DA
“E POI TUTTO FINI’”, ULTIMO CAPITOLO:
«Forza,
dai, ancora un piccolo sforzo!» quasi gridò il
medico
«Forza, spinga che ci siamo quasi!».
Ancora uno sforzo, un dolore mai provato e poi a Clara
sembrò per qualche breve
istante di non sentire più nulla.
Chiuse gli occhi e quando li riaprì un’infermiera
le stava già porgendo un
piccolo fagotto bianco.
La ragazza lo prese e lo osservò per un attimo senza parole.
Era una femmina.
Bianca... era così piccola...
Clara scoppiò a piangere, di nuovo, ma questa volta le sue
lacrime esprimevano
una gioia incontenibile.
Rideva e piangeva insieme, non riusciva a crederci...
Bianca!
~~~
Quando
le porte
scorrevoli si aprirono, Semir non ebbe il coraggio di alzare
immediatamente lo
sguardo.
Sentì il medico avvicinarsi e vide il collega seduto accanto
a sé scattare in
piedi e andare incontro all’uomo che avanzava in camice
bianco.
Poi alzò gli occhi e lo vide.
Vide Ben chiedere al dottore e questi rispondergli in un sussurro.
Vide Max da distanza fare altrettanto e in risposta ricevere da parte
di Ben
un’unica, eloquente occhiata.
Quindi diresse lo sguardo direttamente negli occhi del medico e lo
interrogò
senza parlare.
Anche lui rispose senza bisogno di parole.
Bastò un rapido movimento del capo per comprendere.
Bastò quel “no” appena accennato.
... E poi tutto finì.
Quindici
giorni.
A Ben sembrava impossibile che fossero già passati quindici
giorni: in realtà
sembrava fosse accaduto tutto solo poche ore prima.
E invece no: quindici giorni, quindici giorni da quando Andrea era
stata
uccisa... Andrea...
Non avrebbe mai dimenticato niente di quel maledetto giorno, niente di
niente:
l’inseguimento, la sparatoria all’aeroporto, il
viaggio verso l’ospedale,
l’ansia, l’attesa... ma soprattutto non avrebbe mai
dimenticato la disperazione
che aveva letto negli occhi del suo migliore amico.
Semir aveva resistito fino all’arrivo in ospedale, poi si era
lasciato andare
ad un pianto disperato.
In tanti anni di lavoro insieme, Ben non ricordava di averlo mai visto
così.
E poi il medico era uscito dalla sala operatoria e non aveva proferito
parola:
era bastato un minimo cenno del capo a far intendere cosa fosse appena
accaduto
lì, oltre quella porta scorrevole.
Inizialmente Semir era rimasto immobile, senza credere a ciò
che gli era appena
stato comunicato con uno sguardo.
La situazione in seguito era andata sempre più degenerando e
lo stesso Ben
aveva avuto paura di non essere in grado di gestirla...
«Semir!
Semir, che stai facendo?!» gridò il giovane
ispettore raggiungendo l’amico
sulla terrazza dell’ospedale del piccolo paese vicino ad El
Fahim.
«Vattene Ben!» riuscì ad urlare Semir
con voce rotta dal pianto.
«Semir... ascoltami, devi scendere da lì...
scendi!».
Ben era sempre più preoccupato: il collega si trovava in
piedi sul cornicione,
reso tra l’altro scivoloso dalla pioggia.
Semir scosse il capo «Vattene Ben. Ti prego, vattene, te lo
chiedo per
favore.».
«No! Non permetterò che tu ponga fine a tutto in
questo modo, hai capito?».
«Ben, ti prego!» ripeté
l’ispettore tra le lacrime «Tanto... È
... è meglio
così.».
«No, non è meglio così.»
ribatté Ben.
Aveva una paura immensa, temeva che l’amico sarebbe scivolato
da un momento
all’altro o, peggio, che si sarebbe lasciato cadere.
«Pensa alle bambine, Semir!».
Lo scrosciare intenso della pioggia rendeva difficile
l’ascolto ma permetteva a
Ben di avvicinarsi sempre più al cornicione, millimetro per
millimetro, senza
che l’altro lo notasse.
«Se non vuoi pensare a te stesso, pensa a loro! Crescerebbero
non solo senza
una madre, ma anche senza un padre.».
«Oppure con un padre che è causa della morte della
loro madre!» gridò ancora il
turco, continuando a fissare il vuoto sotto di sé.
«Non è vero Semir, lo sai...».
«Ma io non ce la faccio Ben, da solo non ce la
faccio.».
«Non sei solo! Ci sono io e ci sarò sempre,
c’è Clara, noi ti aiuteremo ma ti prego...
non fare sciocchezze.».
Intanto Ben aveva quasi raggiunto l’amico senza che nemmeno
lui se ne fosse
accorto. Fece cenno agli uomini che erano accorsi ad aiutare di
rimanere a
distanza e si portò ancora più vicino al collega,
fino quasi a sfiorarlo con la
mano.
«Io non ce la faccio...» sussurrò ancora
Semir.
Poi Ben si mosse, lo afferrò per un braccio e lo
tirò a sé con quanta forza
aveva in corpo, trascinandolo giù dal cornicione e
portandolo a distanza di
sicurezza dal bordo del tetto.
Semir si divincolò, provò a liberarsi della
stretta del collega, ma non vi
riuscì.
Scoppiò a piangere tra le sue braccia ed entrambi rimasero
lì, abbracciati per
alcuni minuti, sotto la pioggia.
Ben
rabbrividì
ripensando a quei momenti.
Era riuscito a salvare l’amico per un pelo... a salvarlo dal
suicidio, certo,
ma non dalla condizione in cui era inevitabilmente sprofondato.
Aveva dovuto firmare documenti, approvare carte e occuparsi di
questioni
burocratiche per fare in modo che la salma della moglie arrivasse il
più in
fretta possibile in Germania per il funerale, ma aveva fatto tutto
ciò come
guidato da una forza esterna a lui. Era distrutto e Ben non sapeva cosa
fare
per riuscire a tirarlo su in qualche modo, gli sembrava
un’impresa
insostenibile.
Poi, quello stesso maledetto giorno, lui era venuto a sapere del parto
prematuro di Clara: era stato felice, certo... ma come avrebbe potuto
mostrare
la sua felicità ad un uomo che aveva appena perso la moglie,
per sempre?
Rallentò e parcheggiò la sua Mercedes davanti a
Casa Gerkhan, con un macigno
sul petto di dimensioni indescrivibili.
Era il giorno del funerale e Ben era venuto a prendere il suo collega,
non
voleva lasciarlo solo nemmeno un istante. Clara li avrebbe raggiunti
poi in
chiesa, dopo essere passata dall’ospedale dove la piccola
Bianca era tenuta in
incubatrice. Anche la sua gioia era stata spezzata, Andrea era
diventata a
tutti gli effetti la sua migliore amica e adesso...
Sospirò.
Non erano nemmeno riusciti ad arrestare Schwarzer e i suoi scagnozzi.
Ben scese dalla macchina e chiuse lo sportello con forza, avviandosi
lentamente
verso la porta di casa del collega. Non lo vedeva da due giorni, Semir
si era
totalmente chiuso in se stesso e non gli aveva nemmeno aperto quando il
giorno
prima Ben era passato a trovarlo.
Le bambine per ora erano rimaste dai nonni, dove Andrea le aveva
lasciate prima
di raggiungere il marito in Turchia.
Ben respirò profondamente prima di suonare il campanello e
poi attese con
pazienza che l’amico venisse ad aprirgli.
E quando la porta di casa si spalancò, un nuovo macigno si
abbatté su di lui
senza pietà.
Semir era dimagrito visibilmente anche se in poco tempo ed era
pallidissimo, il
viso segnato da profonde occhiaie e gli occhi rossi e spenti.
Mormorò un “ciao” privo di espressione
prima di lasciar entrare in casa il più
giovane, che si richiuse la porta alle spalle.
Ben stava male, odiava vedere l’amico così, non
solo gli dispiaceva, stava
proprio male per lui.
«Ehi socio... come stai?» abbozzò,
mettendogli delicatamente una mano sulla
spalla.
L’occhiata che ne seguì gli fece temere di aver
completamente sbagliato
domanda.
Il turco non rispose e si limitò ad alzare le spalle.
«Prendo la giacca e sono pronto.»
mormorò semplicemente avviandosi verso
un’altra stanza per poi tornare nell’ingresso con
il giubbotto in mano.
«Semir...» lo fermò Ben mentre
l’altro stava aprendo la porta di casa per
uscire «Siamo in anticipo, che ne dici se rimaniamo qui
ancora dieci minuti
prima di andare e parliamo un po’?».
«Non vedo di cosa dovremmo parlare.».
«Io invece penso che parlare ti farebbe bene.»
replicò Ben, testardo.
«Cosa dovrei dirti, Ben? Cosa? Come mi sento? Uno schifo, mi
sento uno schifo,
almeno così lo sai. Ora possiamo andare per
favore?» sbottò l’ispettore con gli
occhi lucidi prima di aprire la porta e uscire senza che il collega
potesse
fermarlo.
Cercò in tasca le chiavi della sua macchina ma Ben le
tirò fuori al suo posto
«Andiamo con la mia e guido io.» affermò
assertivo salendo sulla propria
Mercedes e mettendo in moto. Non si sarebbe fidato assolutamente a
lasciar
guidare il collega nella condizione in cui si trovava.
Semir salì senza ribattere e i poliziotti partirono.
Ben guidava piano, non voleva arrivare troppo in anticipo e soprattutto
voleva
riuscire a far parlare l’amico il più possibile.
«Clara ci raggiunge lì.»
esordì, senza però ottenere alcuna reazione.
«Ci sarà anche il capo della polizia, mi ha detto
la Kruger.» continuò, ancora
senza successo.
«Semir, io credo che tu dovresti...».
«Piantala, Ben!» gridò il passeggero
voltandosi di scatto verso il più giovane
«Ti prego, non ho bisogno di parlare e non me ne frega niente
del capo della
polizia. Penso che sia meglio che tu mi lasci perdere, rischio solo di
fare
danni e magari di rovinare la nostra amicizia, davvero. Non voglio
perdere
anche quella... So di essere intrattabile ma non posso farci niente,
lasciami
in pace e risolviamo il problema.».
Semir scese dall’auto che si era appena fermata davanti alla
villetta in cui
vivevano i genitori di Andrea senza aggiungere altro, sbattendo la
portiera in
faccia al collega e dirigendosi a passo spedito verso il portone.
Da lì, con i suoceri e le bambine, si sarebbe diretto a
piedi verso la chiesa,
che si trovava a pochi passi di distanza.
Ben sospirò appoggiandosi allo schienale prima di rimettere
in moto per cercare
parcheggio: l’amico avrebbe avuto tanto bisogno
d’aiuto e lui avrebbe fatto
tutto il possibile per stargli accanto, in un modo o
nell’altro.
Buonasera
a tutti miei
cari lettori!
Come promesso, eccomi tornata con un’altra storia, la
continuazione di “E poi
tutto finì”. Come avrei potuto lasciare un Semir
vedovo e un Ben appena
diventato papà senza più farvi sapere nulla?
Vi avverto, la storia non sarà troppo allegra viste le
circostanze e
probabilmente ci sarà più introspezione che
azione... ma staremo a vedere.
Un enorme grazie a voi che siete arrivati a leggere fin qui e un grazie
già in
anticipo a chi vorrà lasciare un segno del suo passaggio.
A presto!
Sophie :D