Personaggi
principali: Kashuu Kiyomitsu, Midare Toushirou, Okita Souji,
Urashima Kotetsu, Yamatonokami Yasusada.
Personaggi secondari: Ichigo
Hitofuri, Izuminokami Kanesada (più altri menzionati).
Pair: Anmitsu (Kashu/Yama), UraMida,
TsuruIchi.
Rating: giallo
Note: tutto doveva essere una oneshot sola ma alla fine stava assumendo proporzioni tali
che sarebbe venuto fuori un malloppo ingestibile di 30k come minimo. Così ho
pensato a una raccolta di oneshot collegate tra loro
ma divise, in modo da gestirmi meglio anche io la narrazione. Dovrebbero essere
tre: questa, una incentrata sulla TsuruIchi e
un’altra sulla vita in casa Okita/Kanesada.
Nota utile: per esigenza di AU ho dovuto dare a Yamato e Kashuu il
cognome “Okita”. Inoltre non ho ancora capito quale sia o meno il cognome delle
spade o il presunto tale, ma siccome non avevo intenzione di chiamare dieci
Toushirou “Toushirou” di nome, ho deciso arbitrariamente. Inoltre chiedo venia
se qualcuno si perderà tra mogli e parentele del
presunto papà Toushirou: mi ci sono persa anche io, nel tentativo di far
quadrare tutto, e si vede 8D
Family
L’atmosfera nella stanza è pesante. Nessuno si è
aspettato che potesse essere diverso, nemmeno per un momento, visto l’accaduto.
Certo, a vederli da fuori sono uno spettacolo quasi comico: la stanza dei
professori dell’istituto Touken Ranbu – che la maggior parte dei suoi studenti
chiama “tourabu”, più per tendenza iniziata da chissà
chi che non per affetto – è solitamente animata da un chiacchiericcio discreto
e qualche risata, nei momenti di pausa. C’è un continuo via vai di studenti che
portano registri, o prendono in prestito le chiavi di alcune aule per sistemare
il materiale scolastico, ma non c’è quasi mai un silenzio pressoché totale come
ora, a esclusione delle rare ore di lezione che occupano tutti i docenti contemporaneamente.
Ora invece non vola una mosca, e non perché la stanza sia vuota. Alcune
scrivanie non sono occupate, visto che è in corso la quarta ora di lezione;
quella subito sulla sinistra appena si entra nella sala docenti è occupata da
Iwatooshi. È lui ad aver colto tutti in flagrante, come si suol
dire, probabilmente richiamato da qualcuno perché – nonostante tutto – è quel
tipo di insegnante che gli studenti identificano come figura autoritaria solo
in momento come questi. È bravo con i ragazzi, spesso ci si dimentica che lui
non è più un quindicenne, ma è il suo punto di forza; non è un mistero che
riesca quasi sempre a convincere anche i più problematici ad andare a lezione.
Poi che si porti ancora dietro l’essere stato un supplente delle elementari
fino a poco tempo fa è un dettaglio quasi
trascurabile.
Sulla soglia, Ishikirimaru sta cercando di congedare con quanta più gentilezza
possibile Namazuo e Honebami Toushirou, il primo molto più agitato del secondo,
la preoccupazione che gli si legge nello sguardo; Ishikirimaru gli sta posando
una mano sulla spalla, tentando di rassicurarlo. Forse è Honebami a convincere
davvero il fratello, tirandogli appena la manica della divisa e sussurrandogli qualcosa.
Namazuo non sembra molto più convinto di prima, come se le parole del docente
fossero solo fumo, ma almeno sembra aver capito che non può fare niente lì. Se
ne va, con un ultimo sguardo verso l’interno – e non vede molto, con
Ishikirimaru ancora sulla soglia – prima di non rientrare più nel campo visivo
di nessuno degli occupanti della stanza, ancor meno quando il professore di
letteratura lascia scorrere la porta chiudendola.
Cade di nuovo il silenzio completo. Gli studenti che sono lì con loro formano
un gruppo singolare, in un certo senso: Kotetsu Urashima, per dirne uno,
studente che a dispetto della sua iperattività non ha mai dato problemi di
sorta. Si potrebbe dire diversamente di Okita Kashuu, stessa classe: fanno
coppia fissa tanto in aula quanto per i corridoi, e sebbene sia molto più
provocatore dell’altro, non è mai stato pescato in una rissa o in atteggiamenti
di dubbia morale. Ancor meno plausibile in tal senso è il compagno che gli
siede accanto, Okita Yamato: fratellastri, entrambi adottati, eppure quest’ultimo
è quello che si definirebbe senza ripensamenti uno studente modello. Si applica
nello studio e nel club sportivo di cui fa parte, peraltro con ottimi
risultati. Educato, buon rapporto con i compagni. Mai un problema in tutta la
sua carriera scolastica nell’istituto. Infine c’è Toushirou Midare. Lui è
l’unico ad avere una situazione più “complicata”, anche se non si può parlare
esattamente di precedenti; di Toushirou negli anni ne hanno visti passare –
anche se l’affollamento c’è stato in questi anni: Hitofuri Ichigo, che ha un
cognome diverso per il semplice essere stato affidato a sua madre dopo il
divorzio, è stato il primo a studiare lì. Dopo di lui ci sono stati i tre
fratelli attuali e un cugino: Namazuo, Honebami e Nakigitsune, del secondo
anno, e Midare, del primo. Sanno già che l’anno prossimo se ne aggiungerà un
quarto – Yagen, se la memoria non gioca brutti scherzi a Ishikirimaru.
Sono tutti bravi ragazzi, nonostante sia impossibile ricordare quali siano
davvero imparentati dal sangue tanto paterno quanto materno e quali no; Midare
però è stato richiamato più volte. Ishikirimaru non ha cuore di rimproverarlo a
lungo, quando succede, perché di base non fa niente di male…
ma non tutti sono della stessa opinione. Anche se a vederlo ora, seduto al
fianco di Urashima e con la testa china come se avesse compiuto il male del
mondo, è chiaro che sono più a pensarla diversamente da lui che non come lui.
Un bussare alla porta lo distrae da quei pensieri e, dal momento che è il più vicino,
si preoccupa lui di farla scorrere nuovamente: aprirla rivela tre uomini che
non potrebbero essere più diversi tra loro. Il più grande non lo è solo di età
ma anche in fisicità, così robusto che non si fatica a notare i geni
occidentali che lo differenziano tanto dallo stereotipo minuto e deboluccio che
vige in Giappone. D’altronde Kotetsu Nagasone lo mostra nella stazza quanto i
suoi due fratelli – Hachisuka, visto in un paio di occasioni, e lo stesso
Urashima – lo fanno nel colore dei capelli e degli occhi. Diverso è il discorso
per Kanesada Izumi, che rispecchia il suddetto stereotipo così tanto da
spiccare tra i tre per la sua normalità; o forse per l’occhiata che fa guizzare
verso i due giovani a cui fa da tutore. Kashuu lo guarda e sembra indeciso se
alzare gli occhi al cielo o tentare di assumere un’aria innocente che non
potrebbe mai essere convincente, con il taglio che si ritrova sul labbro e il
leggero livido che si sta formando sul suo zigomo sinistro. Yamato, al suo
fianco, lo guarda e stringe ancora di più le mani tra loro, come se non sapesse
dove guardare; opta per il pavimento, ma non è vergogna. Si trattiene.
Infine c’è l’ex alunno, Hitofuri Ichigo: non serve essere particolarmente
empatici per notare la preoccupazione nel suo sguardo quando questo si posa su
Midare. Il fratello sgrana gli occhi come se non si fosse aspettato di vederlo
arrivare, e poi rifugge il contatto visivo lasciando che una ciocca di capelli
biondi sfugga all’elastico con cui li ha legati poco prima, coprendogli il
volto.
Ishikirimaru li guarda, e non sa bene come agire; nemmeno tutta l’esperienza
del mondo ti prepara mai ad affrontare questioni così delicate.
Midare non ricorda il giorno in cui ha dovuto forzare se stesso per pensare a
Namazuo e Honebami come ai suoi fratelli maggiori, semplicemente perché quel
giorno non c’è mai stato. Forse perché c’è un solo anno di età a fare la
differenza tra loro, ma per Midare sono sempre stati lì, fratelli presenti con
cui è cresciuto. Semmai Atsu potrebbe aver avvertito un leggero distacco, non
fosse che quando è nato – portando solo quattro anni con i gemelli, tre con
Midare e due con Yagen – erano già tutti lì. Nessuno di loro ha mai avvertito
l’imbarazzo di avere a che fare con degli estranei in un primo momento; se non
lo avessero saputo con il tempo, nessuno di loro avrebbe nemmeno mai pensato di
non avere la stessa madre.
Midare non ricorda di preciso quando ha iniziato a pensare che i vestiti delle
bambine fossero molto più carini di quelli dei bambini. La mancanza di una
sorella in famiglia non gli ha mai permesso di indossarne in casa, una cosa che
a volte con alcuni bambini si fa un po’ per scherzo, un po’ perché da bambini è
tutto più facile, più leggero. Ricorda, però, di aver sempre guardato a quelle
gonne svolazzanti e alle camicette con i merletti con invidia. Non riusciva a
capire bene perché pensasse che
sarebbe stato bello indossarle almeno una volta, ma lo faceva: ci pensava di
continuo. Ricorda che in quinta elementare ha deciso che avrebbe fatto crescere
i capelli, quando Aya-chan – una compagna che ora non
ha neanche idea in quale scuola studi – gli ha prestato una mollettina
dicendo con tutta l’innocenza del mondo: “ti
sta così bene, Midare-chan, te la regalo!”.
Non è stato l’oggetto in sé. Eppure in prima media, diversi centimetri in meno
dei propri compagni e capelli biondi troppo lunghi per lo standard dei ragazzi
della classe, è stato così felice di essere scelto per una parte femminile
nella recita anche se solo per pura fortuna in un’estrazione, che ha indossato
quella stessa molletta per tutte le prove dello spettacolo prima del festival
culturale. Nessuno ha riso di lui, tra gli spettatori o tra i compagni e
ingenuamente Midare ha pensato che fosse perché in fondo non c’era nulla di
male. Dopotutto, cosa importava agli altri di come si vestiva? Lui a malapena
faceva caso a cosa indossavano gli altri!
Midare ricorda bene l’ultimo giorno di scuola del suo
secondo anno delle medie: tutta la famiglia si è riunita per festeggiare il
diploma di Namazuo e Honebami, e non solo. Quel giorno Midare ha conosciuto
Ichigo, quel fratello maggiore che non aveva mai vissuto con loro né li aveva
mai incontrati. Da quel che suo padre gli aveva raccontato, era il figlio avuto
con la fidanzata di tanti anni prima, quando era ancora molto giovane: non
erano sposati e lui non era maturo abbastanza potersene occupare, complice un
totale rifiuto da parte della sua famiglia. Lo aveva incontrato più volte, sì,
ma era stata la mamma di Ichigo a crescerlo in tutto e per tutto. Quando lui
era venuto a sapere di avere dei fratelli, aveva voluto incontrarli ma non se
l’era sentita di andare ad abitare con loro. Così aveva pensato che sarebbe
stato meglio aspettare che fossero più grandi.
Mentre raggiungevano il ristorante dove avevano appuntamento, Midare aveva
pensato che fosse impossibile per Ichigo voler loro bene: se non ci fossero
stati loro, se non ci fosse stata sua madre, forse suo padre sarebbe tornato da
Ichigo e avrebbe vissuto con lui.
Ichigo, fin dal primo incontro, ha sempre superato ogni più remota aspettativa
di Midare: li ha accolti tutti con un sorriso emozionato di fronte alla
possibilità di conoscere tanti fratelli, ha riso con loro, si è informato sulla
scelta del liceo di Namazuo e Honebami, di cosa piacesse a Yagen, dello show in
tv preferito di Atsu, del club di appartenenza di Midare. E quando lui gli ha
detto di essere in quello di Economia Domestica, Ichigo non ha riso di lui e
anzi lo ha guardato perfino con ammirazione, sostenendo che “alla tua età non ero assolutamente capace di
fare niente ai fornelli, a parte i piatti molto facili”. Midare ha un
ricordo del primo incontro con Ichigo fatto di dolcezza e di calore al petto,
della sensazione che sarebbe stato il fratello migliore del mondo.
Non si è mai dovuto pentire di quell’impressione ma il primo, vero problema è
sorto l’anno seguente. Per tutta la durata della terza media Midare aveva
provato a trovare il coraggio di indossare gli abiti con cui si sentiva più a
suo agio e alla fine, un giorno, aveva preso in prestito senza permesso la
divisa delle medie che sua madre custodiva tanto gelosamente e l’aveva
indossata per andare a scuola.
Per la prima volta negli ultimi anni, quella fastidiosa sensazione di avere
addosso cose sbagliate, di essere sbagliato
sembrava essersi volatilizzata. Si era sentito leggero, felice, a proprio agio.
Non era mai arrivato oltre gli armadietti delle scarpe: i suoi compagni lo
avevano riconosciuto praticamente subito e le prese in giro avevano alzato un
tale chiacchiericcio che era stato impossibile non attirare l’attenzione di
almeno un docente. Midare non avrebbe saputo dire allora quanto adesso, quale
fosse stata la cosa peggiore: sentirsi deridere, sentire parole di scherno
crudeli dagli altri compagni che fino al giorno prima non avevano mai
commentato troppo duramente i suoi capelli lunghi o il suo modo di fare, venire
portato in sala professori in attesa dell’arrivo dei suoi genitori – ed essere
osservato come se fosse impazzito all’improvviso – o vedere arrivare suo padre,
sentirlo scusarsi mortificato e, una volta in macchina, dirgli “è perché io e tua madre stiamo divorziando?
Credi che così le cose andranno meglio?!”
No che non voleva pensava le cose sarebbero andate meglio.
Ovvio che stava male per quello che avevano detto di lui.
No che non capiva cosa ci fosse di male in quello che aveva fatto.
Non lo avrebbe fatto mai più.
Da quel giorno ha indossato sempre abiti maschili, non
ha più lasciato i capelli sciolti, non ha mai parlato di cose “da ragazze”. Gli
unici due lussi che si è concesso sono stati non tagliare i capelli e
continuare a parlare di se stesso in boku.
Lui e suo padre non hanno mai più affrontato il discorso, come se non fosse mai
successo; in compenso Midare ha sempre pensato che sia stata colpa sua, se sua
madre e suo padre hanno discusso, litigato e infine deciso di divorziare. Colpa
sua se lui, Yagen e Atsu a volte devono fare avanti e indietro con il treno
perché da accordo legale i week-end sono da passare con la madre – come siano
rimasti a casa Toushirou Midare non lo sa. Forse perché era vicina a scuola, o
forse perché sua madre insegnava pianoforte ai bambini in casa loro ma per il
resto era solo una casalinga, e questo al momento del divorzio non era un
sostentamento sufficiente ad avere la custodia di tre figli. Atsu e Yagen non
lo hanno mai incolpato, tantomeno lo hanno fatto Namazuo e Honebami; ma a
Midare non è mai servito, non si è sentito meglio per quello.
In prima liceo ha preso l’abitudine di vestire come una ragazza fuori dall’edificio
scolastico: esce di casa vestito da ragazzo, porta con sé l’occorrente, si
sposta di abbastanza stazioni dal proprio quartiere e poi si cambia. Non ama
fare le cose di nascosto e non lo fa tutti
i giorni, però a volte quei vestiti sono soffocanti e lui ha bisogno di
poter stare come vuole alla luce del sole. Ha sempre evitato con cura anche la
zona più vicina a scuola, naturalmente; ma a metà del suo primo anno ha avuto
la sfortuna di essere visto e riconosciuto,
e per quanto abbia fatto finta di non sentirsi chiamare nella speranza che i
suoi compagni si convincessero di aver sbagliato persona, la cosa non ha
funzionato granché.
Non sono mai insulti. Sono per lo più sussurri degni delle voci di corridoio
che animano una scuola qualsiasi. Midare per lo più non se ne cura, a volte
invece esaspera alcuni atteggiamenti, ma lo fa non perché vuole apparire – è
esattamente ciò che non vorrebbe
accadesse –, ma perché sa di poterselo permettere con alcune persone. Con
Kashuu, per esempio. Okita Kashuu è lo studente che ha conosciuto perché
Namazuo e Honebami sembrano adorarlo in modi che all’inizio Midare non è
riuscito del tutto ad afferrare: li vedeva spesso insieme e qualche volta hanno
mangiato in gruppo, loro e Okita Yamato. Namazuo dimostra apertamente l’affetto
che ha per il coetaneo, Honebami è molto più discreto ma è anche suo fratello,
e dopo anni Midare ha imparato che le premure di Honebami sono riservate e
silenziose, ma sempre presenti e facili da notare se si fa attenzione.
Ammette di essersi aspettato un commento di dubbio gusto, quando lo aveva
vagamente presente solo di vista e non ci aveva mai parlato. Contro ogni sua
aspettativa, il loro primo incontro è stato sul tetto per pranzare insieme su
invito di Namazuo, e la prima frase che Kashuu gli ha rivolto è stata uno
scettico: «I tuoi capelli stanno invocando pietà. Cos’è, a casa Toushirou ti
hanno nascosto la spazzola?» ed è stato capace di piantarsi lì per tutto il
pranzo, sbocconcellando dei sandwich con la pretesa di essere imboccato da Yamato
perché “come pretendi che glieli leghi
decentemente se mi insudicio le mani di maionese?”
Sono diventati amici – o almeno, Midare lo dice a gran voce, Kashuu finge di
odiare la cosa, ma non conta perché lui finge di odiare tutti i Toushirou
praticamente – e sa che non importa se con Kashuu parla apertamente di quanto
carine siano le gonne in vetrina o se quando lui e Yamato passano a casa loro
per qualche gruppo di studio, e loro padre non c’è, si fa trovare in abiti
femminili.
Kashuu e Yamato non hanno mai perso neanche un minuto a guardarlo, men che meno a commentare, se non un cortese «Ti donano.»
di Yamato o un «Fortuna che i tuoi gusti sul vestire sono migliori di come ti
pettini la mattina.» di Kashuu.
Ama il tempo che passa con loro, forse perché non rendono l’aria irrespirabile.
Per quanto le voci possano essere sibilline e per
quanto si finga di non ascoltarle, di essergli superiore, non significa che non
si sentano o che non feriscano. Midare lo ha imparato a sue spese, ritrovandosi
in un ambiente scolastico che sembra diviso a metà: quelli che non si curano di
ciò che fa – come dovrebbe essere – e quelli che invece lo giudicano per motivi
su cui non vuole nemmeno indagare. Raggruppa questi ultimi in affermazioni come
“sono solo stupidi”, ma questo non
gli impedisce di stringere i pugni o mordersi nervosamente l’interno della
guancia quando coglie battute che lui non si permetterebbe mai di rivolgere
nemmeno al suo peggior nemico.
A volte non è così terribile, o almeno è più sopportabile del solito; a volte
Kashuu lancia un’occhiataccia al posto suo o fa commenti acidi che portano i
più pettegoli a lasciar cadere la cosa e dedicarsi ad altro. A volte Namazuo
copre quei sussurri con commenti entusiasti sul curry che ci sarà per cena. A
volte sembra così facile. Poi però ci sono quei giorni in cui non è con nessuno
di loro e allora diventa orribile, in cui torna a casa e vuole solo chiudersi
nella stanza che divide con Yagen, senza parlare di niente con nessuno.
Preferisce mangiare e ascoltare suo padre che parla di come la settimana
prossima vorrebbe che tutti loro fossero presenti a cena, perché ci tiene a
presentargli la persona che sta frequentando ora; tace e si lascia scivolare
addosso intere frasi “ha dei figli anche
lei”, “è una brava persona”, “ha preso con sé i nipoti dopo che quei
poveri ragazzi hanno perso la famiglia”. Non mette in dubbio la bontà di
questa donna, ma si chiede se ce la può fare ad avere occhi esterni che lo
guardano come fanno i suoi compagni di scuola.
E se iniziassero a dire le stesse cose?
Quella notte si intrufola nel letto di Yagen perché non ce la fa a dormire da
solo. Non divide lo spazio sotto le coperte con qualcuno da anni, se si esclude
il giorno in cui suo padre gli ha rivolto quelle parole e Yagen si è fatto spazio
sul materasso vicino a lui. Midare sa che in quell’occasione lo ha fatto perché
lo sentiva singhiozzare – così stavolta decide di invadere lui lo spazio di suo
fratello prima che arrivino i singhiozzi o le lacrime. Yagen apre un occhio
nell’oscurità, poi si addossa verso la parete per fargli spazio e copre
entrambi, cingendo Midare in un abbraccio e chiudendo gli occhi come se niente
fosse.
Il corpo di Yagen è caldo, le coperte lo stesso e persino il materasso ha
trattenuto un po’ del tepore di suo fratello; si accoccola contro di lui,
facendosi piccolo come se avesse la metà dei propri anni e lascia fuori tutto:
il freddo, le preoccupazioni e qualsiasi cosa non sia l’affetto altrui.
A volte pensa di non avere bisogno di altro.
Inorridisce quando camminando per una strada lontana
dalla sua scuola, dove si sentiva del tutto tranquillo e aveva abbassato la
guardia, alzando lo sguardo si ritrova davanti a Ichigo. A essere precisi non è
contro di lui che va a sbattere, nella fretta di avviarsi verso la stazione per
indossare di nuovo abiti maschili e poter tornare a casa; urta una persona che
non ha mai visto, e che quando Ichigo lo riconosce e pronuncia il suo nome con
tono sorpreso, passa gli occhi dorati da fratello a fratello e pronuncia un
divertito: «La conosci, Ichigo?»
La conosci. Midare si rende conto che
l’errore è assolutamente giustificato e non sa cosa aspettarsi, se un Ichigo
che lo trascini via senza spiegazioni o uno che possa assecondare quell’errore
per salvare le apparenze. Perciò quando il maggiore pronuncia: «È mio
fratello.» Midare davvero non crede a ciò che ha sentito. Il giovane che è con lui
pronuncia uno stupito “fratello?” privo della malizia crudele
che accompagna i commenti a scuola, ma Ichigo lo osserva e solo mentre Midare
azzarda ad alzare lo sguardo ascoltandolo replicare un «Tsurumaru-san…»
se ne accorge: si tengono per mano, il giovane chiamato Tsurumaru e suo
fratello.
Il tragitto del ritorno è accompagnato da un tale silenzio che Midare si chiede
se lui e Ichigo parleranno mai più. Suo fratello lo affianca e cammina con lui,
senza lasciarlo indietro né distandosi, ma guardando solo davanti a sé. Quando
raggiungono la stazione lo attende fuori dai bagni e Midare cerca di impiegare
meno possibile a cambiarsi; lui che lascia sempre con dispiacere gli abiti
femminili quando è ora di indossare quelli consoni
per poter tornare a casa, ora non vede l’ora di disfarsene e li toglie quasi
con rabbia, come se la colpa fosse degli indumenti e forse un po’ lo è, forse
se gli piacessero meno non avrebbe nemmeno mai iniziato e ora Ichigo non
aspetterebbe fuori da un bagno un fratello strano che si veste da donna.
Quando esce lo fa a testa bassa, la busta che di solito si premura di portare a
mano almeno per un po’ perché i vestiti non si sgualciscano accartocciata nella
tracolla, come se bastasse a cancellare gli ultimi venti minuti della sua vita.
Ichigo lo guida senza parlare fino alla banchina, poi nel vagone della
metropolitana, ed è solo quando sono seduti che lo guarda e Midare nei suoi
occhi non trova quello che si aspetta: suo fratello ha un sorriso leggero sulle
labbra che sa più di scuse che non di accusa; una mano è poggiata sulla propria
gamba con il palmo rivolto verso l’alto, ma è vicina abbastanza perché rientri
facilmente nel campo visivo di Midare tanto da spingerlo a guardarla più
attentamente e tornare poi di nuovo al viso di Ichigo.
«Pensi sia troppo da bambini?» gli domanda, e in un primo momento Midare è
confuso da troppe cose per capire a cosa si riferisca: «O…
magari è meglio di no, perché poco fa tenevo la mano di un’altra persona?»
aggiunge con dolcezza, ma lo colpisce con la stessa forza di uno schiaffo in
pieno viso. Ichigo non è disgustato o deluso dall’averlo trovato in giro per la
città vestito da ragazza, non gli
chiede se è stato per uno scherzo o una scommessa con qualche compagno, se lo
faccia perché è vittima di un qualche contorto tipo di bullismo che mina a
ridicolizzarlo. Ichigo pensa che lui, che Midare non lo guardi in viso perché
lo giudica, e improvvisamente il maggiore gli sembra quasi piccolo e la sua
mano è un’ancora di salvezza. La prende prima con una delle proprie, poi la
stringe con entrambe e quello è il momento in cui sente così tanta tristezza
arrivare tutta insieme che il petto si gonfia e gli fa male e non riesce a
tenere per sé i singhiozzi e il tremore leggero delle spalle.
Ichigo lo lascia fare, non si cura dei pochi altri passeggeri nel loro vagone
che li guardano, e con un braccio cinge le spalle di quel fratello minore che
voleva piangere da chissà quanto tempo.
Non è un viaggio fatto di spiegazioni e domande, il loro; anche quando
rientrano a casa Ichigo distrae loro padre abbastanza perché Midare possa
andare in bagno a sciacquarsi il viso e riporre gli abiti nella propria camera.
Dopo mangiato, però, non è difficile trovare un motivo per condividere una
stanza e nessuno si pone certo domande in merito. Così lui e Ichigo siedono
vicini, più vicini e al tempo stesso più distanti di quanto non siano mai
stati.
«Ichi-nii… posso farti una domanda?» chiede, e Ichigo
annuisce proprio come ci si aspetterebbe, perché è difficile immaginarlo negare
qualcosa ai suoi fratelli «La persona con cui eri, ti piace?»
La domanda è così diretta non per mettere in imbarazzo suo fratello, quanto più
per fargli capire – e spera davvero che Ichigo lo noti – che non trova
assolutamente nulla di male in quello che ha visto o in ciò che ha detto.
L’altro gli sorride e prende di nuovo la sua mano, con delicatezza; Midare
ricorda che lo ha già fatto, quando il giorno dopo il divorzio dei suoi
genitori Ichigo è andato a trovare tutti loro e ha assicurato a ognuno dei suoi
fratelli come non fosse colpa di nessuno, come si trattasse solo di voler
essere felici e di non riuscire più a esserlo insieme. In quel contatto c’è la
stessa dolcezza.
«Sì. Molto.» ammette con una tale naturalezza, e Midare riesce a sentirgli nella
voce così tanti sentimenti che non potrebbe pensare si tratti di nulla di
“sbagliato” neppure volendo. «Midare» prosegue Ichigo, senza lasciargli la mano,
e si chiede se stia per chiedergli perché si veste con abiti femminili o se
magari stia per girargli una domanda simile – “ti piace vestirti da donna?” oppure “Ti senti una donna?”, e invece Ichigo come sempre supera ogni sua
aspettativa.
«Se un giorno volessi andare a comprare qualcosa e non sapessi con chi andare,
mi farebbe piacere se lo chiedessi a me.» dice, con un sorriso un poco più
impacciato «Non posso vantare un grande gusto negli abiti femminili, ma se
volessi compagnia io verrei volentieri. Se non pensi che andare con tuo
fratello maggiore sia troppo imbarazzante, naturalmente.»
Come sempre, Ichigo lo fa sentire amato.
Spostarsi in presidenza non ha l’effetto di far sentire meglio nessuno di loro,
soprattutto perché le reazioni dei loro tutori di fronte all’essere stati
chiamati dalla scuola sono ancora più evidenti nelle loro profonde differenze.
Kashuu non ha mai temuto troppo l’essere richiamato, ma non gli è mai successo
nei suoi anni di scuola se si escludono quelli delle elementari; ma allora era
Okita a essere chiamato, non Izumi, e quello è un dettaglio tutt’altro che
insignificante. Al momento quasi invidia l’espressione che c’è sul viso del
fratello maggiore di Midare, e ancor più quella sul volto di Nagasone: ha la
sventura, a proprio dire, di conoscere Urashima dalle scuole medie e di averlo
come migliore amico da altrettanto tempo. Ha avuto modo di conoscere entrambi i
suoi fratelli maggiori: il capellone lo inquieta abbastanza, ma Nagasone tutto
sommato è vivibile. O almeno adesso sembra il fratello che tutti vorrebbero,
mentre pare impegnato a cercare di non scoppiare a ridere liquidando il tutto a
una bravata tra ragazzini.
Kashuu non è sicuro di volere che la cosa venga sminuita, perché non si sarebbe
mai sporcato le mani né si sarebbe fatto spaccare un labbro per una “scemenza
tra ragazzini”, ma vorrebbe evitare di sentire quel rumore di sottofondo nelle
pause tra le frasi di Ishikirimaru e quelle di Mikazuki – anche perché il
sorriso di quest’ultimo non gli fa capire se debba considerarsi o meno nei
guai, cosa che il ringhiare sommesso di Izumi rende cristallino. Sente lo
sguardo di Yamato, al proprio fianco, continuare a spostarsi su di lui quasi si
aspettasse di vederlo esplodere da un momento all’altro; per questo si concentra
ancora di più sul bordo della scrivania di Mikazuki. Non si vergogna di quanto
ha fatto, né degli epiteti con cui ha dato spettacolo e vorrebbe dire a Izumi
che non gli interessa affatto se questo gli abbasserà qualche punteggio della
scheda di valutazione.
Un pezzo di carta non definisce chi lui sia.
Okita Souji invece è parte di tutto ciò che è ora.
Il primo ricordo che ha Kashuu è quello di una casa buia che viene abbandonata
e poi di strade sporche, il tanfo dei rifiuti tutt’attorno e l’odore forte degli
alcolici di cui anche sua madre abusava, insieme ai senzatetto che stavano con
loro. Kashuu non ha mai conosciuto suo padre e di sua madre ha cancellato
volutamente i pochi ricordi che aveva, lasciandoli scivolare via con l’età e
pensando a lei meno possibile. L’ha persa, non sa dove e nemmeno quando di
preciso: a un certo punto semplicemente lei non è più tornata da lui e lui non
l’ha più cercata.
A quel tempo non ha impiegato molto a imparare che tra le persone che vivono
per strada c’è una solidarietà contorta: l’unico momento in cui si difendono
tra loro è solo quando le persone per bene li avvicinano con lo sguardo di chi
li compatisce e li giudica, e non ci sono due cose che quelli come loro – come
lui – odino di più al mondo. Ma per il resto, per strada ognuno vive per sé:
nessuno si prende la briga di cercare da mangiare anche per te, di rubare per
te o di cederti un posto un po’ più riparato quando la notte il freddo è
insopportabile. Non esiste istruzione e non esistono regole civili, e Kashuu lo
ha imparato in fretta che nessuno avrebbe mai fatto niente per lui; il concetto
di “genitore” era un lusso che lui non si sarebbe mai potuto permettere e per
questo lo aveva odiato con tutto il cuore. Ogni volta che un adulto lo
avvicinava per chiedersi se si fosse perso o avesse bisogno di aiuto, si
allontanava come un animale ferito.
I genitori ti amano. Lui non era stato amato nemmeno dalla donna che lo aveva
messo al mondo: cosa mai avrebbe potuto dargli una persona qualunque?
Per questo quando Okita Souji lo ha preso con sé – e quando dice “preso”,
Kashuu intende proprio prendere di peso – Kashuu ha cercato di rendergli la
vita un incubo, convinto che così l’altro si sarebbe disfatto di lui. Quale
persona sana di mente terrebbe con sé un ragazzino che è più una bestia che un
bambino da accudire, dopotutto. Ma Okita non era una persona normale e questo
Kashuu non lo ha capito per un pezzo, ritrovandosi a vivere con uno ragazzo che
sembrava troppo giovane per potersi prendere cura di un bambino del genere, o
di un qualsiasi altro essere umano.
Kashuu ricorda bene il suo rapporto con Souji prima che arrivasse anche Yamato
in casa loro: le prime volte era scappato dalle finestre, e Souji era dovuto
andare a recuperarlo in strada quando tornando non lo aveva più trovato. Aveva
provato a iscriverlo a scuola ma spesso, quando andava a prenderlo, lo trovava
messo nella sala delle insegnanti ad aspettare perché durante il giorno aveva
litigato o picchiato qualche bambino. Souji cercava anche di spiegargli le cose
che non andavano fatte ma, puntualmente, Kashuu le faceva nella speranza che
Okita finalmente ammettesse di non volerlo con lui; contorta quanto la
solidarietà che aveva imparato a conoscere vivendo in strada era stata la sua
speranza di venire mandato via per non soffrire dopo.
“Non mi vuole bene davvero”, si
ripeteva a ogni gesto gentile che Souji gli rivolgeva – quando cucinava per lui
Kashuu sapeva che si impegnava a scoprire sbirciando le sue espressioni cosa
gli piacesse di più, e quando Souji lo costringeva a fare il bagno e rideva del
modo in cui scappava, Kashuu si era accorto di trovare piacevole quella risata.
Proprio per quello, mentre Souji gli lavava i capelli con tocchi gentili e gli
spruzzava l’acqua in viso come se avessero entrambi sette anni, Kashuu a volte
sperava di essere sporco abbastanza perché Okita Souji decidesse di gettarlo
via.
Kashuu non ha mai dimenticato la prima volta che ha
visto Okita arrabbiarsi con lui e sgridarlo seriamente. A volte pensa che se
non fosse successo, probabilmente presto o tardi lui se ne sarebbe andato da
quella casa per non tornarci mai più e la vita con Souji non sarebbe mai stata
quella di una famiglia ma un periodo di passaggio, come quello con sua madre.
Non ha mai dimenticato la fragile sicurezza per cui, da bambino, era convinto
che sarebbe bastato combinare guai su guai perché Souji arrivasse a odiarlo e
non sopportarlo più; così sporcava in giro, si rendeva antipatico e Okita
sopportava come se fosse diventata una questione di principio, più testardo di
un ragazzino e senza alcuna intenzione di dargliela vinta.
Kashuu ricorda bene la volta in cui ha esagerato rompendo i vetri della
finestra, come Souji è corso a vedere a cosa fosse dovuto il rumore,
l’espressione sul suo viso – “anche gli
adulti hanno paura?” –, i passi veloci con cui lo ha raggiunto e il modo
con cui lo ha preso per un braccio e tirato indietro. Ricorda la fretta con cui
si è inginocchiato a terra e l’ha preso per le spalle, il modo in cui lo ha
scosso e in cui lo ha sgridato; non un Souji dal tono caldo e controllato, non
lo sguardo divertito e lo sguardo da ragazzino: «Ti sei fatto male? Ti sei
tagliato?!» e Kashuu ricorda come Okita non abbia fatto altro che controllare
ogni centimetro delle sue mani, come gli abbia cercato ferite sul volto, la
frenesia e poi il sospiro sollevato nel non trovare nulla «Non farlo mai più
Kashuu, mi hai capito?! Mai più!»
Lui non lo ricorda per una punizione o per la soddisfazione di averlo fatto
arrabbiare. È solo che quella è stata la prima volta in cui Souji lo ha
abbracciato, in cui qualcuno lo ha
abbracciato e stretto così tanto da fargli male, come se lui dovesse sparire e
quella fosse la cosa più spaventosa al mondo, dolorosa al punto da essere
insopportabile.
Si è sentito amato. E, per la prima volta, ha pianto fino a temere di non avere
più fiato nei polmoni – “non mandarmi
via, non mandarmi via”.
Da quel momento, come se fosse scattato chissà cosa,
vivere con Souji era diventato estremamente semplice. Nonostante Kashuu fosse
davvero come un gatto selvatico difficile da addomesticare, con il tempo aveva
imparato a fidarsi completamente dell’unica persona che sentiva di poter
definire “famiglia”: mangiava con Souji, faceva il bagno con lui e soprattutto
dormiva con lui. Quella era stata la cosa più difficile a cui abituarsi, perché
il sonno era il momento in cui si era più vulnerabili e Kashuu aveva impiegato
moltissimo tempo a scendere a patti con l’idea che si potesse condividere
incautamente lo spazio con qualcuno in quei momenti. Ma Souji non faceva che
cercarlo per tutta la casa e mettersi a dormire accanto a lui quando Kashuu era
già addormentato; così al risveglio lo ritrovava a volte a dormire sul divano
con lui, a volte per terra seduto vicino. Andando avanti così Okita aveva
finito con il prendere la febbre, in inverno, così Kashuu una notte si era
intrufolato nella sua stanza e sotto le coperte con lui, e anche se odiava
quando Souji lo guardava come se l’avesse avuta vinta per l’ennesima volta,
aveva tenuto una delle sue mani grandi nelle proprie.
«Souji» aveva mormorato piano «non morirai perché hai la febbre, vero?»
«Chi è mai morto di febbre, stupido.» aveva ribattuto ridacchiando e
liberandosi della sua presa per stringerselo addosso. Kashuu ricorda che il
corpo di Okita era così caldo che, da moccioso quale era, aveva pensato che
sarebbe andato a fuoco. Ma si era accoccolato lo stesso, perché era molto
meglio di qualsiasi coperta avesse mai avuto da quando viveva con lui – il
respiro di Souji era l’unica cosa che riusciva a calmarlo: un suono regolare, sembrava
dirgli che sarebbe andato sempre tutto bene.
E anche se non lo chiamava “papà”, era ciò che in fondo Souji era per lui – e
ciò sarebbe diventato anche per Yamato non molto tempo dopo. Era stato
difficile abituarsi a una persona, farlo con una seconda era sembrata una cosa
impossibile; ci erano voluti mesi perché tra loro si instaurasse un rapporto
decente e dopo neanche un anno era bastato l’arrivo di un secondo ragazzino in
quella casa per far precipitare tutto, almeno nella testa di Kashuu. Per molto
tempo Yamato era stato tutto ciò che aveva odiato in casa propria o a scuola:
Yamato era un ragazzino tranquillo, bene educato, persino timido, tutto ciò che
Kashuu non era e che non sarebbe mai stato. Perché Yamato era stato cresciuto
almeno per un po’ dai suoi veri genitori, dentro una bella casa e invece lui
era un bambino di strada. Perché mai Souji avrebbe dovuto preferire lui a
Yamato? Di sicuro, pensava, ora che c’era lui Souji si sarebbe reso conto di
quanto non valesse la pena tenere lui.
Non era stato facile capire che Yamato era solo quanto lui, e che forse nemmeno
Souji con tutto l’amore del mondo avrebbe mai potuto capirlo quanto Kashuu.
Perché, e Kashuu aveva impiegato anni a capirlo sul serio, solo chi è stato abbandonato comprende cosa si provi a
rimanere soli a quel modo.
E quando anni dopo Kashuu aveva chiesto a Souji perché avesse preso Yamato con
sé, la riposta che aveva ricevuto lo aveva fatto sorridere e si era ritrovato a
pensare che fosse proprio da lui una cosa simile – “ovviamente è per farti dispetto”, aveva detto “ora tocca a te farti in quattro per proteggere qualcuno della famiglia,
Kashuu. Vedrai che sarai un gran fratello maggiore!”.
Non importava che lui e Yamato avessero la stessa età; Kashuu aveva capito che
ciò che Okita gli stava donando era una persona da amare.
A Kashuu non ci è voluto molto per capire di non essere
portato a dimenticare; è bravo a fingere
di dimenticare, a fingere che non
importi, ma importa sempre alla fine e lui ricorda tutto, ricorda sempre,
ricorda troppo – tutte le volte che
le parole di Okita lo hanno salvato, il tempo impiegato a capire davvero quanto
importante fosse Yamato per lui, sua madre. Dice di averla dimenticata e sì,
ovviamente i suoi lineamenti sono una massa informe nella sua memoria, però non
è vero quando sostiene di averla dimenticata. Ricorda, perché lo spasmodico
bisogno di essere amato è iniziato probabilmente con lei e per lei.
Per questo, nel bene o nel male, ricorda con troppa chiarezza ogni singola volta
in cui negli anni passati Okita ha fatto di tutto per non perdersi mai niente
della vita sua e di Yamato: mai un evento sportivo, mai un festival scolastico,
un colloquio con gli insegnanti, le lezioni aperte ai genitori. C’è sempre
stato ai compleanni, durante il Natale, per il più piccolo e insignificante dei
pupazzi di neve, ogni volta che uno di loro due aveva la febbre. Okita era il
tipo di persona stupida abbastanza da decidere che fino ai loro rispettivi
dodici anni fosse perfettamente sensato ignorare la presenza di una camera
abbastanza grande per lui e Yamato, al solo scopo di dormire in tre in un letto
matrimoniale comprato appositamente, vista l’assenza di compagne fisse nella
vita di Souji.
Kashuu ricorda anche di quanto ha sentito l’uomo che lo ha cresciuto – suo padre – parlare con Izumi e dirgli che
se gli fosse successo qualcosa, Kanesada si sarebbe dovuto prendere cura di
loro due.
«E vorresti lasciarmi quei due mocciosi? Scordatelo, Souji, non ti azzardare!»
«È un discorso ipotetico, Kashuu e Yamato sono troppo carini perché io li lasci
a un buzzurro come te, Kane-san.»
“Che padre stupido”.
Che figlio stupido, a non capire che quello fosse il principio di un addio.
Anche questo Kashuu se lo ricorda bene, ma quando lo pensa è già troppo tardi.
Sarebbe bello riuscire a dimenticare tutto quello che vuole, invece il karma lo
odia e le cose che meno vorrebbe ricordare sono quelle impresse nella sua mente
senza possibilità di liberarsene. Sarebbe bello non avere sempre addosso la
sensazione di umidità delle strade buie in cui è vissuto per un periodo così
breve della propria vita, che tutto dovrebbe sparire come polvere e non avere
importanza.
Invece mentre corre se lo sente penetrare nelle ossa, perché anche se non fa
caso a dove va forse sta passando proprio vicino al vicolo in cui Okita lo ha
preso in braccio per portarlo via da lì – non sarebbe strano, in fondo, perché
le cose orribili tornano sempre a tormentarti quando tutto il resto va male. E
non sarebbe ironico, sentire il tanfo di quella parte della sua vita soffocarlo
quando già respirare è così difficile?
È facile correre per scappare come sta facendo lui adesso. È facile più di
quanto non sia correre verso il problema, perché l’istinto di allontanarsi
dalla sofferenza è sempre troppo forte. Ma lui, Kashuu, non ha potuto: avrebbe
voluto correre verso l’ospedale, con la paura, chiedendosi se non sarebbe stato
meglio tentare la fuga una volta di più quand’era bambino e risparmiarsi tutto
ciò che invece ha avuto, tutto ciò per cui ha ringraziato, tutto ciò che ha
amato. Invece non ha potuto. A lui è toccato una telefonata e la voce di Izumi
– «Kashuu ascoltami. Devi ascoltarmi
bene, d’accordo?» – e l’unica cosa per cui ora può correre è scappare dal
pensiero che nemmeno Yamato in ospedale ha potuto salutare Okita per l’ultima
volta, che quella sensazione che lo divora dentro forse la sta provando anche
lui.
Scappa dal pensiero che Souji non tornerà mai più, ma quando entra in casa
faticando a respirare come se l’aria fosse fatta di piombo, quando si accascia
contro la parete e si lascia cadere di mano la busta del conbini contenente i gelati per
loro tre, la verità lo colpisce con un pugno in faccia.
Souji non tornerà mai più.
Souji non è più in vita.
Souji non c’è, Souji lo ha abbandonato, e lui non ha potuto nemmeno dirgli
addio, non ha potuto dirgli nemmeno una volta quanto gli sia grato, quanto si
sia sentito amato, quanto nessuno
sarà mai in grado di essere nemmeno l’ombra di ciò che è stato lui.
Nel momento in cui lo capisce davvero, odia ogni stanza di quella casa e urla,
perché non è giusto, perché non può finire così; la vita non può prenderlo per
il culo in questo modo, non può prendere e strappargli di mano ogni cosa bella
che ha. La vita, il karma, non gli importa chi sia il responsabile ma non vuole
lasciar andare di nuovo qualcosa, ne ha abbastanza di un mondo che si sgretola
in continuazione, è stanco di
raccogliere i pezzi e non porteli mettere a posto.
Se il suo mondo deve andare in pezzi allora lo distruggerà
lui a mani nude e chi se ne frega se tutti i soprammobili che con un colpo fa
finire a terra sono ricordi di Okita, non gli importa se sta camminando scalzo
sui vetri e aveva promesso a Souji che non lo avrebbe fatto mai più quando era
un bambino, perché tanto non ci sarà Souji ad arrabbiarsi, non ci sarà e di una
casa in cui Souji non c’è lui non ha alcun bisogno.
«Kashuu!» non è la voce di Souji, e
allora perché mai dovrebbe ascoltarla? «Kashuu smettila! Yamato, aiutami a
tenerlo fermo!»
Yamato non gli basta, non gli basterà mai. Ne è convinto soprattutto quando lui
gli prende il viso tra le mani e gli grida di smetterla, e quello che trova sul
suo viso è così tanto dolore che persino guardarlo è insopportabile – eppure lo
guarda comunque e capisce che è vero.
Sono rimasti soli.
Urashima ricorda il giorno in cui ha conosciuto Kashuu: era il primo giorno
della terza elementare, le classi erano state mischiate e l’insegnante aveva
dato tempo a ognuno di loro di presentarsi al resto dei compagni. Quando era
stato il suo turno Kashuu si era alzato in piedi e aveva pronunciato un
semplice: «Sono Okita Kashuu.» dopo il quale si era seduto di nuovo. Tutti,
compreso Urashima, erano rimasti sorpresi da una presentazione tanto povera di
dettagli e lui si era incuriosito.
Kashuu non è mai stato il tipo che ama parlare di sé con persone che non sono
interessate in maniera genuina, e il problema principale sta nel fatto che è
lui stesso a giudicare quanto “genuina” sia la curiosità altrui, il che ha
sempre comportato un cernita piuttosto marcata che spesso non ha lasciato
persone da cui farsi conoscere. Urashima è convinto che ad aver convinto Kashuu
sia stata la sua insistenza, che alla fine si sia arreso perché assecondarlo
era più facile che cacciarlo via. Di qualunque cosa si sia trattato Urashima è
felice di averla sfruttata fino in fondo, perché una volta rientrati nelle sue
grazie Kashuu è il tipo di amico che non ti abbandona – anche se si lamenta un
sacco. Se prova a pensarci, ricorda solo due momenti bui della vita di Kashuu
da quando l’altro fa parte della sua esistenza: l’inizio, quando avvicinarlo
era un incubo e farlo sciogliere una missione impossibile, e la morte del suo
padre adottivo. Anche Urashima l’ha conosciuto e lo ha pianto, ma le condizioni
in cui erano finiti Kashuu e Yamato sono una cosa che spera di non dover vedere
mai più nella propria vita. Lui sa
quanto abbiano impiegato a uscirne e quanto, in fondo, entrambi non ne siano
mai usciti del tutto nemmeno ora.
Per questo non rimpiange di essersi messo in mezzo alla scazzottata in
corridoio e non ha intenzione di scusarsi
come se fosse colpa loro. Era stato già difficile trattenersi di fronte
alle battute squallide che erano state rivolte a Midare – e lo ha capito
benissimo che il motivo per cui a rispondere e a mettersi in mezzo è stato
Kashuu è anche la sua cotta poco segreta per Toushirou. Kashuu lo prende in
giro dall’inizio dell’anno e sa meglio di chiunque altro quanto Urashima voglia
sinceramente bene a Midare. Senza contare che nonostante lo neghi, lo stesso
Kashuu gli è affezionato.
Ma a fargli perdere del tutto la pazienza era stato vedere lo sguardo di Kashuu
e Yamato di fronte alla provocazione di quei tre idioti.
“Forse tuo padre avrebbe dovuto
insegnarti a scegliere le amicizie, Okita”, “Magari non era nemmeno granché come padre” gli era bastato per
capire che era stato troppo, e che niente di ciò che gli avrebbe potuto fare
lui sarebbe mai stato peggio di quanto potesse fare Yamato – Urashima lo ha
visto perdere il controllo una sola volta e ha capito con terrore che per
quanto sia la persona più gentile del mondo in condizioni normali, ci sono cose
per cui può diventare estremamente pericoloso: le uniche due persone con cui
abbia mai condiviso e condivida tuttora il cognome.
«Va bene.» decreta Mikazuki, interrompendo lo scambio anche troppo acceso tra
Izumi e Kashuu «Ho ascoltato entrambe le versioni. È opportuno che ognuno di
voi consegni le proprie riflessioni al responsabile della sua classe, domani.»
dà disposizioni con quel sorriso diplomatico che Urashima si chiede se si
incrini mai. Ha l’inquietante sensazione che potrebbe essere come il sorriso
Yamato, e decide che non vuole scoprire che effetto faccia quando Mikazuki
mostra di essere arrabbiato o irritato.
Sono i primi a uscire, o meglio, Ichigo, Izumi e Nagasone li seguono poco dopo
ma vengono trattenuti per qualche momento ancora da Ishikirimaru; distanti da
loro, Urashima si trova a disagio in un silenzio che non è mai stato loro
compagno quando stanno insieme durante il pranzo o tornando a casa. Midare non
ha mai alzato lo sguardo da terra per tutto il tempo, nemmeno quando Mikazuki
gli ha chiesto la sua versione dei fatti.
È incredibile come, a volte, si compiano gesti senza nemmeno essere tutti
d’accordo: Urashima lo pensa quando sia lui che Kashuu stringono una delle mani
di Toushirou nella propria – «Sono degli imbecilli, lasciali stare.» pronuncia
il suo migliore amico e Urashima sorride, perché sa che è il modo in cui Kashuu
ti sta vicino. Yamato che non ha aperto bocca se non quando interpellato punta
lo sguardo su Midare a propria volta e dalla propria posizione Urashima non
fatica a notare che le sue dita sono intrecciate a quelle di Kashuu, anche se
il significato della loro stretta è molto diverso, più intimo.
«Perché non mangiamo qualcosa tutti insieme, stasera?» propone Yamato, con un
accenno di sorriso «Sono sicuro che anche se è molto arrabbiato con Kashuu,
Kane-nii non rifiuterà degli invitati. Possiamo cucinare per scusarci insieme.»
«Se non è arrabbiato anche con te è solo perché io e Urashima abbiamo evitato
il peggio. Dovresti essere tu a
cucinare per noi.» sbotta Kashuu con un broncio che strappa finalmente un
sorriso persino a Midare, mentre annuisce piano – o forse è lo scappellotto di
Izumi che, implacabile, si abbatte sulla nuca di Kashuu. Quando li guarda
Urashima pensa che non abbiano nulla da invidiare a qualsiasi altra famiglia.
Stringe un poco di più la mano di Midare.