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Autore: Petricor75    06/08/2015    0 recensioni
La mia cella era larga circa un metro e venti centimetri e profonda più o meno tre, il letto era un blocco di acciaio che sporgeva dal muro di ottanta centimetri, a occhio, con sopra un materasso di gommapiuma spesso meno di un palmo della mia mano.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Novembre 2002

Mi trasferirono nel braccio C, dopo due anni e mezzo là dentro, e molti altri in un altro blocco, si erano finalmente accorti che non ero pericolosa, mi assegnarono una cella singola, meglio così, non m'interessava integrarmi con il resto della popolazione del carcere. Non che mi ritenessi migliore di loro, ma, come nella mia vita passata, rimanevo una personalità solitaria.
E poi, avevo altro a cui pensare. Sempre gli stessi pensieri, gli stessi ricordi, erano quelli, che mi facevano andare avanti e mi distruggevano allo stesso tempo. Mi stendevo su quel letto duro, chiudevo gli occhi e ricordavo il suo sguardo, i suoi sorrisi, il suo odore, la nostra vita insieme, prima del coma, le nostre giornate, le serate passate a cucinare, i viaggi, il suo calore su di me, a letto...
Ogni giorno mi imponevo di ricordare una giornata diversa, e piangevo. Le mie lacrime sembravano non esaurirsi mai. Uno stillicidio che durava ormai anni, faceva parte di me.
Non piangevo perché ero rinchiusa lì, o perché provavo rimorso, il mio avvocato aveva chiesto due volte la libertà vigilata, ma loro volevano che io mi pentissi, o almeno, che fingessi di farlo, che mostrassi rimorso, che capissi e ammettessi di aver sbagliato, ma io non potevo, non potrò mai. Mi sono costituita, vero, ma perché ho agito contro la legge, ne ero consapevole e volevo pagarlo, il mio debito con la società! Alla fine l'ho ricusato... l'avvocato.
Mi accorsi presto che nel braccio C le ragazze erano molto più silenziose, più tranquille, le celle, quasi tutte singole, erano disposte solo su un lato del corridoio, cosicché davanti non si aveva nessuno. La mia era l'ultima cella in fondo, e messa di traverso, in mezzo al corridoio, c'era la scrivania delle guardie, quasi sempre deserta, durante il giorno. Non notai nemmeno la presenza di telecamere a circuito chiuso e questo mi stupì.
La mia cella era larga circa un metro e venti centimetri e profonda più o meno tre, il letto era un blocco di acciaio che sporgeva dal muro di ottanta centimetri, a occhio, con sopra un materasso di gommapiuma spesso meno di un palmo della mia mano. Le coperte di lana prudevano sulla pelle quanto quelle del braccio A, il cuscino appena più soffice. Un sottile muretto, alto fino alla vita e largo quanto il letto, separava lo spazio restante, occupato dal cesso e da un minuscolo lavabo, entrambi di acciaio, per evitare che gli ospiti li rompessero ed usassero le schegge di porcellana come armi. Finalmente un po' di privacy, almeno per pisciare! Non c'erano asciugamani, sono pericolosi, ci si può strangolare qualcuno, dicono, solo salviette usa e getta e, fortunatamente, non mancava la carta igienica. Il soffitto era basso, riuscivo a toccarlo con la punta delle dita se mi allungavo tutta, e sopra il lavabo, privo di specchio, quasi all'altezza del soffitto, c'era una minuscola grata, non più larga di quaranta centimetri e alta circa quindici, che lasciava passare un po' di luce esterna.
Spostai il cuscino dal muretto alle sbarre della cella e mi stesi sul mio nuovo giaciglio, non avevo alcuna intenzione di addormentarmi osservando le guardie sedute alla loro scrivania.

Apro gli occhi, ancora assonnata, - È ancora presto - Penso, volto il capo per vedere l'ora sulla sveglia. Salto giù dal letto, afferro i vestiti in fretta e corro in bagno. - Cazzo, sono in ritardo! - Mi dico stizzita. Ci metto più tempo a farmi la treccia che a lavarmi e vestirmi. Indosso la mia cintura, chiedendomi per l'ennesima volta perché mi ostini ogni sera a sfilarla dai pantaloni dell'uniforme, inforco gli scarponi, mi infilo una manica del giubbotto mentre con l'altra chiudo a chiave la porta e salto in sella.
- Fa freddo - Penso - Ma se voglio arrivare in tempo devo prendere il mezzo veloce -
Parto, sfrecciando nel traffico del rientro. Striscio il badge giusto in tempo, passo dal capoturno per gli aggiornamenti, ci sono stati nuovi arrivi e trasferimenti vari in giornata. Cammino lentamente nel corridoio fino alla mia scrivania, controllando i documenti appena presi in consegna. - Cella otto, ok... cella tredici, ok... cella ventidue, ok... cella trenta, ok... - Poso la borsa sulla scrivania e mi siedo, cerco una penna e compilo le pratiche. Qualcuna già russa, sento due vicine di cella che bisbigliano tra loro, tutto tranquillo. Quella della trenta è sdraiata al contrario, con la testa alle sbarre, è contro il regolamento, ma la lascio fare per ora. - Viene da un altro braccio, deve ambientarsi. - Penso.
Osservo la sua sagoma raggomitolata sotto la coperta. La vedo muoversi, si porta una mano sulla faccia, tira su col naso. Arrivo alla sua pratica e la leggo con attenzione. È dentro da nove anni, ha avuto uno sconto di pena per essersi costituita, tra poco più di un anno e mezzo uscirà. - Ah, ecco chi è! - Ricordo vagamente l'eco mediatica che ne sortì al tempo, non sono mai riuscita a biasimare gesti simili.
   
 
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