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Autore: FiveOneTen    03/08/2015    0 recensioni
L'equilibrio è un'attitudine
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa è una storia tristemente vera.
Un giorno nacque Alfonso. Ne nascono tanti di Alfonsi, solitamente. Un nome poco usuale (nemmeno vero a dire il vero) per una persona immensamente usuale. Di che parlo? Di Alfonso. Lui ci nacque, con una vita usuale. Avete più o meno presente cosa sia la vita? Io la immagino mediamente come un file di base con tutte le estensioni di sorta. Del tipo? Del tipo che ne so: generiamo Vita base n.1 e assegniamola a Laura. Aggiungiamoci l’estensione “passione per la danza”: adesso Laura ama la danza. Ciò magari porterà all’estensione “lesione al legamento crociato del ginocchio”: Laura si fotte permanentemente un ginocchio, al punto di doversi operare. Questo porterà immancabilmente all’estensione “Medicina”: Laura diventerà una delle migliori chirurghe dell'ospedale Regina Margherita, reparto Neonatologia, magari. Tanto per dire.
Ecco, la vita è più o meno questa: una base, con tanti blocchi facoltativi che si aggiungono, si tolgono, si modellano, effettuano upgrade e via dicendo (non fatemi fare anche l’esempio di Reginaldo l’amministratore delegato cocainomane).
Ora che avete presente le regole di questo entropico e labirintico gioco, dovreste sapere che Alfonso è quel tipico sfigato che ha una scarsa capacità di comprendonio, tale per cui della vita non ha capito un cazzo. Anzi, ancora peggio: la vita l’ha capita eccome, ma non la sa applicare. Cerco di semplificare: lui, le estensioni non sa nemmeno dove trovarle. È una specie di apatico e instabile affarino senza caratteristiche (adesso riderete pensando che per me sia stata una trovata molto poco originale e molto ingengosa quella del tipico e atipico personaggio senza nulla di particolare: ovvio che sì, un personaggio che non va descritto mi fa molto comodo). La cosa sorprendente? Non è che non avesse peculiarità, non possedeva neanche ciò che vi è di più comune. È qua che il tutto si fa interessante. Ed è qua che racconto il triste fatto: un giorno, un giorno che di peculiarità inesistenti Alfonso si era costruito un castello in testa (unica cosa che sapeva fare le peuvre: cosa ne può d’altronde un inetto se inetto c’è nato? La sua sola consolazione è diventare il miglior regista di film mentali della storia nella vana speranza di inciamparcisi, in uno di quei film, e annegarvici dentro, e magari viverli), un giorno in cui tutte queste caratteristiche che si voleva accaparrare si erano abbarbicate l’una sull’altra come mattoncini, a costruirsi un immenso muro che lo isolava dalla realtà, proprio quel preciso giorno (anche qua sarebbe facile dire che era un giorno qualunque, ma qualunque non era, perché cazzo quel giorno Alfonso è stato rivoltato come un calzino, da pelle a interiora), proprio lì, lui cadde.
Non intendo fisicamente. E nemmeno metaforicamente. Non so bene come spiegarlo. È una sorta di caduta a metà tra tutte le cadute di cui si potrebbe cadere.
Cadde, così. Non nello spazio, non nel tempo. Non cadde da nessuna parte. Però cadde, perché avverti quella sensazione di incertezza, quella sensazione del baratro: avete presente? Un piede lì, saldo, appoggiato alla coerenza di un sostegno. E l’altro? L’altro un po’ oltre, dove non riconosci superfici, non riconosci linee, escrescenze, conoscenze, non riconosci null’altro oltre allo sconosciuto e attanagliante buio. E sposti di poco il peso, poco oltre al limite dell’equilibrio, lì dove non può più raggiungerti, lì dove sei in balia dell’instabilità. E per un istante diventa euforia del volo, giusto per un istante, così che quell’euforia ti trafori la pelle, e poi corra via. E dopo? E dopo ci sta quella sensazione. Quell’altra. Quella che scandalizza. Come puoi avere paura di qualcosa che non conosci? Insegnava Socrate. Eppure del baratro non puoi non avere paura. Perché? Perché sai che sarà peggio, sai che è più in basso che atterri, e in basso ci hanno insegnato che ci sta il profondo, il buio, il caldo, l’inferno, l’infimo. Ed è lì che vai. E questo non lo insegnò Socrate, lo insegnavano tutti quegli altri sani di mente. Ed è lì che Alfonso sentì di cadere.
Non intendo fisicamente. E nemmeno metaforicamente. Percepì la sensazione, la sensazione del baratro, la sensazione del baratro e basta. Ed ebbe una fottutissima e folle paura. E perché mi chiedete? Perché Alfonso vi sembra forse la tipica persona che cade tutti i giorni in un burrone? Alfonso manco sa cosa possa significare cadere. Alfonso ebbe una folle paura. Alfonso cadde. E cosa successe dopo? Dov’era? Non lo sapeva. Sapeva di per certo che quello significava cadere, ciò implementava che non poteva più trovarsi dove era prima. Se cadi, per forza di cose, sei da qualche altra parte più in basso. La cosa non lo convinceva, in quanto, comunque, non si era mosso di un passo. E come fai a cadere senza muoverti? Però era certo di essere caduto. Le ginocchia gli facevano male. Un male della madonna. Le sentiva quasi tremare. Scricchiolavano, ad ogni movimento. Non che Alfonso si stesse muovendo, per carità, aveva paura anche solo all’idea di smuovere mezzo passo. E allora? E allora era più in basso di prima, sicuramente. Ma altrettanto sicuramente era nello stesso preciso punto di prima. Alfonso iniziò ad analizzare la situazione: non sembrava poi tanto assurda. Semplicemente c’erano dei punti più in basso che erano alla stessa altezza. Punti tutti uguali, su piani diversi, che però potevano addossarsi, per poi tornare alle loro posizioni di origine. Insomma, mondi identici in movimento. E ogni tanto capitava. Capitava che cadessi in uno di questi altri mondi, simulacri del mondo iniziale (o forse il mondo iniziale era simulacro di questi altri mondi, e chi se ne importa). O forse era semplicemente caduto nello stesso preciso punto di prima. O forse era il punto ad essere caduto e lui si era trovato lì, in bilico, con un punto che cade. Insomma, la soluzione non si trovava. E soprattutto non si trovava Alfonso. Lo si cercava (o meglio, si cercava da solo) ma non si trovava. E giuro che si impegnava a trovarsi. Ma capì che dovendo essere in infiniti luoghi in contemporanea, o forse in nessuno, doveva certamente essersi perso. Nulla di più semplice. Cadendo ci si perde. E se non cadi da nessuna parte, nessuna parte rimane pur sempre un luogo differente da quello in cui ti trovavi prima. E se poi non volevi cadere? Cadi lo stesso, che chi se ne frega di quel che vuoi. E sperate che io vi scriva che Alfonso si sia ritrovato. Non ne ho idea, io dovevo scrivervi di “Alfonso che cadde e non si ritrovò”, mica di “Alfonso che cadde e all’iniziò non si ritrovò, ma poi alla fine ce la fece a ritrovarsi”. E no, non mi interessa di che fine abbia fatto, non mi ci sono affezionato. E no, non mi interessa dove stia, o di da quanto stia lì. Sta lì. Vegeterà. Si cercherà. Magari starà tracciando una cartina stradale, di non so bene dove. Che non so bene dove stia. E a me non interessa. Che se ne stia lì. Alfonso è caduto e si è perso, fine.​Questa è una storia tristemente vera. Un giorno nacque Alfonso. Ne nascono tanti di Alfonsi, solitamente. Un nome poco usuale (nemmeno vero a dire il vero) per una persona immensamente usuale. Di che parlo? Di Alfonso. Lui ci nacque, con una vita usuale. Avete più o meno presente cosa sia la vita? Io la immagino mediamente come un file di base con tutte le estensioni di sorta. Del tipo? Del tipo che ne so: generiamo Vita base n.1 e assegniamola a Laura. Aggiungiamoci l’estensione “passione per la danza”: adesso Laura ama la danza. Ciò magari porterà all’estensione “lesione al legamento crociato del ginocchio”: Laura si fotte permanentemente un ginocchio, al punto di doversi operare. Questo porterà immancabilmente all’estensione “Medicina”: Laura diventerà una delle migliori chirurghe dell'ospedale Regina Margherita, reparto Neonatologia, magari. Tanto per dire. Ecco, la vita è più o meno questa: una base, con tanti blocchi facoltativi che si aggiungono, si tolgono, si modellano, effettuano upgrade e via dicendo (non fatemi fare anche l’esempio di Reginaldo l’amministratore delegato cocainomane). Ora che avete presente le regole di questo entropico e labirintico gioco, dovreste sapere che Alfonso è quel tipico sfigato che ha una scarsa capacità di comprendonio, tale per cui della vita non ha capito un cazzo. Anzi, ancora peggio: la vita l’ha capita eccome, ma non la sa applicare. Cerco di semplificare: lui, le estensioni non sa nemmeno dove trovarle. È una specie di apatico e instabile affarino senza caratteristiche (adesso riderete pensando che per me sia stata una trovata molto poco originale e molto ingengosa quella del tipico e atipico personaggio senza nulla di particolare: ovvio che sì, un personaggio che non va descritto mi fa molto comodo). La cosa sorprendente? Non è che non avesse peculiarità, non possedeva neanche ciò che vi è di più comune. È qua che il tutto si fa interessante. Ed è qua che racconto il triste fatto: un giorno, un giorno che di peculiarità inesistenti Alfonso si era costruito un castello in testa (unica cosa che sapeva fare le peuvre: cosa ne può d’altronde un inetto se inetto c’è nato? La sua sola consolazione è diventare il miglior regista di film mentali della storia nella vana speranza di inciamparcisi, in uno di quei film, e annegarvici dentro, e magari viverli), un giorno in cui tutte queste caratteristiche che si voleva accaparrare si erano abbarbicate l’una sull’altra come mattoncini, a costruirsi un immenso muro che lo isolava dalla realtà, proprio quel preciso giorno (anche qua sarebbe facile dire che era un giorno qualunque, ma qualunque non era, perché cazzo quel giorno Alfonso è stato rivoltato come un calzino, da pelle a interiora), proprio lì, lui cadde. Non intendo fisicamente. E nemmeno metaforicamente. Non so bene come spiegarlo. È una sorta di caduta a metà tra tutte le cadute di cui si potrebbe cadere. Cadde, così. Non nello spazio, non nel tempo. Non cadde da nessuna parte. Però cadde, perché avverti quella sensazione di incertezza, quella sensazione del baratro: avete presente? Un piede lì, saldo, appoggiato alla coerenza di un sostegno. E l’altro? L’altro un po’ oltre, dove non riconosci superfici, non riconosci linee, escrescenze, conoscenze, non riconosci null’altro oltre allo sconosciuto e attanagliante buio. E sposti di poco il peso, poco oltre al limite dell’equilibrio, lì dove non può più raggiungerti, lì dove sei in balia dell’instabilità. E per un istante diventa euforia del volo, giusto per un istante, così che quell’euforia ti trafori la pelle, e poi corra via. E dopo? E dopo ci sta quella sensazione. Quell’altra. Quella che scandalizza. Come puoi avere paura di qualcosa che non conosci? Insegnava Socrate. Eppure del baratro non puoi non avere paura. Perché? Perché sai che sarà peggio, sai che è più in basso che atterri, e in basso ci hanno insegnato che ci sta il profondo, il buio, il caldo, l’inferno, l’infimo. Ed è lì che vai. E questo non lo insegnò Socrate, lo insegnavano tutti quegli altri sani di mente. Ed è lì che Alfonso sentì di cadere. Non intendo fisicamente. E nemmeno metaforicamente. Percepì la sensazione, la sensazione del baratro, la sensazione del baratro e basta. Ed ebbe una fottutissima e folle paura. E perché mi chiedete? Perché Alfonso vi sembra forse la tipica persona che cade tutti i giorni in un burrone? Alfonso manco sa cosa possa significare cadere. Alfonso ebbe una folle paura. Alfonso cadde. E cosa successe dopo? Dov’era? Non lo sapeva. Sapeva di per certo che quello significava cadere, ciò implementava che non poteva più trovarsi dove era prima. Se cadi, per forza di cose, sei da qualche altra parte più in basso. La cosa non lo convinceva, in quanto, comunque, non si era mosso di un passo. E come fai a cadere senza muoverti? Però era certo di essere caduto. Le ginocchia gli facevano male. Un male della madonna. Le sentiva quasi tremare. Scricchiolavano, ad ogni movimento. Non che Alfonso si stesse muovendo, per carità, aveva paura anche solo all’idea di smuovere mezzo passo. E allora? E allora era più in basso di prima, sicuramente. Ma altrettanto sicuramente era nello stesso preciso punto di prima. Alfonso iniziò ad analizzare la situazione: non sembrava poi tanto assurda. Semplicemente c’erano dei punti più in basso che erano alla stessa altezza. Punti tutti uguali, su piani diversi, che però potevano addossarsi, per poi tornare alle loro posizioni di origine. Insomma, mondi identici in movimento. E ogni tanto capitava. Capitava che cadessi in uno di questi altri mondi, simulacri del mondo iniziale (o forse il mondo iniziale era simulacro di questi altri mondi, e chi se ne importa). O forse era semplicemente caduto nello stesso preciso punto di prima. O forse era il punto ad essere caduto e lui si era trovato lì, in bilico, con un punto che cade. Insomma, la soluzione non si trovava.
E soprattutto non si trovava Alfonso. Lo si cercava (o meglio, si cercava da solo) ma non si trovava. E giuro che si impegnava a trovarsi. Ma capì che dovendo essere in infiniti luoghi in contemporanea, o forse in nessuno, doveva certamente essersi perso. Nulla di più semplice. Cadendo ci si perde. E se non cadi da nessuna parte, nessuna parte rimane pur sempre un luogo differente da quello in cui ti trovavi prima. E se poi non volevi cadere? Cadi lo stesso, che chi se ne frega di quel che vuoi. E sperate che io vi scriva che Alfonso si sia ritrovato. Non ne ho idea, io dovevo scrivervi di “Alfonso che cadde e non si ritrovò”, mica di “Alfonso che cadde e all’iniziò non si ritrovò, ma poi alla fine ce la fece a ritrovarsi”. E no, non mi interessa di che fine abbia fatto, non mi ci sono affezionato. E no, non mi interessa dove stia, o di da quanto stia lì. Sta lì. Vegeterà. Si cercherà. Magari starà tracciando una cartina stradale, di non so bene dove.
Che non so bene dove stia.
E a me non interessa.

Riluttante del suo stato esistenziale.
Che se ne stia lì.
Alfonso è caduto e si è perso, fine.​
  
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