornai ad afferrare la mano di Nikki e, se solo le mie gambe non fossero state immobilizzate, avrei preso a scalciare. Nel delirio non mi interessava affatto che qualcuno mi aprisse, ma avevo il terrore che potessero commettere un errore e fare del male al mio bambino. Poi volevo essere io a mettere al mondo mio figlio. Nessun altro doveva azzardarsi a farlo per me.

Vidi l’infermiera appoggiare una mano sulla spalla di Nikki, ora coperta dal tessuto sterile del camice verde che aveva dovuto indossare. “Dobbiamo spostare Sharon in sala operatoria. Venga, la accompagno fuori.”

Aumentai la morsa e l’espressione adirata lasciò posto ad una di terrore. “No, Nikki, non te ne andare. Non lasciarmi da sola con queste persone!”

L’infermiera cercò di sciogliere il groviglio di dita che tenevano Nikki ancorato alla mia barella e lo condusse fuori. Voltai il capo in direzione dell’uscita e vidi che stava per andarsene e abbandonarmi alla mia sorte per essere rimpiazzato dalla figura distinta del chirurgo, ora impegnato a controllare la mia cartella clinica.

Lo sforzo di voltarmi risultò presto eccessivo: la vista iniziò ad annebbiarsi e la schiena sembrò frantumarsi in mille pezzi, senza contare che avevo perso la sensibilità delle gambe da qualche minuto.

“Nikki!” chiamai, e avrei ripetuto il suo nome all’infinito se una fitta non mi avesse trapassato il corpo, togliendomi il respiro.

L’ostetrica biascicò qualcosa a unavcollega, ma io non sentivo più nulla fatta eccezione per i miei stessi lamenti.

E fu proprio allora che mi accorsi che Nikki era tornato a sedersi accanto a me e che le sue mani erano chiuse intorno alla mia. Gli occhi brillanti non guardavano più il mio viso madido di sudore, ma erano fissi sul telo azzurro, colmi di speranza.

“Ancora uno sforzo, Sharon,” mi incitò l’infermiera e stavo anche per ribattere quando mi zittì. “Risparmia il fiato, cara, e continua così. Stai andando benissimo.”

Strinsi i denti. Serrai le mani.

“Nikki!” un urlo acuto dal profondo della gola.

“Ci sono, Sherry, sono qui,” una voce tremante e allo stesso tempo impaziente.

Lo vedete?

“Lo vedo.”

“Nikki!”

Dove sei, Nikki? Non sento più nulla.

Un lampo mi attraversò gli occhi.

“Brett!”

Brett che, quando da piccola cadevo e mi facevo male, era costretto a prendermi in spalla e a sopportare i miei strilli di dolore fino a casa sua, dove sua madre mi medicava i gomiti, le mani o le ginocchia. Ma quel “Brett” non era stato solo un riflesso involontario o un ricordo che era sfuggito da un qualche angolo remoto del mio cervello ed era passato tra le mie labbra. Brett era mio figlio, e lo chiamavo nell’impazienza di abbracciarlo.

L’infermiera che mi stava assistendo mi tamponò la fronte con un fazzoletto senza smettere di incoraggiarmi, mentre altre teste erano scomparse sotto il lenzuolo azzurro.

Ormai non avevo più energie. A volte mi fermavo e aspettavo di radunare le poche forze rimaste prima di tornare a spingere e urlare. Le luci potenti della stanza sembravano lumini, il lenzuolo e la mano di Nikki, su cui mi stavo sfogando, avevano una consistenza molle e inusuale, e le voci risuonavano confuse e lontane. Poi, all’improvviso, mentre ero immersa in quelle sensazioni spiacevoli e spaventose, tutto cessò come se qualcuno avesse premuto l’interruttore e un pianto sconvolto sovrastò le voci dei medici. I miei riflessi ripresero a essere pronti e immediati, e capii subito che si trattava del mio bambino.

Finalmente lo vidi: era là, controluce, tutto sporco eppure così perfetto.

Sentii le mani di Nikki appoggiarsi sulle mie spalle e mi accorsi che aveva gli occhi spalancati e puntati verso suo figlio che parlavano per lui e sembravano dire “davvero sono riuscito a fare questo?”.

“Oh, mio Dio...” mormorò, poi mi osservò con gli occhi lucidi mentre mi appoggiavano quella piccola creatura sul petto. Non appena la sua pelle vellutata e bollente sfiorò la mia, una lacrima mi rigò il viso e percepii una strana forza ultrapotente che ci avrebbe legati per l’eternità.

“Senti, Nikki,” dissi mentre gli prendevo una mano per poi adagiarla lentamente sulla schiena umida del piccolo Brett. “Senti com’è morbido. E guarda che bello!”

Lui nascose il volto contro la mia spalla per celare le lacrime che gli scorrevano lungo le guance. Non fece però in tempo a risollevarsi perché l’infermiera prese delicatamente il piccolo Brett per poterlo ripulire, dopodiché mi spostarono nella stanza singola che avevo dovuto affittare per evitare che i giornalisti infastidissero me, Nikki e i nostri conoscenti anche in quell’occasione così privata.

Attesi un infinito quarto d’ora prima che l’infermiera facesse la sua comparsa spingendo la piccola culla di plexiglass decorata con nastri di stoffa colorata. Proprio in quel momento mi domandai se sarei riuscita ad accudire quei due chili scarsi di essere umano come una vera madre e ne ebbi la conferma quando il corpicino tiepido di Brett si rilassò non appena lo presi in braccio. Nikki si sedette sul materasso, la sua spalla contro la mia, e prese ad accarezzare con un dito il dorso della manina rosea e ancora chiusa a pugno.

“Vuoi provare a prenderlo un po’ tu?” gli chiesi.

“Non credo di esserne capace.”

“Io ho avuto tanti fratelli e cugini piccoli e non ho mai saputo tenerli,” dissi, poi indicai Brett con lo sguardo. “E adesso guarda un po’ che magia.”

Nikki mi rivolse un sorriso sghembo e attese che gli passassi il bambino, che era così piccolo che poteva tenerlo stretto a sé con una sola mano.

“Non riesco ancora a crederci,” mormorò mentre studiava Brett con estrema attenzione e meraviglia. “Un anno fa ero raggomitolato nel mio sgabuzzino a scrivere sul mio diario che non avrei mai avuto una famiglia, e adesso ce l’ho. Sai, quando venivi a trovarmi alla clinica le infermiere mi chiedevano sempre di te. Volevano sapere se stavi bene e quando sarebbe nato. Quando me ne sono andato e le ho salutate per l’ultima volta, mi hanno detto di farti gli auguri.”

Appoggiai il capo alla sua spalla. “L’ho sempre pensato anch’io, ma Brett diceva che mi sbagliavo e che sarei stata la migliore delle madri e lui il migliore degli zii.”

Calò il silenzio: avrei voluto che fosse lì a coccolare il suo nipotino insieme a noi, così avremo condiviso anche quel momento, come avevamo sempre fatto.

“Se lo scorso Natale non mi avessero tirato fuori dai guai per miracolo, non avrei mai potuto vivere un’esperienza così bella,” disse Nikki senza mai staccare gli occhi da Brett.

“Se non ci fossero riusciti tu mi avresti lasciata da sola con lui,” lo corressi.

“E Brett non mi avrebbe mai conosciuto. Non è piacevole crescere senza un padre, e lo deve essere ancora meno quando ti rendi conto che è andato in overdose poche ore dopo che tua madre ti ha concepito,” sibilò irritato per poi calmarsi non appena Brett fece un lieve movimento tra le sue braccia. “Ma adesso sono qui e voglio godermi la vita, e farò in modo che a questo ragazzino non manchi mai nulla.”

Lo adagiò nella culla con una delicatezza che non si addiceva affatto a un rocker pieno di tatuaggi e, proprio quando ebbe finito di rimboccargli le coperte, qualcuno bussò. Una testa riccioluta fece capolino dalla porta socchiusa e Tommy sogghignò. “Si può?”

“Vieni pure, bro, però cerca di fare poco casino,” lo ammonì Nikki.

A quel punto Tommy entrò seguito dal resto della band e con un enorme mazzo di fiori.

“Questi sono per Sharon!” esclamò giulivo come un bimbo, poi ne estrasse una splendida rosa gialla e la porse al bassista. “E questo è il mio contributo per Sixx. Adesso posso vedere il pargolo?”

Gli indicai la culla mentre informavo gli altri riguardo il mio ottimo stato di salute e continuai a osservarlo con la coda dell’occhio: si era incantato a guardare Brett ed era immobile con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite, leggermente chino sulle ginocchia per via della sua notevole altezza.

“Ehi, Mick, Vinnie!” esclamò moderando il tono della voce. “Venite qui a vedere questo cosino!”

Mick si sporse sulla culla e aggrottò la fronte. “Ma è biondo. Com’è possibile?”

“Quella peluria biondo platino cadrà tra qualche mese per dare spazio a una criniera degna di un Sixx e di uno Smith,” ribatté Nikki. “E non farà altro che diventare sempre più bello.”

“Senti come parla!” lo derise una quarta voce, che riconobbi come quella di Rita. Infatti, come avevamo previsto, la mia band era passata a farmi visita e la gang di quelli che avevano preso a definirsi “zii” poteva ora essere considerata al completo.

La mia stanza era invasa da persone che parlavano sottovoce: Mick continuava a borbottare riguardo i pochi capelli biondi di mio figlio perché non gli piacevano, Nikki gli ricordava che anche lui da bambino li aveva dello stesso colore, e Rita e Tommy erano seduti di fianco alla culla, intenti a rimirare il piccolo Brett mentre dormiva beato.

Dopo mezz’ora di chiacchiere e complimenti, Steven e Jamie ci salutarono perché avevano un impegno e promisero che sarebbero tornati nel pomeriggio, poi fu la volta di Rita, che non riusciva a sopportare l’idea che non avrebbe visto Brett fino a quella sera, sostenendo che avrebbe certamente riscontrato dei cambiamenti nel giro di quelle poche ore che avrebbe trascorso lontano da lui.

“Tommy?” chiamò poi Nikki, costringendolo a sollevare lo sguardo compiaciuto dal pupo addormentato. “Vado al bar a mangiare qualcosa. Non c’è after senza scorpacciata fuori orario. Vieni con me?”

“Sì, sì, certo. Ho fame anch’io, anche se non ho partorito tutta notte,” rispose l’altro, poi sparirono nel corridoio seguiti da Mick.

Vince era rimasto nella mia stanza, seduto su una poltroncina e in silenzio, impegnato a guardarsi le dita mentre le torceva distrattamente.

“Vince?” lo chiamai sorprendendolo all’improvviso. “Perché non vieni a sederti qui vicino a noi?”

Lui abbozzò un sorriso e prese posto sulla sedia accanto al letto mentre sollevavo Brett dalla culla per tenerlo in braccio.

“Non avrei mai pensato che un giorno sarei venuto a trovarti in ospedale perché tuo figlio è nato,” disse Vince, gli occhi fermi su Brett che muoveva lentamente le manine.

Mi voltai verso di lui con sguardo interrogatorio. “Cosa vuol dire?”

“Che nell’Ottantadue ero convinto che un giorno mi sarei svegliato e ti avrei trovata sdraiata di fianco a me priva di sensi,” spiegò con un tono freddo che si riscaldò non appena il dorso del suo indice sfiorò una gambetta nuda di Brett. “Invece adesso stai bene e guarda che bel marmocchio hai messo al mondo! Quando ci siamo parlati per la prima volta al Troubadour ho pensato che fossi solo una ragazzina stupida a cui avrei potuto scroccare tutta la coca che volevo, poi ho imparato a conoscerti e ho capito che meritavi molto di più. Meritavi quello che hai ottenuto oggi. E anche Nikki lo merita.”

“Siamo davvero molto contenti,” risposi. “Ci sembra di aver ripreso quello che la vita ci doveva.”

Vince sorrise. “Per quanto normalmente mi seccherebbe dire una cosa simile nei confronti di Nikki, stavolta sono felice di ammettere che hai ragione tu: siete riusciti nel vostro intento.”

Percepii una lieve vena di tristezza ben camuffata nel suo tono di voce pacato e nello sguardo come se si fosse sentito sconfitto, allora mi venne spontaneo invitarlo a provare a tenere Brett al posto mio. Sapevo che lo avrebbe fatto sorridere, e infatti lo fece non appena il bambino tentò di stiracchiarsi tra le sue braccia.

“Non sono abituato a queste cose, anche se dovrei esserlo,” disse. “E forse non sono neanche portato per i mocciosi, ma i miei figli sembrano pensare il contrario.”

“Credi che Nikki e io la pensassimo diversamente?” domandai divertita dall’espressione intenerita che rapiva i volti di tutti quelli che venivano in contatto con Brett.

Vince fece spallucce. “Assolutamente no. Però sento che, in un modo o nell’altro, tra un impegno e un tour, riuscirete a crescere questo ragazzino.”

Me lo restituì e tornai ad adagiarlo all’altezza del mio petto perché mi ricordavo che, quando abitavo a New Orleans ed ero una bambina, mia madre diceva sempre che i neonati si tranquillizzano se sentono il battito cardiaco della loro mamma. Non sapevo se fosse vero o scientificamente provato, però sembrava funzionare alla perfezione sia su di lui che su di me. Mi sentivo la persona più felice dell’universo.

Vince mi posò un lieve bacio sul capo prima di lasciare la stanza per raggiungere sua moglie a un appuntamento, ma nel giro di un minuto Nikki fece la sua comparsa.

“Gli altri sono rimasti giù perché i fan li hanno assaliti,” spiegò divertito mentre si sedeva sul materasso del mio letto. “Io però sono riuscito a scappare. Che non provino a rubarmi il tempo che voglio trascorrere con voi!” esclamò con estrema determinazione, poi approfittò dell’inusuale larghezza del mio letto di ospedale per appoggiarsi al materasso reclinato che mi permetteva di stare quasi seduta e mi passò un braccio intorno alle spalle. “Vince se n’è andato subito dopo di noi?”

“No, è rimasto qui a farci un po’ di compagnia,” risposi. “Ha provato a tenere Brett in braccio. Si è intenerito.”

Nikki sogghignò in quel modo furbesco che non avrebbe mai perso. “Allora mi sono perso un momento epico!”

“Decisamente,” approvai. “Però ha detto di essere contento che abbiamo superato tutti i nostri casini e che ora abbiamo una famiglia.”

“Oh, certo, lo sono anch’io!” esclamò Nikki. “Abbiamo dimostrato a tutti quelli che credevano che fossimo dei ribelli buoni a nulla che un giorno si sarebbero ammazzati a suon di droga che le persone possono cambiare. E noi ne siamo la prova.”

Ma adesso avevamo la vita tra le braccia ed era una sensazione così bella che non temevamo più niente e nessuno, neanche il nostro futuro.



FINE






N.D’.A.: Cari lettori,
siamo finalmente giunti alla conclusione di quests avventura!
Sebbene questa storia non abbia riscontrato lo stesso numero di visite e recensioni del mio racconto precedente – in parte complice il tempo che ho fatto trascorrere tra una pubblicazione e l’altra, di questo ne sono convinta –, ho comunque notato con piacere che le visualizzazioni non sono affatto basse! Vorrei quindi ringraziare tutti coloro che hanno seguito o stanno ancora seguendo le vicende di Sharon e Nikki, chi ha preferito e chi ha lasciato recensioni, in particolare Chara, che mi ha lasciato splendide e graditissime righe, e rose_. ❤️ Grazie davvero!
Sempre a proposito di recensioni... se avete qualche consiglio da darmi riguardo la scrittura, io lo accetto sempre volentieri!
Bene. Mi ero affezionata a questi personaggi e so già che mi mancheranno parecchio e... niente. Dedico a tutti il piccolo Brett, sperando che la scelta di far tornare in scena – in un certo senso – l’amico di Sherry e di aver optato per un finale positivo sia stata di vostro gradimento!
Detto questo, nel caso qualcuno si stesse domandando che fine farò, anticipo di avere in programma di tornare sul lido Mötley Crüe. Nonostante tutto, ho trovato un po’ di tempo per scrivere un racconto dato che, in un modo o nell’altro, avevo bisogno di togliermi dalla testa il peso dei miei casini quotidiani per qualche minuto. La storia non è ancora stata terminata ma, visto che ne sta venendo fuori qualcosa che penso sia carino e che sono già a buon punto, mi piacerebbe condividerla qua sopra. Se qualcuno fosse interessato, tenga quindi d’occhio questa sezione nelle prossime settimane! ;)
Un ultimo grazie mega galattico a tutti e buon concerto a chi andrà a vedere i Mötley! ❤️
Un abbraccio e a presto,

Angie


Titolo: Heaven - Warrant


   
 
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