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Autore: Achernar    09/08/2015    4 recensioni
Il treno li inghiottiva, uno alla volta, e Sasuke rimaneva sempre lì a guardarli scomparire nel nero della galleria per non fare mai più ritorno. Da solo, non aveva mai trovato il coraggio di seguirli e in compagnia, una reciproca promessa lo aveva ancorato definitivamente a Konoha. Non era una vera promessa, così come la città non era più una vera città, eppure era abbastanza, abbastanza per allontanare il gelo e abbandonarsi agli spettri di quella città fantasma.
{Prima Classificata al Contest La Morte Ti Fa Bello Indetto da La Fe_10 Sul Forum di EFP}
{Prima Classificata al Contest Your Best Shot Indetto da DonnieTZ Sul Forum di EFP}
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Note:

  • Questa storia è stata fortemente ispirata dalla canzone Ghost Town di Madonna.
  • Immagino questo AU ambientato in un setting simile a quello dell’Est Europa durante un imprecisato dopoguerra della prima metà del secolo.
  • Per quanto riguarda la Konoha dell'AU, è una città piccola e isolata dai monti, ma sufficientemente vicina alla capitale per essere stata bersaglio di numerosi e devastanti bombardamenti nel corso del conflitto. Come spesso succedeva per le città di scarsa importanza economica o politica, se distrutte da qualche cataclisma esse venivano lentamente abbandonate anziché dispendiosamente ricostruite. Fu il caso di numerose città americane durante gli anni venti ed è anche il caso di Konoha.
  • Per quanto riguarda la voce narrante, si sovrappone spesso e volentieri a Sasuke, soprattutto nell’ultima parte. Su di lui mi sono sforzata di essere più IC possibile, pur tenendo conto del diverso passato del Sasuke dell’anime e di quello di questa storia. Qui, Sasuke non perde tutta la sua famiglia per colpa di sua fratello, né è ossessionato dall’idea di ucciderlo o di diventare più forte; la sua famiglia muore per motivi legati alla guerra, per questo lo vedo più malinconico e meno propenso all’ira e alla vendetta. È un tipo di morte che, pur facendolo soffrire, è in grado di accettare. Allo stesso modo, questo suo carattere meno ostile ha fatto sì che, pur restando tendenzialmente asociale per via dei suoi lutti, abbia avuto qualche amico durante l’infanzia. Ho anche aumentato la differenza di età fra lui e Itachi. Inoltre, anche se non strettamente necessario ai fini della trama, mi immagino Sasuke leggermente Aclufobico.
  • La vicenda si svolge nel corso di almeno una ventina d’anni.
  • La “citazione scopiazzata da qualche libro” a cui accenna Sasuke è effettivamente una citazione da Augusto (quando Svetonio gli fece dire “vi restituisco in marmo quello che mi avete fatto trovare in mattoni” riferendosi a Roma).

Per chi avesse già letto qualcuna delle mie storie, la qui presente shot può sembrare l'equivalente di un pantalone di flanella a una prima dell'opera, infatti, essendo 'monofandom' fino alla nausea, la qui presente autrice ha pubblicato solo e soltanto fanfiction su YGO. Ma c'è sempre una prima volta, no? 

Buona lettura!

Promesse


Se ne erano andati tutti.

Dapprima le nuove generazioni.

Il richiamo di opportunità e vite lontane dagli spettri del passato era stato sufficientemente allettante perché i giovani voltassero le spalle alla città che li aveva visti nascere e crescere.

Portandosi dietro i fratelli e le sorelle minori, avevano fatto fagotto tutti quanti. Sasuke era rimasto a guardarli da lontano, mentre svanivano uno dopo l’altro.

Aveva guardato con invidia le dita dei bambini strette a quelle delle sorelle e dei fratelli maggiori. Piccole mani riposte al sicuro in palmi più grandi, sogni e speranze rinchiusi tra quelle dita come in una cassaforte destinata all’infanzia.

Nessun bambino fa caso al gesto di tenersi per mano, perché quando comincia a farci caso è arrivato il momento in cui smette di essere bambino. Solo i bambini che nessuno tiene mai per mano si rendono conto che quella stretta, brusca, dolce, affettuosa che sia, è importante. Vuol dire qualcosa perché senza, sentono un vuoto dentro, proprio come il vuoto che c’è attorno alle loro piccole dita; ma solo quando i bambini che nessuno ha tenuto per mano diventano finalmente grandi, riescono a dare un nome a quel vuoto.

Sasuke era troppo piccolo per riuscire ancora a dare un nome al suo di vuoto, ma sapeva perfettamente che quella che provava era invidia quando i suoi amici scomparvero dietro le porte arrugginite del treno e il treno scomparve inghiottito dalla galleria, la stessa galleria che Sasuke aveva provato più volte ad attraversare insieme a quegli stessi bambini, nei giorni in cui il villaggio rideva ancora, per poi tornare a casa sporchi di fango e affrontare gli sguardi severi di genitori e fratelli.

Se li ricordava tutti i fratelli che erano scomparsi oltre la galleria in quei giorni. Erano pochi, non ce n’era stato nemmeno uno che fosse più grande di Itachi, ma come tutti gli altri, Sasuke non sprecava il suo tempo a chiedersi perché. Fosse stato per lui, avrebbe risposto che era troppo occupato a guardare con odio i suoi amici che si allontanavano per chiederselo, ma fosse stata qualche altra persona, magari un nonno rimasto senza nipoti, avrebbe detto che era perché di tutti i giovani del villaggio che avevano compiuto vent’anni prima della fine della guerra non ne era tornato quasi nessuno. Per Sasuke non faceva differenza. Suo fratello avrebbe continuato a fare parte di loro.

Qualche anno dopo era stato il turno delle famiglie. Quelle ancora intere. Le altre erano partite molto prima, insieme ai giovani.

I bambini più piccoli erano cresciuti ormai e i padri e le madri non erano più in grado di provvedere a loro restando a Konoha. Né i piccoli né i grandi avrebbero avuto futuro lì e, con la primavera, le poche case rimaste ancora in piedi cominciarono di nuovo a svuotarsi. Una, due, tre… una migrazione che avvolse la città nel silenzio. Lo stesso silenzio gelido, malgrado la stagione, che aveva riempito le pareti della casa di Sasuke dal giorno in cui gli dissero che suo fratello non sarebbe tornato. Solo le pareti. Il tetto era crollato l’anno prima, sotto l’impatto delle bombe.

Con le famiglie, partirono anche tutti gli altri amici che gli erano rimasti. Un numero esiguo in verità.

Partirono i suoi vecchi compagni di classe, vecchi perché ormai la scuola non esisteva più ed essendo in grado di leggere e scrivere, Sasuke era stato esonerato dalle lezioni sempre più deserte che il maestro Iruka teneva ogni mattino nel cortile del municipio. Forse, partendo, i suoi amici sarebbero riusciti a prendere un diploma, magari perfino una laurea. Sakura era brava negli studi. Invece Sasuke ricordava a mala pena di aver terminato le elementari. Quando l’avesse fatto era difficile dirlo, le giornate a Konoha scorrevano lente nella loro desolata monotonia e gli anni della sua infanzia erano come ricoperti di nebbia. Nebbia e silenzio.

Quando le porte del treno, ancora più arrugginite dell’ultima volta, si richiusero catturando le prime famiglie, Sasuke era finalmente in grado di dare un nome al proprio vuoto e ricordava, distintamente, che, mentre il treno sferragliava tremolante oltre il nero della galleria, aveva pensato che ora che non gli restava più nessuno al mondo non avrebbe mai potuto sentirsi più solo di così. E ricordava anche di come, proprio in quel momento, l’unica persona che gli restava al mondo gli avesse poggiato una mano sulla spalla, stringendola come lui si ostinava sempre a fare, sempre alla ricerca di contatto fisico non richiesto eppure, nonostante tutto, piacevole. Non era la mano di Itachi, perché Sasuke l’avrebbe stretta volentieri anche se non era più un bambino, ma come sempre quella mano era proprio lì, a contraddirlo, a correggerlo, a dimostrargli che aveva torto perché lui non era da solo.

Sasuke ricordava distintamente anche di averla scacciata via con una spallata, più per abitudine che per altro, ma in quel momento, almeno per una volta, gli aveva fatto piacere sbagliarsi.

Quando cominciarono ad andarsene anche i vecchi, Sasuke non andò alla stazione a salutarli con lo sguardo come aveva sempre fatto. La vecchia galleria gli faceva più paura ora di quando era bambino perché si rendeva conto che tutti quelli che aveva visto sparire all’interno del nero non erano più tornati. Invece, quando l’ultimo treno partì, andò ad affrontare Naruto e gli chiese cosa desiderasse fare.

Seppur ingenuo, il suo amico non era sciocco e aveva sicuramente compreso che di Konoha ormai non sarebbe rimasto più niente, probabilmente neanche qualche topo con cui fare conversazione.

Ma anche se non sciocco, Naruto era testardo, più testardo perfino di Sasuke, e dopo poche parole cominciarono a urlarsi contro a vicenda perché Konoha era morta e quell’idiota si rifiutava di lasciarsi dietro le spalle quelle strade in putrefazione, dove l’asfalto colava liquido e consunto di pioggia come pus da una ferita infetta. Konoha era la sua casa, diceva invece, il suo passato, la cassaforte dove aveva custodito tutti i suoi sogni, e lui non l’avrebbe lasciata.

Era follia, pure, semplice follia. Eppure Sasuke rimase a Konoha con lui. Non aveva più nessuno, la galleria lo fissava minacciosa come un ciclope con quel suo unico occhio nero, e lui non voleva attraversarla da solo. Non sarebbe potuto andare da nessuna parte senza Naruto: la solitudine scorreva ancora nelle sue vene, gelida, sibilando come un serpente ogni volta che varcava la soglia di casa, e la consapevolezza che, senza la risata irritante di Naruto, quel silenzio sarebbe potuto diventare ancora più assoluto lo terrorizzava.

Rinunciò a partire e si forzò a rivivere i suoi ricordi ogni giorno, si costrinse ad affrontarli e quando il silenzio divenne troppo freddo persino per lui, afferrò l’ultima delle foto di Itachi e si trasferì a casa di Naruto. Se non poteva costringerlo ad andarsene allora sarebbe rimasto, ma a una condizione.

Gli fece promettere che Naruto non se ne sarebbe mai andato, che non l’avrebbe mai lasciato, che sarebbero stati sempre insieme. Sempre. Stretti proprio come le mani dei bambini erano strette a quelle dei loro fratelli. Loro due, da soli, in mezzo alle rovine. Contro il buio e il silenzio.

Si fece ripetere la promessa ancora e ancora, settimana dopo settimana, “non ti lascerò mai”, facendosi prendere in giro, facendo di quelle parole un mantra e poi uno slogan, un ritornello che Naruto canticchiava ogni volta che doveva allontanarsi, anche solo per pochi minuti. A Sasuke non importava. Gli bastava che quel giuramento non venisse mai infranto.

Glielo fece promettere di nuovo il giorno in cui pensò per la prima volta che quelle parole avevano un bel suono quando erano pronunciate da Naruto. Ancora una volta la notte in cui capì di essersi innamorato perché, qualunque cosa fosse successa da quel momento in poi, qualunque cazzata avesse fatto, Sasuke aveva bisogno di sapere che lui non poteva andarsene.

La prima cazzata fu baciarlo, anche se a conti fatti fu forse la seconda, perché la prima era stata non rendersi conto che, nonostante la risata irritante e le prese in giro, il suo ultimo amico ricambiava. Ricordava ancora il sapore delle sue parole, non ti lascerò mai, sussurrate metà sulla sua bocca, metà dentro. Sempre le stesse. Non si sarebbe mai annoiato di sentirle.

Vennero altre cazzate: baciarlo ancora, accettare di essere innamorato, confessare di essere innamorato, baciarlo, baciarlo di nuovo, finire a dormire nello stesso letto, fare l’amore. Farsi tenere per mano. Nessuno lo aveva mai tenuto per mano da quando era morto Itachi. Sasuke si era sempre rifiutato di farsi prendere per mano dagli amici, dai loro genitori, dagli insegnanti. Tanto che la gente finiva per strattonarlo o afferrargli il braccio. Non gli importava, sempre meglio che invadere quello spazio che nella sua memoria doveva appartenere solo a suo fratello.

Naruto lo sapeva, a quanto pare amava impicciarsi della vita di Sasuke quindi non poteva non saperlo, e doveva aver studiato attentamente il momento e il modo giusto per mettere in atto il suo infido piano perché, per magia, Sasuke non sentì l’impulso di strattonare via la mano quando le dita di Naruto la sfiorarono, sussurrando ancora la sua promessa.

Non era la stretta di Itachi, eppure in qualche modo riusciva a colmare il vuoto, un’altra magia forse, o un altro modo di Naruto di dimostrare a Sasuke che aveva torto a pensare che solo suo fratello avrebbe mai potuto sciogliere la solitudine.

Carte alla mano, Sasuke si era sbagliato spesso negli ultimi anni. Quando aveva creduto di non avere più nulla da perdere, era stato contento di vedersi contraddetto. Quando aveva creduto di non avere più un futuro a Konoha, non gli era dispiaciuto trovarsi in errore ancora una volta.

Naruto aveva grandi ambizioni: avrebbe ricostruito la città. Lui e Sasuke insieme. Solo Naruto se Sasuke si fosse rifiutato. Non gli importava quanto ci sarebbe voluto: considerava l’intera Konoha la propria eredità e aveva intenzione di lasciarla ai posteri splendente come marmo.

Una citazione scopiazzata da qualche libro probabilmente: Sasuke dubitava che Naruto conoscesse perfino il significato della parola posteri. E poi di quali posteri parlava? Erano in due e basta, le uniche anime ancora vive di una città fantasma. Ma, in fondo, cosa aveva di meglio da fare? E fu così che per un po’ di mesi si improvvisarono carpentieri. Naruto lo aveva persino rimproverato perché un giorno lo aveva trovato a sorridere.

E poi, quando la guerra sembrava finalmente solo un ricordo lontano, quando si era abituato a far finta che tutta quella distruzione fosse colpa di un terremoto e che suo fratello non fosse morto perché qualche soldato nemico gli aveva fatto saltare il cervello con un proiettile, quello stronzo del karma decise di dimostrare a Sasuke che si era sbagliato ancora. Che la guerra c’era stata, che non aveva ancora finito di soffrire, che c’era ancora qualcosa che valeva la pena non perdere e che tutte le promesse che si era fatto dire negli ultimi anni, tutti i “non ti lascerò mai”, potevano essere infranti. E il karma li infranse come un’automobile uscita fuori strada infrangerebbe i vetri di una cristalleria. In migliaia, milioni di pezzi, troppo piccoli per sperare di poterli mai incollare fra loro.

Quanti anni erano passati dall’ultimo bombardamento? Dieci? Venti? Eppure quando sentì quel suono, quel boato cavernoso che non poteva che provenire dalle bocche più maledette dell’inferno, Sasuke si sentì di nuovo bambino, di nuovo come quel giorno di tanti anni fa quando suo fratello lo aveva trascinato in cantina urlando durante il primo bombardamento.

Tutti i mobili della cucina avevano cominciato a tremare quel giorno, proprio come durante un terremoto, ma Itachi lo aveva tirato fuori dalla camera prima che Sasuke potesse mettere la testa sotto il tavolo come gli aveva insegnato il maestro. Per anni passò più tempo in quella cantina che nella sua vera stanza, in genere al buio e in silenzio perché sua madre aveva il terrore di attirare gli aerei.

Questa volta il boato era stato uno solo. Più forte di tutti gli altri per via dell’eco che rimbalzava da casa a casa nel silenzio di tomba della città. Prima di rendersene conto, Sasuke stava già correndo, dove di preciso non lo sapeva neanche lui, ma confidava che prima o poi le gambe o l’istinto l’avrebbero portato nel posto giusto. Le parole ‘no, no, no, nonononono’ rimbombavano disperate nella sua testa. Ma non avrebbe pianto, non ancora. Probabilmente quell’idiota se l’era cavata, come la solito.

Quando arrivò sul posto la polvere stava ancora raggiugendo le nuvole in dense spire grigie. La puzza di muffa e bruciato, fin troppo familiare, appestava l’aria e brandelli di mattoni ruzzolavano ancora giù dall’edificio.

Sasuke si coprì il volto con la maglietta per provare a respirare. Il secondo e il terzo piano dell’alimentari che Naruto aveva cominciato a risistemare quel giorno erano crollati, inondando il piano terra di macerie. Fuori, mezza sepolta dai detriti, c’era ancora la sua macchina.

Idiota. Idiota. Idiota. Lui e i suoi sogni, idioti quanto lui. Avrebbero dovuto andarsene finché erano ancora in tempo, e adesso quell’idiota aveva rovinato tutto.

Perché quella dannata bomba aveva deciso di esplodere solo adesso? Che cazzo aveva fatto Naruto per farla esplodere? Sasuke lo avrebbe abbracciato e poi ucciso di botte non appena lo avesse tirato fuori.

Il tessuto stretto sul volto, si avventò sui brandelli di edificio. Ne tirò via uno, due, cento, mille. Le unghie e le braccia gli sanguinavano e le ferite erano piene di intonaco sbriciolato. Mille, duemila, tremila. Non azzardarti a morire. Non azzardarti a morire, Naruto. Quattromila ed era già notte ma il cumulo di macerie non sembrava diminuire e Sasuke era stremato, il sudore gli colava giù a rivoli lungo la schiena, infangandolo di umido e calce. Si alzò in piedi, a osservare la devastazione che gli si parava davanti e si sentì piccolo, infinitamente piccolo di fronte al silenzio che aveva fatto seguito al grande boato. Il fumo si era ormai diradato e rimanevano solo le macerie del vecchio negozio, tonnellate e tonnellate di macerie che non sarebbe mai riuscito a smuovere. Non da solo.

L’epifania lo colpì con la violenza di un dardo, di una freccia portava persino lo stesso dolore. Lo fece cadere in ginocchio sui cocci taglienti dei foratini, schiacciandolo col peso della verità e, lentamente, mentre le lacrime scendevano una dopo l’altra come una cascata, la polvere sotto di lui si fece umida. Era solo adesso. Completamente, totalmente solo.

Se ne erano andati tutti.

Passarono giorni prima che Sasuke riuscisse a rimuovere anche l’ultimo pezzo di cemento dal luogo dell’esplosione. Il corpo di Naruto era irriconoscibile, sfregiato dal crollo e dal tempo passato sotto le macerie, e Sasuke per poco non vomitò. Non solo si era azzardato a morire, ma lo aveva fatto senza neppure dargli la possibilità di salutarlo come si deve, di proteggerlo... Decise che non gli avrebbe mai perdonato il fatto di essersi rimangiato la sua promessa e decise anche che lo avrebbe raggiunto presto, per poterglielo dire in faccia. Se ne erano andati tutti in fondo, tanto valeva che se ne andasse anche lui.

Ma i fratelli, le famiglie, gli anziani se ne erano tutti andati via in gruppo. L’idea di dover partire da solo lo terrorizzava: non aveva più nessuno che potesse accompagnarlo.

Quella notte stava passeggiando su e giù per i binari della vecchia stazione, in cui l’ultimo treno in transito era passato non meno di due anni prima. Il vento sibilava fra le panchine arrugginite e si andava a rifugiare nella bocca nera della montagna portando con se un’eco di esplosioni e grida, spingendola lontano, oltre la galleria, in luoghi che Sasuke non avrebbe mai visto.

Il freddo di dicembre sgretolava a ogni suo passo i binari ghiacciati, fragili come capelli, e lo minacciava artigliandogli i piedi. Ma Sasuke era da tempo immune a quel tipo di freddo: ne sentiva costantemente uno ben peggiore, dentro, nelle sue ossa, nel suo corpo, un’altra eco che rimbombava sorda contro le pareti del suo cuore.

Non voleva vedere un’altra alba in quella città fantasma, non aveva più lacrime da piangere. Voleva raggiungere Naruto e farlo pentire di averlo preso in giro, schiaffeggiarlo magari, e poi abbracciarlo. Riusciva ancora a sentire le parole della vecchia promessa echeggiargli vuote nella testa: anche la sua immaginazione si prendeva gioco di lui.

Quella notte sentiva che l’avrebbe fatto davvero, anche se aveva paura, perché il freddo era troppo intenso e la città continuava a fissarlo attraverso i vetri fracassati delle finestre, migliaia di occhi guerci puntati su di lui mentre rincasava. Sarebbe impazzito se fosse rimasto anche solo un giorno di più in quel cimitero di edifici. E fu proprio l’ipotesi di aver completamente perso il lume della ragione a fermarlo sul più bello, sulla soglia della cucina.

Fu il trovare il coraggio e l’umiltà di girarsi quando sentì un fruscio alle sue spalle e il buon senso, o forse cattivo senso, di non scappare quando le parole non ti lascerò mai ricominciarono ad echeggiare per la stanza. I suoi occhi non riuscirono a vedere nulla, la sua testa continuava a ripetergli che era solo il frutto della sua immaginazione, ma qualcosa gli sussurrò di fidarsi e Sasuke decise di mettere giù il coltello.

La voce lo seguiva ovunque, a volte scherzosa, a volte più seria, quasi straziata, una volta perfino rotta dal pianto di rimorso per aver infranto la propria promessa. Era irritante, esattamente come Naruto, ma era sempre lì, non lo lasciava mai, e invece di impazzire, Sasuke si sentì come se avesse ritrovato la ragione. Non ti lascerò mai, non ti lascerò mai, non ti lascerò mai. Poteva essere una minaccia o una maledizione, ma lui vi si aggrappò come si era aggrappato alla mano di Itachi quando suo fratello lo aveva trascinato in cantina per la prima volta: con cieca fiducia. Forse perché ne aveva bisogno e basta, forse perché si fidava ancora di Naruto e della sua promessa. Forse perché era davvero pazzo.

Quanto durano le illusioni? Un secondo, due al massimo. I miraggi poco di più. Ma la voce lo seguì ogni giorno per mesi, più intensa ogni volta che Sasuke ripensava di togliersi la vita. Lo seguiva ancora adesso. Ancora una volta gli dimostrava che si era sbagliato, perché Naruto non era un bugiardo: sarebbe rimasto al suo fianco fino all’ultimo dei suoi giorni, senza rimangiarsi le proprie parole neanche dopo essere morto.

Per colpa di quella voce, dovette rinunciare all’idea di raggiungere Naruto. Questo non toglieva però che fosse ancora arrabbiato: aveva sempre nutrito una certa passione per le liti, specialmente se riguardavano il suo ultimo amico. Che fosse un’illusione o un fantasma non aveva più importanza ormai e quello che era certo era che un Naruto ectoplasma non era come un Naruto vivo, e un’eco logorroica non era come una vera voce. Almeno però, non era ancora da solo in quella città e col passare degli anni cominciò ad abituarsi alla presenza di quella voce, accanto a lui. Se si concentrava, a volte riusciva persino a sentire qualcosa intorno alla sua mano: calore, formicolio, come se qualcuno avesse provato a sfiorarla.

Oggi, la galleria sembrava meno minacciosa di quella notte di tante settimane fa, quando era stato a un tanto così dal raggiungere tutti gli altri che se ne erano andati. Era ancora nera, ancora spalancata e pronta a inghiottirlo, il vento ululava ancora, ma Sasuke le voltò le spalle. La città era la sua eredità adesso e gli occhi con cui lo fissava non erano più così minacciosi, ma disperati e imploranti. Era folle, ancora una volta, ma la voce di Naruto gli venne dietro mentre prendeva la sua decisione.

Aveva un dovere verso Konoha, e uno più profondo, verso Naruto.

Sarebbe stato l’unico a non andarsene.

  
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