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Autore: Querthe    26/01/2009    13 recensioni
Una volta all’anno, una sola, Severus abbandona la bacchetta per una persona speciale, ritrovandosi a fare i conti con un passato che non vuole dimenticare per quanto lo faccia soffrire.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Severus Piton | Coppie: Lily/Severus
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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A Spinner's End il sole stava velocemente cadendo nel suo letto del tramonto, lanciando lunghe ombre violette e bluastre nella casa.
Severus era intento a leggere un pesante tomo rilegato di pelle scura e consumata dal tempo e dalle persone che lo avevano toccato.
Da anni era lui l’unico che lo sfogliava, una volta all’anno.
A volte credeva persino che avvicinando il naso avrebbe sentito il suo profumo. Non aveva mai osato farlo. Preferiva crogiolarsi e struggersi senza sapere una possibile, amara, verità.
Stava dando le spalle all’unica finestra della stanza, lo schienale della poltrona di velluto verde cupo rivolto verso la luce morente.
Con gentilezza mise un segnalibro di sottile legno scolpito in forma di serpe e chiuse il tomo, posandolo sul tavolino accanto alla poltrona. Sulla copertina sbiadite lettere indicavano che era un ricettario di cucina.
Un libro decisamente insolito per la sua libreria.
Con un movimento secco ed elegante della bacchetta accese varie luci iridescenti che galleggiarono nell'aria della stanza, donando un aspetto vagamente spettrale a tutto ciò che vi era dentro, lui compreso.
La luce del tramonto scomparve velocemente, lasciando solo un piccolo spiraglio di luce che tagliava l’aria della stanza a metà.
- E' già buio. Beh, è ovvio. - si ritrovò a pensare lui. - E' ancora inverno. E' solo la fine di Gennaio. Ma è un giorno particolare. - si concesse un sorriso tirato, obliquo come lo avrebbero definito i suoi alunni e qualche suo collega - Severus, lo dici ogni anno. Stai iniziando a ripeterti, come i vecchietti. Presto inizierai a discutere di unguenti per reumatismi con Silente.
Seguito e preceduto dalle luci che aveva evocato, l'uomo si diresse verso lo stretto stanzino che insisteva a chiamare bagno, si svestì e mentre l’abito veniva sistemato, rinfrescato e stirato dalla magia, distrattamente evocata con un borbottio un istante prima di aprire l’acqua e poggiare la bacchetta sul lavandino, lui si concesse una lunga e piacevole doccia.
Pettinatosi e rivestitosi, si mosse in cucina, dove le luci si assieparono sopra di lui, creando un cerchio dorato che illuminò la stanza.
La bacchetta era stata posata sul tavolino del salotto, accanto al tomo. Al momento non gli serviva.
Sapeva benissimo che cosa vi era scritto, ma trovava rileggerlo una dolce abitudine, una di quelle azioni che si compiono in qualche modo inutilmente, ma che procurano un senso di appagamento, se non di gioia.
Per lui era solo un modo per tenere vivo un ricordo, e con esso il dolore che lo rendeva sempre vivido come fosse appena avvenuto.
Il tavolo era stato pulito accuratamente, e tutto quello che gli serviva era pronto negli scaffali o sul ripiano davanti a lui.
Aveva preparato tutto quella mattina, comprando gli ingredienti e usando ogni iota della sua energia per gli incantesimi di pulizia migliori che conoscesse.
- Non invidio la madre di quel Weasley. - aveva detto alla fine dell’ardua impresa di rendere il tavolo presentabile dopo un anno di incuria e di pasti frugali.
Controllò con uno sguardo severo, uno di quelli che con gioia elargiva alla classe di Pozioni, che tutto fosse dove doveva essere, quindi sospirò.
- Non può essere poi più difficile di una pozione, no, Severus? - si disse, ricordando le esatte parole che aveva udito quando lo aveva fatto per la prima volta. - Non può di certo... - gracchiò, la voce bassa, come se qualcosa gli fosse andato di traverso. – Alla fine è facile come morire.
Prese il sacchetto della farina e lo aprì con cura, evitando che l’impalpabile polvere bianca gli finisse sulle maniche arrotolate della nera veste.
Con precisione versò il contenuto su una bilancia fino ad ottenere il quantitativo scritto sul libro, quindi ripose la parte rimanente a lato, vicino al bordo del tavolo.
Guardò accigliato la piccola montagnola di farina, come soppesandone l’aspetto estetico, quindi quasi controvoglia, sollevando un sopracciglio, fece con la mano destra un piccolo incavo, trasformando il monte in un vulcano spento.
Afferrò la confezione di cartone compresso e modellato che conteneva le uova.
La aprì, la posò di fronte a lui e guardò i sei oggetti all’interno.
Vuoi aspettare che nascano i pulcini o ti sei innamorato di una di loro?
- Nessuno dei due, stupida. - si ritrovò a dire ad alta voce, mentre le parole di una voce femminile, dolce e calda, gli solleticavano la mente assieme al suo viso.
Non chiamarmi stupida.
- Se lo sei, ti chiamo così. Perché non possiamo usare la magia?
Vuoi ammettere la tua sconfitta, Sev?
L’uomo appoggiò le mani sul bordo del tavolo, stringendolo. Gli occhi erano chiusi, una smorfia di rabbia mista al ricordo gli oscurava il volto.
- Non mi chiamo Sev.
Non prendertela. Comunque devi saper fare una cosa bene anche senza la magia, se vuoi che ti venga bene con la magia. Non è lo stesso con le pozioni?
- Già, ma quelle servono a qualche cosa.
E questo no?
- Posso anche mangiare qualcos’altro.
Ma non questo. Rinunceresti ad una delle cose più buone che tu abbia mai assaggiato.
Lui aprì gli occhi e prese una delle uova con le dita affusolate, la colpì leggermente a metà contro il bordo di una ciotola di terracotta vicina al mucchietto di farina e con un unico fluido gesto lo aprì, gettando il contenuto nel cratere.
Ripetè in maniera perfetta il gesto con le altre uova.
Vedi che sei capace. E’ come quando aprì le uova di croock, solo che sono più fragili.
L’uomo si toccò stizzito il naso, come a togliersi della farina dalla punta, ma non c’era nulla. Solo il ricordo.
Un pizzico di sale si sciolse nelle uova, assieme a dei semi di papavero bianco. L’unico tocco magico ad una ricetta babbana. Una sua piccola variazione.
- Ridimmi perché non posso usare la Misclatus.
Una risata cristallina.
Altrimenti non puoi sentire l’impasto. Devi poterlo toccare, capire quando è a posto.
- Non lo sarà mai. Si appiccica alle dita come uno degli scherzi di Zonko.
Abbi pazienza, Severus, abbi pazienza. Non sarai mai una buona massaia. E non guardarmi in quel modo. Sai che i tuoi sguardi truci con me non attaccano.
L’uomo sospirò mentre massaggiava l’impasto che lentamente smetteva di essere colloso e si omogeneizzava in una massa giallastra a cui lui aggiungeva metodico zucchero e poca farina alla volta per poterla lavorare, oltre a un goccio di latte a temperatura ambiente e a del burro che riposava sotto un canovaccio dalla mattina.
L’impasto era morbido, tiepido e si attaccava alla pelle quel poco che bastava per fargli sentire le dita di lei accanto alle sue quando lo avevano fatto quella volta, tanti anni prima.
Fissava la massa color del sole caldo, ma vedeva le sue mani sopra le sue, le sue braccia accanto alle sue, mentre il mento era appoggiato alla sua spalla sinistra.
Aveva appena lavato i capelli, il profumo del balsamo ancora adornava la sua chioma rossa. Il ragazzo lo bevve con un respiro, ma l’uomo non sentì nulla, se non un leggero stantio che permeava la cucina.
L’occhio gi cadde sul braccio. Il simbolo nero dei Deatheaters era ben presente, uno dei tanti particolari che stonavano rispetto al suo ricordo.
L’impasto era pronto. Poteva metterlo a riposare, mentre si dedicava al resto.
L’uvetta era a bagno e le pere lo stavano aspettando sul tagliere di legno d’ulivo. Erano mature al punto giusto, le stava controllando e ritardando magicamente da una settimana, in modo che fossero perfette per quell’occasione. Negli anni aveva scoperto che lasciandole sfuggire di quella giornata oltre la maturazione prevista dal libro avevano esattamente quel sapore che la sua lingua si rifiutava di dimenticare.
Lanciò un’occhiata alla clessidra. Mancava poco. Quattro clessidre medie e sette decimi. Il liquore, caldo e forte, aveva avuto il tempo di penetrare negli acini rinsecchiti riportandoli alla vita, morbidi e profumati.
Nulla si muoveva nella cucina, tutto era silenzioso.
I granelli di sabbia frusciavano cadendo nella strozzatura di cristallo.
Severus mosse le mani velocemente, afferrò la ciotola di vetro scuro e versò il contenuto in un’altra ciotola che aveva già preparato con sopra un colino di fine rete metallica. Doveva conservare il liquore, sarebbe servito dopo.
Prese il coltello, lo osservò quasi con curiosità e lo soppesò, quindi con precisione tagliò la prima pera, sbucciandola e tagliandola in piccoli quadretti di dimensioni uguali, stando attento ad evitare i semi e quel piccolo filo duro che dal picciolo arrivava fino alla parte opposta.
Attento alle dita, Sev. Ne hai dieci, ma non devi per forza usarle tutte nel tentativo di uccidere quella pera. E’ già morta.
- Ti ho già detto che non mi devi chiamare… Ahi! Merlino e i suoi calzini! - imprecò il ragazzo succhiandosi l’indice sinistro, da cui usciva una goccia di sangue.
L’uomo osservò il coltello. Le sue dita erano lontane dalla sua lama affilata, ma il dolore era ancora vivo nel suo dito e nella sua mente.
Non sapeva se sorridere o meno, ma decise che continuare il lavoro era meglio che sprecare energie in qualcosa che così poco faceva.
La frutta ormai tagliata piccola venne accantonata su un piatto di porcellana sbeccata.
Una vecchia padella di nero ferro, non arrugginito solo per l’unto che la ricopriva, comparve nelle sue mani dopo che la cercò nell’armadietto alla sua destra.
Il burro venne fatto cadere, varie noci che quasi nascosero il metallo.
Cercò istintivamente la bacchetta. Imprecò sottovoce.
Niente magia, ho detto. Esistono delle cose che si chiamano fiammiferi.
- Conosco cosa sono. - brontolò il ragazzo, prendendo la scatola di cartone con disegnati dei fiori viola sulla superficie. - E so anche come funzionano.
Se lo dici tu. Ma allora perché stai strofinando il legno e non la parte rossa? - ridacchiò la voce femminile, mentre delle dita calde e morbide come il velluto gli prendevano i fiammiferi e accendevano il fuoco della cucina a gas.
Ecco, vedi, non è così difficile. Dai, metti su la padella e quando il burro inizia a fare le bollicine butti dentro parte dell’uvetta.
Il fuoco iniziò a scaldare il metallo mentre l’uomo ritornava al tagliere e lo spostava nel lavabo, aprendo l’acqua calda e iniziando a lavarlo accuratamente.
Appena chiusa l’acqua e asciugate le mani si voltò verso il burro, ormai fuso e debolmente sfrigolante.
Ora un velo di zucchero, per caramellarlo. Ma solo un velo, altrimenti poi è troppo dolce.
- Deve esserlo, è una torta.
Il fantasma della sua mente sorrise e scosse la testa. Il profumo del balsamo di disperse per qualche secondo, superando quello degli ingredienti.
Non capirai mai la finezza delle miscele, Severus.
- Vedrai quando io prenderò il M.A.G.O. in Pozioni e tu no.
Non sapevo che ti piacesse la fantascienza. E’ una cosa così da babbani.
L’uomo brontolò qualcosa mentre finiva di far caramellare lo zucchero. Aveva chiuso gli occhi. Non aveva bisogno di vedere. Sentiva. In tutti i sensi. Con l’olfatto, con l’udito, con il cuore e la mente. Sapeva ogni istante di quello zucchero, sapeva cosa stava succedendo e cosa sarebbe successo. Aprì gli occhi e per un istante davanti lui c’era lei, con i suoi capelli e il suo sorriso, le sue labbra che attiravano il suo sguardo e quel suo profumo che lo inebriava più del vino elfico.
Ma davanti a lui non vi era nulla. Solo il vuoto della stanza e il ricordo.
Non sapeva cosa preferire.
Le pere tagliate finirono nella padella, facendo sfrigolare il burro per un istante e sollevando una piccola nuvola di vapore mentre lo stesso aggrediva dolcemente la frutta a pezzetti. Dopo pochi secondi, pochi granellini di sabbia che caddero nella clessidra della stanza, il mago aggiunse parte del liquore che aveva conservato e chiuse la padella con un coperchio di ferro pesante.
Mentre le pere continuavano a cuocere, si dedicò nuovamente alla pasta, stirandola e lisciandola con un matterello, ottenendone una sfoglia sottile e fragile.
La frolla è venuta bene.
- E come fai a saperlo?
E’ come quella di mia madre.
- Potrebbe essere cattiva.
Hai ragione. Anche tu sembri buono, finché non apri bocca.
- Stupida.
Ha parlato il saputello. Fai tanto il professore, e poi non sai preparare una torta.
- Io sono un professore. – borbottò l’uomo, controllando di avere abbastanza pasta sia per la parte inferiore che per la copertura del dolce.
Ovviamente la quantità che aveva calcolato era perfetta. Aveva una certa esperienza. Sedici anni.
Sia di calcolare le dosi, sia di fare quella torta.
Il contenitore di metallo leggero e chiaro, alluminio, probabilmente, fu imburrato dalle dita leggere di Severus e poi passato con un velo di zucchero di canna, che rimase incollato alla superficie come cristallo affumicato.
Un profumo dolce e caramelloso si sparse per la cucina.
Togli le pere dal fuoco, o cuociono troppo.
- Ma tanto vanno cotte, prima o poi, no?
Devi sfumarle con il whisky, e poi devi mettere altre uvette.
Aprì il coperchio, aggiunse il resto del liquore e alzò il fuoco al massimo.
Stese la pasta nella tortiera, muovendola gentilmente finché non ebbe foderato tutto lo stampo rotondo.
Spense il fuoco aggiungendo le uvette, che aumentarono il profumo che già permeava il locale.
Chiuse gli occhi, assaporando il momento. Assaporando il ricordo di due labbra che assaggiavano un pezzetto di pera calda e caramellosa, gemendo al pensiero grezzo, ma forte, di un ragazzo di non essere quel frutto, di non poter toccare quelle labbra così morbide e carnose, così invitanti.
- Così morte. – disse riaprendo gli occhi e versando la frutta a pezzetti sopra la pasta e coprendo poi il tutto con un altro disco di frolla che aveva già preparato.
Una forchetta si mosse veloce e precisa per bucare il dolce e far uscire il vapore che si stava e si sarebbe formato, poi con le dita chiuse risvoltò il tutto ai bordi, come si ricordava tutte le torte che aveva visto e mangiato.
Il forno era già caldo. Lo era da prima che si alzasse dalla poltrona. La torta scivolò nel bollente cuore nero che si richiuse subito.
L’uomo approfittò del tempo necessario alla cottura per apparecchiare un piccolo tavolo che una volta all’anno spostava dalla soffitta al salotto.
Gli altri giorni, se non era alla scuola, mangiava in cucina, su un canovaccio e un piatto che ormai presentava pesanti segni di usura.
Tovaglia avorio di fine tessuto, tovaglioli in coordinato.
Portatovaglioli in argento lavorato ancora alla vecchia maniera, lucidati personalmente da lui con il migliore incantesimo che conosceva.
Lo stesso argento delle posate.
I piatti si mossero al tocco della bacchetta, posandosi leggeri uno sull’altro.
Ceramica bianca, finissima e perfetta.
Una brocca di cristallo era posata al centro del tavolo.
- Aguamenti.
Il liquido era trasparente e fresco esattamente come piaceva a lui.
Era tutto pronto.
Mancava solo lei e la torta.
Severus si sedette sulla poltrona e chiuse gli occhi.
Sei sempre stato ansioso. Di andare a Hogwarts, di metterti in mostra. E ora ho scoperto che non hai la pazienza di aspettare che una semplice torta cuocia.
- Se lo facevamo con la magia era meglio e più veloce.
Certo, ma dove sta il divertimento?
- Divertimento?
Certo. Se una cosa la fai senza divertirti, non è bello e non è giusto.
- Già. Infatti li signore oscuro si è divertito molto con te. E non mi dire di non dire così. Me lo ha detto lui.
Aprì gli occhi, il volto del suo amore, sciolto e decomposto in quello di un Infero, rimase aggrappato ai suoi occhi per una frazione di secondo.
Il dolce era pronto.
Attento a non scottarsi, estrasse la tortiera e posò la torta ancora fumante sul piatto da portata bianco come il resto di quello che c’era sul tavolo.
Lo zucchero a velo si mosse dalla sua scatola e planò dolcemente, come una miriade di piccoli vortici bianchi, sulla torta, per poi allontanarsi. Vi era un numero sulla torta, e un nome.
Severus spostò il dolce sulla tavola.
Si sedette.
Mormorò qualcosa, e un giglio bianco e perfetto si materializzò, sospeso sopra l’altro posto, apparecchiato ma vuoto, di fronte a lui.
- E’ l’ultimo che festeggiamo assieme. – Prese un coltello da dolce e tagliò la prima fetta di torta. - Ho promesso un favore ad un amico, e dovrò ucciderlo. – Tagliò la seconda, aspirando il profumo come se fosse una cosa preziosa. Per lui lo era. - E’ brutto, ma devo farlo. Ognuno ha dovuto fare qualcosa, anche tu. – Mise le fette sui rispettivi piatti. - Te ne sei pentita? - Chiuse gli occhi, per ricacciare qualcosa nel profondo. - Io lo sto già facendo. – Sorrise. - Buon compleanno, Lily.

   
 
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