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Autore: Achernar    03/08/2015    2 recensioni
Occhi verdi, perline blu, metallo colorato. Occhi rossicci, pelle bianca, oro.
1851, California del Nord: i fuochi sono arrivati anche nel villaggio di chi, della corsa al biondo metallo, non ha mai conosciuto nulla.
{Prima Classificata al Contest Love Is in The Air Indetto da La Fe_10 Sul Forum di EFP}
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Note: questa storia nasce sulle note di una canzone dei Pooh, Ultima Notte di Caccia, da me ripresa in alcuni particolari e a sua volta ispirata da un racconto indiano. Se voleste ascoltarla prima o dopo la lettura lascio qui il link: https://www.youtube.com/watch?v=0OMgSaUNBjw

Questa storia partecipa al contest Love Is In The Air indetto da LaFe_10 sul forum di efp

-o-O-o-

C’era aria di cambiamento nell’aria e il cri-cri spigoloso dei primi grilli accarezzava le orecchie mentre le ultime nuvole grigie abbandonavano le colline. Avrebbero fatto ritorno fra tre mesi, con la stessa puntualità di un’amante fedele. Eppure non era il semplice avvicendarsi delle stagioni a permeare l’aria di mutamento. La novità di oggi era una mai sperimentata prima.

I fuochi erano arrivati.

Lune prima che i grilli si ridestassero, Iina era stata la prima a scorgere le luci: stelle, lucciole, spiriti, demoni? La tribù non sapeva decidersi ma più minacciosa la parola, più la fame di mistero divorava gli occhi scintillanti dei bambini e l’unica persona dotata di autorità sufficiente a estinguere quella scintilla sembrava aver abbandonato ogni interesse a farlo.

Shimasani infatti aveva passato le ultime settimane prima del canto dei grilli a soffiare placidamente nella sua pipa. L’odore dolciastro del fumo le impregnava le vesti stinte mentre, ammantata di silenzio, si dava da fare col pestello come suo solito. Neppure durante le sere passate a intrecciare perline a fianco della vecchia, Iina era riuscita a cavare una sola parola da quella bocca ormai sdentata. Eppure, più l’anziana donna si ostinava a tacere, più gli occhi della ragazza brillavano della stessa fiamma che consumava le iridi dei bambini. Iina non era mai del tutto cresciuta in fondo, e non erano solo le sue collane di perline blu a lasciar trasparire una fanciullezza che si ostinava a non abbandonare. In fondo, il colore di quelle sfere si intonava incantevolmente ai suoi occhi verdi, come il cielo si intona alla prateria.

La vecchia sapeva, e la ragazza, disperatamente curiosa com’era, continuava a tessere tele di ipotesi proprio come le sue mani facevano coi fili di lana. Forse Shimasani aveva già visto i fuochi in gioventù, ma Iina scoprì con mano che spesso le vegliarde raggiungono quel grado di tacita diplomazia sufficiente a eludere le domande delle ragazzine e, per quanto ostinata, dovette rassegnarsi al fatto che Shimasani fosse molto più ostinata di lei.

Tuttavia, il destino sembrava giocare a suo favore perché le lune passavano e con loro diminuiva la distanza delle misteriose luci, ogni notte sempre più vicine al campo dove viveva la sua famiglia, e quando il loro barlume si fece tremolante come fiamme di un fuoco che brucia, fu chiaro a tutti che la loro origine non era sovrannaturale. Adesso la domanda che i bambini continuavano a porsi era un’altra: chi accendeva ogni sera quei falò?

Mentre le fiamme del focolare danzavano sotto le stelle e i pochi uomini affilavano le punte delle frecce, Iina lanciava di tanto in tanto occhiate alla vecchia e alle sue amiche. Anche loro sapevano. Ne era sicura. Ma neppure loro avrebbero aperto bocca se interpellate, e la ragazza non aveva sufficiente confidenza con loro per poter diventare insistente senza sconfinare nella maleducazione.

Non erano spiriti, non erano anime, non erano demoni. Le ombre che si muovevano ogni sera davanti ai fuochi, dietro l’orizzonte, appartenevano certamente a uomini: i fantasmi non hanno un’ombra.

Chi poteva, tendeva le corde del proprio arco in attesa del confronto e Iina si limitava a rotolare le braci con un bastoncino e immaginare nelle pagliuzze rosse i volti e le storie di chi accendeva ogni sera i falò. Quando si fermava a fissare Shimasani, la vecchia abbandonava immediatamente l’impassibilità e i suoi occhi grigi, nascosti dalle pieghe delle rughe, le lanciavano divieti silenziosi. Ma Iina non disubbidì andando dai fuochi: furono loro a venire da lei, col loro alone di mistero e le loro voci.

Stava cercando erbe per la vecchia sciamana e pietre per preparare le sue tinture quando, all’imbrunire, riuscì a sentirli.

Il cuore le saltò in gola mentre faceva attenzione ad avvicinarsi silenziosamente. Un brusio soffuso di voci giungeva alle sue orecchie, ancora troppo lontane perché riuscisse a comprenderne il significato. Si avvicinò ancora, lasciò la sua sacca ai piedi di un grande pino e cominciò ad arrampicarsi. Il sole si era da poco addormentato dietro ai monti e la scarsità di luce rendeva difficile l’operazione, ma Iina era un’abile scalatrice e l’eccitazione mise il fuoco nelle sue mani e piedi. Riusciva già a intravederli attraverso il fogliame: bianco, persone che correvano, ruote… Con le guance rosse per l’emozione si affrettò a trovare un ramo spazioso e vi si appollaiò sopra, ancorandosi con le mani al tronco, ormai sottile per l’altitudine.

Stranieri. Un campo circondato da falò, carri ricoperti da teloni bianchi, di una forma buffissima che non aveva mai visto prima: sembravano tanti grossi bruchi. Ne contò solo due. Delusa dal numero esiguo, si mise a contare anche gli accenditori di fuochi: uno, due, tre… Solo una piccola famiglia: due uomini e una donna. Forse l’alto numero di fuochi era dovuto al loro timore per gli spiriti della foresta: spesso non gradivano i nuovi arrivati.

La donna cucinava, mentre i due uomini si affaccendavano intorno ai carri, lanciandosi strane grida che Iina non era in grado di comprendere. Poi, le due voci profonde furono interrotte da una più acuta. La ragazza spostò lo sguardo nella direzione del suono: era una seconda donna, poco più grande di Iina all’apparenza. Iina non l’aveva vista appena arrivata e si preoccupò perché la straniera poteva aver passato quel tempo a spiarla, proprio come Iina stava facendo ora con loro: non aveva idea di come comportarsi nel caso venisse scoperta.

Ma la donna sembrò ignorarla e non si girò mai verso il pino. Cominciò a conversare con i due uomini, che sembravano rispettosi della sua presenza e continuavano a muovere il capo ubbidienti. Si allontanarono e la giovane rimase da sola in mezzo al campo, uno dei fuochi a illuminarle le spalle. Fu solo allora che si voltò.

Portava i capelli sciolti, scorrevano lunghi e neri sulle sue spalle come un torrente in piena, ricci intorno alla vita sottile. All’apparenza angelica, la donna nascondeva qualcosa del suo carattere nel modo in cui il suo mento era sollevato nella stessa direzione di Iina. Il volto illuminato dalle fiamme sembrava brillare di sfida e bellezza: una gara di sguardi che fece rabbrividire la ragazza, e Iina ebbe la certezza che la sconosciuta riuscisse a vederla.

La battaglia durò un’ora, due, o forse appena un minuto. Iina non avrebbe saputo dirlo: lo sguardo della straniera era penetrante come quello di un lupo e la bramosia che vi leggeva e l’aspetto esile di lei la facevano assomigliare a una donnola. Non riusciva a capire di che colore fossero le sue iridi ma sarebbe stata pronta a giurare che erano rosse, rosso fuoco come le fiamme che danzavano di fronte a lei.

La sconosciuta sorrise, labbra color fragola contro la pelle pallidissima, poi si girò verso gli altri e scomparve dentro uno dei carri. Iina rimase immobile come una preda stanata, attenta a ogni movimento del cacciatore, e poi, scuotendosi come da un sogno, discese lentamente il tronco del pino.

Quando si chinò in terra per raccogliere la sua sacca sentì ancora gli occhi della straniera bruciarle la schiena.

-o-O-o-

Era stato quasi impercettibile.

Un fruscio di foglie sulla sponda opposta del ruscello. Quasi impossibile da distinguere dal danzare naturale dei rami.

Iina alzò il capo velocemente, le mani ancora immerse nell’acqua fredda del mattino, dove stava lavando i panni. Lentamente, il fruscio ricominciò, meno prudente perché ormai scoperto. Gli occhi della ragazza si spalancarono quando videro chi le stava di fronte.

Capelli neri. Pelle bianca. Labbra rosse.

La straniera della sera prima uscì dai cespugli e si avvicinò a piccoli passi mentre Iina studiava ogni suo movimento. Si lisciò con le mani l’ampio grembiule e si fermò sulla riva del fiume. Gli schizzi delle piccole onde le avevano riempito il bordo della gonna di spruzzi gelidi ma lei non se ne curò. Rivolse alla ragazza un altro sorriso. Rimasero a guardarsi a lungo, immobili.

Finalmente, la giovane donna afferrò i lembi del suo vestito e fece un passo dentro l’acqua ghiacciata. Il freddo le artigliò le caviglie e poi i polpacci, finché l’acqua non le arrivò quasi alla vita, ma la sconosciuta continuò ad avanzare senza fare una smorfia. Iina si tirò indietro, osservandola con interesse.

A metà strada, con l’acqua che le arrivava quasi sotto l’attaccatura del seno, lasciò andare la gonna, che si distese sotto di lei gonfiandosi e ondeggiando come la corolla di un fiore, arrivandole fin sotto le braccia. Le guance rosee per il freddo, cominciò a ridere piano e fece segno a Iina di raggiungerla, mormorando qualcosa che lei non riuscì a capire.

Era follia, il richiamo dell’infanzia o di qualcos’altro che non osava ancora considerare, eppure Iina si fidò del proprio istinto ancora una volta e sforzandosi di nascondere un sorriso, a piccoli passi raggiunse la straniera nel mezzo del ruscello, dove anche la propria gonna cominciò a volteggiarle intorno. L’acqua era limpida come ghiaccio e la brezza del mattino non era più una carezza sulla pelle ma sferzava le loro vesti bagnate come una frusta.

La risata della donna era dolce come il suono del vento attraverso uno scacciapensieri, i suoi denti bianchi e lo sguardo di donnola del colore delle more ancora acerbe. Iina smise di ridere e le sue labbra si piegarono in un piccolo sorriso. Non sapeva cosa stava succedendo, ma era piacevole.

La straniera si avvolse le braccia intorno al corpo, e Iina capì che aveva freddo: aveva perso la cognizione del tempo ma il sole era ormai alto nel cielo e la ragazza capì che erano rimaste in acqua a lungo. Iina aveva intenzione di uscire dalla stessa sponda da cui era entrata ma la sconosciuta le strinse la mano e la spinse verso di se. La ragazza si lasciò trasportare come immersa in un incantesimo e si ritrovò sulla riva opposta, con i vestiti incollati al suo corpo che pesavano come macigni. La donna si sedette sull’erba e si tolse il grembiule. Cominciò a strizzare la sua gonna, osservandola di sottecchi come per invitarla a fare altrettanto.

Iina avrebbe voluto accendere un fuoco per asciugarsi, ma erano troppo vicine al villaggio e il fumo avrebbe certamente attirato l’attenzione di qualcuno: non voleva farsi scoprire in compagnia di una degli stranieri. Così si distese a fianco della giovane donna, il viso rivolto verso il cielo. Le nuvole si muovevano pigramente, soffici come germogli di cotone. Alla fine, si tirò su incrociando le gambe e si rivolse alla sconosciuta.

«Iina» disse indicando se stessa «Qual è il tuo nome?».

L’altra le lanciò un’occhiata perplessa e cominciò a parlare, ma proprio come la sera precedente, Iina non riuscì a capire neanche una parola. Avevano un che di melodioso però, le sillabe che uscivano da quella bocca rossa, tanto melodiose quanto incomprensibili, come se la straniera parlasse la lingua degli spiriti, quella che Shimasani cantilenava di tanto in tanto, spargendo polverine colorate attorno al fuoco. Eppure la voce di Shimasani era profondamente diversa: antica, misteriosa, sembrava in grado di smuovere le montagne. Chissà se la voce della sciamana era stata come quella della donna che le sedeva vicino, in gioventù.

Iina si accorse che la straniera aveva smesso di parlare e si era fermata a guardarla, come se si aspettasse qualcosa, e si rese conto che doveva averle fatto una domanda.

«Iina» cadenzò ancora la ragazza battendosi una mano sul petto «Io mi chiamo Iina. Qual è il tuo nome?» chiese. La sconosciuta sembrò capire qualcosa questa volta.

Iina allora si avvicinò a lei, le dita delle mani che formicolavano. Indicò il petto della straniera, lo sfiorò appena.

«Tu?» chiese ancora.

La risposta della donna venne insieme a un sorriso enigmatico, una scintilla nei suoi occhi che Iina non riuscì a decifrare.

«Marian» rispose.

-o-O-o-

Shimasani sospirò.

L’acqua nelle tazze di colore si era ormai asciugata e le tinte si erano trasformate di nuovo in polvere. Iina le aveva a malapena toccate: gli occhi della ragazza erano rimasti fissi sullo stesso nodo del tappeto per ore, le dita lo stringevano e lo disfacevano senza sosta, il risultato mai abbastanza perfetto per i loro gusti.

Erano settimane che vedeva la giovane in quello stato, con lo sguardo perso nel vuoto e offuscato da mille pensieri. Sospirò di nuovo e si portò la pipa alla bocca, aspirando profondamente ed esalando volute di fumo bianco e profumato. Nuvole meno nebbiose dell’avvenire che temeva si prospettasse loro. Amava Iina teneramente, come se fosse la figlia e la nipote che non aveva mai avuto, e proprio per questo sentiva il proprio cuore dividersi fra due fuochi di eguale intensità.

«È uno degli stranieri, bambina?» mormorò pesantemente: avrebbe dovuto fermarla quando era ancora in tempo. Iina era incontrollabile e ingenua, come una piccola volpe.

La ragazza alzò gli occhi per ascoltare quello che la sciamana aveva da dire, ma non proferì parola.

«Sanno essere amabili, vero?» la vecchia sorrise un sorriso distante, lo sguardo affossato dalle rughe perso in qualche ricordo lontano. «Sanno ammaliarti con parole che non conosci, ti incantano come il sonaglio del serpente incanta il topo. E poi, quando la magia è compiuta, chiudono i loro artigli e ghermiscono come l’aquila ghermisce la lepre».

Le dita di Iina si strinsero alle treccine del tappeto, il tessuto gemette sotto la sua presa.

«Riconosco i sintomi, bambina, sono una guaritrice, ricordi? E in tutti questi anni posso assicurarti che di malati ne ho visti tanti e tanti, e molti di loro sono riuscita a guarirli» si fermò per tirare un'altra boccata dalla pipa, come se il fumo potesse infonderle una forza che in quel momento sapeva di non avere. «Eppure non sono mai riuscita a trovare un rimedio per il male che adesso affligge te».

Il viso raggrinzito della vecchia riapparve a poco a poco, mentre la nebbia bianca del fumo si diradava insieme alle perplessità della sciamana.

Sorrideva adesso. Non avrebbe potuto salvaguardare sia il villaggio che Iina: il mondo stava cambiando e lei lo aveva sperimentato con mano anni fa. Forse il futuro della sua bambina non era di rimanere legata a lei e, anche se a malincuore, Shimasani l’avrebbe lasciata andare.

«Allora,» esordì «come si chiama, bambina? Di chi sei innamorata?».

Le dita di Iina si contorsero fino a sfilacciare alcuni nodi. La giovane rimase ancora in silenzio, mordendosi la lingua mentre gustava il significato di quella parola a cui lei stessa aveva pensato più volte. Innamorata…

«Un segreto anche per la tua vecchia nonna, mh?».

Non sapendo cosa fare, Iina annuì. Le guance le si erano tinte dello stesso colore di una delle tazze di polveri, rosso. Non era solo per pudore o per la rabbia di essere stata scoperta così facilmente. Era anche il tono di voce usato da Shimasani, quel suo fare pretenzioso e matriarcale, quella presunzione di dirsi capace di giudicare una persona senza averla neanche mai vista. Iina amava la vecchia donna, ma come tutte le vecchie anche Shimasani stava cadendo nel trabocchetto del delirio di onnipotenza e si faceva portatrice di consigli indesiderati. Shimasani non conosceva Marian, non sapeva delle giornate che avevano passato insieme nell’ultima luna, non sapeva della sua voce né dei suoi occhi o delle carezze sul volto di Iina. Iina sì. Perciò tacque, crogiolandosi nella propria rabbia e nelle proprie illusioni. I divieti e le chiacchiere delle vecchie la soffocavano e lei voleva andarsene, andare via.

Quella notte, Iina andò al fiume.

Le stelle tremavano pallide come lucciole e sembravano uscite apposta fuori dalla Tazza per indicarle il giusto cammino. Aveva al collo un piccolo amuleto a forma di testa d’alce, con perline gialle che luccicavano al buio come gocce di resina. Il metallo giallo era il suo preferito ma era difficile da trovare e, anche se passava quasi tutte le giornate sulle rive del fiume, accadeva solo raramente che Iina si imbattesse in qualche pagliuzza da raccogliere. Le quattro perline sulla collana rappresentavano il raccolto di un anno intero e la testa d’alce l’aveva intagliata lei stessa, mentre la vecchia fumava la pipa.

La luna la osservava silenziosa e gialla come il metallo della collana mentre Iina si toglieva con cura i mocassini.

Non aveva idea di cosa stesse facendo, ma era folle e allo steso tempo allettante, lo stesso gusto aspro di proibito che attira i bambini alle bacche ancora acerbe.

L’erba era fresca e umida sotto i suoi piedi e, a tentoni, trovò il punto in cui si tramutava in ghiaia e sassi e le piccole onde del fiume lambivano il confine tra l’acqua e la terra. Quando i suoi piedi nudi entrarono a contatto con le acque gelide, Iina fece un passo indietro e cominciò a togliersi i vestiti. Ripiegò la maglia e la gonna con cura e le richiuse all’interno della sacca di pelle che aveva sulle spalle quando aveva lasciato il villaggio, insieme alle scarpe e alla collana. Li richiuse con un laccio di cuoio e si pose il sacco in equilibrio sulla testa, sorreggendolo con le mani. La notte le avvolgeva il corpo col suo abbraccio freddo e al contatto con l’acqua le sembrò di essere trafitta da migliaia di frecce. Rabbrividì.

La luna era ancora bassa sul profilo dell’orizzonte e la notte ancora giovane, se si sforzava e stringeva gli occhi poteva scorgere le ombre dei fuochi danzare fra gli alberi, al di là del fiume, nella direzione da cui Marian veniva ogni giorno. Il desiderio incontenibile di passare del tempo con lei era qualcosa che non voleva spiegarsi e che sentiva crescere più forte di giorno in giorno, bruciante quanto era gelida l’acqua che adesso le fendeva la pelle.

Strinse la presa attorno al sacco e continuò ad avanzare fino al campo.

Era quasi al grande pino della prima volta quando pensò di essere abbastanza asciutta da potersi rivestire. Udiva il suono della musica in lontananza e alcune foglie brillavano per la luce delle fiamme. Tutto a un tratto la paura l’assalì e temette che Marian non sarebbe stata contenta di vederla arrivare, che l’avrebbe respinta e rimandata al villaggio. Eppure andò avanti, ricordandosi lo sguardo penetrante dei suoi occhi rossicci la prima sera, la sua risata e il modo in cui si era strizzata le vesti quando l’aveva invitata a immergersi nel fiume con lei. Le carezze, i canti, le giornate che avevano passato insieme. Indossò l’amuleto, stringendo la testa d’alce fra le dita, e uscì allo scoperto.

Marian era seduta vicino al fuoco, ma smise di cantare non appena vide Iina uscire dalla boscaglia. C’erano due uomini vicino alla donna, uno di essi teneva in mano quello che la ragazza immaginò fosse uno strumento musicale, un mattoncino di ferro con tanti piccoli fori che l’uomo copriva e scopriva velocemente con le dita. Non c’era traccia della donna più anziana, Iina immaginò stesse dormendo.

La sua Marian disse qualcosa all’uomo, sempre senza staccare gli occhi da Iina. C’era un sorriso enigmatico e compiaciuto sulle sue labbra. L’uomo ricambiò quel sorriso con un ghigno, smise di suonare e si allontanò insieme al suo compare verso uno dei carri, dove scomparvero sotto il bianco del telone. L’atmosfera era cambiata e Iina sentì che la mano che stringeva la collana aveva cominciato a tremare. Aveva paura. Ma Marian non le avrebbe mai fatto del male e gli uomini avrebbero fatto quello che la donna ordinava loro: l’aveva vista più di una volta rivolgersi ai due con tono altero, non sarebbe successo nulla di male. Eppure Iina rimase immobile lì dov’era. Con il volto mezzo nascosto dall’ombra e mezzo illuminato dalla luce si sentiva come l’orizzonte, in bilico tra due mondi: alle sue spalle la sua casa, di fronte a lei l’ignoto. Il futuro. Marian non poteva rifiutarsi di prenderla con se.

Lentamente, la donna si alzò e si avvicinò a lei, le tese la mano e Iina la prese, stringendola con tutta la forza della sua inquietudine. Sussurrò un saluto, Marian ricambiò nella propria lingua, una delle pochissime parole che Iina aveva appreso. Poi, lo sguardo della donna si spostò sulla collana che Iina portava al collo. Scansò freneticamente le dita della ragazza dall’oggetto e non si soffermò neanche un secondo sull’alce che Iina aveva intagliato con tanta cura.

Mormorò una parola, una sola, indicando le perline gialle.

«Oro».

-o-O-o-

La rimandò a casa, ma non senza averle dato appuntamento per il giorno dopo. Iina immaginava fosse per avere il tempo di ultimare i preparativi per la partenza. Chissà dove l’avrebbe portata, chissà quanti posti nuovi avrebbe visto. Dovette tornare da sola e senza amuleto però: Marian aveva tenuto per se la collana dalle perline dorate.

Con ai piedi una sacca con le sue cose, Iina la attese sulla sponda del fiume, la luna che splendeva più alta della notte precedente: ultima falce.

Marian spuntò dalla boscaglia priva della sua solita grazia, i capelli spettinati e gli occhi scintillanti. Attraversò velocemente il fiume, incurante dell’acqua gelida, mentre la collana ondeggiava sul suo petto al ritmo delle onde. Non perse tempo a cercare pagliuzze luccicanti nel fiume addormentato, raggiunse Iina grondante d’acqua, le rivolse lo stesso sorriso enigmatico della sera prima e la prese per mano, indicando le spalle della ragazza.

Iina non capiva: era convinta che Marian sarebbe venuta a prenderla per portarla via, gli accordi erano questi, invece ora la donna voleva che le venisse mostrato il villaggio.

Vedendo la riluttanza della ragazza, Marian le prese il volto fra le mani, facendo scorrere i pollici sugli zigomi, carezzandole le guance come si fa con i bambini. Sussurrò qualcosa, le poggiò le labbra rosse sulla fronte, poi sulla bocca, la implorò di condurla a vedere la sua casa. Il cuore le batteva forte nel petto come un cavallo impazzito, Iina ingoiò la paura e la sostituì con l’eccitazione, annuì. Eppure, le sue mani non smisero di tremare per tutto il tragitto fino a casa. Ogni volta che provava a voltarsi o a tornare sui propri passi, Marian le stringeva la mano e le faceva segno di andare avanti. Non si accorse mai, nemmeno una volta, di essere seguita.

Si fermarono su un’altura, il villaggio giaceva addormentato ai loro piedi e non una luce passava attraverso le porte rivolte a est delle hogan. Marian sorrideva. Per la prima volta da quando si erano allontanate dal fiume, Iina udì un rumore di passi alle sue spalle, ma anche stavolta non fece in tempo a girarsi. Accadde tutto così in fretta.

Marian si allontanò verso il villaggio. Delle ombre la seguirono. Iina allungò il braccio per raggiungerla. Vide un lampo accecante, udì un boato, poi un grido. Stava cadendo al suolo quando si rese conto che era uscito dalle sue labbra. Il bel sorriso della donna si tramutò in una smorfia, il suo volto si avvolse di nebbia e terra mentre il corpo di Iina toccava il suolo. Si sentiva come se un sasso l’avesse colpita alla testa, ma non riuscì ad aprire gli occhi.

Non sentiva più le mani e l’aria puzzava di bruciato e di ferro, come un campo di battaglia, come sangue. Il suo. Quando cominciarono le grida e i pianti, le orecchie di Iina non erano più in grado di sentire nulla. Il villaggio sotto di lei era preso d’assalto mentre lei era lì per terra e il mondo le scivolava via dalle dita.

Si sforzò di nuovo di aprire le palpebre. Il cuore batteva debolmente il suo tempo.

C’era la luna lì in cielo. La fissava da lassù, sempre più alta, sempre più sottile. Gialla anche lei.

Alle domande di Iina, si andò a nascondere dietro una nuvola e la ragazza chiuse gli occhi, accogliendo l’abbraccio della grande madre.

-o-O-o-

Note:

- Il villaggio di Iina è molto piccolo e isolato, per questo nessuno, a parte Shimasani durante un viaggio di alcuni anni prima, ha ancora mai visto i bianchi. La piccola carovana che Iina vede la prima sera è in realtà solo l’avanguardia di una ben più grande: si tratta di cercatori d’oro, arrivati a frotte in California dopo il 1848. Parte di loro si diresse nel nord dello stato dopo la scoperta di alcuni filoni nel 1851. Marian e i suoi sono fra i primi argonauti a raggiungere il posto, accecati dalla prospettiva di un facile arricchimento. Seducendola, Marian guadagna la fiducia di Iina per estorcerle informazioni su possibili giacimenti, ma quando vede la collana con perline d’oro immagina che il villaggio sia pieno del prezioso metallo e diffonde la notizia per il resto della carovana. Gli uomini, ben più numerosi di quanto Iina credesse, si danno al saccheggio e alla distruzione delle hogan indiane mentre Iina, ormai inutile e ancora ignara di quanto stia succedendo, viene uccisa con un colpo di pistola.

- Ho preferito non assegnare Iina e Shimasani a nessuna tribù in particolare, ma molte delle informazioni che le riguardano sono state attinte dal popolo Navajo, che abitava in quell’area geografica. In lingua Navajo, Iina vuol dire “vita”, Shimasani “nonna”. Altri riferimenti Navajo sono le hogan (le abitazioni con l’ingresso rivolto rigorosamente a est), i vestiti, la Tazza (nome indiano dell’Orsa Maggiore) e il vivere in piccoli gruppi. Incongruenze storiche che ho voluto lasciare sono invece il fatto che fossero gli uomini (e non le donne) a tessere, il pigmento rosso (i Navajo non sapevano come estrarlo e come colori utilizzavano solo blu, nero, bianco e ocra), l’isolamento dai bianchi (il primo contatto era avvenuto quasi cinquecento anni prima di questa storia e, più che con i cercatori, gli indiani Navajo avevano molti contatti con i messicani), una donna sciamano quando gli sciamani Navajo erano rigorosamente uomini e infine l’uso del calumet (originariamente destinato alle sole cerimonie) che ho invece reso molto più quotidiano.

  
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