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Autore: Breaththeuniverse    09/08/2015    3 recensioni
Una cena tra amici che si ritrovano dopo un anno.
Due amici di infanzia e un amore a senso unico.
Una malattia che cambia tutto.
Nell'arco di una sera, la vita di Kurt viene capovolta completamente.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Blaine Anderson, Burt Hummel, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Aloha!
Sono riapparsa nel mondo di Glee con una one shot! È la prima volta che ne scrivo una, quindi potrebbe essere un fiasco totale, abbiate pazienza lol
Prima di lanciarvi nella lettura, vorrei che leggeste questa nota perché ho giusto un paio di cose importanti da specificare. Qui viene trattato un tema delicato: l’anoressia. È probabile che molti di voi sappiano cosa sia, e per chi non lo sa l’anoressia è, per farla breve e semplice, una malattia grave che riguarda le persone che rifiutano di mangiare: tutto parte dalla mente e poi si riflette, ovviamente, sul corpo. I motivi per una persona di ricorrere all’anoressia sono molti e diversi e la cura è un processo lungo e difficile, che non sempre ha un lieto fine.
Vi posso assicurare che ho cercato di trattare l’argomento con più delicatezza possibile: ho studiato l’anoressia, ho letto diversi libri a riguardo, quindi so di cosa sto parlando (l’ho portata anche come argomento di tesina al mio diploma).
Essendo una OS però ho deciso di non approfondire troppo alcuni aspetti, altrimenti avrei fatto una long con tutta la storia nel dettaglio. Comunque spero davvero che vi piaccia, sono nervosa proprio per l’argomento centrale.
Un’ultima cosa e poi vi lascio leggere: non ho idea di come funzioni il sistema americano scolastico, quindi mi sono basata su quello italiano.
Okay, ho finito! Siete liberi di leggere hahah
Love,
Breath The Universe.
 
 

 
You don’t know how lovely you are.
 
Il campanello di casa suonò, spezzando il silenzio della casa: erano le sette e mezza di un caldo sabato sera d’Agosto. Faceva di sicuro caldo, visto come erano vestite le persone, ma Kurt Hummel non lo sentiva molto: era una questione di più o meno freddo per lui. Colpa del grasso che aveva perso e che avrebbe potuto tenerlo caldo.
I medici gli avevano spiegato il perché, ma Kurt non aveva ascoltato: ascoltava raramente in quel periodo, persino suo padre. Burt Hummel, un uomo grande, grosso e calvo, con il vocione profondo; un uomo buono, non molto severo così come non era molto presente nella  vita di Kurt. Non per colpa sua, certamente: aveva un lavoro che lo teneva lontano dal figlio quasi tutto il giorno e in qualche modo doveva pagare le bollette, l’affitto e la spesa, giusto? Non che Kurt facesse un grande uso di cibo.
Burt si avviò ad aprire la porta d’ingresso, un sorriso contento che Kurt imitò d’istinto, non volendo deludere di già il padre. Succedeva spesso che durante il giorno, Burt controllava che suo figlio appena 18enne stesse bene, che non avesse un’espressione triste e spenta sul volto e lo faceva rivolgendogli sorrisi incoraggianti. Avevano sempre dei significati diversi – o almeno Kurt così li interpretava: a volte Burt voleva dimostrare che andasse tutto bene, che non era arrabbiato se il suo piatto era ancora quasi pieno di cibo. Altre volte era come se volesse dire che non lo avrebbe giudicato, oppure che non era un male se ingeriva qualcosa fuori pasto.
Quella sera, Kurt non capì cosa stesse cercando di comunicargli il padre, ma sorrise ugualmente, come faceva sempre, che lo intendesse o meno.
Padre e figlio sapevano già chi fosse alla porta: Burt aveva invitato i loro amici di famiglia dopo quasi un anno che non passavano una serata insieme. Colpa di Kurt, probabilmente. Il ragazzo cercava di non pensarci: sapeva che non era completamente colpa sua, che ognuno era impegnato con il proprio lavoro, soprattutto Burt. Il fatto che Burt e Kurt vivessero in una città diversa da quella dei loro amici, a Lima per l’esattezza, non aiutava.
Gli ospiti di quella sera erano quelli di sempre: una donna, due uomini e un ragazzo. La donna aveva lunghi capelli neri, spesso raccolti in acconciature diverse, gli occhi marroni contornati da un filo di trucco e le labbra dipinte di rosso. Il suo corpo era alto e snello, ma per qualche motivo Kurt non l’aveva mai vista con un vestito: anche in quell’occasione aveva jeans grigi e una camicia bianca semplice che le metteva in risalto il seno.
“Meredith!” la accolse Burt, abbracciandola stretta.
La gratitudine per tutto ciò che la donna aveva fatto in quei mesi e per la sua presenza quella sera era evidente nella sua voce.
“Burt”, salutò la donna, il suo tono caldo e gentile, come il profumo che Kurt sentì nonostante i metri di distanza. “Ho portato il dolce!” esclamò allegra, dopo essere entrata in casa.
A Meredith seguirono due uomini: George Anderson e Anthony Walsh, rispettivamente marito e fratello di Meredith. Il primo era un uomo spesso serio e taciturno, robusto e anche lui pelato, perché “Ad un certa età i capelli ricci non funzionano”, come diceva lui. Anthony invece, meglio conosciuto come Tony, era il suo opposto: più simile a Meredith, era chiacchierone, amava scherzare e fare battute. Era la cosiddetta anima della festa, lo era sempre stato, ed era sempre single: in tutti gli anni che Kurt lo conosceva, non lo aveva mai visto con una donna (o con un uomo, se era per quello). Diceva di essere incapace di mettere la testa a posto, perché amava troppo godersi la vita per legarsi con qualcuno e sposarsi, avere dei figli.
Il gruppo di adulti si conobbe 20 anni prima, quando Kurt non era ancora nato e Burt ed Elizabeth – sua madre – vivevano a Westerville. Gli allora neo Anderson furono i vicini di casa degli allora neo Hummel e avevano già un bambino di quasi due anni. Gli Anderson venivano dalla calda Florida e si trasferirono nella fredda Ohio per affari e conobbero gli Hummel quando Elizabeth si presentò a loro per dargli il benvenuto. Da allora, le famiglie avevano affrontato tante cose insieme: dal trasferimento di Burt ed Elizabeth a Lima alla nascita di Kurt e i compleanni dei figli; la morte di Elizabeth dopo meno di un anno di malattia, quando Kurt aveva solo quattro anni. Tra eventi belli e brutti, tra felicità e dolore, le due famiglie rimasero sempre in contatto.
Burt, George e Tony si salutarono e abbracciarono con pacche sulle spalle e strette di mano, mentre Kurt non poté far a meno di notare che mancasse una persona all’appello. Burt aveva chiaramente detto che ci sarebbero stati tutti, il che doveva includere anche…
“Kurt, tesoro,” arrivò la voce di Meredith, riscuotendo Kurt dai suoi pensieri.
Prima che potesse focalizzarsi su di lei però, il ragazzo si ritrovò le sue braccia intorno al corpo. Un abbraccio che avrebbe voluto evitare. Non si ricordava che odiava il contatto fisico? Forse no, forse non lo sapeva affatto. Era un’ossessione che aveva sviluppato da poco. Nonostante questo, Kurt ricambiò l’abbraccio, perché Meredith era come una seconda madre per lui e le voleva davvero bene, e fece lo stesso con gli altri due uomini.
“Ti trovo migliorato,” commentò George e il suo sguardo fece capire a Kurt perché suo padre poco prima gli avesse sorriso.
Burt aveva voluto comunicargli che sarebbe andato tutto bene, che loro erano amici e che ci tenevano a lui e al suo benessere tanto quanto lui: anni di conoscenza avevano fatto sì che gli adulti si affezionassero a Kurt come fosse figlio (e nipote) loro. Se quella sera gli Anderson e Tony erano lì, era perché volevano mostrare il loro appoggio e affetto per Kurt, che non pensava nemmeno di meritarseli. L’importante era che sapesse che non aveva nulla da temere.
“Grazie,” mormorò il ragazzo, abbassando lo sguardo e arrossendo, un sorriso incerto sulle labbra.
Da quando era stato ricoverato la prima volta a Marzo, nessuno era entrato da quella porta: gli Hummel, ma soprattutto Kurt, avevano preferito l’isolamento. Il suo psicologo diceva che non andava bene, ma Kurt non era ancora pronto.
Se la mente di Kurt era solita vagare e perdersi distrattamente, in quel momento c’era solo una domanda che lo teneva legato al presente e quando gli adulti si sistemarono in salotto, la paura lo pervase e lo bloccò sul posto, in piedi. Era l’unico che si stava chiedendo dove fosse? Suo padre gli aveva mentito? Ma lui... Anche lui aveva detto che sarebbe venuto e da quando si conoscevano non si erano mai mentiti, era quella la loro amicizia. Non si dicevano tutto, ma erano sempre onesti l’uno con l’altro.
“Blaine sta arrivando,” disse Meredith, penetrando nella testa di Kurt. “Lo sta accompagnando un suo amico, perché…”
Kurt smise di ascoltare. Sta arrivando, era ciò che voleva sentire: Blaine sarebbe stato di lì a poco, insieme a lui dopo otto lunghi mesi passati separati. Era la prima volta che passavano così tanto tempo senza vedersi e Kurt stava per esplodere: la paura di poco prima sparì, lasciando spazio all’ansia e all’emozione. Trepidazione, eccitamento. Tutte cose positive, no? Il suo psicologo sarebbe stato fiero.
Kurt lasciò gli adulti parlare, soprattutto Meredith, che parlava per la maggior parte del tempo solo di lei, della sua famiglia e dei suoi problemi: spesso era stata per Kurt fonte di informazioni extra su Blaine. Il ragazzo si diresse in camera sua per specchiarsi un’ultima volta, perché voleva essere impeccabile. Gli specchi non erano l’oggetto preferito di Kurt, era convinto che fossero stati inventati da qualche narcisista che quel giorno avrebbe potuto anche starsene a letto. Solo negli ultimi tempi riusciva a mettersi davanti ad uno specchio senza odiare ciò che vedeva: gli faceva capire che ciò che aveva fatto era giusto, che ne era valsa la pena. I jeans neri gli calzavano a pennello, mettendo in risalto le sue gambe finalmente magre – la sua parte del corpo preferita. La maglia rossa a maniche lunghe gli scendeva dritta, senza fermarsi sui fianchi, e aveva uno scollo a V che mostrava una piccola parte del suo petto pallido. I capelli castano chiari erano tirati su in un ciuffo e il suo viso era pallido come sempre, ma le sue guance erano leggermente rosse. È l’effetto Blaine, si disse Kurt con un piccolo sorriso.
Kurt e Blaine non si vedevano da Dicembre dell’anno prima: il ragazzo più grande era tornato dal college di Letteratura che frequentava a Chicago e avevano passato il giorno dopo Natale con le loro famiglie. Fu solo per poche ore, perché Blaine dovette passare a salutare la famiglia del suo ragazzo. Kurt ne soffrì tantissimo, ma non c’era nulla che potesse fare.
“Kurt?” lo chiamò Burt, bussando alla porta prima di entrare.
“Mh?” mormorò il figlio, immerso nei suoi pensieri, e incontrò lo sguardo del padre attraverso lo specchio.
I loro occhi erano diversi, perché Kurt aveva preso l’azzurro della madre, mentre quelli di Burt erano di un marrone caldo: la differenza stava anche negli sguardi, però. Burt aveva sempre uno sguardo protettivo e delicato, come in quel momento, mentre altre volte era spaventato, ma richiudevano tutta la saggezza che Kurt non avrebbe mai compreso, se non con l’età.
“Vieni di sotto? È tutto pronto,” disse l’uomo, sparendo una volta che il figlio annuì.
Kurt prese un ultimo respiro prima di seguirlo.
“Hai deciso che college frequentare?” chiese Tony quando Kurt si unì a loro. “Burt ci diceva che avevi un paio di idee, ma non ci ha detto cosa hai scelto.”
“Scommetto che non sarà affatto un problema qualsiasi corso tu abbia scelto,” lo confortò Meredith prima che potesse rispondere. “Sei sempre stato intelligente.”
Kurt stava per rispondere che non era affatto vero e che non sarebbe stato facile, quando sentì bussare alla porta d’ingresso: automaticamente, il suo cuore iniziò a battere più forte e si dimenticò di Meredith e della conversazione. Oltre quella porta poteva esserci solo una persona: l’uragano personale di Kurt. Il sangue si accumulò sulle sue guance, facendole ardere, e la testa iniziò a girare leggermente.
Quando Burt aprì la porta, una massa di ricci scomposti apparve nella visuale di Kurt, poi il resto del corpo. Un corpo perfetto, da invidiare: muscoloso ma non troppo, magro ma con giusto quel po’ di pancetta dovuta probabilmente al fatto che ultimamente non avesse fatto molto sport. A Kurt non importava, Blaine era perfetto. Quella sera indossava una giacca bianca, che si tolse subito per rivalere una camicia nera a mezze maniche, che metteva in risalto le sue braccia muscolose, e infilata dentro un paio di jeans un po’ strappati e i suoi tipici mocassini. Come poteva essere così bello anche vestito normalmente, come chiunque altro della sua età?
“Ehi, Burt!” salutò Blaine con il suo solito entusiasmo e sorriso raggiante. “Non ci si vede da una vita. Come stai?”
I due si abbracciarono velocemente prima che Burt rispondesse. “Bene, meglio. Tu, ragazzo?”
“Solito. L’università è un casino e il tirocinio non aiuta, ma che senso ha lamentarsi?” rispose Blaine con una risata.
La sua voce era calda e profonda, l’opposto di quella alta, quasi femminile di Kurt. Blaine era gioioso e allegro, sempre con il sorriso sulle labbra e Kurt lo ammirava anche per quello.
“Scusate il ritardo,” aggiunse, guardando i suoi genitori.
Alla fine, i suoi occhi ambrati si posarono su Kurt: la sua espressione lasciò chiaramente intendere quanto fosse stupito nel vederlo, ma subito il sorriso tornò al suo posto, seppure un po’ incerto. Blaine gli stava sorridendo, era felice di vederlo, nonostante tutto.
Ora posso morire felice, pensò Kurt, che osservò Blaine avanzare verso di lui. Il suo sorriso era una delle cose più belle del mondo, se non la più bella in assoluto. Kurt non sapeva quando ci fu il momento esatto in cui si innamorò di Blaine, ma quando se ne accorse non poté che pensare che avesse senso. Come poteva non amare quel ragazzo sempre sorridente, gentile, premuroso, simpatico, intelligente e semplicemente meraviglioso?
Kurt e Blaine si conoscevano da quando erano nati, erano sempre stati amici, nonostante i due anni di differenza. Erano cresciuti separati, ma sempre uniti e contenti di vedersi: da bambini, da adolescenti e quasi adulti si ritrovarono sempre. Si scrivevano e si chiamavano, non regolarmente, ma sapevano entrambi che potevano contare l’uno sull’altro, ad esempio affrontarono insieme la loro omosessualità e i coming out con la famiglia e gli amici più stretti; Blaine fu il primo a sapere che Kurt fosse gay e Kurt seppe del primo fidanzato di Blaine prima di chiunque altro. Capitava che non si contattassero per un mese o due, troppo impegnati nelle loro vite da non rendersi conto di quanto tempo passasse effettivamente, ma ciò rendeva il loro ricongiungimento ancora più bello, più dolce – almeno agli occhi di Kurt. C’erano i “mi sei mancato” e gli “scusa se non ti ho scritto prima” e anche gli “usciamo, dobbiamo parlare di tante cose”. Quelli erano di sicuro i momenti preferiti di Kurt: avere la conferma che Blaine fosse felice di vederlo, come quella sera.
“Kurt!” esclamò il ricciolino, che non gli diede tempo di alzarsi e lo stritolò in un abbraccio, facendogli perdere l’equilibrio.
Blaine era completamente addosso a Kurt, che notò con piacere come le braccia lo circondassero: era una sensazione meravigliosa. Kurt ricambiò l’abbraccio, sebbene con mani tremanti ed esitanti, come se toccare Blaine lo avesse fatto svanire. Era vero che Kurt aveva iniziato ad odiare il contatto fisico e la troppa vicinanza di qualcuno lo metteva disagio, ma con Blaine era diverso. Kurt non sapeva se il ricciolino fosse consapevole dell’effetto che aveva su di lui o se Burt gli avesse detto qualcosa, ma il modo in cui Blaine lo stringeva era cauto, quasi delicato. A Kurt non dispiaceva, anzi si ritrovò a bramare abbracci del genere da Blaine, come se fosse un uomo disidrato nel deserto e finalmente aveva trovato un bicchiere di acqua.
“Forza, a tavola!” esclamò Burt contento, spezzando l’abbraccio dei due ragazzi e la bolla di perfezione nella testa di Kurt, riportandolo alla cruda realtà in cui la sua cotta era a senso unico.
Ognuno prese posto – Burt e George a capotavola, Blaine e Kurt da un lato e Meredith e Tony di fronte a loro. Burt aveva preparato la pasta con un sugo alle polpette, che Kurt era certo avesse comprato, e portò la ciotola fumante sul tavolo, mentre George aprì il vino. Meredith cominciò a parlare di alcuni clienti stranieri che si erano presentati presso il centro benessere in cui lei lavorava e che parlavano malissimo l’inglese. Rideva nel raccontare l’aneddoto e, proprio come quella di Blaine, anche la sua risata era contagiosa.
Kurt intanto pensava che stesse per iniziare la parte più difficile per tutti: Burt sapeva di dover lasciare al figlio la preparazione del suo piatto, perciò servì prima tutti gli ospiti e se stesso. Non poté evitare di controllare che Kurt si mettesse abbastanza pasta da saziarsi.
Per Kurt fu strano mangiare davanti a qualcuno che non fosse suo padre e per fortuna nessuno commentò sulla sua lentezza nel finire il piatto o quanto masticasse, anche quando tutti avevano finito da un pezzo.
Burt continuò a lanciargli occhiatine preoccupate e Kurt fece in modo di prendere un boccone ogni volta che si girava verso di lui. Sapevano entrambi che il peggio fosse passato, Kurt era certo che suo padre si fosse rilassato e lo irritava vedere che non si fidasse di lui, ma non dicesse nulla a riguardo. Non poteva mangiare a comando, né sentirsi costretto: lo avevano detto i dottori e lo psicologo, e Burt ne era al corrente.
Per fortuna, Blaine distraeva Burt ogni volta che Kurt non riusciva ad ingoiare: se lo facesse di proposito o meno Kurt non lo sapeva, ma gli fu immensamente grato, soprattutto per la mano sul ginocchio che lo sfiorò in segno di conforto. Lo distrasse dalla sensazione di bruciore che ogni chicco di pasta creò nello stomaco di Kurt, che bevve tanta acqua per riempirsi e spegnere l’incendio che sentiva dentro. Era proprio quello che lo stimolava a vomitare, recentemente: il suo corpo si era abituato a non avere bisogno di cibo, così che quando lo ingeriva sentisse la necessità di espellerlo.
Quando Kurt iniziò il suo percorso (come lo aveva definito) non pensava che sarebbe arrivato a tanto: voleva solo essere bello agli occhi di chi lo guardasse, quindi doveva per forza dimagrire. Il suo viso era paffuto, le braccia e le cosce erano grosse e i suoi fianchi era più larghi di quelli di una donna. Non era attraente, quindi come poteva pretendere che qualsiasi altro ragazzo pensasse che lo fosse?
Era iniziato tutto a Luglio, quando la spiaggia era piena di ragazze dal fisico perfetto e petti scolpiti di ragazzi sicuri di sé, Blaine compreso. Fu un viaggio lungo e sofferto, non facile, ma Kurt finalmente si piaceva: la sua unica paura era quella di ritornare l’obeso di prima.
Il ragazzo venne distratto dai suoi pensieri quando vide suo padre e Meredith alzarsi per togliere i piatti; si accorse che il suo avesse ancora degli avanzi ma non aveva alcuna intenzione di finirli. Se dopo doveva mangiare anche il dolce, preferiva non riempirsi troppo.
Meredith si offrì di aiutare Burt a lavare i piatti, mentre gli altri uomini guardavano una partita.
“Ho bisogno di uscire un attimo,” mormorò Kurt al padre, che si voltò preoccupato.
“Dove vai?”
“Solo qui fuori in giardino,” rispose il ragazzo seccato. Dove credeva che andasse? Dalla Regina?
Burt annuì con un sorriso e con la coda dell’occhio vide che Meredith si era impegnata a lavare per non ascoltare. “Sei stato bravissimo prima.”
“Oh,” disse Kurt stupito. “Okay.”
Il ragazzo sapeva benissimo che suo padre non lo pensava: quando Kurt non finiva il piatto, Burt era sempre deluso e per quando provasse a nasconderlo, Kurt lo vedeva chiaramente e faceva finta di nulla. Lo psicologo aveva insistito che la comunicazione fosse importante per la guarigione e Kurt puntualmente deludeva anche lui. Il ragazzo fece un paio di passi per andare in camera sua, quando la voce di Meredith lo bloccò sul posto, vicino alla cucina e nascosto dietro al muro.
“Mi sembra che vada bene, no? Rispetto a quello che mi hai raccontato al telefono.”
Kurt trattenne il fiato: immaginava che suo padre raccontasse a Meredith quello che succedeva, ma avere l’effettiva conferma era un’altra questione.
“Non finisce mai ciò che ha nel piatto, Mer,” sentì il sospiro di suo padre e la sua voce rassegnata. “So che la notte sta ancora sveglio per fare degli esercizi, a volte lo sento.”
Kurt sgranò gli occhi alla confessione dell’uomo: cercava sempre di essere il più silenzioso possibile mentre faceva le flessioni o dello stretching per smaltire le calorie che aveva ingerito. A quanto pare però, le mura sottili della loro piccola casa non lasciavano spazio alla privacy. Era solo un’abitudine, non voleva-
“Non sta guarendo.”
La voce rotta di Burt arrivò forte e chiara alle orecchie di Kurt, che corse in camera sua e si chiuse dentro. Camminò avanti e indietro nella stanza finché il suo respiro affannato non si calmò e con mani ancora tremanti afferrò la giacca che era sulla sedia, ne estrasse le sigarette e l’accendino, buttò l’indumento sul letto e uscì. Suo padre era contrario al fumo, ma era l’unica cosa a cui Kurt non avrebbe mai rinunciato: era un’abitudine orrenda, lo sapeva, ma le sigarette lo facevano sentire vivo quando dentro era morto.
Kurt cercò di non farsi sentire uscendo dalla porta d’ingresso, facendo il giro per il salotto per non passare di nuovo davanti a suo padre in cucina. Non voleva sentire se lui e Meredith stavano ancora parlando di lui.
Burt aveva comprato una specie di dondolo quando lui era piccolo e lo aveva messo in giardino, sul retro della casa, dove lui potesse giocare: di quella piccola parte, Kurt ne aveva fatto il suo luogo preferito per fumare o semplicemente stare lì e farsi distrarre dalle nuvole quando i pensieri erano insopportabili. Kurt tirò fuori una sigaretta e l’accendino e prese la prima boccata di fumo: così come buttò fuori l’aria, i suoi muscoli si rilassarono e l’ansia per quella serata sparì. Tirò tre volte in successione e poi si appoggiò allo schienale del dondolo chiudendo gli occhi: sentì il gusto del fumo nella sua gola, il profumo inondargli i sensi. Si maledì di aver lasciato la giacca di sopra quando una folata di vento lo fece rabbrividire; Kurt si portò un braccio intorno alla vita, come per proteggersi.
Inevitabilmente, la sua mente lo riportò alle parole di suo padre di poco prima: gli spezzava il cuore sentire l’uomo così triste ed esserne la causa era anche peggio. Kurt ci stava provando: non sempre faceva gli esercizi, a volte mangiava più della metà del cibo nel piatto, alcuni giorni spontaneamente cercava un frutto a merenda oppure dei cereali o biscotti con latte caldo prima di dormire. Pensava che suo padre apprezzasse, ma… Era vero anche che quei giorni erano rari, facili da dimenticare – una volta ogni una o due settimane. Ma era pur sempre qualcosa, no? Perché suo padre non lo capiva?
Frustrato, Kurt lanciò la sigaretta il più lontano possibile, conscio del fatto che l’indomani mattina lui o suo padre l’avrebbero raccolta e buttata nel cestino. Il ragazzo sospirò e si sistemò di nuovo contro lo schienale; si diede una leggera spinta per dondolarsi e il movimento lo cullò. Si accese un’altra sigaretta (di solito non fumava tanto, ma in quel momento non si sentiva abbastanza rilassato) e decise di pensare a Blaine. Un sorriso automaticamente comparve sul suo volto e gli occhi si chiusero.
Quella sera, il ragazzo più grande era stato perfetto – certo, quando non lo era? – e si era mostrato così comprensivo e sensibile; aveva coinvolto Kurt in tutte le conversazione e incoraggiato quando lo vedeva in difficoltà. Era ovvio che Kurt fosse innamorato di lui, come non poteva esserlo? Il fatto che Blaine non potesse mai ricambiare i suoi sentimenti era doloroso, ma Kurt conviveva da un anno e mezzo con quella consapevolezza ormai. Lo aveva visto con ragazzi di ogni tipo, anche se nessuno di loro era durato molto: sembrava che Blaine avesse ereditato la filosofia di vita di suo zio Tony.
“Da quando fumi?”
La voce di Blaine fece trasalire Kurt, che quasi saltò giù dal dondolo per lo spavento.
“Blaine,” sibilò, il cuore a mille che si rifiutava di calmarsi.
La risata del ragazzo riccio risuonò come una melodia. “Scusa, non volevo spaventarti.”
Kurt cercò di guardarlo male, ma fallì: Blaine era troppo adorabile. Si perse invece a fissarlo nel buio, dimenticandosi della domanda che gli aveva rivolto.
“Allora?” chiese il ricciolino, andando a sedersi vicino a Kurt.
“Oh? Ehm, sì,” balbettò il ragazzo più piccolo. “Saranno… non so. Un anno, forse.”
“Oh. Non ci vediamo davvero da una vita immagino.”
“Già,” concordò Kurt, posando la sigaretta sulle sue labbra. Non sapeva se a Blaine desse fastidio o meno l’odore del fumo, ma non poteva fermarsi per lui, sarebbe stato stupido.
Kurt e Blaine non si vedevano davvero da tantissimo tempo, perché a parte quelle poche ore a Dicembre, l’ultima volta era stata a Luglio. Suo padre si era preso due settimane di ferie, chiudendo la sua officina, e in quei giorni lui e Kurt andarono alla casa al mare con gli Anderson. Fu nello stesso periodo che Blaine conobbe il suo attuale fidanzato – o meglio, lo stesso fidanzato di Natale: se stessero ancora insieme, Kurt non lo sapeva.
“Mi dispiace,” sussurrò Blaine dopo diversi istanti di silenzio.
Kurt finì la sigaretta e la schiacciò per terra con il piede. “Per cosa?” chiese.
“Per quello che è successo, quello che hai passato,” rispose sincero Blaine, volendo guardare Kurt negli occhi, ma il ragazzo fissava per terra. “Per non esserci stato. Mi dispiace.”
Kurt aspettò prima di rispondere: non era colpa di Blaine quello che era accaduto, ma era un fattore importante, grazie al quale aveva aperto gli occhi.
“Non è stata colpa tua,” decise di dire infine, optando per una verità parziale.
 “Parlami, Kurt,” lo supplicò Blaine, intuendo che Kurt stesse trattenendo qualcosa. “Non tenerti tutto dentro.”
Kurt lo guardò sorpreso. “Cosa devo dirti?” gli chiese, non capendo cosa volesse da lui. “Perché non mi racconti piuttosto come sta andando la tua estate? Oppure come sono andati gli esami al college?”
“Ho saputo da mia madre che ti avevano ricoverato prima del diploma,” sussurrò Blaine come se Kurt non avesse parlato. “Chiesi perché. Non sapevo nemmeno che eri malato.”
Nella sua voce era chiaro il senso di colpa che provava, l’amarezza di quei ricordi e la tristezza presente anche quella sera. Di nuovo, Kurt si ritrovò ad affrontare la crudele realtà, quella che non aveva preso in considerazione, esattamente come con suo padre. Neanche nella sua più remota immaginazione, Kurt pensava che Blaine potesse essere toccato o coinvolto emotivamente in ciò che era successo, né che avesse potuto ferire lui o Burt.
Il ricovero – o meglio, i ricoveri – erano stati solo una formalità, un rito do passaggio: Kurt aveva letto in più siti web che potesse succedere, ma ciò non doveva fermare chiunque decidesse di intraprendere quella strada. Fu proprio da quei siti, che erano come diari segreti per persone come lui, che Kurt prese ispirazione, traendo consigli e suggerimenti utili. Lui personalmente non aveva mai scritto, ma era bello leggere dell’appoggio che offrivano tra loro.
“Kurt? Kurt, mi stai ascoltando?”
No, si era perso di nuovo: succedeva troppo spesso e con troppa facilità, la sua mente non riusciva a rimanere ancorata al presente senza perdersi.
“Scusa,” mormorò Kurt con un piccolo sorriso. “Dicevi?”
Blaine sospirò. “Da quanto hai smesso di mangiare?”
Kurt non riuscì a trattenersi e rise. “Blaine, non ho smesso di mangiare-”
“No? E come lo chiami il fatto che ti hanno dovuto ricoverare per malnutrizione?” sibilò il ricciolino, guardando Kurt con occhi severi.
“Un’esagerazione, ecco come la chiamo.”
“Kurt, tu soffri di anoressia.”
Il suo psicologo aveva detto la stessa cosa: certo, con meno sofferenza nella voce. “Blaine, non soffro di nulla. Sto bene, non mi vedi?”
“Sì, ti vedo,” replicò il ragazzo e quando Kurt si accorse delle lacrime nei suoi occhi, distolse subito lo sguardo, non sapendo come gestire tanta emotività. Suo padre non aveva mai pianto davanti a lui. “Vedo il tuo viso scarno, le tue guance asciutte e la tua figura esile. Vedo che sei deperito più che dimagrito. Vedo che non hai più quelle maniglie dell’amore sui fianchi che tanto adoravo. Vedo una persona fragile, che si rifiuta di guarire. Anzi, che si rifiuta anche solo di ammettere di essere malato. Vedo te, ma non il mio Kurt.”
Le parole di Blaine colpirono dritte al cuore del giovane ragazzo, che senza rendersene conto si era leggermente allontanato da lui. Kurt si sentì attaccato, come se Blaine volesse dirgli che era sbagliato ciò che aveva fatto e com’era diventato, ma lui si sentiva finalmente giusto.
“Sono sempre io,” sussurrò a bassa voce, ma con determinazione, non sapendo se si sentiva ferito o arrabbiato.
“No, Kurt. La malattia ti cambia anche la personalità,” disse Blaine, che non guardava più Kurt, ma dritto davanti sé. Sembrava immerso nei suoi pensieri, gli stessi che Kurt avrebbe voluto capire.
L’espressione seria e triste era un tale contrasto a ciò che Kurt era abituato a vedere in Blaine, che per un attimo pensò davvero di aver sbagliato tutto. Se il ragazzo riccio era così ferito, allora forse… Ma no, no. Kurt non poteva cambiare idea un’altra volta e di nuovo per lui. Non si pentiva di ciò che aveva fatto e il risultato a cui era arrivato, era felice così.
“Ti ho osservato stasera e la differenza tra il te di quest’estate, quello di sempre, e oggi è.. è enorme, Kurt. Avrei dovuto notarlo prima, avrei dovuto-”
La voce di Blaine si spezzò in un modo che Kurt non sentiva da anni: l’ultima volta forse fu quando da ragazzo aveva litigato con il suo migliore amico Sam e non si parlarono per settimane. Blaine ne era devastato. Ora, Blaine stava piangendo per colpa di Kurt; il suo amico d’infanzia, il ragazzo di cui era innamorato – il ragazzo più piccolo non osò immagine come si sentisse suo padre.
“Blaine, non è colpa tua,” ripeté Kurt, mettendogli una mano sulla spalla per confortarlo. “Io sono contento così, perché non lo capisci?” Lo chiese nel modo più gentile possibile, ma era anche irritato.
“Okay,” concesse Blaine, per niente contento. “Da quanto va avanti, allora?”
Kurt tolse la mano dalla spalla e sospirò. “Agosto, settembre. Non mi ricordo, ha importanza?”
“Per me sì.”
I due rimasero in silenzio per un po’, ognuno dalla propria parte del dondolo, senza toccarsi o guardarsi. Per Kurt era inconcepibile che Blaine fosse legato talmente tanto a lui: credeva che fossero solo amici che ogni tanto si vedevano e sentivano perché le loro famiglie erano unite ed erano cresciuti insieme, ma nulla di più. Blaine invece sembrava starci davvero male.
“Perché?” chiese Kurt, spezzando il silenzio. “Perché ti importa?”
Il ricciolino lo guardò come se fosse pazzo. “Come perché?!” domandò incredulo. “Perché sei mio amico, Kurt! Ti conosco da una vita e- Dio, Kurt. Non ti riconosco.”
“Blaine-”
“Tengo a te più di qualsiasi altra persona, okay? È sempre stato così, sin da quando eravamo piccoli. Come puoi chiedermi perché mi importa? La domanda giusta sarebbe perché non importa a te!”
“Mi importa invece,” protestò Kurt, ma Blaine scosse la testa.
“Di te stesso, Kurt. Se ti fossi accettato com’eri, se ti fossi piaciuto di più forse non avresti sofferto tanto.”
Il ragazzo più piccole si strinse nelle spalle. “Mi piaccio ora.”
“E allora perché non puoi mangiare di nuovo?” chiese Blaine.
“Perché tornerei come prima.”
“Cosa c’era che non andata in te?”
“Sembri il mio psicologo, Blaine,” commentò spazientito Kurt.
“Sono solo curioso.”
“Non mi piaceva nulla, volevo essere più- ehm. Attraente, credo,” spiegò il ragazzo, arrossendo. “Ora possiamo parlare di te?”
Blaine, per la sorpresa di Kurt, annuì. “Cosa vuoi sapere?”
“Come stai?”
“Ho vissuto periodi migliori.”
Per colpa mia? voleva chiedere Kurt, ma optò per una domanda meno stupida. “Problemi con il fidanzato?”
“Chi?” chiese Blaine confuso.
“Il tuo- A Natale avevi un fidanzato,” rispose Kurt.
“Oh! No, è finita da un pezzo.”
Fu il turno di Kurt di essere confuso: credeva che lui sarebbe durata di più degli altri, perché per la prima volta Blaine l’aveva presentato alla sua famiglia e non era mai successo prima. Per non parlare del fatto che durarono almeno sei mesi, un record per Blaine.
“Pensavo che-” mormorò Kurt, ma non finì la frase.
“Cosa?”
“Che fosse quello giusto.”
Blaine ridacchiò. “Non credo esista la persona giusta,” confessò sorridendo. “Almeno non per me.”
Kurt volle chiedergli cosa intendesse con quella frase e lanciarsi in un poema su quanto Blaine fosse il ragazzo perfetto con cui stare, ma preferì lasciar perdere e salvare entrambi l’imbarazzo. Era comunque contento che Blaine fosse single, nonostante fosse un pensiero egoistico.
“E il college?” cambiò discorso Kurt.
“A proposito di college!” si illuminò Blaine, più sorridente di prima. “Cos’hai intenzione di fare? Dove ti hanno preso?”
Kurt roteò gli occhi al modo di fare del ragazzo più grande per portare l’attenzione su Kurt e spostarla da lui, ma lo assecondò. “Psicologia. Columbus.”
Blaine finalmente lo guardò, con un sorriso gentile e gli occhi quasi fieri. “Mi piace.”
“Davvero?”
“Ti ci vedo bene,” spiegò il ricciolino. “Sei sempre stato un po’ lo psicologo della situazione e ora più che mai credo che ti si addica.”
Kurt arrossì e abbassò lo sguardo: quando aveva detto a suo padre di aver scelto psicologia, l’uomo fu sorpreso e gli chiese se fosse la scelta giusta. Kurt però era convinto e determinato: non c’era nient’altro che volesse fare se non aiutare le persone che ne avevano bisogno. Voleva rappresentare una figura alla quale si potessero rivolgere quando avevano bisogno. Nonostante avesse delle difficoltà nell’accettare aiutato e ascoltare il suo psicologo, ciò non significava che Kurt non fosse in grado di intraprendere quegli studi. Era bello che Blaine lo appoggiasse.
“Grazie,” sussurrò grato.
“Sei rosso,” commentò Blaine con una risata, che non fece altro che far arrossire Kurt ancora di più.
“Come vedi sono sempre io.”
“Forse dovremmo passare più tempo insieme.”
Kurt si voltò a guardare Blaine e il sorriso che aveva sul volto era qualcosa di meraviglioso e contagioso a tal punto che Kurt si ritrovò a ridere. Prima che potesse dire qualcosa però, Blaine parlò di nuovo.
“E tu dovresti ridere più spesso.”
La risata di Kurt si fece più forte. “Blaine, hai finito?”
“Cosa?” domandò innocente. “Sono sincero. Allora, che ne dici? Domani ti porto al Luna Park, eh? Ci divertiremo!”
“Solo io e te?” chiese Kurt dubbioso, preso alla sprovvista dalle parole di Blaine.
“E chi altro?”
Kurt non commentò sul fatto che non uscisse di casa dal giorno del suo diploma, salvo le visite in ospedale e gli appuntamenti settimanali dal suo psicologo. Tutto ciò che disse fu, “Sono innamorati di te, sai?”
Non era sua intenzione ammettere i suoi sentimenti in modo così diretto e plateale, senza filo logico o intenzione o una minimo di preparazione mentale, ma se c’era una cosa sicura in tutto quel casino, era proprio ciò che provava per il ragazzo riccio accanto a lui. Chissà se c’era ancora qualcuno che non ne fosse consapevole – forse proprio il ragazzo in questione. Kurt aveva sempre pensato di essere abbastanza ovvio in come guardava Blaine, come parlava di lui, sin da prima dell’inizio del suo cambiamento. Suo padre stesso gli lanciava occhiate complici quando Blaine era con loro e Kurt era convinto che Meredith parlasse di suo figlio più del necessario solo per farlo felice.
“Sei innamorato di qualcuno che nel tuo periodo peggiore non era accanto a te per sostenerti?” domandò Blaine diversi attimi di silenzio dopo. Il suo tono non sembrava molto sorpreso, ma forse era solo un’impressione di Kurt.
“No,” mormorò il giovane. “Sono innamorato di una persona meravigliosa, sempre gentile e premurosa. Allegro, spontaneo, intelligente. Umile, tanto da sentirsi in colpa per qualcosa che non ha fatto.”
Kurt non sapeva da dove avesse tirato fuori il coraggio per dire tutte quelle cose senza balbettare o voler scappare a gambe levate o desiderare che il terreno lo inghiottisse. Non guardare Blaine aiutò certamente. Ormai se lo teneva dentro da talmente tempo che parlarne era come una seconda natura per lui.
“Sei sempre così solare e positivo. Come si fa a non-” Kurt si interruppe, non volendo esporsi troppo. “Sei magnifico,” mormorò, sperando che Blaine capisse.
Il ragazzo più grande era completamente l’opposto di Kurt e quello era il motivo principale per cui si era innamorato di Blaine: sentiva di avere bisogno di una persona come Blaine nella sua vita, ma non poteva averlo. Non lui, almeno. O forse nessuno mai.
“Non sono perfetto come pensi, Kurt,” gli disse il ricciolino con un sorriso sulle labbra. “Quando mia madre mi telefonò a Marzo per dirmi che eri stato ricoverato non mossi un dito per venirti a trovare. Dire che ero paralizzato dalla paura è solo una scusa.”
“Avevi il college,” lo interruppe Kurt. “E poi mi hanno tenuto una settimana.”
“Non sei stato tu a voler uscire?”
Kurt disse di sì. “Avevo il diploma da prendere.”
“E poi ti hanno ricoverato un’altra volta,” continuò Blaine. “E per tutto questo tempo non mi sono mai fatto vedere.”
Kurt ricordava benissimo di aver insistito con suo padre perché nessuno lo andasse a trovare in ospedale o a casa loro. Non sapeva se quelli che una volta erano suoi amici avevano provato ad andare da lui: da quando Mr Schue lo aveva cacciato dal Glee Club, perché dopo il suo primo ricovero i medici avevano detto che fosse impossibile per lui fare qualsiasi tipo di attività fisica, Kurt aveva allontanato tutti da lui. Si era concentrato solo sugli studi, sul diploma ed evitare gli sguardi pietosi degli altri: non era in programma farsi ricoverare la prima volta e catturare l’attenzione di tutti su di sé, ma lo stress gli fece prendere una brutta piega. Kurt aveva perso il controllo per un attimo ed ecco che tutto era crollato.
Fu suo padre a costringerlo a ricoverarlo la seconda volta dopo il diploma, pregandolo di guarire e chiedendogli scusa per non essere intervenuto prima, dandosi la colpa di tutto, come stava facendo Blaine.
I medici parlarono di “anoressia”, di malattie e malnutrizione, sottopeso, riacquisire peso e valori anormali. Inizialmente ci fu uno psichiatra che gli diede dei farmaci che Kurt aveva rifiutato di continuare a prendere dopo aver capire l’effetto che avevano su di lui – lo facevano sentire vuoto, un robot che agiva solo su comando perché non riusciva a pensare con la sua testa. Fu allora che gli assegnarono lo psicologo. Quel periodo non fu bel per Kurt e fu naturale la decisione di non voler vedere nessuno: di amici non ne aveva più e non voleva che nessuno lo vedesse ingrassare.
“Anche se ti fossi presentato in ospedale o a casa sarebbe stato inutile,” disse Kurt alla fine. “Non volevo vedere nessuno.”
“Questo non giustifica la mia assenza,” si ostinò Blaine.
“E invece sì!” insistette il ragazzo. “Ti comporti come se avessi una qualche responsabilità su di me, come se avessi potuto impedire le mie scelte.”
“Non avrei potuto?”
“Come?” sbottò Kurt spazientito. “Non avresti potuto fare nulla per farmi cambiare idea.”
Blaine rimase in silenzio, come se volesse aggiungere altro ma qualcosa lo stesse trattenendo e pensasse fosse meglio chiudere l’argomento a quel punto. Kurt sospirò e mise una mano sul ginocchio di Blaine, imitando ciò che il ragazzo aveva fatto a lui durante la cena.
“Credimi. Non avrei mai fatto diversamente, qualsiasi cosa pensi nella tua testolina bacata.”
Kurt cercò di consolarlo, ma Blaine sembrò solo più triste e quando Kurt stava per chiedergli cosa avesse, il ricciolino posò una mano sulla sua.
“Avrei potuto fare questo tanto tempo prima,” disse Blaine, intrecciando le loro mani.
“A cosa ti riferisci?” chiese Kurt, senza fiato.
Aveva immaginato mille volte come potesse essere prendere Blaine per mano e vederle unite quella sera gli provocò una sensazione da batticuore. Tra loro non erano mai mancati i contatti fisici, ma si trattava di abbracci, pacche sulle spalle: tocchi platonici tra amici. Tenersi per mano era intimo, vero? Kurt lo sperava.
“Prima mi hai detto che credevi che Ian – il mio ex – fosse quello giusto e ti ho risposto che non credo all’esistenza della persona giusta per me,” disse Blaine, guardando le loro mani intrecciate come stava facendo Kurt, che intanto annuì. “Solo perché so che per me esiste un ragazzo perfetto. Un ragazzo troppo fuori dalla mia portata.”
Kurt trasalì e quasi si ruppe il collo per la velocità con cui si voltò a guardare il ragazzo accanto a lui. “Blaine, cosa-” provò a dire, ma le parole gli morirono in bocca.
Cosa stava dicendo? Cosa stava succedendo? Il cuore di Kurt prese a battere all’impazzata e si sentì mancare l’aria: se aveva capito bene-
“Kurt, tu sei tutto per me. La persona che amo più di qualsiasi altra al mondo, più di mia mamma,” sussurrò Blaine, mentre spostò lo sguardo dalle loro mani all’espressione di puro shock di Kurt. “Ma non siamo fatti per stare insieme.”
La testa girava per quante cose erano state dette nel giro di pochi minuti: Blaine era innamorato di lui, lo amava, credeva che fosse la persona giusta, ma- Come poteva esserci un “ma”? Kurt prese un respiro profondo e strinse la mano di Blaine nella sua.
“Blaine,” iniziò il ragazzo, solo per essere interrotto dal padre di Blaine.
“Ragazzi, il dolce,” li chiamò George con la sua voce profonda e Kurt lo vide fermarsi un istante, lo sguardo puntato alle loro mani, prima di rientrare in casa.
Quando Blaine fece per alzarsi per alzarsi, Kurt lo trattenne, posando la mano libera sul suo braccio: Blaine credeva davvero che sarebbe potuto andarsene così, senza finire la loro conversazione?
“Aspetta,” disse in modo disperato. “Dobbiamo finire di parlare.”
Il ragazzo più grande si chinò su di lui e gli lasciò un bacio sulla fronte. “Dopo,” mormorò semplicemente, le sue labbra ancora poggiate sulla pelle di Kurt. “Andiamo?”
Kurt volle piangere in quel momento, frustrato dall’intera situazione, ma sapeva che sarebbe solo sembrato un bambino se lo avesse fatto, così annuì. Rimase in silenzio quando Blaine lasciò la presa sulla sua mano. I due rientrarono in casa e sentirono la voce di Burt che parlava di politica prima di vedere Meredith tagliare la torta.
“L’ho fatta io,” disse la donna fieramente, non appena vide il figlio e Kurt. “È alla marmellata di ciliegie. Ti piaceva tanto Kurt, o sbaglio?”
Il ragazzo le sorrise e annuì. “Mi piace ancora,” rispose, anche se non ne era del tutto certo, perché non la mangiava da un sacco di tempo.
“Bene!” esclamò Meredith contenta. “Preferisci tagliarti tu una fetta, tesoro?” gli chiese, mentre preparava i piatti con le fette di torta a ciascuno.
Fu allora che Kurt realizzò e capì perché Blaine fosse convinto che tra loro due ci fosse un “ma”. Lui era diverso nel senso negativo del termine ed era ovvio che Blaine non potesse stare con un malato come lui.
Ecco cos’era Kurt. Un malato che si era messo i bastoni tra le ruote da solo e impediva a se stesso di stare con la persona che amava e che (a quanto sembrava) lo amava. La realizzazione lo distrusse e guardò Blaine – che per fortuna era impegnato a parlare con suo zio – con la tristezza negli occhi, non potendo credere a ciò che aveva fatto. Poi ripensò alle parole di suo padre, a quanto stesse soffrendo a causa sua e tutto insieme piombò su di lui: gli errori, la sofferenza, la malattia, il dolore. La paura che Burt aveva provato pensando che avrebbe potuto perdere suo figlio dopo sua moglie.
Mentre Burt e Meredith lo guardavano in attesa di una risposta, Blaine e Tony parlavano tra di loro e George fissava la televisione senza guarda, Kurt scoppiò a piangere.
“Kurt!” Burt scattò in piedi non appena vide le lacrime del figlio. Lo raggiunse dall’altra parte del tavolo e lo abbracciò, facendolo sedere su una sedia. “Che hai?”
Il ragazzo scosse la testa e cercò di respirare lentamente per calmarsi: non era mai stato bravo a controllare le sue emozioni e il pianto stupì anche se stesso.
“Va b-bene qualsiasi- Mi dispiace, mi- mi dispiace,” balbettò Kurt, scosso dai singhiozzi e poco coerente.
Tony e Blaine avevano smesso di parlare, così come George aveva portato la sua attenzione verso Kurt: le loro espressioni erano tutte e tre ugualmente preoccupate e tristi.
“Cosa gli hai detto?” chiese George alla moglie, che si indignò.
“Nulla!”
Kurt sbuffò una risata. “Meredith non ha detto o fatto nulla,” disse. Si asciugò gli occhi e le guance e sorrise, cercando di calmarsi e mascherare la sua tristezza, ma non appena guardò suo padre, le lacrime ripresero a scendere. “Scusate, non- uhm. Non volevo. Mi dispiace. Soprattutto- scusa, papà. Mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto passare.”
Burt si sorprese a quelle parole, gli occhi subito lucidi per l’emozione: padre e figlio dovevano avere una lunga e profonda conversazione, ma le cose sarebbero andate per il verso giusto se Kurt avesse deciso di aprirsi e ascoltare anche gli altri.
“Andrà tutto bene, figliolo,” lo rassicurò Burt con il primo sorriso sincero dopo tanto tempo.
Come aveva fatto Kurt a non accorgersi della differenza tra i sorrisi di circostanza e quel bel sorriso da papà che Burt aveva smesso di fare? Come aveva fatto a non notarne la mancanza? Il ragazzo gli sorrise a sua volta e lo nascose il viso nel suo petto, stritolandolo in un abbraccio.
Quando si separarono, Kurt non lasciò andare la maglia di suo padre, preferendo mantenere il contatto ancora per qualche istante: aveva bisogno di coraggio, di supporto per quello che aveva intenzione di fare.
Il ragazzo si rivolse a Meredith con un leggero rossore sulle guance. “Possiamo mangiare il dolce,” sussurrò. “Scusate lo sfogo.”
“Non dirlo neanche!” esclamò Tony, che si alzò per abbracciarlo.
“Tranquillo, Kurt. Per qualsiasi cosa noi ci siamo,” disse George e fece un piccolo cenno con la testa verso suo figlio. Kurt arrossì ancora di più e lo ringraziò.
Meredith gli sorrise dolcemente e lo abbracciò brevemente, per poi porgergli una fetta di torta sul piatto. “Va bene così?”
“Sì, grazie,” rispose Kurt, senza neanche guardare quanto fosse grande il pezzo. Voleva dimostrare a tutti, soprattutto a suo padre e Blaine, che poteva guarire: poteva mangiare ed essere sano. Solo che non voleva tornare com’era prima.
“Non c’è di che, tesoro. Spero che ti piaccia.”
“È buonissima,” commentarono all’unisono Burt e Tony.
George si limitò ad ammiccare e mandare un bacio alla moglie, per farsi perdonare di averla accusata ingiustamente poco prima. Meredith roteò gli occhi, abituata ai modi di fare del marito, ma sorrise.
“Blaine? Tu non la vuoi?”
“Sì, grazie mamma,” rispose il figlio a voce bassa, distrattamente. La sua attenzione era tutta dedicata a Kurt.
Il ragazzo più piccolo aveva paura di incontrare il suo sguardo, perciò si concentrò sulla torta ed evitò di guardare nella direzione di Blaine. Era ad dir poco imbarazzato dal suo pianto: era proprio ciò che voleva evitare in giardino e sembrare un bambino era l’ultima cosa che avrebbe convinto Blaine che loro due sarebbero potuti funzionare.
Kurt prese il primo boccone e masticò, inconsapevole del sorriso che si fece largo sulle sue labbra finché suo padre non lo abbracciò di nuovo.
“È bello vederti sorridere,” gli disse Burt.
Kurt gli sorrise, per poi complimentarsi con Meredith: la marmellata di ciliegie era ancora la sua preferita. Masticò un boccone dopo l’altro, finché nel piatto non rimasero solo briciole. Kurt sapeva di avere lo sguardo di Blaine puntato addosso e si decise di controllare se anche lui avesse finito.
“Possiamo- possiamo parlare?” chiese, timidamente.
“Certo, sì,” annuì subito Blaine, senza esitare.
Gli adulti li guardarono con sorrisi complici mentre i due ragazzi tornarono fuori in giardino: si sedettero di nuovo sul dondolo, con l’unica differenza che non lasciarono più tanto spazio tra i loro corpi.
“Ah, ho dimenticato la giacca dentro,” fu la prima stupida cosa che disse Kurt quando un brivido di freddo lo percosse.
“Vado a prenderla,” propose Blaine, avviandosi dentro prima che potesse dirgli dove trovarla.
Quando tornò, quella che teneva in mano non era certamente la giacca di Kurt. “Blaine, la mia era solo-”
“Lo so,” lo interruppe Blaine, “ma volevo che te la mettessi. Sono curioso di vedere come ti sta.”
Kurt arrossì e si infilò la giacca bianca di Blaine senza tante proteste: inalò il profumo dolce di Blaine, sperando che il ragazzo non se ne accorgesse.
“Non dovevi mangiare quel pezzo di torta se non lo volevi,” iniziò Blaine. “Non mi devi dimostrare nulla.”
“Mi mancava il sapore della marmellata di ciliegie,” rispose Kurt, facendo sorridere il ricciolino. “Non credo esista un ‘ma’ tra di noi, Blaine,” proseguì, andando dritto al punto. “Se il problema sono io- anzi, senza se. So di avere una malattia, lo so, ma posso-”
“No. Kurt, no,” lo interruppe Blaine, prendendogli una mano e rivolgendo il suo corpo in modo da poter guardare Kurt dritto negli occhi. “Non sei tu il problema, come puoi pensarlo? Prima intendevo dire che hai bisogno di qualcuno che ti sappia stare vicino, che ti possa aiutare. Io non sono quella persona,” spiegò convinto. “Hai bisogno di qualcuno migliore di me.”
Kurt guardò Blaine con occhi spalancati, un misto di tristezza, sorpresa e meraviglia: Blaine, che sembrava sempre sicuro di sé, credeva di non essere abbastanza. E non solo, ma credeva anche che ci potesse essere qualcuno migliore di lui per Kurt.
“Io ho solo bisogno di te,” sussurrò Kurt con un piccolo sorriso. “Non vorrei mai nessun’altro e ti ho già detto che non avresti potuto fare nulla per aiutarmi. Neanche dirmi cosa provavi per me.”
Blaine sospirò con fare rassegnato, ma sorrise. “Ne se così convinto.”
“Proprio come lo sei tu.”
I ragazzi si guardarono e risero, perché non c’era molto altro che potessero fare: potevano parlare quanto volevano, ma quella sera fu più bello concentrarsi sull’essere innamorati, speranzosi e positivi che discutere di ciò che avevano sbagliato in passato.
“Posso abbracciarti?” chiese Kurt, quasi timidamente, il labbro inferiore tra i denti per evitare di sorridere troppo. Sapeva che se l’avesse fatto, sarebbe sembrato una rana.
Il mondo sorrise a Kurt quando Blaine gli rispose prendendolo e posizionandolo tra le sue braccia, dove Kurt si nascose felicemente: silenziose lacrime scivolarono sul suo viso, lacrime di gioia miste a lacrime di tristezza. Gioia per ciò che stava succedendo, tristezza per il tempo che aveva perso finora.
“Non ho mai smesso di amarti,” mormorò Kurt, giusto per essere sicuro che Blaine capisse quanto i suoi sentimenti fossero forti. “Neanche quando il tuo nuovo fidanzato ti stava appiccicato l’estate scorsa. Oppure quando a Natale sei andato da lui.”
Blaine lo allontanò, ma Kurt emise un leggero verso di protesta che non doveva essere sentito, ma i due erano troppo vicini perché sfuggisse alle orecchie del più grande. Kurt venne mosso in modo che appoggiasse la testa sulla spalla di Blaine e una parte della sua schiena fosse appoggiata al suo petto. Kurt si sentiva in paradiso.
“E io sono stato uno stupido a reprimere i miei sentimenti per te fino ad adesso,” confessò Blaine, non guardando Kurt in viso per la vergogna. “Ho cercato di dimenticarti, di convincermi che fossi più un fratello, che quello che ti stava succedendo doveva farmi capire quanto sia sbagliato io per te, ma…”
“Ma non ha funzionato,” concluso Kurt per lui. Blaine scosse la testa. “Ne sono contento.”
Il ricciolino guardò Kurt negli occhi e sembrò non potersi più trattenere: si chinò lentamente e le sue labbra di aprirono di loro accordo, mentre Kurt era incantato a fissare l’ambra negli occhi di Blaine. Il cuore iniziò ad accelerare in anticipazione di ciò che stava per succedere e un attimo prima che le loro labbra si unissero, Kurt sentì il bisogno di sussurrare un’ultima cosa.
“Amami, ti prego.”
Quelle parole fecero sorridere Blaine, mentre Kurt ebbe il coraggio di catturare le labbra del ragazzo nelle sue in un bacio tanto sperato. Kurt si sentì in fiamme, le farfalle volavano libere nello stomaco e il desiderio di non staccarsi mai da Blaine era più forte di qualsiasi cosa avesse mai provato fino ad allora. Fu più forte dell’impegno che aveva messo nell’evitare il cibo. Fu più travolgente della felicità che provò quando riuscì a mettersi jeans di una taglia in meno.
Baciare Blaine fu come respirare per la prima volta dopo aver passato troppo tempo sott’acqua: non poteva credere che stesse davvero succedendo, ma allo stesso tempo sembrò inevitabile. Le loro labbra insieme, le loro mani che si cercarono senza sosta, i loro cuori che batterono all’unisono.
Quando si staccarono, Kurt fece per seguire Blaine , ma il ragazzo gli posò una mano sulla guancia e sussurrò, con lo stesso tono delicato che aveva usato Kurt poco prima, “Ti amo infatti.”
Blaine pronunciò quella frase con talmente tanta sincerità e rassegnazione che Kurt non poté che ridere di pura, semplice e ilare felicità.
“Perché ridi?” gli chiese il più grande.
“Perché sono felice.”
Blaine gli sorrise per un attimo prima di baciarlo brevemente e mormorargli sulle labbra le parole che Kurt non avrebbe mai scordato. “Se davvero mi vuoi, posso mostrarti ogni giorno quello che vedo io in te e te lo farò piacere, perché a me piace davvero tanto. In tutte le tue sfumature, prima e dopo. Non sai quanto sei bello, Kurt.”
Kurt chiuse gli occhi e appoggiò di nuovo la testa sulla spalla del ricciolino, lasciando che qualche lacrima scendesse silenziosa e che quelle parole dolci lo cullassero.
Il loro percorso non sarebbe stato facile, ma era più che convinto che ne sarebbe valsa la pena: Kurt sapeva che avrebbero litigato e avrebbero fatto l’amore, che Blaine avrebbe pianto perché si sentiva impotente di fronte alla malattia e Kurt si sarebbe impegnato a combattere, accettando l’aiuto e ascoltando finalmente il suo psicologo.
Kurt immaginava che avrebbero affrontato la distanza per un anno intero, fino alla laurea di Blaine, attraverso Skype e viaggi da Columbus a Chicago e da Chicago a Columbus. Sperava che sarebbero andati a convivere insieme quando Blaine avrebbe trovato lavoro come insegnante e Kurt avrebbe finito il college.
Blaine sarebbe stato al suo fianco in maniera quasi ossessiva, mentre Kurt avrebbe avuto la sensazione di dover di nuovo allontanare il cibo da sé perché si sentiva grasso: avrebbero affrontato anche quella.
Kurt avrebbe voluto sposarsi prima ancora che finisse la sua specializzazione: lui e Blaine avrebbero festeggiato il loro primo anno di matrimonio con la laurea di Kurt e la proposta di consulente psicologico nella stessa scuola di Blaine.
Infine, i due mariti avrebbero adottato una bambina di due anni e regalato una nipotina al vecchio Burt: il destino avrebbe voluto che quella bambina si fosse chiamata Elizabeth.
Tornato da lavoro, Kurt avrebbe trovato Blaine e la bimba accucciati sul divano. “Non sai quanto sei bella, Liz, non ancora,” avrebbe detto Blaine. “Ma lo imparerai, come ha fatto il tuo papà.” Kurt avrebbe sorriso e i suoi occhi si sarebbero riempiti di lacrime; avrebbe pensato che 11 anni prima – quando era solo un ragazzino di 18 anni – aveva solo sperato che tutto quello potesse succedere. Sarebbe stato come un sogno, ma uno ad occhi aperti.
Kurt ritornò a quella sera, a lui e Blaine sul dondolo, e riaprì gli occhi: incontrò quelli dorati di Blaine, che lo guardarono con tanto amore da fargli venire la pelle d’oca. Non c’era molto che potesse dire in quel momento, se non la verità.
“Sono pronto.”
 

Allora? Che ne dite? Pensieri, critiche? Tutto quello che avete da dire, scrivetemi senza problemi, sono curiosa di sapere cosa ve ne pare.
Tanti tanti tanti baci e grazie mille per aver letto!

♥♥♥♥♥♥♥
 
  
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