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Autore: Shichan    09/08/2015    1 recensioni
[Touken Ranbu]
#1. Ama il tempo che passa con loro, forse perché non rendono l’aria irrespirabile.
[Raccolta di oneshot in chiave modern!au; pair vari indicati all'interno, capitolo per capitolo; il rating potrebbe salire ad arancione in una delle altre due oneshot.]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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Personaggi principali: Kashuu Kiyomitsu, Midare Toushirou, Okita Souji, Urashima Kotetsu, Yamatonokami Yasusada.
Personaggi secondari: Ichigo Hitofuri, Izuminokami Kanesada (più altri menzionati).
Pair: Anmitsu (Kashu/Yama), UraMida, TsuruIchi.
Rating: giallo
Note: tutto doveva essere una oneshot sola ma alla fine stava assumendo proporzioni tali che sarebbe venuto fuori un malloppo ingestibile di 30k come minimo. Così ho pensato a una raccolta di oneshot collegate tra loro ma divise, in modo da gestirmi meglio anche io la narrazione. Dovrebbero essere tre: questa, una incentrata sulla TsuruIchi e un’altra sulla vita in casa Okita/Kanesada.
Nota utile: per esigenza di AU ho dovuto dare a Yamato e Kashuu il cognome “Okita”. Inoltre non ho ancora capito quale sia o meno il cognome delle spade o il presunto tale, ma siccome non avevo intenzione di chiamare dieci Toushirou “Toushirou” di nome, ho deciso arbitrariamente. Inoltre chiedo venia se qualcuno si perderà tra mogli e parentele del presunto papà Toushirou: mi ci sono persa anche io, nel tentativo di far quadrare tutto, e si vede 8D

 

 

Family

 

 

L’atmosfera nella stanza è pesante. Nessuno si è aspettato che potesse essere diverso, nemmeno per un momento, visto l’accaduto. Certo, a vederli da fuori sono uno spettacolo quasi comico: la stanza dei professori dell’istituto Touken Ranbu – che la maggior parte dei suoi studenti chiama “tourabu”, più per tendenza iniziata da chissà chi che non per affetto – è solitamente animata da un chiacchiericcio discreto e qualche risata, nei momenti di pausa. C’è un continuo via vai di studenti che portano registri, o prendono in prestito le chiavi di alcune aule per sistemare il materiale scolastico, ma non c’è quasi mai un silenzio pressoché totale come ora, a esclusione delle rare ore di lezione che occupano tutti i docenti contemporaneamente.
Ora invece non vola una mosca, e non perché la stanza sia vuota. Alcune scrivanie non sono occupate, visto che è in corso la quarta ora di lezione; quella subito sulla sinistra appena si entra nella sala docenti è occupata da Iwatooshi. È lui ad aver colto tutti in flagrante, come si suol dire, probabilmente richiamato da qualcuno perché – nonostante tutto – è quel tipo di insegnante che gli studenti identificano come figura autoritaria solo in momento come questi. È bravo con i ragazzi, spesso ci si dimentica che lui non è più un quindicenne, ma è il suo punto di forza; non è un mistero che riesca quasi sempre a convincere anche i più problematici ad andare a lezione. Poi che si porti ancora dietro l’essere stato un supplente delle elementari fino a poco tempo fa è un dettaglio quasi trascurabile.  
Sulla soglia, Ishikirimaru sta cercando di congedare con quanta più gentilezza possibile Namazuo e Honebami Toushirou, il primo molto più agitato del secondo, la preoccupazione che gli si legge nello sguardo; Ishikirimaru gli sta posando una mano sulla spalla, tentando di rassicurarlo. Forse è Honebami a convincere davvero il fratello, tirandogli appena la manica della divisa e sussurrandogli qualcosa. Namazuo non sembra molto più convinto di prima, come se le parole del docente fossero solo fumo, ma almeno sembra aver capito che non può fare niente lì. Se ne va, con un ultimo sguardo verso l’interno – e non vede molto, con Ishikirimaru ancora sulla soglia – prima di non rientrare più nel campo visivo di nessuno degli occupanti della stanza, ancor meno quando il professore di letteratura lascia scorrere la porta chiudendola.
Cade di nuovo il silenzio completo. Gli studenti che sono lì con loro formano un gruppo singolare, in un certo senso: Kotetsu Urashima, per dirne uno, studente che a dispetto della sua iperattività non ha mai dato problemi di sorta. Si potrebbe dire diversamente di Okita Kashuu, stessa classe: fanno coppia fissa tanto in aula quanto per i corridoi, e sebbene sia molto più provocatore dell’altro, non è mai stato pescato in una rissa o in atteggiamenti di dubbia morale. Ancor meno plausibile in tal senso è il compagno che gli siede accanto, Okita Yamato: fratellastri, entrambi adottati, eppure quest’ultimo è quello che si definirebbe senza ripensamenti uno studente modello. Si applica nello studio e nel club sportivo di cui fa parte, peraltro con ottimi risultati. Educato, buon rapporto con i compagni. Mai un problema in tutta la sua carriera scolastica nell’istituto. Infine c’è Toushirou Midare. Lui è l’unico ad avere una situazione più “complicata”, anche se non si può parlare esattamente di precedenti; di Toushirou negli anni ne hanno visti passare – anche se l’affollamento c’è stato in questi anni: Hitofuri Ichigo, che ha un cognome diverso per il semplice essere stato affidato a sua madre dopo il divorzio, è stato il primo a studiare lì. Dopo di lui ci sono stati i tre fratelli attuali e un cugino: Namazuo, Honebami e Nakigitsune, del secondo anno, e Midare, del primo. Sanno già che l’anno prossimo se ne aggiungerà un quarto – Yagen, se la memoria non gioca brutti scherzi a Ishikirimaru.
Sono tutti bravi ragazzi, nonostante sia impossibile ricordare quali siano davvero imparentati dal sangue tanto paterno quanto materno e quali no; Midare però è stato richiamato più volte. Ishikirimaru non ha cuore di rimproverarlo a lungo, quando succede, perché di base non fa niente di male… ma non tutti sono della stessa opinione. Anche se a vederlo ora, seduto al fianco di Urashima e con la testa china come se avesse compiuto il male del mondo, è chiaro che sono più a pensarla diversamente da lui che non come lui.
Un bussare alla porta lo distrae da quei pensieri e, dal momento che è il più vicino, si preoccupa lui di farla scorrere nuovamente: aprirla rivela tre uomini che non potrebbero essere più diversi tra loro. Il più grande non lo è solo di età ma anche in fisicità, così robusto che non si fatica a notare i geni occidentali che lo differenziano tanto dallo stereotipo minuto e deboluccio che vige in Giappone. D’altronde Kotetsu Nagasone lo mostra nella stazza quanto i suoi due fratelli – Hachisuka, visto in un paio di occasioni, e lo stesso Urashima – lo fanno nel colore dei capelli e degli occhi. Diverso è il discorso per Kanesada Izumi, che rispecchia il suddetto stereotipo così tanto da spiccare tra i tre per la sua normalità; o forse per l’occhiata che fa guizzare verso i due giovani a cui fa da tutore. Kashuu lo guarda e sembra indeciso se alzare gli occhi al cielo o tentare di assumere un’aria innocente che non potrebbe mai essere convincente, con il taglio che si ritrova sul labbro e il leggero livido che si sta formando sul suo zigomo sinistro. Yamato, al suo fianco, lo guarda e stringe ancora di più le mani tra loro, come se non sapesse dove guardare; opta per il pavimento, ma non è vergogna. Si trattiene.
Infine c’è l’ex alunno, Hitofuri Ichigo: non serve essere particolarmente empatici per notare la preoccupazione nel suo sguardo quando questo si posa su Midare. Il fratello sgrana gli occhi come se non si fosse aspettato di vederlo arrivare, e poi rifugge il contatto visivo lasciando che una ciocca di capelli biondi sfugga all’elastico con cui li ha legati poco prima, coprendogli il volto.
Ishikirimaru li guarda, e non sa bene come agire; nemmeno tutta l’esperienza del mondo ti prepara mai ad affrontare questioni così delicate. 


Midare non ricorda il giorno in cui ha dovuto forzare se stesso per pensare a Namazuo e Honebami come ai suoi fratelli maggiori, semplicemente perché quel giorno non c’è mai stato. Forse perché c’è un solo anno di età a fare la differenza tra loro, ma per Midare sono sempre stati lì, fratelli presenti con cui è cresciuto. Semmai Atsu potrebbe aver avvertito un leggero distacco, non fosse che quando è nato – portando solo quattro anni con i gemelli, tre con Midare e due con Yagen – erano già tutti lì. Nessuno di loro ha mai avvertito l’imbarazzo di avere a che fare con degli estranei in un primo momento; se non lo avessero saputo con il tempo, nessuno di loro avrebbe nemmeno mai pensato di non avere la stessa madre.
Midare non ricorda di preciso quando ha iniziato a pensare che i vestiti delle bambine fossero molto più carini di quelli dei bambini. La mancanza di una sorella in famiglia non gli ha mai permesso di indossarne in casa, una cosa che a volte con alcuni bambini si fa un po’ per scherzo, un po’ perché da bambini è tutto più facile, più leggero. Ricorda, però, di aver sempre guardato a quelle gonne svolazzanti e alle camicette con i merletti con invidia. Non riusciva a capire bene perché pensasse che sarebbe stato bello indossarle almeno una volta, ma lo faceva: ci pensava di continuo. Ricorda che in quinta elementare ha deciso che avrebbe fatto crescere i capelli, quando Aya-chan – una compagna che ora non ha neanche idea in quale scuola studi – gli ha prestato una mollettina dicendo con tutta l’innocenza del mondo: “ti sta così bene, Midare-chan, te la regalo!”.
Non è stato l’oggetto in sé. Eppure in prima media, diversi centimetri in meno dei propri compagni e capelli biondi troppo lunghi per lo standard dei ragazzi della classe, è stato così felice di essere scelto per una parte femminile nella recita anche se solo per pura fortuna in un’estrazione, che ha indossato quella stessa molletta per tutte le prove dello spettacolo prima del festival culturale. Nessuno ha riso di lui, tra gli spettatori o tra i compagni e ingenuamente Midare ha pensato che fosse perché in fondo non c’era nulla di male. Dopotutto, cosa importava agli altri di come si vestiva? Lui a malapena faceva caso a cosa indossavano gli altri!

Midare ricorda bene l’ultimo giorno di scuola del suo secondo anno delle medie: tutta la famiglia si è riunita per festeggiare il diploma di Namazuo e Honebami, e non solo. Quel giorno Midare ha conosciuto Ichigo, quel fratello maggiore che non aveva mai vissuto con loro né li aveva mai incontrati. Da quel che suo padre gli aveva raccontato, era il figlio avuto con la fidanzata di tanti anni prima, quando era ancora molto giovane: non erano sposati e lui non era maturo abbastanza potersene occupare, complice un totale rifiuto da parte della sua famiglia. Lo aveva incontrato più volte, sì, ma era stata la mamma di Ichigo a crescerlo in tutto e per tutto. Quando lui era venuto a sapere di avere dei fratelli, aveva voluto incontrarli ma non se l’era sentita di andare ad abitare con loro. Così aveva pensato che sarebbe stato meglio aspettare che fossero più grandi.
Mentre raggiungevano il ristorante dove avevano appuntamento, Midare aveva pensato che fosse impossibile per Ichigo voler loro bene: se non ci fossero stati loro, se non ci fosse stata sua madre, forse suo padre sarebbe tornato da Ichigo e avrebbe vissuto con lui.
Ichigo, fin dal primo incontro, ha sempre superato ogni più remota aspettativa di Midare: li ha accolti tutti con un sorriso emozionato di fronte alla possibilità di conoscere tanti fratelli, ha riso con loro, si è informato sulla scelta del liceo di Namazuo e Honebami, di cosa piacesse a Yagen, dello show in tv preferito di Atsu, del club di appartenenza di Midare. E quando lui gli ha detto di essere in quello di Economia Domestica, Ichigo non ha riso di lui e anzi lo ha guardato perfino con ammirazione, sostenendo che “alla tua età non ero assolutamente capace di fare niente ai fornelli, a parte i piatti molto facili”. Midare ha un ricordo del primo incontro con Ichigo fatto di dolcezza e di calore al petto, della sensazione che sarebbe stato il fratello migliore del mondo.
Non si è mai dovuto pentire di quell’impressione ma il primo, vero problema è sorto l’anno seguente. Per tutta la durata della terza media Midare aveva provato a trovare il coraggio di indossare gli abiti con cui si sentiva più a suo agio e alla fine, un giorno, aveva preso in prestito senza permesso la divisa delle medie che sua madre custodiva tanto gelosamente e l’aveva indossata per andare a scuola.
Per la prima volta negli ultimi anni, quella fastidiosa sensazione di avere addosso cose sbagliate, di essere sbagliato sembrava essersi volatilizzata. Si era sentito leggero, felice, a proprio agio.
Non era mai arrivato oltre gli armadietti delle scarpe: i suoi compagni lo avevano riconosciuto praticamente subito e le prese in giro avevano alzato un tale chiacchiericcio che era stato impossibile non attirare l’attenzione di almeno un docente. Midare non avrebbe saputo dire allora quanto adesso, quale fosse stata la cosa peggiore: sentirsi deridere, sentire parole di scherno crudeli dagli altri compagni che fino al giorno prima non avevano mai commentato troppo duramente i suoi capelli lunghi o il suo modo di fare, venire portato in sala professori in attesa dell’arrivo dei suoi genitori – ed essere osservato come se fosse impazzito all’improvviso – o vedere arrivare suo padre, sentirlo scusarsi mortificato e, una volta in macchina, dirgli “è perché io e tua madre stiamo divorziando? Credi che così le cose andranno meglio?!
No che non voleva pensava le cose sarebbero andate meglio.
Ovvio che stava male per quello che avevano detto di lui.
No che non capiva cosa ci fosse di male in quello che aveva fatto.
Non lo avrebbe fatto mai più.

Da quel giorno ha indossato sempre abiti maschili, non ha più lasciato i capelli sciolti, non ha mai parlato di cose “da ragazze”. Gli unici due lussi che si è concesso sono stati non tagliare i capelli e continuare a parlare di se stesso in boku.
Lui e suo padre non hanno mai più affrontato il discorso, come se non fosse mai successo; in compenso Midare ha sempre pensato che sia stata colpa sua, se sua madre e suo padre hanno discusso, litigato e infine deciso di divorziare. Colpa sua se lui, Yagen e Atsu a volte devono fare avanti e indietro con il treno perché da accordo legale i week-end sono da passare con la madre – come siano rimasti a casa Toushirou Midare non lo sa. Forse perché era vicina a scuola, o forse perché sua madre insegnava pianoforte ai bambini in casa loro ma per il resto era solo una casalinga, e questo al momento del divorzio non era un sostentamento sufficiente ad avere la custodia di tre figli. Atsu e Yagen non lo hanno mai incolpato, tantomeno lo hanno fatto Namazuo e Honebami; ma a Midare non è mai servito, non si è sentito meglio per quello.
In prima liceo ha preso l’abitudine di vestire come una ragazza fuori dall’edificio scolastico: esce di casa vestito da ragazzo, porta con sé l’occorrente, si sposta di abbastanza stazioni dal proprio quartiere e poi si cambia. Non ama fare le cose di nascosto e non lo fa tutti i giorni, però a volte quei vestiti sono soffocanti e lui ha bisogno di poter stare come vuole alla luce del sole. Ha sempre evitato con cura anche la zona più vicina a scuola, naturalmente; ma a metà del suo primo anno ha avuto la sfortuna di essere visto e riconosciuto, e per quanto abbia fatto finta di non sentirsi chiamare nella speranza che i suoi compagni si convincessero di aver sbagliato persona, la cosa non ha funzionato granché.
Non sono mai insulti. Sono per lo più sussurri degni delle voci di corridoio che animano una scuola qualsiasi. Midare per lo più non se ne cura, a volte invece esaspera alcuni atteggiamenti, ma lo fa non perché vuole apparire – è esattamente ciò che non vorrebbe accadesse –, ma perché sa di poterselo permettere con alcune persone. Con Kashuu, per esempio. Okita Kashuu è lo studente che ha conosciuto perché Namazuo e Honebami sembrano adorarlo in modi che all’inizio Midare non è riuscito del tutto ad afferrare: li vedeva spesso insieme e qualche volta hanno mangiato in gruppo, loro e Okita Yamato. Namazuo dimostra apertamente l’affetto che ha per il coetaneo, Honebami è molto più discreto ma è anche suo fratello, e dopo anni Midare ha imparato che le premure di Honebami sono riservate e silenziose, ma sempre presenti e facili da notare se si fa attenzione.
Ammette di essersi aspettato un commento di dubbio gusto, quando lo aveva vagamente presente solo di vista e non ci aveva mai parlato. Contro ogni sua aspettativa, il loro primo incontro è stato sul tetto per pranzare insieme su invito di Namazuo, e la prima frase che Kashuu gli ha rivolto è stata uno scettico: «I tuoi capelli stanno invocando pietà. Cos’è, a casa Toushirou ti hanno nascosto la spazzola?» ed è stato capace di piantarsi lì per tutto il pranzo, sbocconcellando dei sandwich con la pretesa di essere imboccato da Yamato perché “come pretendi che glieli leghi decentemente se mi insudicio le mani di maionese?
Sono diventati amici – o almeno, Midare lo dice a gran voce, Kashuu finge di odiare la cosa, ma non conta perché lui finge di odiare tutti i Toushirou praticamente – e sa che non importa se con Kashuu parla apertamente di quanto carine siano le gonne in vetrina o se quando lui e Yamato passano a casa loro per qualche gruppo di studio, e loro padre non c’è, si fa trovare in abiti femminili.
Kashuu e Yamato non hanno mai perso neanche un minuto a guardarlo, men che meno a commentare, se non un cortese «Ti donano.» di Yamato o un «Fortuna che i tuoi gusti sul vestire sono migliori di come ti pettini la mattina.» di Kashuu.
Ama il tempo che passa con loro, forse perché non rendono l’aria irrespirabile.

Per quanto le voci possano essere sibilline e per quanto si finga di non ascoltarle, di essergli superiore, non significa che non si sentano o che non feriscano. Midare lo ha imparato a sue spese, ritrovandosi in un ambiente scolastico che sembra diviso a metà: quelli che non si curano di ciò che fa – come dovrebbe essere – e quelli che invece lo giudicano per motivi su cui non vuole nemmeno indagare. Raggruppa questi ultimi in affermazioni come “sono solo stupidi”, ma questo non gli impedisce di stringere i pugni o mordersi nervosamente l’interno della guancia quando coglie battute che lui non si permetterebbe mai di rivolgere nemmeno al suo peggior nemico.
A volte non è così terribile, o almeno è più sopportabile del solito; a volte Kashuu lancia un’occhiataccia al posto suo o fa commenti acidi che portano i più pettegoli a lasciar cadere la cosa e dedicarsi ad altro. A volte Namazuo copre quei sussurri con commenti entusiasti sul curry che ci sarà per cena. A volte sembra così facile. Poi però ci sono quei giorni in cui non è con nessuno di loro e allora diventa orribile, in cui torna a casa e vuole solo chiudersi nella stanza che divide con Yagen, senza parlare di niente con nessuno.
Preferisce mangiare e ascoltare suo padre che parla di come la settimana prossima vorrebbe che tutti loro fossero presenti a cena, perché ci tiene a presentargli la persona che sta frequentando ora; tace e si lascia scivolare addosso intere frasi “ha dei figli anche lei”, “è una brava persona”, “ha preso con sé i nipoti dopo che quei poveri ragazzi hanno perso la famiglia”. Non mette in dubbio la bontà di questa donna, ma si chiede se ce la può fare ad avere occhi esterni che lo guardano come fanno i suoi compagni di scuola.
E se iniziassero a dire le stesse cose?
Quella notte si intrufola nel letto di Yagen perché non ce la fa a dormire da solo. Non divide lo spazio sotto le coperte con qualcuno da anni, se si esclude il giorno in cui suo padre gli ha rivolto quelle parole e Yagen si è fatto spazio sul materasso vicino a lui. Midare sa che in quell’occasione lo ha fatto perché lo sentiva singhiozzare – così stavolta decide di invadere lui lo spazio di suo fratello prima che arrivino i singhiozzi o le lacrime. Yagen apre un occhio nell’oscurità, poi si addossa verso la parete per fargli spazio e copre entrambi, cingendo Midare in un abbraccio e chiudendo gli occhi come se niente fosse.
Il corpo di Yagen è caldo, le coperte lo stesso e persino il materasso ha trattenuto un po’ del tepore di suo fratello; si accoccola contro di lui, facendosi piccolo come se avesse la metà dei propri anni e lascia fuori tutto: il freddo, le preoccupazioni e qualsiasi cosa non sia l’affetto altrui.
A volte pensa di non avere bisogno di altro.

Inorridisce quando camminando per una strada lontana dalla sua scuola, dove si sentiva del tutto tranquillo e aveva abbassato la guardia, alzando lo sguardo si ritrova davanti a Ichigo. A essere precisi non è contro di lui che va a sbattere, nella fretta di avviarsi verso la stazione per indossare di nuovo abiti maschili e poter tornare a casa; urta una persona che non ha mai visto, e che quando Ichigo lo riconosce e pronuncia il suo nome con tono sorpreso, passa gli occhi dorati da fratello a fratello e pronuncia un divertito: «La conosci, Ichigo?»
La conosci. Midare si rende conto che l’errore è assolutamente giustificato e non sa cosa aspettarsi, se un Ichigo che lo trascini via senza spiegazioni o uno che possa assecondare quell’errore per salvare le apparenze. Perciò quando il maggiore pronuncia: «È mio fratello.» Midare davvero non crede a ciò che ha sentito. Il giovane che è con lui pronuncia uno stupito  fratello?” privo della malizia crudele che accompagna i commenti a scuola, ma Ichigo lo osserva e solo mentre Midare azzarda ad alzare lo sguardo ascoltandolo replicare un «Tsurumaru-san…» se ne accorge: si tengono per mano, il giovane chiamato Tsurumaru e suo fratello.
Il tragitto del ritorno è accompagnato da un tale silenzio che Midare si chiede se lui e Ichigo parleranno mai più. Suo fratello lo affianca e cammina con lui, senza lasciarlo indietro né distandosi, ma guardando solo davanti a sé. Quando raggiungono la stazione lo attende fuori dai bagni e Midare cerca di impiegare meno possibile a cambiarsi; lui che lascia sempre con dispiacere gli abiti femminili quando è ora di indossare quelli consoni per poter tornare a casa, ora non vede l’ora di disfarsene e li toglie quasi con rabbia, come se la colpa fosse degli indumenti e forse un po’ lo è, forse se gli piacessero meno non avrebbe nemmeno mai iniziato e ora Ichigo non aspetterebbe fuori da un bagno un fratello strano che si veste da donna.
Quando esce lo fa a testa bassa, la busta che di solito si premura di portare a mano almeno per un po’ perché i vestiti non si sgualciscano accartocciata nella tracolla, come se bastasse a cancellare gli ultimi venti minuti della sua vita. Ichigo lo guida senza parlare fino alla banchina, poi nel vagone della metropolitana, ed è solo quando sono seduti che lo guarda e Midare nei suoi occhi non trova quello che si aspetta: suo fratello ha un sorriso leggero sulle labbra che sa più di scuse che non di accusa; una mano è poggiata sulla propria gamba con il palmo rivolto verso l’alto, ma è vicina abbastanza perché rientri facilmente nel campo visivo di Midare tanto da spingerlo a guardarla più attentamente e tornare poi di nuovo al viso di Ichigo.
«Pensi sia troppo da bambini?» gli domanda, e in un primo momento Midare è confuso da troppe cose per capire a cosa si riferisca: «O… magari è meglio di no, perché poco fa tenevo la mano di un’altra persona?» aggiunge con dolcezza, ma lo colpisce con la stessa forza di uno schiaffo in pieno viso. Ichigo non è disgustato o deluso dall’averlo trovato in giro per la città vestito da ragazza, non gli chiede se è stato per uno scherzo o una scommessa con qualche compagno, se lo faccia perché è vittima di un qualche contorto tipo di bullismo che mina a ridicolizzarlo. Ichigo pensa che lui, che Midare non lo guardi in viso perché lo giudica, e improvvisamente il maggiore gli sembra quasi piccolo e la sua mano è un’ancora di salvezza. La prende prima con una delle proprie, poi la stringe con entrambe e quello è il momento in cui sente così tanta tristezza arrivare tutta insieme che il petto si gonfia e gli fa male e non riesce a tenere per sé i singhiozzi e il tremore leggero delle spalle.
Ichigo lo lascia fare, non si cura dei pochi altri passeggeri nel loro vagone che li guardano, e con un braccio cinge le spalle di quel fratello minore che voleva piangere da chissà quanto tempo.
Non è un viaggio fatto di spiegazioni e domande, il loro; anche quando rientrano a casa Ichigo distrae loro padre abbastanza perché Midare possa andare in bagno a sciacquarsi il viso e riporre gli abiti nella propria camera.
Dopo mangiato, però, non è difficile trovare un motivo per condividere una stanza e nessuno si pone certo domande in merito. Così lui e Ichigo siedono vicini, più vicini e al tempo stesso più distanti di quanto non siano mai stati.
«Ichi-nii… posso farti una domanda?» chiede, e Ichigo annuisce proprio come ci si aspetterebbe, perché è difficile immaginarlo negare qualcosa ai suoi fratelli «La persona con cui eri, ti piace?»
La domanda è così diretta non per mettere in imbarazzo suo fratello, quanto più per fargli capire – e spera davvero che Ichigo lo noti – che non trova assolutamente nulla di male in quello che ha visto o in ciò che ha detto. L’altro gli sorride e prende di nuovo la sua mano, con delicatezza; Midare ricorda che lo ha già fatto, quando il giorno dopo il divorzio dei suoi genitori Ichigo è andato a trovare tutti loro e ha assicurato a ognuno dei suoi fratelli come non fosse colpa di nessuno, come si trattasse solo di voler essere felici e di non riuscire più a esserlo insieme. In quel contatto c’è la stessa dolcezza.
«Sì. Molto.» ammette con una tale naturalezza, e Midare riesce a sentirgli nella voce così tanti sentimenti che non potrebbe pensare si tratti di nulla di “sbagliato” neppure volendo. «Midare» prosegue Ichigo, senza lasciargli la mano, e si chiede se stia per chiedergli perché si veste con abiti femminili o se magari stia per girargli una domanda simile – “ti piace vestirti da donna?” oppure “Ti senti una donna?”, e invece Ichigo come sempre supera ogni sua aspettativa.
«Se un giorno volessi andare a comprare qualcosa e non sapessi con chi andare, mi farebbe piacere se lo chiedessi a me.» dice, con un sorriso un poco più impacciato «Non posso vantare un grande gusto negli abiti femminili, ma se volessi compagnia io verrei volentieri. Se non pensi che andare con tuo fratello maggiore sia troppo imbarazzante, naturalmente.»
Come sempre, Ichigo lo fa sentire amato.


Spostarsi in presidenza non ha l’effetto di far sentire meglio nessuno di loro, soprattutto perché le reazioni dei loro tutori di fronte all’essere stati chiamati dalla scuola sono ancora più evidenti nelle loro profonde differenze. Kashuu non ha mai temuto troppo l’essere richiamato, ma non gli è mai successo nei suoi anni di scuola se si escludono quelli delle elementari; ma allora era Okita a essere chiamato, non Izumi, e quello è un dettaglio tutt’altro che insignificante. Al momento quasi invidia l’espressione che c’è sul viso del fratello maggiore di Midare, e ancor più quella sul volto di Nagasone: ha la sventura, a proprio dire, di conoscere Urashima dalle scuole medie e di averlo come migliore amico da altrettanto tempo. Ha avuto modo di conoscere entrambi i suoi fratelli maggiori: il capellone lo inquieta abbastanza, ma Nagasone tutto sommato è vivibile. O almeno adesso sembra il fratello che tutti vorrebbero, mentre pare impegnato a cercare di non scoppiare a ridere liquidando il tutto a una bravata tra ragazzini.
Kashuu non è sicuro di volere che la cosa venga sminuita, perché non si sarebbe mai sporcato le mani né si sarebbe fatto spaccare un labbro per una “scemenza tra ragazzini”, ma vorrebbe evitare di sentire quel rumore di sottofondo nelle pause tra le frasi di Ishikirimaru e quelle di Mikazuki – anche perché il sorriso di quest’ultimo non gli fa capire se debba considerarsi o meno nei guai, cosa che il ringhiare sommesso di Izumi rende cristallino. Sente lo sguardo di Yamato, al proprio fianco, continuare a spostarsi su di lui quasi si aspettasse di vederlo esplodere da un momento all’altro; per questo si concentra ancora di più sul bordo della scrivania di Mikazuki. Non si vergogna di quanto ha fatto, né degli epiteti con cui ha dato spettacolo e vorrebbe dire a Izumi che non gli interessa affatto se questo gli abbasserà qualche punteggio della scheda di valutazione.
Un pezzo di carta non definisce chi lui sia.
Okita Souji invece è parte di tutto ciò che è ora.


Il primo ricordo che ha Kashuu è quello di una casa buia che viene abbandonata e poi di strade sporche, il tanfo dei rifiuti tutt’attorno e l’odore forte degli alcolici di cui anche sua madre abusava, insieme ai senzatetto che stavano con loro. Kashuu non ha mai conosciuto suo padre e di sua madre ha cancellato volutamente i pochi ricordi che aveva, lasciandoli scivolare via con l’età e pensando a lei meno possibile. L’ha persa, non sa dove e nemmeno quando di preciso: a un certo punto semplicemente lei non è più tornata da lui e lui non l’ha più cercata.
A quel tempo non ha impiegato molto a imparare che tra le persone che vivono per strada c’è una solidarietà contorta: l’unico momento in cui si difendono tra loro è solo quando le persone per bene li avvicinano con lo sguardo di chi li compatisce e li giudica, e non ci sono due cose che quelli come loro – come lui – odino di più al mondo. Ma per il resto, per strada ognuno vive per sé: nessuno si prende la briga di cercare da mangiare anche per te, di rubare per te o di cederti un posto un po’ più riparato quando la notte il freddo è insopportabile. Non esiste istruzione e non esistono regole civili, e Kashuu lo ha imparato in fretta che nessuno avrebbe mai fatto niente per lui; il concetto di “genitore” era un lusso che lui non si sarebbe mai potuto permettere e per questo lo aveva odiato con tutto il cuore. Ogni volta che un adulto lo avvicinava per chiedersi se si fosse perso o avesse bisogno di aiuto, si allontanava come un animale ferito.
I genitori ti amano. Lui non era stato amato nemmeno dalla donna che lo aveva messo al mondo: cosa mai avrebbe potuto dargli una persona qualunque?
Per questo quando Okita Souji lo ha preso con sé – e quando dice “preso”, Kashuu intende proprio prendere di peso – Kashuu ha cercato di rendergli la vita un incubo, convinto che così l’altro si sarebbe disfatto di lui. Quale persona sana di mente terrebbe con sé un ragazzino che è più una bestia che un bambino da accudire, dopotutto. Ma Okita non era una persona normale e questo Kashuu non lo ha capito per un pezzo, ritrovandosi a vivere con uno ragazzo che sembrava troppo giovane per potersi prendere cura di un bambino del genere, o di un qualsiasi altro essere umano.
Kashuu ricorda bene il suo rapporto con Souji prima che arrivasse anche Yamato in casa loro: le prime volte era scappato dalle finestre, e Souji era dovuto andare a recuperarlo in strada quando tornando non lo aveva più trovato. Aveva provato a iscriverlo a scuola ma spesso, quando andava a prenderlo, lo trovava messo nella sala delle insegnanti ad aspettare perché durante il giorno aveva litigato o picchiato qualche bambino. Souji cercava anche di spiegargli le cose che non andavano fatte ma, puntualmente, Kashuu le faceva nella speranza che Okita finalmente ammettesse di non volerlo con lui; contorta quanto la solidarietà che aveva imparato a conoscere vivendo in strada era stata la sua speranza di venire mandato via per non soffrire dopo.
Non mi vuole bene davvero”, si ripeteva a ogni gesto gentile che Souji gli rivolgeva – quando cucinava per lui Kashuu sapeva che si impegnava a scoprire sbirciando le sue espressioni cosa gli piacesse di più, e quando Souji lo costringeva a fare il bagno e rideva del modo in cui scappava, Kashuu si era accorto di trovare piacevole quella risata. Proprio per quello, mentre Souji gli lavava i capelli con tocchi gentili e gli spruzzava l’acqua in viso come se avessero entrambi sette anni, Kashuu a volte sperava di essere sporco abbastanza perché Okita Souji decidesse di gettarlo via.

Kashuu non ha mai dimenticato la prima volta che ha visto Okita arrabbiarsi con lui e sgridarlo seriamente. A volte pensa che se non fosse successo, probabilmente presto o tardi lui se ne sarebbe andato da quella casa per non tornarci mai più e la vita con Souji non sarebbe mai stata quella di una famiglia ma un periodo di passaggio, come quello con sua madre. Non ha mai dimenticato la fragile sicurezza per cui, da bambino, era convinto che sarebbe bastato combinare guai su guai perché Souji arrivasse a odiarlo e non sopportarlo più; così sporcava in giro, si rendeva antipatico e Okita sopportava come se fosse diventata una questione di principio, più testardo di un ragazzino e senza alcuna intenzione di dargliela vinta.
Kashuu ricorda bene la volta in cui ha esagerato rompendo i vetri della finestra, come Souji è corso a vedere a cosa fosse dovuto il rumore, l’espressione sul suo viso – “anche gli adulti hanno paura?” –, i passi veloci con cui lo ha raggiunto e il modo con cui lo ha preso per un braccio e tirato indietro. Ricorda la fretta con cui si è inginocchiato a terra e l’ha preso per le spalle, il modo in cui lo ha scosso e in cui lo ha sgridato; non un Souji dal tono caldo e controllato, non lo sguardo divertito e lo sguardo da ragazzino: «Ti sei fatto male? Ti sei tagliato?!» e Kashuu ricorda come Okita non abbia fatto altro che controllare ogni centimetro delle sue mani, come gli abbia cercato ferite sul volto, la frenesia e poi il sospiro sollevato nel non trovare nulla «Non farlo mai più Kashuu, mi hai capito?! Mai più!»
Lui non lo ricorda per una punizione o per la soddisfazione di averlo fatto arrabbiare. È solo che quella è stata la prima volta in cui Souji lo ha abbracciato, in cui qualcuno lo ha abbracciato e stretto così tanto da fargli male, come se lui dovesse sparire e quella fosse la cosa più spaventosa al mondo, dolorosa al punto da essere insopportabile.
Si è sentito amato. E, per la prima volta, ha pianto fino a temere di non avere più fiato nei polmoni – “non mandarmi via, non mandarmi via”.

Da quel momento, come se fosse scattato chissà cosa, vivere con Souji era diventato estremamente semplice. Nonostante Kashuu fosse davvero come un gatto selvatico difficile da addomesticare, con il tempo aveva imparato a fidarsi completamente dell’unica persona che sentiva di poter definire “famiglia”: mangiava con Souji, faceva il bagno con lui e soprattutto dormiva con lui. Quella era stata la cosa più difficile a cui abituarsi, perché il sonno era il momento in cui si era più vulnerabili e Kashuu aveva impiegato moltissimo tempo a scendere a patti con l’idea che si potesse condividere incautamente lo spazio con qualcuno in quei momenti. Ma Souji non faceva che cercarlo per tutta la casa e mettersi a dormire accanto a lui quando Kashuu era già addormentato; così al risveglio lo ritrovava a volte a dormire sul divano con lui, a volte per terra seduto vicino. Andando avanti così Okita aveva finito con il prendere la febbre, in inverno, così Kashuu una notte si era intrufolato nella sua stanza e sotto le coperte con lui, e anche se odiava quando Souji lo guardava come se l’avesse avuta vinta per l’ennesima volta, aveva tenuto una delle sue mani grandi nelle proprie.
«Souji» aveva mormorato piano «non morirai perché hai la febbre, vero?»
«Chi è mai morto di febbre, stupido.» aveva ribattuto ridacchiando e liberandosi della sua presa per stringerselo addosso. Kashuu ricorda che il corpo di Okita era così caldo che, da moccioso quale era, aveva pensato che sarebbe andato a fuoco. Ma si era accoccolato lo stesso, perché era molto meglio di qualsiasi coperta avesse mai avuto da quando viveva con lui – il respiro di Souji era l’unica cosa che riusciva a calmarlo: un suono regolare, sembrava dirgli che sarebbe andato sempre tutto bene.
E anche se non lo chiamava “papà”, era ciò che in fondo Souji era per lui – e ciò sarebbe diventato anche per Yamato non molto tempo dopo. Era stato difficile abituarsi a una persona, farlo con una seconda era sembrata una cosa impossibile; ci erano voluti mesi perché tra loro si instaurasse un rapporto decente e dopo neanche un anno era bastato l’arrivo di un secondo ragazzino in quella casa per far precipitare tutto, almeno nella testa di Kashuu. Per molto tempo Yamato era stato tutto ciò che aveva odiato in casa propria o a scuola: Yamato era un ragazzino tranquillo, bene educato, persino timido, tutto ciò che Kashuu non era e che non sarebbe mai stato. Perché Yamato era stato cresciuto almeno per un po’ dai suoi veri genitori, dentro una bella casa e invece lui era un bambino di strada. Perché mai Souji avrebbe dovuto preferire lui a Yamato? Di sicuro, pensava, ora che c’era lui Souji si sarebbe reso conto di quanto non valesse la pena tenere lui.
Non era stato facile capire che Yamato era solo quanto lui, e che forse nemmeno Souji con tutto l’amore del mondo avrebbe mai potuto capirlo quanto Kashuu. Perché, e Kashuu aveva impiegato anni a capirlo sul serio, solo chi è stato abbandonato comprende cosa si provi a rimanere soli a quel modo.
E quando anni dopo Kashuu aveva chiesto a Souji perché avesse preso Yamato con sé, la riposta che aveva ricevuto lo aveva fatto sorridere e si era ritrovato a pensare che fosse proprio da lui una cosa simile – “ovviamente è per farti dispetto”, aveva detto “ora tocca a te farti in quattro per proteggere qualcuno della famiglia, Kashuu. Vedrai che sarai un gran fratello maggiore!”.
Non importava che lui e Yamato avessero la stessa età; Kashuu aveva capito che ciò che Okita gli stava donando era una persona da amare.

A Kashuu non ci è voluto molto per capire di non essere portato a dimenticare; è bravo a fingere di dimenticare, a fingere che non importi, ma importa sempre alla fine e lui ricorda tutto, ricorda sempre, ricorda troppo – tutte le volte che le parole di Okita lo hanno salvato, il tempo impiegato a capire davvero quanto importante fosse Yamato per lui, sua madre. Dice di averla dimenticata e sì, ovviamente i suoi lineamenti sono una massa informe nella sua memoria, però non è vero quando sostiene di averla dimenticata. Ricorda, perché lo spasmodico bisogno di essere amato è iniziato probabilmente con lei e per lei.
Per questo, nel bene o nel male, ricorda con troppa chiarezza ogni singola volta in cui negli anni passati Okita ha fatto di tutto per non perdersi mai niente della vita sua e di Yamato: mai un evento sportivo, mai un festival scolastico, un colloquio con gli insegnanti, le lezioni aperte ai genitori. C’è sempre stato ai compleanni, durante il Natale, per il più piccolo e insignificante dei pupazzi di neve, ogni volta che uno di loro due aveva la febbre. Okita era il tipo di persona stupida abbastanza da decidere che fino ai loro rispettivi dodici anni fosse perfettamente sensato ignorare la presenza di una camera abbastanza grande per lui e Yamato, al solo scopo di dormire in tre in un letto matrimoniale comprato appositamente, vista l’assenza di compagne fisse nella vita di Souji.
Kashuu ricorda anche di quanto ha sentito l’uomo che lo ha cresciuto – suo padre – parlare con Izumi e dirgli che se gli fosse successo qualcosa, Kanesada si sarebbe dovuto prendere cura di loro due.
«E vorresti lasciarmi quei due mocciosi? Scordatelo, Souji, non ti azzardare!»
«È un discorso ipotetico, Kashuu e Yamato sono troppo carini perché io li lasci a un buzzurro come te, Kane-san
Che padre stupido”.
Che figlio stupido, a non capire che quello fosse il principio di un addio. Anche questo Kashuu se lo ricorda bene, ma quando lo pensa è già troppo tardi. Sarebbe bello riuscire a dimenticare tutto quello che vuole, invece il karma lo odia e le cose che meno vorrebbe ricordare sono quelle impresse nella sua mente senza possibilità di liberarsene. Sarebbe bello non avere sempre addosso la sensazione di umidità delle strade buie in cui è vissuto per un periodo così breve della propria vita, che tutto dovrebbe sparire come polvere e non avere importanza.    
Invece mentre corre se lo sente penetrare nelle ossa, perché anche se non fa caso a dove va forse sta passando proprio vicino al vicolo in cui Okita lo ha preso in braccio per portarlo via da lì – non sarebbe strano, in fondo, perché le cose orribili tornano sempre a tormentarti quando tutto il resto va male. E non sarebbe ironico, sentire il tanfo di quella parte della sua vita soffocarlo quando già respirare è così difficile?
È facile correre per scappare come sta facendo lui adesso. È facile più di quanto non sia correre verso il problema, perché l’istinto di allontanarsi dalla sofferenza è sempre troppo forte. Ma lui, Kashuu, non ha potuto: avrebbe voluto correre verso l’ospedale, con la paura, chiedendosi se non sarebbe stato meglio tentare la fuga una volta di più quand’era bambino e risparmiarsi tutto ciò che invece ha avuto, tutto ciò per cui ha ringraziato, tutto ciò che ha amato. Invece non ha potuto. A lui è toccato una telefonata e la voce di Izumi – «Kashuu ascoltami. Devi ascoltarmi bene, d’accordo?» – e l’unica cosa per cui ora può correre è scappare dal pensiero che nemmeno Yamato in ospedale ha potuto salutare Okita per l’ultima volta, che quella sensazione che lo divora dentro forse la sta provando anche lui.
Scappa dal pensiero che Souji non tornerà mai più, ma quando entra in casa faticando a respirare come se l’aria fosse fatta di piombo, quando si accascia contro la parete e si lascia cadere di mano la busta del conbini contenente i gelati per loro tre, la verità lo colpisce con un pugno in faccia.
Souji non tornerà mai più.
Souji non è più in vita.
Souji non c’è, Souji lo ha abbandonato, e lui non ha potuto nemmeno dirgli addio, non ha potuto dirgli nemmeno una volta quanto gli sia grato, quanto si sia sentito amato, quanto nessuno sarà mai in grado di essere nemmeno l’ombra di ciò che è stato lui.
Nel momento in cui lo capisce davvero, odia ogni stanza di quella casa e urla, perché non è giusto, perché non può finire così; la vita non può prenderlo per il culo in questo modo, non può prendere e strappargli di mano ogni cosa bella che ha. La vita, il karma, non gli importa chi sia il responsabile ma non vuole lasciar andare di nuovo qualcosa, ne ha abbastanza di un mondo che si sgretola in continuazione, è stanco di raccogliere i pezzi e non porteli mettere a posto.
Se il suo mondo deve andare in pezzi allora lo distruggerà lui a mani nude e chi se ne frega se tutti i soprammobili che con un colpo fa finire a terra sono ricordi di Okita, non gli importa se sta camminando scalzo sui vetri e aveva promesso a Souji che non lo avrebbe fatto mai più quando era un bambino, perché tanto non ci sarà Souji ad arrabbiarsi, non ci sarà e di una casa in cui Souji non c’è lui non ha alcun bisogno.
«Kashuu!» non è la voce di Souji, e allora perché mai dovrebbe ascoltarla? «Kashuu smettila! Yamato, aiutami a tenerlo fermo!»
Yamato non gli basta, non gli basterà mai. Ne è convinto soprattutto quando lui gli prende il viso tra le mani e gli grida di smetterla, e quello che trova sul suo viso è così tanto dolore che persino guardarlo è insopportabile – eppure lo guarda comunque e capisce che è vero.
Sono rimasti soli.  


Urashima ricorda il giorno in cui ha conosciuto Kashuu: era il primo giorno della terza elementare, le classi erano state mischiate e l’insegnante aveva dato tempo a ognuno di loro di presentarsi al resto dei compagni. Quando era stato il suo turno Kashuu si era alzato in piedi e aveva pronunciato un semplice: «Sono Okita Kashuu.» dopo il quale si era seduto di nuovo. Tutti, compreso Urashima, erano rimasti sorpresi da una presentazione tanto povera di dettagli e lui si era incuriosito.
Kashuu non è mai stato il tipo che ama parlare di sé con persone che non sono interessate in maniera genuina, e il problema principale sta nel fatto che è lui stesso a giudicare quanto “genuina” sia la curiosità altrui, il che ha sempre comportato un cernita piuttosto marcata che spesso non ha lasciato persone da cui farsi conoscere. Urashima è convinto che ad aver convinto Kashuu sia stata la sua insistenza, che alla fine si sia arreso perché assecondarlo era più facile che cacciarlo via. Di qualunque cosa si sia trattato Urashima è felice di averla sfruttata fino in fondo, perché una volta rientrati nelle sue grazie Kashuu è il tipo di amico che non ti abbandona – anche se si lamenta un sacco. Se prova a pensarci, ricorda solo due momenti bui della vita di Kashuu da quando l’altro fa parte della sua esistenza: l’inizio, quando avvicinarlo era un incubo e farlo sciogliere una missione impossibile, e la morte del suo padre adottivo. Anche Urashima l’ha conosciuto e lo ha pianto, ma le condizioni in cui erano finiti Kashuu e Yamato sono una cosa che spera di non dover vedere mai più nella propria vita. Lui sa quanto abbiano impiegato a uscirne e quanto, in fondo, entrambi non ne siano mai usciti del tutto nemmeno ora.
Per questo non rimpiange di essersi messo in mezzo alla scazzottata in corridoio e non ha intenzione di scusarsi  come se fosse colpa loro. Era stato già difficile trattenersi di fronte alle battute squallide che erano state rivolte a Midare – e lo ha capito benissimo che il motivo per cui a rispondere e a mettersi in mezzo è stato Kashuu è anche la sua cotta poco segreta per Toushirou. Kashuu lo prende in giro dall’inizio dell’anno e sa meglio di chiunque altro quanto Urashima voglia sinceramente bene a Midare. Senza contare che nonostante lo neghi, lo stesso Kashuu gli è affezionato.
Ma a fargli perdere del tutto la pazienza era stato vedere lo sguardo di Kashuu e Yamato di fronte alla provocazione di quei tre idioti.
Forse tuo padre avrebbe dovuto insegnarti a scegliere le amicizie, Okita”, “Magari non era nemmeno granché come padre” gli era bastato per capire che era stato troppo, e che niente di ciò che gli avrebbe potuto fare lui sarebbe mai stato peggio di quanto potesse fare Yamato – Urashima lo ha visto perdere il controllo una sola volta e ha capito con terrore che per quanto sia la persona più gentile del mondo in condizioni normali, ci sono cose per cui può diventare estremamente pericoloso: le uniche due persone con cui abbia mai condiviso e condivida tuttora il cognome.   
«Va bene.» decreta Mikazuki, interrompendo lo scambio anche troppo acceso tra Izumi e Kashuu «Ho ascoltato entrambe le versioni. È opportuno che ognuno di voi consegni le proprie riflessioni al responsabile della sua classe, domani.» dà disposizioni con quel sorriso diplomatico che Urashima si chiede se si incrini mai. Ha l’inquietante sensazione che potrebbe essere come il sorriso Yamato, e decide che non vuole scoprire che effetto faccia quando Mikazuki mostra di essere arrabbiato o irritato.
Sono i primi a uscire, o meglio, Ichigo, Izumi e Nagasone li seguono poco dopo ma vengono trattenuti per qualche momento ancora da Ishikirimaru; distanti da loro, Urashima si trova a disagio in un silenzio che non è mai stato loro compagno quando stanno insieme durante il pranzo o tornando a casa. Midare non ha mai alzato lo sguardo da terra per tutto il tempo, nemmeno quando Mikazuki gli ha chiesto la sua versione dei fatti.
È incredibile come, a volte, si compiano gesti senza nemmeno essere tutti d’accordo: Urashima lo pensa quando sia lui che Kashuu stringono una delle mani di Toushirou nella propria – «Sono degli imbecilli, lasciali stare.» pronuncia il suo migliore amico e Urashima sorride, perché sa che è il modo in cui Kashuu ti sta vicino. Yamato che non ha aperto bocca se non quando interpellato punta lo sguardo su Midare a propria volta e dalla propria posizione Urashima non fatica a notare che le sue dita sono intrecciate a quelle di Kashuu, anche se il significato della loro stretta è molto diverso, più intimo.
«Perché non mangiamo qualcosa tutti insieme, stasera?» propone Yamato, con un accenno di sorriso «Sono sicuro che anche se è molto arrabbiato con Kashuu, Kane-nii non rifiuterà degli invitati. Possiamo cucinare per scusarci insieme.»
«Se non è arrabbiato anche con te è solo perché io e Urashima abbiamo evitato il peggio. Dovresti essere tu a cucinare per noi.» sbotta Kashuu con un broncio che strappa finalmente un sorriso persino a Midare, mentre annuisce piano – o forse è lo scappellotto di Izumi che, implacabile, si abbatte sulla nuca di Kashuu. Quando li guarda Urashima pensa che non abbiano nulla da invidiare a qualsiasi altra famiglia.  
Stringe un poco di più la mano di Midare.

 

 

 

   
 
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