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Autore: _Kurai_    08/08/2015    0 recensioni
La luna piena, un sakura ormai quasi del tutto sfiorito, e i passi leggeri di sandali di paglia sul tappeto di petali rosa e bianchi. Un fruscìo, poi un lieve sciabordìo d'acqua in una tinozza.
Anche stavolta, la missione di Arakita Yasutomo era conclusa. Alzò lo sguardo alla luna, mentre il suo corpo seminudo accoglieva la brezza notturna e le macchie di sangue sul kimono immerso nell'acqua andavano sbiadendo.
Imprecò piano, quando un rumore improvviso gli fece estrarre la spada.
Era solo un gatto.
Ripose la katana nel fodero, non senza aver accarezzato distrattamente l'incisione di un lupo alla base della lama, per poi abbassarsi a coccolare la piccola creatura nera come la notte.
Genere: Angst, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Team HakoGaku, Team Hiroshima Kureminami, Team Kyoto Fushimi, Team Souhoku
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Nota: l'ambientazione di questa storia è un'epoca Sengoku immaginaria, perciò chiedo venia in anticipo per eventuali enormi imprecisioni storiche e geografiche (eccetto quelle volute e giustificate dal contesto Alternative Universe). I personaggi di questa storia non mi appartengono, ogni riferimento a fatti, cose e persone esistenti o esistite è casuale e bla bla bla, ringraziamo Watanabe-sama per aver creato questi adorabili omini che ormai popolano di fisso tutte le mie fanfiction. (Gente che non ce la fa a scrivere note serie)

Edit: Ho finalmente aggiunto la stupenda copertina disegnata per me dall'amico Sargas (Seguitelo qui https://www.facebook.com/Sargas-Art-121147841323812/?fref=ts), che ringrazio tantissimo per aver apprezzato la storia e per aver disegnato un Arakita che mi ha lasciato semplicemente senza fiato!!

 
I CAPITOLO

Dawn Of War

 

La luna piena, un sakura ormai quasi del tutto sfiorito, e i passi leggeri di sandali di paglia sul tappeto di petali rosa e bianchi. Un fruscìo, poi un lieve sciabordìo d'acqua in una tinozza.

Anche stavolta, la missione di Arakita Yasutomo era conclusa. Alzò lo sguardo alla luna, mentre il suo corpo seminudo accoglieva la brezza notturna e le macchie di sangue sul kimono immerso nell'acqua andavano sbiadendo.
Imprecò piano, quando un rumore improvviso gli fece estrarre la spada.
Era solo un gatto.
Ripose la katana nel fodero, non senza aver accarezzato distrattamente l'incisione di un lupo alla base della lama, per poi abbassarsi a coccolare la piccola creatura nera come la notte.
Si sentiva inquieto.
Perché quegli uomini sembravano così sicuri e incuranti del loro destino?
Com'erano arrivati fino al limitare del territorio del castello, con lo scopo di ucciderne il signore? Cosa sarebbe successo se non avesse avuto quel presentimento?
Poi, sentì un altro fruscìo.
Alle sue spalle.
Si voltò di scatto, con addosso solo il fundoshi e la mano febbrile ad un passo dall'estrarre la lama, in guardia.
"Yasutomo."
Con una voce profonda che conosceva troppo bene, un viso particolare e familiare, che sembrava scolpito nel granito, apparve dal buio, lo sguardo deciso e autoritario puntato su di lui.
"Rilassati, e fai rapporto"
"Erano quattro. Appena fuori dalle mura del castello. Armati di tutto punto. Sembrava quasi che mi stessero aspettando, che fossero pronti ad accogliere la morte fin troppo di buon grado. Li ho accontentati, Fuku-chan.”

Solo quando erano soli lo chiamava così, perché in presenza delle sue truppe non avrebbe mai violato così apertamente le gerarchie. Avrebbe dato il cattivo esempio.
Un po' gli dispiaceva, però.
Erano stati cresciuti dalla stessa famiglia anche se di sangue diverso, ma Juichi Fukutomi era per diritto di nascita il potente daimyo di quel feudo e lui, Yasutomo Arakita, ne era diventato il fedele luogotenente, in una difficile epoca di guerre, imboscate e campagne di espansione militare nei feudi vicini.

Arakita era un lupo ammaestrato, un killer a sangue freddo fedele solo ed esclusivamente al suo daimyo, un samurai che aveva consacrato la lama della sua katana alla protezione dell'unica persona al mondo per cui portasse un rispetto incondizionato.
Era stato adottato da piccolo dalla potente famiglia Fukutomi, così piccolo che nemmeno ricordava chiaramente il momento in cui si erano conosciuti; il padre, morto da qualche anno - o per meglio dire, ucciso in un agguato di cui non si erano mai trovati i colpevoli - raccontava di averlo trovato sulle montagne, durante una battuta di caccia. Un marmocchio sporco e arruffato di nemmeno due anni, capelli e occhi neri come la pece, minacciato da un branco di lupi che non sembravano fargli alcuna paura. Il signor Fukutomi li aveva dispersi e l'aveva fatto salire sul suo cavallo, per poi educarlo e insegnargli il kenjutsu insieme al suo figlio naturale. Aveva trovato la sua via aprendosela a colpi di spada, sviluppando un'abilità seconda solo a quella di Juichi, che lo considerava quasi un suo pari e aveva cieca fiducia in lui.
Da qualche giorno erano in corso alcune piccole sommosse scatenate da ronin erranti, che sembravano provenire da qualche villaggio sull'altro versante della montagna. Inizialmente sembravano solo piccole scaramucce, poi avevano iniziato ad essere sempre più organizzate: non erano più sicuri se fossero semplici samurai senza padrone che si divertivano a seminare il caos o se quella fosse una copertura, atta a nascondere un attacco reale e ben organizzato da parte di un altro feudo o di una fazione nemica all'interno del feudo stesso.
Arakita finì di raschiare via le macchie rosso scuro dal kimono per poi rovesciarsi addosso un'altra tinozza d'acqua, nel freddo pungente della notte primaverile ai piedi del monte Hakone. Scrollò la testa da un lato e dall'altro come un animale selvatico, creando tutt'intorno un'aura di goccioline d'acqua. Juichi era ancora seduto appena fuori dallo shoji della sua stanza, già (o ancora) vestito di tutto punto nonostante fossero appena le due del mattino. Probabilmente aveva studiato strategie militari fino a quell'ora, alla luce di una piccola lanterna. Yasutomo finì di asciugarsi e indossò un kimono pulito, per poi sedersi accanto al suo signore.
Attendeva altri ordini, perché il sonno è per i deboli. Invece, Juichi si alzò e rientrò nella stanza, invitandolo a seguirlo con un cenno della testa.

Tra il ruolo di luogotenente e quello di amante, in fondo, non c'era tutta questa differenza. Faceva parte dei suoi compiti, ed era uno di quelli che apprezzava di più. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, fino a sacrificare la sua stessa vita.
Si abbandonò tra le braccia forti di Fukutomi, mentre si sfilava il kimono appena indossato, liberandosi anche - ma solo momentaneamente - della sua scorza impenetrabile di guerriero freddo e privo di sentimenti. Solo un'ora prima aveva passato a fil di spada quattro uomini, finendoli senza battere ciglio, ma lì si sentiva inerme, totalmente in balìa di colui che poteva disporre della sua vita in qualsiasi momento. Soffocò a metà un gemito mordendosi le labbra sottili, perché le porte di carta di riso sarebbero state fin troppo disposte a rivelare il loro segreto. Lo sentiva affondare dentro di sè, e con le unghie gli arpionava la schiena, come per non lasciarlo andare, in preda ad un istinto pericolosamente simile a quello del combattimento. Con la differenza che, se era lui, gli andava bene anche essere sconfitto.

Poi, un'ora prima dell'alba, uno scalpiccìo agitato annunciò l'arrivo di un messaggero al castello. Il daimyo si alzò, si rivestì in fretta e uscì dalla stanza, lasciando il luogotenente semiaddormentato nel futon.
"Un esercito in assetto di guerra è quasi sul confine, mio signore, a quindici chilometri da qui" comunicò il messaggero, che doveva aver corso fin lì al massimo delle sue possibilità "si preparano ad attaccarci a sorpresa da due lati, per chiuderci nella morsa della montagna..."
"Ottimo lavoro, Izumida... vai a svegliare le truppe, che siano tutti pronti e armati prima dell'alba! Li batteremo sul tempo!"
Il sole si era appena levato quando le truppe di Fukutomi si schierarono ordinatamente, con addosso le armature e le due spade al fianco, pronte a combattere e a difendere il castello. Una nuvola di petali di sakura sollevati dal vento li circondò, come una benedizione dei kami.
L'esercito al completo contava circa tremila elementi, che erano impegnati su diversi fronti, ma le truppe dell'elìte sarebbero state sufficienti. Poco più di duecento soldati contro almeno un migliaio sembravano una mossa suicida, ma Fukutomi era fermo e sicuro nella sua decisione. Oltre ad Arakita, suo infallibile braccio destro, aveva altre potenti frecce al suo arco, che avrebbero dato filo da torcere a mille uomini anche in inferiorità numerica più schiacciante di così.

In un'ora, comunque, sarebbe stato difficile fare di meglio.
Il daimyo divise il suo manipolo di forze scelte in sei squadre, di una delle quali prese personalmente il comando. Era uno schieramento ben collaudato, e non aveva mai fallito.
La seconda squadra era affidata ad Arakita, che sapeva essere un comandante eccellente anche se un po' troppo votato alle missioni suicide - alle quali comunque era sempre sopravvissuto.
La terza squadra era formata da combattenti esperti di ninjutsu, il cui comandante era famoso per gli attacchi a sorpresa: silenziosamente sgusciava alle spalle del nemico, che non faceva in tempo a notare il suo movimento prima che il veleno in cui intingeva tutte le sue armi non gli fosse entrato in circolo. "Incontri Toudou Jinpachi e sei già morto" era la sua fama, forse messa in giro da lui stesso, dotato di un'autostima e una propensione all'autocelebrazione sovrabbondante per un uomo solo.
La quarta e la quinta squadra agivano insieme: uomini veloci, armati di spade e lance, che dovevano essere il cuore pulsante dell'avanzata. La quarta era comandata dal terzo samurai più forte del feudo, un personaggio enigmatico che ostentava una calma estrema anche in battaglia, fino al momento in cui in lui scattava qualcosa, e ogni essere vivente nel raggio di cento metri finiva tagliato a fette, finché la sua sete di sangue non si fosse esaurita. Lo chiamavano Demone, e forse Shinkai Hayato lo era sul serio. La quinta squadra era comandata dal messaggero di poc'anzi, Izumida Touichiro, un uomo che della potenza del suo corpo aveva fatto un culto e un vanto, in grado di correre per numerosi chilometri senza accusare stanchezza. Era un maestro nell'uso della naginata, e come lui tutti i suoi uomini erano armati di lancia.
Infine, l'ultima squadra era formata da arcieri di comprovata abilità, che si sarebbero posizionati in punti strategici sulla montagna, per poter disperdere e atterrire il nemico con l'inquietante precisione delle loro frecce. Manami Sangaku, il comandante della sesta squadra, era poco più che un ragazzo, ma era dotato di un'abilità davvero fuori dal comune: si diceva che fosse protetto dai kami del vento, che permettevano alle sue frecce di centrare perfettamente un bersaglio anche a distanze impossibili. Portava il suo enorme arco sulla schiena, accanto a una faretra ricolma di lunghe frecce piumate.

   
 
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