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Autore: Jay_Myler    05/08/2015    0 recensioni
(Riscritto)
Vecchio racconto scritto e pubblicato in seconda volta il 1/09/18.
Prendi un bambino piccolo ed inizialo alla tua religione, setta, credenza o quello che sia inculcagli le tue convinzioni senza dare alcuna spiegazione, senza che possa farti alcuna domanda, senza che possa esprimere un dubbio o una qualsiasi sentenza non ti vada a genio e creerai un essere umano pieno di astio ed intolleranza; costringilo a vivere in quella realtà senza alcuna altra scelta ed avrai un lupo tra le pecore.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Spesso mi sono ritrovata a fare alcune cose di cui non ne avevo voglia, solo perché la mia famiglia aveva deciso così e non c'era storia che tenesse; il mio parere non era quasi mai stato preso in considerazione per le decisione che venivano prese sulla mia vita, reputandomi sempre troppo piccola per poter fare della mia esistenza ciò che ritenevo più opportuno. Se volevo indossare delle scarpe diverse da quelle che mi compravano era completamente fuori questione, se davo l'idea che invece di una gonna, avrei voluto indossare un pantalone, venivo considerata alla stregua di una suffragetta che chiedeva i diritti per le donne e se solo mi azzardavo di parlare dei mie ideali, di quello in cui credevo o meglio di quello in cui non credevo, venivo ignorata o presa per una blasfema eretica. In poche parole che il mio nome fosse Melissa o Giovanna d'Arco non faceva molta differenza, se mi avessero data al rogo non mi sarei stupita più di tanto. Ho cercato molte volte un modo per cercare di far valere il mio volere, di instaurare un dialogo con la mia famiglia, di creare un precedente di ribellione accettata per poi fare quello che desideravo, ma in una famiglia di ferventi fanatici religiosi non puoi mai spuntarla ed averla vinta. Più il tempo passava e più io mi rassegnavo che avevo buttato un anno della mia vita dietro sciocchezze in cui non riponevo la minima fiducia, in cose che ritenevo stupide, per cose che mi avevano inculcato e per le quali non riuscivo a portare più rispetto. Quando la libertà ti viene negata, nasce in te un piccolo sentimento di intolleranza che vorresti reprimere, che in realtà si fa sempre spazio in maniera prepotente dentro la tua testa.

Prendi un bambino piccolo ed inizialo alla tua religione, setta, credenza o quello che sia inculcagli le tue convinzioni senza dare alcuna spiegazione, senza che possa farti alcuna domanda, senza che possa esprimere un dubbio o una qualsiasi sentenza non ti vada a genio e creerai un essere umano pieno di astio ed intolleranza; costringilo a vivere in quella realtà senza alcuna altra scelta ed avrai un lupo tra le pecore.

Mentre la mia famiglia viveva timorata da Dio e dalle sue leggi, io crescevo con un 'indole che cadeva sempre di più nel macabro; se da piccola andavo fiera della mia collezione di insetti morti e di teschi di uccelli, man mano che compievo gli anni e ricevevo solo percosse e maltrattamenti fisici e mentali, comprendevo che il mio essere diversa non sarebbe mai stato accettato da nessuno; così inizia a nascondere le mie collezioni demoniache. Tutto quello che non era approvato da mia nonna era considerato come un affronto contro il suo Dio e fino a quando mi dimostravo per quello che ero, mi ha sempre considerata l'incarnazione del male. In realtà non sono mai stata una cattiva bambina e nemmeno disubbidiente, avevo solo voglia di essere libera di fare quello che mi piaceva, di collezionare i miei piccoli tesori ed andarne fiera; non ho mai fatto del male ad alcun animale o persona, nonostante io stessa venivo percossa abitualmente per espiare i miei peccati; le costanti preghiere della giornata e le confessioni settimanali per nonna Eugenia non erano abbastanza, l'offesa che instillavamo sull'Altissimo andava espiata attraverso la carne come nostro Signore sulla croce ed il fatto che fossi di salute cagionevole non le faceva nessun effetto, non la inteneriva né faceva in modo che le sue punizioni fossero meno severe. Queste idee così radicate e bigotte non erano tipiche solo di quelle poche persone che costituivano la mia famiglia, Nonna Eugenia e quella donna dal poco carattere di mia madre, avevano alle loro spalle, a darle man forte, tutta una comunità di squilibrati che la pensavano esattamente come loro. Una gruppo visto di traverso anche dalla stessa comunità religiosa, che li teneva a bada, aspettando solo un altro passo falso per scomunicarli e prenderne le distanze; le loro mentalità retrograde, risalenti forse ai primi anni dell'inquisizione, facevano storcere il naso quasi a tutti, ma senza una buona motivazione, non era possibile isolare questa cellula radicale; i motivi ce n'erano, anche a bizzeffe, ma erano tenuti tutti nascosti, perché i panni sporchi si lavano in famiglia, o almeno così mi diceva la nonna. Costretta a frequentare quel mondo, decisi di creare uno scomparto del mio cervello atto a rimanere lucida ed in costante ribellione, senza però farmi scoprire, ero ancora troppo giovane all'epoca e non avevo posto dove andare, né altra famiglia dalla quale rifugiarmi. Non trovavo conforto nemmeno tra le braccia di mia madre, costretta a tornare a casa dei genitori dopo aver subito l'onta di un matrimonio spezzato; non che fosse colpa sua, ma il loro legame era indissolubile agli occhi della nonna e della sua congrega, io invece, nata prima dell'effettivo matrimonio era lo figlia del peccato. Sarà anche questo il motivo per il quale la nonna non poteva sopportarmi o vedermi, credo e non faceva remore nel dimostrarmelo. Dalla mia io continuavo a crescere con le mie idee, con i miei pensieri, tutti ben nascosti, insieme alla mia scatola delle meraviglie, che non avrei mai potuto mostrare a nessuno; continuavo la collezione di teschi di piccoli animali, mi appassionai al disegno e le nature morte erano le cose più belle ed affascinanti da rappresentare; mi sarei persa delle ore nell'ammirare il miracolo della morte in atto su qualche uccelletto di bosco. Nemmeno quei disegni dovevano essere visti da anima viva e li custodivo con ansia, sperando che nessuno mi scorgesse mai a prendere in mano una matita ed un foglio per ritrarre quegli scempi. Album pieni di ritratti di animali morti e le loro carcasse, stavano ben nascosti sotto un asse della nostra cantina, un posto che già poco frequentava la mia famiglia e che di certo non sarebbe stato ispezionato così a fondo; mi interessavo anche alla lettura, l'esoterismo era uno dei miei argomenti preferiti e la magia nera che si celava in essi mi attirava più del miele nel latte caldo, in una giornata invernale. Quelle, come tutte le altre cose che riguardavano un mondo magico o ultraterreno, per me erano solo sciocchezze senza alcun senso, molto intriganti ed affascinanti, ma senza un minimo di valore nel mio buonsenso. Andando a studiare in biblioteca, avevo a disposizione tutta la cultura del mondo, solo quando riuscivo ad andare in una biblioteca non cristiana, dove tutto era improntato su Dio e quanto fosse buono; mi era bastato acquistare un po' credibilità agli occhi della nonna ed avevo il permesso di andare a studiare qualcosa, alla fine non ho mai specificato a quale tipo di cultura io mi riferissi. Nonostante credessi di aver trovato il giusto equilibrio, nonna Eugenia decise che non facevo abbastanza per apprezzare il grande dono di Dio, che non fossi abbastanza presente durante le preghiere, che non sentiva così convinta la mia fede e che in ogni caso, essendo frutto del peccato, non facessi a prescindere il massimo per essere considerata un essere umano degno di tale nome. Così cominciò il mio calvario, proprio come l'eroe del suo personaggio preferito del suo libro prediletto, mi incamminai verso un posto che sarebbe rimasto per sempre con me, nell'anima, senza darmi alcuna via di fuga. Avevamo l'onore di fare parte di quella comunità di nicchia, grazie ad una sorella di nonna, che avevo preso i voti tra i trenta ed i cento anni prima, considerando quanto fosse vecchia e rugosa; questa anziana suora, dai modi molto burberi faceva apparire la mia nonnina come una dolcissima donnina dai modi garbati, che mi offendeva senza alcun tipo di freno, che mi picchiava con la cinta ogni giorno, lasciandomi segni più o meno visibili sul corpo ed indelebili nella mente e nel mio essere.

Grazie a questa appartenenza di sangue, ebbi l'onore di far parte del loro campo estivo per sole ragazze, una specie di vita da suora molto prima del tempo, dove potevamo soltanto pregare, pulire, cucinare e dormire, il tutto si svolgeva in un vecchio convento di clausura, ormai in disuso.

Ci dividevano nelle varie celle che per anni erano appartenuti alle suore che ci vivevano, piccole ed anguste, dove a stento c'era lo spazio vitale per una persona, una minuscola finestra sbarrata in alto a tutto, una misera brandina ed un inginocchiatoio, questo era quello che avevamo a disposizione. Ad oggi ancora non mi è chiaro a che tipo di esperienza positiva avrei dovuto andare incontro, quello che posso dire è che eravamo controllare senza sosta e che quella esperienza mi cambiò la vita completamente, l'ultimo anno in particolar modo.

Mi sento in dovere di dirvi che non dovrete credere per forza a quello che vi racconterò, siete liberi di non crederci, di passare oltre, di pensare che sia pazza e non riuscirei a darvi torto, nemmeno io ci crederei se mi ascoltassi, ma posso assicurarvi che sono convinta che sia la verità, più di questo non posso dire.

La prima volta che mi mandarono ero completamente da sola, abbastanza spaurita e con un piccola valigia piena di gonne nere o blu e maglie bianche, l'unico abbigliamento concesso da chi dirigeva il campo; le suore che si occupavo di tutto erano le consorelle della mia prozia, che non smentivano la stessa provenienza, con un appiglio forse alla pari, se non peggiore, di quello che avevo provato sulla mia pelle dal mio stesso sangue. La mia indole che voleva ribellarsi a tutto ciò, non morì mai, mi costrinsi a portare almeno i miei album e le mie matite e non so nemmeno io come, riuscii a portarli senza che mia nonna o qualcuna delle suore se ne accorgessero. Doveva esserci qualcosa che mi poteva aiutare a tenere la mente lucida ed a non impazzire; immaginate la cosa che più odiate al mondo, pensate di dover fare quella cosa sempre, con costanza e come se vi piacesse, come se ne andasse della vostra vita, non vi sentite, anche solo pensandolo, di morire un pochino dentro? Io lo facevo ogni giorno, ogni volta che mi mandavo a quel campo ed anche dopo che non mi vollero più a casa e mi mandarono a vivere per il periodo invernale con le stesse suore che si occupavano di me durante l'estate. Mi rafforzai e divenni sempre più brava a mentire, dissimulare, fingere e fuggire; quando ti sforzi di sembrare perfetta tutto il giorno, hai il benestare della fiducia per fare quello che ti rende viva durante la notte, senza destare sospetti. Vivevo con quei pochi vestiti che mi portai la prima volta nella mia valigia striminzita, ma grazie al mio intelligente inserirmi nella loro mentalità, avevo tutto un altro tipo di vita e di vestiario, per quando non ero tenuta sotto controllo; sapevo dove andare, come uscire dalla mia abitazione, come non farmi beccare e quando e dove scappare, per poi tornare in silenzio per non far destare nessun sospetto; avevo un lavoro, amici e duna vita normale al di fuori, vivevo due vite completamente differenti senza alcun problema, di giorno una santa tra le “sante” e di notte ero Melissa, una normalissima ragazza di città, che lavorava nei bar – mentendo sulla sua età – capace di falsificare documenti, che usciva con chi le piaceva, senza avere il freno del sesso dell'altra persona, senza avere la paura di offendere Dio con il sesso fatto senza aver il fine di procreare dopo aver fatto una promessa. In poche parole ero me stessa, forse un po' troppo matura per la mia età, già vivevo come un'adulta ed avevo tutto questo che dovrebbe essere normale, come un meraviglioso regalo. Aspettavo soltanto l'età giusta per potermene andare ed emancipare, per allontanarmi da tutto quello, ma non feci in tempo per far avverare questo mio sogno.

Il campo estivo diventò la mia gioia ed il mio supplizio allo stesso tempo; Melissa non aveva modo di esistere circondata dalla religione, veniva soffocata e repressa, non poteva creare quello che voleva su carta, non poteva vestirsi come voleva, non poteva gestirsi la giornata come meglio credeva, era tutto scaglionato ed organizzato; la vera Melissa moriva sempre un po' alla volta.

Era così che mi sentivo, uccisa lentamente, costretta in questo loop di routine senza via di fuga, con gente che mi fissava, scrutava e giudicava, appuntando cose su un quaderno, senza dire mai nulla o farti capire se qualcosa andasse o meno; questo era quello che odiavo, il mio supplizio estivo, il dover rinunciare alla mia vita che tanto avevo faticato a costruire.

Poi c'era la delizia, minima, infima, nascosta e davvero minuscola paragonata a quello che dovevo subire, ma era comunque presente e mi faceva essere un po' più serena e mi evitava di impazzire; il suo nome era Evelyn ed era l'unica cosa buona in tutto quel posto.

Evelyn era una ragazza normalissima, non aveva nulla a che fare con quel posto, proprio come me e sentivo di potermi fidare di lei, anche se non lo feci inizialmente, per salvaguardare la mia incolumità; non potevo rischiare tutto per un'amicizia che sarebbe stata presente per così poco nella mia vita; in realtà divenne una vera e propria costante, non lo avrei mai pensato o immaginato, ma fu proprio quella la cosa che rese così importante la nostra unione. Restammo unite anche durante ciò che successe, in mezzo a quel fumo, le fiamme, le urla strazianti e le pareti macchiate di liquidi viscido.

Come me anche lei non aveva avuto vita facile, costretta nella sua posizione di figlia unica e donna, in una famiglia non solo credente, ma anche molto rigida di mentalità e che la vedeva come una disgrazia, la sua nascita aveva impedito alla madre di avere altri figli e lei era nata femmina, cosa che il padre non le ha mai perdonato e continuava a farglielo presente continuamente. In quella costrizione ci trovammo e ci davamo sostegno e affetto a vicenda, cercando di uniformarci il più possibile a tutto quello solo per poter passare inosservate.

Le nostre celle erano vicine, ogni anno, era l'unica gioia che ci veniva concessa, finché eravamo come loro volevano, noi potevamo creare un team che ai loro occhi serviva la loro divinità senza fermarsi un attimo, mentre ai nostri avevamo qualcuno con cui parlare di qualsiasi cosa; la notte sgattaiolavamo nella stanza dell'altra per parlare e farci compagnia, le mostrai i miei disegni, lei mi riempiva l'album per metà con i suoi, altrettanto macabri, spesso anche di più; in realtà erano l'esatto opposto di come lei si presentava. Il suo viso era pulito, liscio con un incarnato roseo e le guance rosse, i suoi occhi verdi erano sempre pieni di vita e le lentiggini che le costellavano il viso la facevano assomigliare ad una giovane modella in erba; i suoi capelli erano rossi come le foglie autunnali poco prima di cadere, in quel luogo erano visti come un segno di vanità e di cattivo auspicio; capelli leggermente ricci e rossi, i capelli del diavolo. La sua figura da bambina era stata sempre molto posata, crescendo ed arrivando quasi alla maturità era davvero sbocciata, si presentava alta e snella, ed anche se erano ben coperte dai vestiti, le sue curve spuntavano inesorabilmente da sotto, increspando il tessuto e risultando comunque molto evidenti. Lei così bella ed eterea, i suoi disegni era cupi e nefasti, simboli criptici ed animali inquietanti, sovrastavo gli altri disegni, più positivi; non le ho mai chiesto cosa rappresentassero o dove prendesse l'ispirazione, come lei non mi interrogava sulla mia passione per gli animali morti, io non interrogavo lei su quello che mi lasciava negli album.

Io ed Evelyn ci somigliavamo molto fisicamente, molti tratti avevamo in comune, i miei capelli ramati brillavano come i suoi al sole, eravamo della stessa altezza, stessa fisicità, solo che io avevo molto più seno e fianchi più larghi, ero una clessidra che camminava; la mia pelle non è mai stata rosata come la sua, la mia carnagione era molto vicina al bianco latte e su di me le lentiggini erano molto più evidenti e le avevo su tutto il corpo; questo lei lo scoprì andando avanti con il tempo. Gli occhi erano la cosa che lei preferiva su ogni cosa, diceva che poteva passare le ore a guardarmi negli occhi, per perdere nell'azzurro delle mie iridi, così vive e così splendenti che le sembrano stelle.

Arrivammo a dirci di tutto e di più, non potevamo stare l'una senza l'altra, stavamo quasi avendo un rapporto ossessivo, eravamo così unite e simile che ci scambiano per sorelle e nessuno si azzardò mai, per qualche motivo, a separarci; la convinsi a venire anche lei dove vivevo io, c'era posto nella casina dove abitavo, poco lontano da dove abitava la mia prozia con la sua comunità. A chi non faceva parte dell'ordine non era concesso vivere in comunità, dovevo stare separata da tutto il resto, con certa indipendenza, ma pur sempre sotto l'occhio vigile addosso; dopo anni tutti si aspettavano che una volta cresciuta prendessi i voti e fu fin troppo facile convincere tutti che anche Evelyn avesse le mie stesse intenzioni e i genitori non fecero troppe domande né troppe pressione per non farla andare via di casa.

Coinvolsi anche lei nella mia seconda vita, nell'unica delle due che io consideravo tale, più passavamo il tempo insieme, più avevo fiducia nel fatto che saremmo riuscite ad andarcene via per sempre.

Era un paradiso stare con lei; fingere era meno pesante, aveva davvero un senso, non solo la pura necessità di evadere, avevamo piani per il futuro, avevamo un futuro, ci sentiamo molto unite, l'una la famiglia dell'altra ed anche se la mia salute non stava migliorando, sentivo che tutto sarebbe andato per il meglio.

Quando potevamo aggiungevamo pezzi alla nostra collezione di teschi animali, riempivamo album e leggevamo libri; siamo sempre state così simili, così affini.

Durante l'estate le cose non cambiavano molto, siamo cresciute insieme e continuavamo a farlo, ci siamo conosciute da piccole, abbiamo condiviso racconti, poi una casa, gli studi a casa e progetti da realizzare, anno dopo anno cambiavano noi, i nostri corpi, le nostre menti, i nostri sogni, l'unica cosa che rimaneva invariato era il malcontento che avevamo nel dover stare, dopo anni, ancora rinchiuse lì, senza poter fare altro che aspettare per cambiare radicalmente. Devo essere sincera, forse ero io quella che accusava di più, senza rendermene conto mi trovavo spesso a lamentarmi, a dire che non vedevo l'ora che cambiasse tutto quello, che il tempo doveva passare velocemente, che iniziavo a risentirne un po' di tutto quello che mi stava accadendo da quando eravamo tornare a casa della nonna Eugenia, e le raccontavo la mia vita passata tra un misto di nostalgia e sollievo; mi mancava la vita che avevo con la mia famiglia, la mia vera famiglia, quella con mia madre e mio padre, prima che si lasciassero ed ero così felice di aver abbandonato la casa della nonna, anche se ero passata dalla padella alla brace. Lei ascoltava ogni singola parola, ovunque fosse smetteva quello che era intenta a fare, si fermava ed in silenzio aspettava che ogni singola parola che avessi da dire uscisse dalla mia bocca per arrivare alle sue orecchie, con il suo sguardo vispo e tanta pazienza nell'ascoltare le solite storie.

Le estati erano ormai monotone e senza alcuna vita, la mattina sveglia alle sei per pregare in ginocchio davanti all'uscio della porta, tutte insieme, per poi vestirsi ed andare a messa, andare a preparare e fare la colazione, pulire tutto, tornare a sistemare le celle; poi il catechismo, altre preghiere, preparazione del pranzo, pulizie, riposo obbligatorio, canti sacri e di nuovo catechesi, rosario e cena, preghiere della sera e subito a dormire. Ripetere tutto questo per l'intera estate, tutti i giorni, senza sosta; in più io ed in un secondo momento anche Evelyn, lo facevamo anche durante il resto dell'anno, dove invece delle pulizie classiche ci toccavano altre mansioni attinenti a quello che serviva al convento delle suore.

Un anno passava dopo l'altro e mi scoprii ad essere sempre un po' più differente dalla mia compagna; se da una parte ci avvicinavano sempre di più, da un altro prendevamo strade che divergevano, anche se non di troppo, eravamo lontane, ma ci riuscivamo pur sempre a vedere l'un l'altra. Uscivamo sempre di nascosto, le nostre amicizie erano un po' cambiate, non apprezzavo molto alcune persone con cui passava il suo tempo; prendeva da leggere libri sempre più complessi e strani, con simboli ricorrenti e parole arcaiche, li trovava interessanti, avrebbe potuto studiare storia o archeologia una volta uscite di lì. Non era l'unica cosa che mi faceva storcere il naso; il suo sguardo era abbastanza assente, mi ascoltava sempre ed anche in lei la sua indole curiosa iniziò a crescere; c'era una profonda differenza però: mentre io ero curiosa su tutto, sul mondo, sul sapere quello che c'era da scoprire in generale, lei se si incuriosiva, si ossessionava con quell'argomento fino a quando non si riteneva soddisfatta, cioè mai.

Stare con lei era sempre bello, ma abbastanza faticoso, la mia salute ne risentiva e iniziavo a sentirmi sempre più stanca a debilitata.

Ogni anno il campo estivo era sempre più scarno, alcune ragazze erano ormai troppo grandi, altre si facevano venire a prendere dai genitori prima del tempo, alcune semplicemente non si presentavo l'anno dopo e non avevamo più sue notizie; le suore non ci hanno mai dato modo di contattarle in qualche modo, lasciandoci sempre con l'amaro in bocca per non aver salutato alcune delle nostre compagne. Arrivate ad un età in cui eravamo considerate abbastanza responsabili, ci venne affidato l'incarico che avevano avuto le ragazze più grandi prima di noi: la parte che riguardava preparare i pasti in prima persona. Mentre le più piccole si occupavano di compiti più facili e sicuri, iniziò a toccare a noi a fare il lavoro pesante. Il menù non era mai scelto da noi, nemmeno potevamo prendere il cibo dalla dispensa, trovavamo già tutto l'occorrente nella cucina a nostra disposizione, con quello che dovevamo mangiare; se ci mancava qualcosa non eravamo autorizzate a scendere a prendere ciò che ci mancava, dispensa, cella frigorifera e magazzino erano completamente off-limits per noi.

Inizialmente non ci facemmo grossi problemi per questo inconveniente, eravamo brave ad improvvisare e non c'era motivo di andare a prendere altri ingredienti o di domandarci cosa ci fosse di buono da mangiare nascosto da qualche parte; con il passare dei giorni, iniziammo a porci qualche domanda, in maniera molto superficiale, come argomento di conversazione tra una patata sbucciata ed un cipolla tritata.

Era un martedì di agosto, non era una giornata diversa dalle altre, non avevamo fatto altro che pregare e fare le pulizie, come al solito e non avrei mai pensato che quello potesse essere l'inizio di qualcosa che sfociò nell'essere più grande di me.

Stavamo preparando la cena, come ogni sera, il menù ci portava una semplicissima zuppa di cipolle e come secondo patate bollite; niente di strano, nulla di nuovo.

C'era qualcosa di diverso, qualcosa che avrebbe dovuto attirare la mia attenzione ma che non lo fece, non immediatamente, non nel mio conscio, ma la mia mente immagazzinò quell'informazione.

Mentre Evelyn e Maxine iniziavano a preparare le patate, Selina ed Elenoire tagliavano le verdure, Viviane e Lucille si occupavano di dare una mano alle più piccole a preparare la tavola e delle stoviglie da lavare, io cercavo quelle maledette cipolle; dannazione non le trovavo da nessuna parte, mentre imprecavo mentalmente, con voce angelica chiesi se qualcuno le avesse viste da qualche parte. Nessuno mi rispose inizialmente, poi quando mi prestarono attenzione, Selina mi avvertì che già qualcuno poco prima si era accorta di non trovare le cipolle; quando le chiesi chi o se le avessero trovate, non mi seppe dare nessuna risposta. Ci stavamo rassegnando a fare una zuppa di cipolle senza le protagoniste quando all'improvviso le notai sul bancone di lavoro, proprio in bella vista; nessuno le aveva notate prima e quando chiesi se fossero state sempre lì nessuno sapeva dirlo con certezza; fatto sta che a quell'ora bisognava tagliare quegli ortaggi molto velocemente per aggiungerli al brodo. Eravamo meno del previsto come forza lavoro, perché mi trovai da sola a dover sbucciare e tagliare un'intera cassetta di cipolle; erano tutte impegnate, ed in gruppi da due, io ero rimasta da sola ed avrei scommesso che mancava qualcuno all'appello. Lasciai perdere a presi a fare la mia parte, prendendo in mano la situazione; quella cassetta era piena di cipolle, ma non semplici cipolle, ma cipolle completamente sporche ed appiccicaticce, così piene di sporcizia, che per togliere la parte esterna feci molta fatica e persi molto tempo. Sporche di succo di rapa rossa, che le rendeva scivolose e difficili da tenere in mano, pensai che chiunque avesse organizzato il magazzino delle verdure avesse fatto un pessimo lavoro; anche se era cibo solo per noi ed eravamo in posto più vecchio di mia nonna, non voleva dire che doveva essere accatastato nella maniera più grossolana e casuale. Mi rassegnai e feci il lavoro che doveva essere fatto da più persone da sola, riuscendo a finire per tempo e quella sera mangiammo tutti un'ottima zuppa di cipolle.

Avevo ancora le mani macchiate di rosso, rimasero rosse per tutta la sera, nonostante continuassi a lavarle e il colore da sotto le unghie rimase fino al giorno dopo.

Quella sera Evelyn non venne in camera mia, andai io da lei, bussai ma nessuno aprì la porta o mi rispose; non era la prima volta che si addormentava prima di incontrarci. Da quella sera però, durante i campi, iniziammo a vederci poche volte la notte.

Anche quell'anno altre ragazze smisero di venire o se ne andarono prima, solo poche venivano ad avvertirci per dirci addio.

Non stava cambiando solo quello che eravamo abituate a vivere come campo, ma anche la nostra vita domestica; se di giorno era identica a come l'avevamo passata per tutti quegli anni, la notte iniziò ad essere diversa; lasciò il suo lavoro, iniziò a spendere tutti i suoi risparmi e non la vedevo quasi più; quando potevamo stare insieme, passava il tempo a leggere per conto suo, iniziò a diventare più introversa, iniziò a d escludermi da quello che pensava e provava, ma dava ancora molta importanza a come stavo io. Io stavo male, iniziavo a non sopportare più nulla, la mia anima ribelle stava cercando di uscire fuori sempre di più; resistere in quel posto, di nuovo da sola, senza più la mia Evelyn che mi sosteneva, potendola a malapena vedere da lontano mentre cambiava lentamente strada rispetto alla mia. Non capivo più cosa stesse succedendo, se aveva ancora in mente la nostra idea, i nostri sogni, se voleva ancora andarsene via con me per andare a vivere lontano.

Mi lamentavo sempre di meno e cadevo sempre di più in un sorta di depressione e lasciavo che questi pensieri prendessero il sopravvento e mi facessero entrare in una sorta di bozzolo di isolamento; mi allontanai da tutti, non tanto fisicamente quanto emotivamente parlando ed iniziavo a sentirmi sempre più da sola, anche quando ero circondata di persone. Iniziai a vedere altre persone, quando scappavo via dalla mia prigione; il silenzio e lo sguardo sempre più assente di Eve non mi bastavano più; non avevamo più lo stesso rapporto, non avevamo più lo stesso calore, non riempivamo più gli stessi album e non condividevamo più il letto. Era tornata nella sua stanza, stava lì tutto il tempo quando non eravamo impegnate, la sera iniziava a chiudersi lì e a non uscire più, con le sue candele ed i suoi libri e non usciva fino al mattino dopo; non so nemmeno se dormisse più.

Mi sentivo in colpa, come se la stessi tradendo, ma lei mi stava escludendo da qualsiasi parte della sua vita stesse attraversando, tutto da quel normalissimo martedì di Agosto, ormai da quasi un anno.

Passavano i giorni, noi ci allontanavamo ed il mio compleanno si avvicinava, era l'anno della nostra libertà, l'ultimo da passare lì, almeno per me, mentre Evelyn avrebbe compiuto la maggior età l'anno dopo; fino a qualche tempo prima avrei scommesso che sarebbe voluta venire con me, via da quel posto ma ora ero insicura di tutto. Dovevo andarmene? Dovevo aspettarla? Sarebbe scappata via con me, lontano da tutto quello?

Ero insicura di tutto e più pensavo a questo, più mi sentivo incerta, oltre al fatto che la mia salute stava peggiorando lentamente, inesorabilmente sempre di più.

Vivere con lei era un inferno e non sapevo quanto ancora potevo andare avanti così.

Il mio compleanno passò anonimamente agli occhi di tutti, feci finta di nulla e mi ripromisi di affrontare un ultimo campo, un'ultima volta quel tremendo convento di clausura e poi me ne sarei andata, con o senza Evelyn.

Non ci misi molto a capire che qualcosa era inevitabilmente cambiato a tal punto che non sapevo se si potesse aggiustare in qualche modo; Evelyn passava il suo tempo con le altre ragazze, si comportava come al solito in maniera impeccabile ma la notte non era più dedicata al nostro appuntamento notturno. Iniziai a prendere le distanze da tutti anche in quel posto dimenticato da Dio, perché se fosse davvero esistito, non avrebbe mai permesso quello che stava accadendo proprio sotto di noi.

Non avevo più la forza o la voglia di fare qualcosa per cambiare, mi sentivo solo stanca e spossata, non avevo la lucidità mentale di affrontare un discorso serio per chiarire una volta per tutte la situazione con Eve.

I giorni passavano ed io mi indebolivo, forse era per la situazione, forse ero solo stanca di tutto quello che mi era accaduto nella vita.

Continuai a passare l'estate senza voglia di ribellarmi, solo con molta stanchezza e giramenti di testa; anche se ero sempre stata di salute debole, per nessuna delle suore questo era motivo per mandarmi da un medico; dovevo solo offrire questo mio dolore, patendo in silenzio, al buon pastore.

Andai presto nelle cucine, prima di tutti quanti, per cominciare a preparare; mi aveva mandato stesso la madre superiora che quel giorno era venuta al campo solo per mangiare con noi.

Trovai la cucina deserta, non c'era nulla con cui iniziare a cucinare qualcosa, solo un foglio con sopra il menù della sera e la porta per scendere nella dispensa aperta; mi sembrava un invito abbastanza palese.

Forse era la prima volta dopo tutto quel tempo, che prova una sensazione positiva, ero curiosa di sapere cosa ci fosse in fondo a quelle scale e contenta di poterlo finalmente scoprire. Mi fermai un attimo sull'uscio per leggere il post it attaccato al calendario, con scritto gli ingredienti del giorno e le quantità; buttai distrattamente un occhio alla data.

Scesi i primi due gradini, mi fermai un secondo per un giramento di testa, stavo rischiando di cadere e ruzzolare per l'intera scalinata, di cui non si vedeva la fine; il corridoio era buio ed umido, non era molto illuminato, solo in fondo si vedeva una luminescenza lontana di colore aranciato; non c'era non corrimano o qualcosa a cui aggrapparsi, riuscii a mantenere l'equilibrio per un soffio.

Ma la testa continuava a girarmi, iniziavo a sudare freddo, un ronzio nella mia testa si faceva sempre più intenso, più alto, sembravano litanie cantante in lontananza, man mano diventavano sempre più chiare e nitide, era latino, era inquietante, iniziai a vedere luci tremolare su per il corridoio, dove fino a poco prima non c'era altro che il buio totale.

La vista iniziò ad annebbiarsi, vedevo doppio, o forse triplo, l'aria si faceva sempre più pesante, rarefatta, avevo i polmoni pieni di fumo, fumo di un odore dolciastro ed acre allo stesso tempo, qualcosa che peggiorava le mie vertigini. Mi appoggiai con la mano al muro ed era freddo e umido, anzi bagnato e completamente viscido, la mia mano scivolò sopra e per poco non la seguii per la seconda volta; tutto girava troppo, l'odore era troppo forte, le voci si avvicinavano, le luci che prima non c'erano danzavano ed io persi l'equilibrio.

La mia caduta di fermò poco prima di arrivare con la testa sullo scalino, una presa saldo mi tenne in piedi e mi tirò indietro, di nuovo nelle cucine e ricominciai a respirare.

Ero sul pavimento, era più caldi rispetto al muro di pietra di prima, qui c'era attrito e non sentivo più nessun brusio nella testa; non c'era bisogno di chiedere di fosse stato a salvarmi dalla caduta, l'unica cosa che feci fu domandare che giorno fosse.

Era un martedì.

A fine giornata fui contenta di tornare nella mia stanza, pronta a buttarmi sul letto e lasciare che il sonno prendesse il sopravvento.

Mi addormentai subito effettivamente, ma fui svegliata da un rumore nel cuore del notte; veniva dalla stanza accanto. Avrei potuto lasciar perdere a tornare a dormire, invece mi alzai per andare a dare una sbirciata, senza farmi scoprire. Non mi fu difficile sbirciare, la stanza della cella era socchiusa, mi bastò spingerla lentamente per avere una visuale migliore; era la stanza di Evelyn ma era piena di ragazze, tutte quante erano in circolo, candele accese e stavano leggendo da un libro nelle mani della mia amica. Per terra c'erano dei segni che non riuscivo a distinguere, ma erano stati fatti con qualcosa di rosso, che sotto la luce delle candele brillavano intensamente.

Tutte indossavano qualcosa sulla testa, nelle penombra riuscivo a distinguere pochi dettagli alla volta; erano poggiati dei piccoli copricapi con alcuni fiori intorno, sembravano morti o forse secchi. Avevo Eve proprio di fronte, cercai di concentrarmi su di lei, cercando di carpire il più possibile: come abito aveva un lenzuolo messo come una tunica, fermato da un semplice nodo, che le lasciava un seno scoperto. Sul corpo portava dei segni scuri, disegnati a mano, semplici linee o punti; i suoi occhi erano chiusi, mentre recitava qualcosa a memoria, seguita dalle altre che invece leggevano dal tomo che aveva tra le mani rivolto verso di loro. Inizia a provare sentimenti contrastanti, ero affascinata da tutto quello, avrei voluto sapere di più, avrei voluto anche solo saperlo. Dall'altro lato ne ero intimorita, stavano praticando qualcosa che non conoscevo, qualcosa che mi era stato tenuto nascosto, qualcosa che mi faceva tenere il fiato sospeso e il cuore che lentamente rallentava. All'improvviso la litania cessò, le candele tremolarono ed Evelyn aprì gli occhi; erano fissi su di me, mi stavano guardando, mi stavano scandagliando, mi stavano scavando l'anima. Nonostante mi sentissi osservata, i suoi occhi erano completamente velati e pur guardando nella mia direzione, non mi vedevano; vidi che sulle loro teste regnavano con solennità crani di vari animali, sulla testa di quella sacerdotessa poco vestita, si ergeva un teschio di un animale con le corna: una capra.

Non corsi via e non mi bloccai, semplicemente mi scostai dalla porta ed incominciai a camminare verso la cappella; misi in dubbio tutte le mie convinzioni, il mio scetticismo, il mio modo di comportarmi e di vivere come avevo fatto fino a quel momento. Mi tornarono in mente le parole di mia nonna, che mi rivolgeva ogni giorno, non c'era bisogno di un motivo o di un'occasione speciale.

“La pagherete, voi figli del peccato, nati da un'unione non consacrata.

Siete la rovina del mondo, Dio vi guarda e poi ve la farà pagare con la stessa moneta, potete sembrare dei santi, ma non sarete mai ammessi nel regno dei cieli”, mi ripeteva come mantra, per ricordarmi quanto poco affetto potesse avere nei miei confronti.

Camminavo pensando e senza guardare dove andavo, tutto era messo in discussione tutto aveva senso e non ne aveva, candele nella stanza, candele nella celle, candele anche qui, davanti a me mentre camminavo.

Ci volle un attimo, davvero poco, prima che tutto di riempisse di fumo e di fiamme; il fuoco si faceva strada come se per terra ci fosse segnato già un percorso di alcool ad attenderlo. Molte porte si spalancarono all'improvviso, anche senza alcuna finestra aperta una folata di vento attraversò il corridoio, con il fuoco che ne seguiva lentamente la scia; vidi molte delle ragazze iniziare a gridare, correre e scappare in qualsiasi direzione possibile, una scala qualunque che non fosse inondata dal fuoco. Io non mossi un singolo muscolo del mio corpo, le fiamme stavano alle mie spalle, alla mia destra, alla mia sinistra e stavano guadagnando sempre più terreno davanti a me; non sentivo calore, non provavo dolore, le fiamme sembravano non volersi avvicinare a me, anche se il caldo sprigionato dal fuoco cominciava a bruciare la mia pelle.

Dal fondo del corridoio sentivo la voce di Eve e delle ragazze che stavano con lei nella stanza; non mi importava di loro o delle altre, mi girai e camminai per dieci metri tra le fiamme, a passo lento, mentre continuavo a bruciare; mi affacciai sulla balconata, diedi uno sguardo alla cappella. Il crocifisso enorme che sovrastava dietro l'altare era vuoto; nemmeno il Cristo voleva assistere a quello che stava succedendo.

Vidi Evelyn corrermi incontro, anche lei camminava nel fuoco, ma a differenza mia non si bruciava minimamente; mi disse qualcosa, non la capii, mi prese per mano e mi trascinò con lei giù per l'unica rampa di scale libera dal fuoco. Più scendevamo e più trovavamo corpi carbonizzati o asfissiati, accasciati sul pavimento, noi continuammo a scendere, inesorabili, cercando una via di fuga. Continuammo a scendere, arrivammo nelle cucine, lì il fumo e le fiamme non erano ancora arrivate, era l'unica parte del convento ancora agibile, l'unico problema era che tutto era chiuso.

Una di loro gridò che era troppo tardi.

Un'altra parlò di lasciar perdere a scappar via.

Iniziarono a parlarsi una sopra l'altra, fin quando una voce non sovrastò il resto.

Mentre loro continuavano a parlare, guardai fuori dalla finestra sbarrata; eravamo in gabbia, chiuse e pronte a bruciare.

Fuori invece era tutto così calmo, pacifico, ancora non era arrivato una singola briciola di disperazione là fuori.

Guardai il riflesso sul vetro; vidi quel gruppo di ragazze vestite di bianco con pittura sul corpo, teschi animali, amuleti e fiori secchi; visti ad una luce al neon non sembravano così minacciose o spaventose.

Prima che Evelyn mi facesse girare verso di lei, vidi per un momento una strana presenza fuori, che ci fissava; non percepii molto, vidi solo due occhi completamenti neri, fissarmi negli occhi.

Mi stava parlando quella ragazza, ma era come se non riuscissi a sentirla più, tutto era ovattato, stupido ed insignificante.

Mi disse di concentrarmi, che era importante, mi pregò di farlo.

Continuavo a non capire molto, era come se fossi presente, ma non riuscissi ad essere padrona del mio corpo, come se stessi vivendo come spettatrice nel corpo di qualcun altro. Evelyn mi strinse forte la mano, sentii un brivido nella schiena come se quel gesto mi fosse estraneo e fastidioso, poi mi abbracciò ed ebbi la stessa sensazione, questa volta con un misto di familiarità, di nostalgia, come se adesso volessi quel contatto un po' più di prima. Inizia a sentire più chiaramente la voce di quella ragazza, che mi stringeva forte a sé e mi chiedeva di concentrarmi su di lei, ora era tutto più limpido, ma sempre lontano. Si staccò da me e mi diede delicatamente un bacio, sfiorandomi le labbra.

La guardai come se la vedessi per la prima volta in quel momento, come se fossi tornata da una lontana assenza; mi vidi guardata teneramente, mi sentì baciare una mano e sorrisi dopo tanto tempo.

“Sei tornata da me” mi disse mettendomi un ciondolo al collo; si tolse il teschio e me lo mise sulla testa.

Si punse il dito su una delle corna e con il sangue mi disegno una striscia su entrambe le guance, mi mise un libro in mano e si fermò a guardarmi negli occhi, come faceva tanto tempo prima.

Mi prese di nuovo la mano tra le sue; erano così morbide e calde, cercava di non darlo a vedere ma le sue mani tremavano dalla paura.

“Sai che non farei mai nulla per farti del male”.

Si appoggiò la mia mano sulla sua guancia, godendosi il calore che emanava, chiudendo gli occhi e concentrandosi solo su quella sensazione.

“Devi rimanere qui, hai capito? Non andartene di nuovo, ora è arrivato il mio di tempo” mi disse con un fil di voce mentre mi accarezzava con lo sguardo tutte le ustioni che avevo sul mio corpo.

“Non toglierti nulla e rimani vigile finché tutto non sarà finito”.

Sentivo che tra le fiamme mi stavo consumando, la parte sinistra del mio corpo ardeva letteralmente senza che io provassi nulla.

Mi fissò negli occhi.

“Non avere paura, sarò sempre con te”.

Una di loro bisbigliò che era inutile che mi parlasse, che in ogni caso non avrei capito nulla.

Pochi istanti dopo scomparve con tutto il gruppo giù per le scale della dispensa.

Perché no? Mi dissi.

Non ho più niente da perdere.

Scesi le scale, ad ogni scalino che conquistavo, sentivo un vibrazione sotto i miei piedi e nel corpo; la luce era fioca e lontana, ma io continuavo a scendere, senza farmi il problema di vedere o meno.

Sentì qualcosa muoversi dentro di me, come una forte sensazione di essere nel posto giusto e qualcosa nella mia testa risuonò come una frase, nitida e ben sillabata: “Finalmente è qui”.

Finite le scale non trovai nulla di quello che mi aspettavo, non c'erano provviste, non c'era cibo, solo un'enorme stanza vuota, con al centro un fuoco freddo, che illuminava la parte centrale. Le pareti sembravano ricoperte di melma ed il pavimento aveva alcune pozzanghere scure. Su tutto il contorno del fuoco c'erano dei segni, visti dall'alto avrebbero sicuramente avuto senso, dalla mia prospettiva sembrava una stella circoscritta, ma ad oggi non ne sono ancora sicura.

Sentivo dentro di me una sorta di battaglia; il mio cuore, il mio lato sinistro vibrava d'emozione e di calore, non vedeva l'ora di arrivare al centro della stanza e bearsi delle fiamme; la mia parte destra aveva un forte groppo alla bocca dello stomaco, la pura che invadeva tutto lo spazio possibile e la voglia di scappare il più lontano possibile. Rimasi bloccata, immobile dov'ero, continuando a fissare le fiamme; ad un tratto presi coscienza di chi ero, di cosa stava succedendo, di tutte le persone che avevo visto morire davanti a me. Ripensai al fuoco che ormai doveva essere arrivato fino alle cucine; non si tornava indietro. L'acqua delle pozzanghere toccava il fuco che inesorabile continuava a bruciare, come se quel liquido gli fosse del tutto indifferente. Alzai lo sguardo e vidi che qualcosa gocciolava dal soffitto, qualcosa di appeso, qualcosa che aveva un odore sgradevole

un odore fantastico

qualcosa che sembravano carcasse di animali morti

ottima carne di prima scelta

un qualcosa che non doveva essere assolutamente lì.

Il soffitto ne era pieno, qualcuno sgocciolava, alcuno sembravano avvizziti.

Perché quel giorno ho dovuto tagliare tutte quelle cipolle?

Ma prima non c'erano.

Non dovevo essere da sola, mancava qualcuno.

C'era qualcosa di diverso.

Perché non le ho viste subito, stavano sul bancone,

E se prima non ci fossero state?

Bisognava prenderle.

Bisognava scendere.

Qualcuno mancava.

Mancava perché aveva visto.

Mancava perché aveva visto.

Era lo stesso giorno.

Non doveva.

E' sempre lo stesso giorno.

Bisogna pur mangiare.

Qui non c'è cibo.

No dovete mangiare solo voi.

Mi nascosi in un angolo buio appena sentii un rumore, non sapevo cosa stesse succedendo, né in quella stanza, né dentro di me.

Perché appiccare il fuoco?

Dovevo rimanere, non dovevo andare, dovevo smettere di parlare, non andava bene, dovevo rimanere io.

Quello che vidi subito dopo è così assurdo che potrei anche risparmiarvelo, nessuno mi ha mai creduto, nessuno mi crede ancora, nessuno e nemmeno voi lo farete.

Il tempo si fermò, anche le fiamme, l'aria era priva di ossigeno, io non respiravo più ma non ne sentivo il bisogno; continuai a fissare intensamente la scena, mentre ero tentata di togliermi tutto quello che mi avevano messo addosso, lottai contro questo istinto, contro questa idea che sapevo non essere partita da me e feci in modo di non essere vista; ero così vicina alla morte, ma non mi sono mai sentita così al sicuro.

Un gruppo di suore erano entrate nella stanza dalla parete in fondo, guardavano verso di me, ma non si muovevano.

Iniziarono ad indicarmi, poi si avvicinarono fino a formare un semicerchio introno al fuoco e sentii di nuovo quella litania che per poco non mi faceva cadere dalle scale.

La riconobbi subito, era latino, le stesse parole, la stessa cadenza, ma ora ne capivo anche il significato.

Prendi il tuo corpo, getta il suo sangue

nel tuo nome noi ti invochiamo

nostro signore noi ti serviamo

Iniziai a sentire prurito sulla pelle, volevo grattarmi via a sangue tutto l'epidermide che avevo addosso.

Poi un rumore sordo, lo stesso gruppo di ragazze che mi avevano aiutato prima si era presentato dal nulla, alle spalle della congrega.

L'orrore incurvò la mia bocca in una smorfia orrenda, quello che vedevo era qualcosa di terrificante – ma di assurdamente bello.

Erano loro, le riconoscevo, i lenzuoli, i fiori, i crani animali, ma i loro visi, quelli non erano i loro volti, quelli erano volti di mostri.

Vidi il corpo alto e slanciato di Eve, i suoi capelli rossi, un seno da fuori, ma quella non era la sua faccia, non lo era mai stata e non poteva esserla adesso.

Del viso umano non era rimasto quasi nulla; due piccole fessure erano rimaste come occhi molto stretti ed allungati, ma la bocca, quella era la cosa più aberrante di tutte. La bocca deformava completamente il viso, andava un un orecchio all'altro, non aveva labbra ma non una serie di lunghi ed affilati denti, gialli all'attaccatura e sempre più rossi man a mano che andavano verso le punte. Rosso sangue, rosso vivo.

Sangue.

A terra c'era sangue, sulla pareti sangue e carne, appeso al soffitto erano corpi.

Cosa stava succedendo? Chi erano quei mostri? Cosa volevano quelle suore?

Io non so dire cosa successe dopo, fu tutto troppo veloce, così veloci che ne vidi solo degli scatti.

Un attimo prima la situazione era quella che mi si era parata davanti agli occhi.

L'unica cosa che riuscii a vedere distintamente erano le fauci di quei mostri aprirsi a dismisura, in un modo che non dovrebbe essere possibile a nessun essere esistente.

Dopo nulla, solo loro e sangue, carne, polpa e odore di morte; delle suore non era rimasto poco e nulla.

Un secondo ancora e non c'erano più, tranne una.

Il secondo dopo si era avvicinata di metri.

Inizia di nuovo a respirare.

Non avrei mai voluto in quel momento, l'odore, l'aria, i muri, i corpi, erano un insieme di odori raccapriccianti.

Un altro secondo, era ancora più vicina.

Non aspettai, non battei le palpebre, mi misi a camminarle incontro, fino a starle difronte a pochi centimetri.

Restai immobile, anche lei.

Allungai la mano verso quel viso devastato, tirato, pieno di piaghe e pieghe.

Non si ritrasse ed io non mi tirai indietro; il suo viso era completamente diverso da quello che sembrava, era liscio ed intravidi delle piccole macchie sul punto dove dovrebbe esserci stato il naso.

Cautamente le presi la mano.

Era la mano di una ragazza, una normalissima mano di donna.

Me la poggia sulla guancia e chiusi gli occhi, quando li aprii vidi qualcosa scendere dall'occhio di quel viso deturpato.

Una lacrima.

La presi con il dito e vidi il suo colore scarlatto, non era una lacrima era sangue.

Il mostro mostrò nuovamente quanto fosse in grado di aprire quelle orrende fauci.

Di lì in poi è il delirio.

Ricordo risate, tutto che si muoveva veloce, mi vidi da fuori il mio corpo, ero orribile, era tutto orribile; sensazioni contrastanti, dolore, calore, il fuoco iniziò a spegnersi lentamente, la stanza tremava come se in corso ci fosse un terremoto, comincia a gridare, a strapparmi i capelli, la mia risata isterica si riversava ed aveva l'eco in quella stanza, uno scoppio, poi un crollo, dopo il buio.

Oggi quello che mi dicono è che io abbia subito un trauma.

Sono l'unica sopravvissuta ad gravissimo incidente, nessuno mi ha cercata, nessuno mi ha riconosciuta.

Non ho documenti, io non ho parlato con nessuno di chi sono.

Ma chi sono?

Chi sei?

Non devo rispondere, devo rimanere io qui, io.

Cervo, stambecco, aquila, corvo e gufo.

Cervo, stambecco, aquila, corvo e gufo.

Lo stambecco ci protegge.

Il cervo ci da velocità.

L'aquila ci rende predatori.

Il corvo astuti.

Il gufo notturni.

MENTONO! STANNO MENTENDO! LORO NON SALVANO, DANNANO!
Serve a proteggere, non toglierlo.

BUGIE! BUGIE! LORO CI UCCIDONO, CI SACRIFICANO!

IL SOPRA E' IL SOTTO E IL SOTTO E' SOPRA.

CERCANO IL CADUTO, LORO HANNO DECISO DI CADERE CON LUI.

La natura ci protegge dal male, il rito di purificazione aiuta a non fare entrare il male nel nostro mondo, tramite un portale.

MI HANNO MENTITO! NOI NON VERREMO DANNATI, IO LO FARO'!

 

Ogni sera mi sveglio alla stessa ora, un odore familiare mi inebria il naso e la mente; quando arriva capisco che è lì solo per me.

Ormai sono sono un cumulo di cicatrici, è tutto guarito, ma vado a dormire tranquilla e mi sveglio in un lago di sangue.

 

Risulta davvero rischioso cambiare la propria natura, è difficile se non impossibile tornare allo stato di partenza; soltanto quando tutto sarà pronto, bisogna intervenire, arrivando per tempo.

La mente del portale può rimanere danneggiata se l'intervento non è tempestivo.

 

“Non sono pazza, perché non mi credete? Io ho visto tutto, io so tutto, tutti noi finiremo tra le fiamme. Possiamo evitare, devo rimanere, sì, devo solo rimanere. Dove mi portate? DOVE MI STATE PORTANDO?”.

 

“Ormai è troppo tardi, Eve, bisogna procedere, o rimarremo legate qui, ti prego è troppo tardi, bisogna chiudere il portale”.

 

“E' lo stambecco la chiave vi dico, per questo sono ancora viva, ci protegge. CI PROTEGGE”.

 

Se la mente del portale dovesse arrivare al punto di corrompersi, rompere immediatamente il legame per porre fine al rito.

 

INCANTESIMO DI PROTEZIONE

Dente di stambecco portato al collo, intriso nei liquidi di una sacerdotessa

Teschio di stambecco per aiutare la mente a pulirsi e liberarsi

Sangue di sacerdotessa per infondere potere e forza

 

Ogni mattina mi sveglio coperta di sangue.

Non sono pazza.

Non mi faccio del male.

Il sangue non è il mio.

Ogni notte mi inebrio di quel tanfo, quello di morte intendo, mi sento viva e riesco a calmare la sete di sangue che mi segue da quel giorno.

Non sono io, è solo bloccato dentro di me ed io devo rimanere presente.

Io non sono pazza.

Ogni notte la vedo, viene da me; cammina sul soffitto e gira la sua testa di 180° e mi fissa, con i suoi occhietti penetranti e mi inonda di sangue, quello che le chiedo, quello che per natura deve cacciare.

Non ho mai fatto male a nessun essere vivente io.

Ogni notte mi viene a trovare, mi fissa, gli altri non riescono a vederla, ma io sì e la riconosco, mi manca e so che lei è qui per me, me lo aveva promesso.

E' Evelyn.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per Melissa

Mia cara Melissa, non so se mai riuscirai a leggere questa lettera, anche se spero con tutto il cuore che questo non succeda.

Se stai leggendo queste righe, vuol dire che hai il libro che ad oggi sto studiando e che qualcosa non è andato a buon fine.

Perdonami se ti sto escludendo in questo modo da quello che sta accadendo, ma non posso assolutamente lasciare che tu sappia qualcosa che possa farti del male e farò di tutto per evitarlo; sono mesi che studio l'occulto, non perché le cattive compagnie mi stanno sviando come tu pensi, ma ho notato qualcosa di strano già da tempo e l'ultima volta ho avuto modo di arrivare fino nella cantina. Nessuno ha scoperto che sono riuscita ad arrivare fino a lì sotto nel vecchio convento, sappi che non c'è assolutamente nessun tipo di cibo o di conserva, quello che si trova là sotto è qualcosa di oscuro e di malvagio.

Sono anni che ho notato strani comportamenti in questo posto, il vino della celebrazione in realtà è sangue e quello che loro ricercano non è la vita eterna ma la dannazione per tutto il mondo. Non potevo dirti tutto questo prima, per una semplice ragione: tu sei coinvolta in tutto ciò.

Tutte le ragazze che stanno scomparendo, che ci dicono siano andate via, non dovevamo credere ad una sola parola, sono tutte state prese e sacrificate; stiamo correndo un grosso rischio a rimanere qui, ma la tua salute sta peggiorando, io sto continuando a studiare su vecchi tomi trovati in biblioteca e posso dirti che non è un buon segno.

Se stai leggendo io non sono qui per spiegarti tutto, ma tu ci sei e stai bene, sono riuscita ad evitare che tu diventi il portale; in caso contrario, se in qualche modo queste parole potranno arrivarti, sappi che mi dispiace e che avrei dovuto fare di più.

Avevamo una bella vita da vivere insieme, potevamo viverla al meglio, se solo non avessimo vissuto prima tutto quello che ci ha portato in questa situazione surreale.

Ai nostri ricordi più belli, ed ai nostri sogni infranti.

Per sempre tua, Evelyn

C. Jay Myler © ALL RIGHT RESERVED ©
  
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