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Autore: Emapiro95    06/08/2015    2 recensioni
Cosa succederebbe se la vita di un diciassettenne qualsiasi, che vive a Londra, venisse distrutta e stravolta dall'arrivo di un "exchange student?". Mi sono basato sulle mie esperienze personali per scrivere questo piccolo racconto, spero vi piaccia!
"Il mio nome è Jared Maycon, e questa è la mia storia, la storia di come tutta questa monotonia fu distrutta. Bastò il suo arrivo perché tutto cambiasse… Dalla “A” alla “Z”."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Capitolo 19 - "Sciences"

Prima di tutto mi voglio scusare con tutti per questa lunghissima assenza, ma lo stress mi ha fatto venire il blocco dello scrittore, e quindi ogni volta che cercavo di scrivere qualcosa di nuovo finivo con cestinarlo immediatamente.
Ma adesso siamo qui! Con quest'ultimo capitolo prima della vacanza estiva (credo), che vi lascerà con qualcosa di positivo a cui pensare in questo mese di estate :)
Bene, detto ciò non mi resta che ricordarvi la mia pagina facebook (che trovate qui) e di recensire o commentare con qualsiasi cosa vi venga in mente!
Buona lettura e, se non dovessi pubblicare altri capitoli, buone vacanze!








Quando Joshua si presentò nella classe di inglese, con un leggero ematoma sullo zigomo sinistro, la signora Dorpall gli chiese dove si fosse cacciato, facendo un excursus su quanto la sua classe fosse una banda di babbuini che non avrebbe potuto superare gli esami di inglese neanche se fosse stata aiutata da William Wordsworth in persona.
Il gruppetto di amici di Joshua, d’altro canto, non sembrò minimamente prestare attenzione alle velate offese che uscivano dalla bocca della professoressa, essendo troppo concentrati a lanciare occhiate inquisitorie verso l’infortunato. Alex, invece, non appena ebbe visto lo stato in cui si trovava la sua nuova fiamma, cercò di chiedergli, con gli occhi, cosa fosse successo.
«Cosa credi sia successo?» Mi domandò il biondo, a metà della lezione, mentre la signora Dorpall era intenta a scrivere sulla lavagna frasi all’apparenza prive di senso.
«Mmh?» Risposi - girandomi verso di lui, seduto accanto a me – scosso dallo stato di torpore in cui mi ritrovavo.
«A Joshua.» Spiegò Alex, lanciando un’occhiata al ragazzo seduto tre file dietro di noi.
«Ah… Non ne ho idea.» Mentii, sentendo lo stomaco contorcersi per la rabbia e per il senso di colpa, prima di riprendere a scrivere frasi senza senso sul block notes aperto di fronte a me.
Sentii lo sguardo di Alex fisso sulla mia nuca, china sul foglio bianco, e cercai di non pensare alla soddisfazione che l scontro con Joshua mi aveva provocato.
«Spero solo che non sia stato pestato da qualche bulletto del cazzo.» Sospirò alla fine il mio compagno di banco.
«Già…» Dissi, concludendo lì lo scambio di battute.

 

Con il proseguire di dicembre l’atmosfera all’interno della Walworth Academy mutò completamente. Gli esami di fine semestre si avvicinavano, e, mentre i professori passavano le lezioni ricordandoci costantemente questo piccolo dettaglio – come se lo avessimo mai potuto dimenticare –, noi studenti cercavamo di non farci prendere dall’ansia ogni volta che lo sguardo ci cadeva su un calendario oppure quando ci rendevamo conto dell’avanzare incessante del tempo.
Il lato positivo di tutto questo stato d’ansia, per quanto riguardava la mia situazione, era la possibilità di studiare con Alex, così da avere una scusa plausibile per passare la maggior parte delle mie giornate con lui. Il livello d’ansia del canadese era addirittura più alto del mio, e questo lo portava ad avere degli atteggiamenti tanto teneri quanto nevrotici, e, per di più, non parlò mai più dei suoi incontri con Joshua. Da una parte gliene fui grato (almeno non dovevo più provare quella strana sensazione di rabbia attanagliarmi lo stomaco), dall’altra, però, iniziai ad incupirmi, sperando di non aver rovinato quello scambio di confidenze su cui avevo imparato a fare affidamento.
Joshua, dal canto suo, non si avvicinò mai a me, se non per comunicarmi notizie riguardanti la squadra di palla a nuoto. Il segno che il mio pugno aveva lasciato sul suo zigomo, dopo essere diventato di colore giallo, stava lentamente iniziando a svanire, e quasi dovetti trattenermi dal fargliene comparire uno nuovo quando lo vidi fuori scuola con Alex.




«Posso capire perché sei così agitato?» Domandai al biondo durante una delle nostre sedute di studio.
«E’ un esame importante!» Esclamò indignato lui, reagendo come se gli avessi offeso un membro della famiglia.
Dovetti trattenere una leggera risata divertita. «Nessuno lo mette in dubbio,» Iniziai, «è solo che a te il voto non è che serva realmente… Insomma, tra poco più di due mesi dovrai tornare a Vancouver.» E al pronunciare quelle parole sentii l’ormai famigliare dolore allo stomaco prendere il sopravvento.
«Ok, questo è vero, ma dato che a Vancouver seguo le stesse materie mi conviene studiare, se non voglio passare mesi interi a cercare di recuperare.» Rispose, giocherellando con la matita. «E poi non studio solo per avere un bel voto, studio soprattutto per me stesso.»
«Ok, ok.» Lo interruppi, questa volta non riuscendo a trattenere le risate. «Scusa se ho osato dire qualcosa di così osceno.»
«Idiota.» Asserì cupo il biondo, sommergendo la testa tra i libri, aperti sul tavolo da pranzo di casa mia.
«Suvvia!» Esclamai, dandogli un colpo sulla spalla. «Su con la vita, si scherza!»
Alex sollevò solo per un attimo gli occhi dal libro di biologia, evidentemente intenzionato a tenermi il broncio, ma, una volta incontrato il mio sguardo, un sorriso divertito gli attraversò il volto, rendendolo talmente bello che dovetti nascondere il mio rossore in ulteriori risate.
«Più che altro come fai tu a non essere per niente agitato?» Mi chiese, prendendo un mini pretzel dal pacco di salatini al centro del tavolo.
«Cerco solo di pensare al fatto che sto mettendo tutto me stesso nello studio e nella scuola, dando il massimo.» Risposi, alzandomi dal tavolo per andare a prendere la bottiglia di coca cola dal frigo.
«Sì, ma, da quello che ho capito, questo dovrebbe essere un esame fondamentale per la carriera che vorresti intraprendere, o sbaglio?» La voce di Alex mi raggiunse in cucina.
«Certo che è fondamentale: se non supero questo esame con una A posso dire addio alla mia carriera medica.» Replicai, tornando a sedermi con la bottiglia di cola in mano.
«E nell’evenienza in cui qualcosa non dovesse seguire i tuoi piani?»
«Ci penserò una volta di fronte quella possibilità.» Risposi, versando la bibita nei bicchieri di entrambi.
«Quindi non hai ancora pensato ad un piano B?» Continuò a domandarmi il biondo, sorseggiando dal proprio bicchiere.
«Al, mi stai facendo salire l’ansia.» Risposi secco, troncando lì la serie di domande. Seguirono momenti di imbarazzante silenzio, intervallati solo dal rumore della penna di Alex che graffiava la carta del suo pukka pad. «Avevo un piano B.» Ripresi poco dopo, attanagliato dal senso di colpa.
«Ovvero?» Mi chiese lui, senza sollevare lo sguardo dal foglio. «Sempre se posso chiedere.»
«Niente… Non ha più importanza, tanto.»
«E perché mai?»
«Perché ogni piano che mi ero costruito è andato distrutto quando i miei hanno deciso di volersi trasferire a Parigi.» Dissi, di getto, dando libero sfogo alla mia frustrazione, che in quei giorni passati avevo cercato di reprimere.
Vidi Alex posare la pena ed alzare lo sguardo per dirigere i suoi occhi verso i miei. Due smeraldi in cui avevo imparato a trovare conforto. «So che stai male per questo fatto del trasferimento, e lo capisco benissimo.» Disse. «Ma non devi permettere a questo cambiamento di definire quello che ne sarà del tuo futuro, né prossimo né remoto.
«Non usare il trasferimento come scusa per non vivere la vita che ti scorre davanti agli occhi ogni giorno, sfiorandoti da molto vicino. Non nasconderti dietro questo cambio di città per paura di perdere qualcosa, fa tutto parte del ciclo della vita.»
Quelle parole di Alex accesero, dentro di me, una luce di consapevolezza che poche volte nella vita avevo provato. Il motivo per cui avevo smesso di impegnarmi, come facevo un tempo, in attività che prima ritenevo importanti era solo paura di dover, prima o poi, perdere tutto.
Sarei stato costretto ad abbandonare la mia casa, la mia scuola, i miei piani, i miei amici, la mia storia, la mia infanzia e tutto ciò che fino a quel momento mi aveva reso Jared Maycon.
Fu in quel momento, allora, che, forse per trovare un ponte con il mondo reale e con l’attualità, allungai la mano sul tavolo e la poggiai su quella di Alex. Il ragazzo non si scostò, ma sorrise come solo lui sapeva fare, con gli occhi e con l’anima.
Senza dire un’altra parola, e con la mano sinistra ancora su quella del canadese, ripresi a sottolineare le parole chiave del libro di biologia.

 

Il giorno dell’esame di biologia era arrivato e quella notte ero andato a vanti a furia di bibite energetiche e caffè. Dall’ultima conversazione avuta con Alex avevo iniziato a mettermi con la testa e col pensiero sul libro utilizzato dal professor Boujdi. Il mal di testa era al limite della sopportazione ma, in quel momento, la determinazione di superare quel test coi massimi voti batteva qualsiasi altra sensazione.
Dopo aver preso lo zaino ed aver fatto una colazione povera e veloce uscii di casa, salutando i miei; presi il bus verso scuola e, una volta arrivato, mi precipitai nell’aula in cui si sarebbe tenuto il test. Non c’era ancora nessuno, dato l’anticipo di un quarto d’ora con cui mi ero presentato, se non due miei compagni di corso con cui non avevo mai parlato; così mi sistemai ad un banco in terza fila contro il muro, così da poter stare tranquillo ed indisturbato.
Allo scoccare delle 8.15, e, in contemporanea al solito triplo “beep” delle campanelle, il professor Boujdi entrò in aula, seguito da quattro compagni di corso, Alex e Joshua, evidentemente rimasti fuori a ripetere fino all’ultimo secondo.
Le domande dell’esame erano relativamente facili, per chi aveva studiato, com’è giusto che sia, ed ero riuscito, quindi, a rispondere a tutti i quesiti tranne uno, che fui costretto a lasciare in bianco. Nonostante ciò la mia sensazione era decisamente negativa, soprattutto quando, una volta uscito dall’aula, mi accorsi di aver finito con tredici minuti di anticipo.
Ero stato, infatti, il primo della classe ad aver posato il fascicolo sulla scrivania del professor Boujdi; solo che l’ansia del momento non mi aveva nemmeno fatto controllare l’orario sull’orologio affisso alla parete.
Decisi, quindi, di sedermi a terra con la schiena poggiata al muro del corridoio, mentre aspettavo che Alex finisse.
Il primo ad uscire dopo di me, però, non fu il canadese, bensì Joshua che, con un atteggiamento strafottente si iniziò ad avviare verso il secondo piano.
«Com’è andata?» Domandai, prima che potesse girare l’angolo del corridoio. «Spero che quel pugno non abbia danneggiato quelle poche funzioni cerebrali che ti erano rimaste.»
Joshua si girò, lentamente, e prese ad incamminarsi verso di me, al che mi alzai. «Cosa, questo?» Domandò, indicandosi l’occhio infortunato. «Oh no, non è niente.»
«Ah menomale,» Replicai, «avevo iniziato a preoccuparmi che fosse qualcosa di serio.» Senza nemmeno realizzarlo avevo iniziato a scaricare la tensione, accumulata negli ultimi giorni, addosso a Joshua, e così decisi di continuare.
«E’ solo il morso di un insetto.»
«Ah, quindi non ti darebbe alcun fastidio se si replicasse?» Domandai, provocatorio, cercando di trattenere un sorriso divertito ed avvicinandomi al ragazzo, che rimase impassibile.
«Tu provaci, Maycon.» La sua voce tremava di rabbia.
«Perché, altrimenti che mi fai?» Il tono della mia voce aveva iniziato ad alzarsi. «Vai a chiamare i tuoi amichetti e facciamo una replica di quanto successo negli spogliatoi? Oppure vuoi semplicemente riservarmi lo stesso trattamento che Daniel ha riservato ad Alex?»
«Va’ a farti fottere,» rispose Joshua, «magari dal tuo amichetto canadese, che scommetto ti piaccia tanto, frocio.»
Le orecchie mi iniziarono a fischiare, e stavo per saltargli al collo, quando mi accorsi che la porta dell’aula si era appena chiusa e che sulla soglia si trovava Alex, immobile come una statua; il volto impassibile.
Joshua non si era accorto della presenza del biondo, forse perché attento ad ogni mio movimento, e fu per questo motivo che, quando parlò di nuovo, provai quasi pietà nei suoi confronti. «Puoi farci quello che vuoi con quella checca, tanto stai pure tranquillo che non l’ho toccato neanche con un dito; mi farei troppo schif…»
Le sue parole furono interrotte da Alex che, con la stessa impassibilità di poco prima dipinta sul volto, fece una leggera tosse per schiarirsi la voce.
«Posso solo sapere perché?» Domandò non appena il volto di Joshua ebbe perso qualsiasi traccia di colore. «Perché hai finto di essere interessato a me? E soprattutto perché hai finto di essere gay?»
Dopo un primo momento di totale stupore, Joshua parve riprendersi velocemente; e così rispose alla domanda di Alex con la sua solita strafottenza. «Ma non è chiaro? L’ho semplicemente fatto per il gusto di prenderti per il culo.» Le mie orecchie avevano smesso di fischiare, e tutte le mie attenzioni erano su Alex; tutti i miei sensi erano in allerta, rendendomi pronto a soccorrerlo nel caso in cui avesse avuto bisogno di aiuto. L’avrei sorretto se fosse caduto. «Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per vedere la tua faccia in questo momento… Certo, avrei voluto continuare la messinscena per un po’ più di tempo, ma non si può avere tutto dalla vita, dico bene?»
Il volto di Alex si indurì leggermente, e vidi i suoi occhi verdi incupirsi. «Questa è la storiella che ti racconti la sera prima di andare a dormire? E’ questa la favola che ti racconti per stare meglio con te stesso?» La domanda del biondo tagliò l’aria in due. «Non m’interrompere. Sei talmente stupido che non sai nemmeno cosa vuol dire “domanda retorica”.
«E’ questa la favoletta che ti racconti? Che hai voluto fare tutto questo per vedere la mia faccia? Sai, vero, che qua in mezzo l’unico che crede ad una cosa del genere sei tu? Sei l’unico che crede di aver ideato questa sorta di piano da solo e che non sia, in realtà, tutta un’idea del tuo amichetto Daniel. Sei talmente patetico che non saresti neanche in grado di allacciarti da solo le scarpe, quindi vedo questa tua semi rivelazione come un sollievo, a dir la verità.» Detto questo il biondo si allontanò dalla porta e si avviò verso il cortile, dal lato opposto al mio.
«Siete semplicemente due checche.» Gli urlò alle spalle Joshua, oramai senza alcun tipo di argomentazione.
«Ti conviene stare zitto,» dissi io, prendendo la borsa da terra, «se non vuoi avere un altro morso di insetto.»
«Non so perché mi sono stupito del fatto che sei diventato frocio,» rispose il ragazzo di fronte a me, girandosi nella mia direzione, «in fondo da un fallito del tuo calibro non ci saremmo potuti aspettare diversamente… Soprattutto con una famiglia come quella che ti ritrovi.»
Sentii il sangue ribollirmi nelle vene, e mi avvicinai a Joshua con l’obiettivo di fargli uscire il sangue dal naso, ma, per la seconda volta in meno di cinque minuti, vidi le mie azioni bloccate da Alex.
Il ragazzo, infatti, era tornato indietro e, una volta a stretto contatto con Joshua, gli aveva sferrato un pugno dritto sul naso, facendo grugnire dal dolore il ragazzo.
Sconvolto, guardai Alex che si massaggiava la mano sbucciata.
«Che c’è?» Mi domandò? «Pensavo che ormai avessi capito che so difendermi da solo.» Asserì, con una leggera smorfia di dolore che gli attraversò il volto.
«Ok, ora che hai dimostrato il tuo valore, perché non andiamo a far vedere quella mano in infermeria? Tanto non abbiamo altre lezioni per oggi.»
Non appena il biondo ebbe raccolto le proprie cose, io mi abbassai a raccogliere le mie cose e quelle di Joshua, che stava accovacciato al suolo con le mani davanti al naso.
«Be bosha benshi bi bare?» Chiese lui, con la voce trasfigurata dalle mani davanti alla bocca e dal sangue, che scorreva copioso dall’appendice nasale.
«Porto le tue cose in infermeria.» Risposi, mettendomi il suo zaino in spalla. «Ce la fai a camminare oppure hai bisogno di appoggiarti?»
Dopo un attimo di silenzio in cui Joshua mi guardò in cagnesco, lo vidi alzarsi ed avviarsi verso l’infermeria, appoggiandosi al muro.
«Perché mai continui a trattarlo come se fosse il tuo migliore amico?» Mi domandò Alex, una volta incamminatici sulle orme di Joshua.
«Lo tratto semplicemente come tratterei qualsiasi altro essere umano.» Risposi, semplicemente, prendendo lo zaino del canadese dalle sue spalle.
Per tutto il resto del tragitto verso l’infermeria Alex rimase in silenzio, lanciandomi sguardi furtivi.

 

«Jared!» Esclamò la signora MacFlorence una volta entrati nel locale riservato all’infermeria. «Cosa è successo?! Ho appena fatto accomodare Joshua in un lettino nel mio studio!» La sua voce era piena di ansia e curiosità, proprio come mi ero aspettato.
«Signora MacFlorence, le racconterò tutto appena possibile, ma potrebbe prima dare un’occhiata alla mano di Alex?»
«Ma certo!» Rispose, allarmata. «Fammi vedere, tesoro.» Disse al canadese, prima di prendergli delicatamente la mano tra le sue. «Non è niente di che,» fu il suo verdetto dopo una breve analisi delle falangi, «Ti consiglio però di andare a stenderti là con un po’ di ghiaccio sulla mano; tu iniziati a sistemare e io te lo porto subito.»
«Grazie mille signora MacFlorence.» Disse Alex, genuinamente grato all’infermiera.
Una volta che Alex si fu seduto e che la signora MacFlorence gli ebbe dato un pacco di ghiaccio, mi raggiunse vicino alla sua scrivania e mi invitò a raccontarle tutto.
Iniziai a parlare di tutto quello che era successo, a partire dalla prima volta che quell’anno avevo messo piede nell’infermiera, ovvero dell’attacco da parte di Daniel ad Alex, e, mano a mano che andavo avanti vedevo il volto della mia interlocutrice farsi più cupo.
Una volta finito il mio racconto mi sentii più leggero, e dentro di me ringraziai i poteri misteriosi dell’infermeria.
La signora MacFlorence, d’altro canto, mi rispose con un semplice sorriso ed una mano sulla gamba, dicendo: «Sono fiera di te, Jared, e di quello che hai fatto con questi due cretini. Sono anche molto contenta per te, e per l’amico che hai trovato in quel ragazzo lì.» Disse, indicando con la testa Alex, steso sul lettino alle sue spalle. «Ora però è meglio che torni da Joshua, a questo punto la radiografia dovrebbe essere pronta. Spero che non sia nulla di grave.»
«Grazie mille.» Le dissi.
Quando la signora MacFlorence si fu alzata, la imitai e raggiunsi Alex, steso e con la mano destra poggiata su un carrello di metallo. «Allora, come va la mano?» Domandai.
«Va meglio, grazie… Ora l’unica cosa che fa male è la mia autostima.» Disse, e fu in quel momento che notai dai suoi occhi che aveva pianto.
«Alex…» Iniziai, ma mi fu difficile trovare le parole per continuare, e questo fatto mi fece sentire un idiota di dimensioni colossali: dopo tutto l’aiuto che lui mi aveva dato, io non ero in grado neanche di trovare quattro parole di conforto.
«Mi dispiace.» Disse poi lui, tirandosi a sedere, con la mano immobile.
«Per cosa?» Chiesi, allibito.
«Me l’hai sempre detto, ma non ho voluto crederti…»
«Cosa? Che Joshua era un idiota e uno stronzo?» Chiesi.
Il biondo annuì.
«Non devi scusarti.» Alex abbassò lo sguardo. «Ehi,» dissi, alzandogli il volto con una mano, «davvero, non è colpa tua e non devi scusarti. La colpa è tutta di quegli stronzi.»
«Vorrei solo poter rivivere questi ultimi mesi… Prenderei delle scelte completamente diverse.»
«Anche io…» Ammisi a me stesso, ripensando al quasi bacio, avvenuto sulla panchina distanti solo pochi metri da dove stavamo in quel momento; e a quando gli avevo quasi rivelato i miei sentimenti. «Ma ehi, guardiamo il lato positivo: almeno gli hai assestato un bel pugno come si deve.»
Alex si mise a ridere, con le ultime lacrime che gli solcarono le guance.
«Che dici? Gli avrai almeno deviato il setto nasale?»
«Spero davvero di sì. Anche se quello che avrei voluto fargli andava ben oltre il semplice pugno sul naso.»
«Ehi, non è che mi diventi come quei tizi che traggono piacere dalla violenza?» Chiesi, ironico.
Il silenzio cadde su di noi come una leggera coperta, e mi ritrovai a pensare a cosa sarebbe successo se, quel giorno fuori casa di Alex, avessi deciso di dirgli tutta la verità, nonostante il suo appuntamento con Joshua.
La mia mano si appoggio su quella sana del canadese che, seduto affianco a me, mi sorrise timido.
«Sai,» iniziò a parlare lui, «Il motivo per cui ho deciso di piantargli un pugno sul naso non è stato tanto per il fatto che mi abbia trattato una merda,» continuò, «ma soprattutto per quello che ha detto su di te e sulla tua famiglia.»
«Non so se prenderlo come un complimento o meno.» Risposi, sincero. «So solo che il motivo per cui io stavo per piantargli un pugno sul naso era il modo in cui ti aveva trattato, e non quello che aveva detto su di me e sulla mia famiglia.»
«Bene,» replicò, con le guance leggermente arrossite, «ora che abbiamo appurato che siamo due idioti, cosa vogliamo fare?»
«Io direi di iniziare da una cosa molto semplice.» Risposi, istintivamente.
«Che sarebbe?»
Cercai una risposta che potesse racchiudere in sé tutto quello che avrei realmente voluto dire ad Alex, ma non me ne venne in mente nessuna in grado di fargli capire quanto mi avesse cambiato, quanto mi avesse portato a migliorare la mia vita.
Questa volta non c’erano interruzioni.
Questa volta c’eravamo solo io e lui. Noi.
Il mio volto si avvicinò al suo, e quando le mie labbra si posarono sulle sue sentii un rumore provenire dai nostri piedi.
Il ghiaccio era caduto.


   
 
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