Serie TV > The Walking Dead
Segui la storia  |       
Autore: Blakie    10/08/2015    5 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
And we'll be good CAP 1


And we'll
be good



Nonostante Noah fosse scosso per quello che aveva passato, insistette ugualmente per guidare. Ed io, seduta di fianco a lui, non potevo far altro che guardarlo preoccupata.
Il viaggio verso Richmond, Virginia, per ritrovare sua madre ed i suoi fratelli era stato inutile, purtroppo. Il vicinato in cui viveva e che, in teoria, era protetto da alte mura, non aveva retto all’avvento del nuovo mondo. Una volta scavalcati gli ostacoli, si era presentato davanti a noi uno scorcio tranquillo, silenzioso. E ciò non aveva presagito nulla di buono.
Sembrava una delle tante città fantasma che già troppe volte avevo incontrato, più che il tranquillo quartiere di Shirewilt Estates.
Avevo guardato Noah, che se ne stava al mio fianco con la fronte corrugata dalla preoccupazione ed il corpo rigido.
«Credi che–», avevo provato a dire, ma non mi aveva dato il tempo di completare la frase.
«Andiamo. Casa mia è poco distante dalle mura», aveva detto, con un tono talmente spento che non avevo trovato la forza di replicare.
Rafforzando la presa attorno alla pistola, lo avevo seguito, sperando con tutta me stessa che quella ispezione portasse a qualcosa di buono per Noah.
Le strade erano deserte e disseminate di cadaveri, ma lui aveva continuato a stringere i denti nonostante le lacrime che gli rigavano le guance scure, diretto verso casa sua.
Forse sua madre e i suoi fratelli si sono salvati, avevo pensato. Forse…
Le mie speranze si erano infrante definitivamente quando, entrati in casa sua, la prima cosa che avevamo visto era stato proprio il corpo di sua madre, riverso a terra e senza vita.
«N-No…», aveva sussurrato Noah, guardando la scena davanti a lui con gli occhi sbarrati e pieni di lacrime.
Mi ero avvicinata con uno slancio, stringendogli la mano e posandogli la fronte contro la spalla, premendo per fargli avvertire la mia vicinanza. «Mi dispiace tanto» erano state le uniche parole che erano riuscite a vincere il nodo che avevo in gola.
Era crollato per terra, singhiozzando, prendendosi la testa tra le mani e accucciandosi su se stesso. Ero rimasta in piedi in caso di necessità, pronta ad attaccare, ma la mia mano non ci aveva messo molto a trovare la sua spalla per stringerla. Gli occhi avevano iniziato a pizzicarmi, era stato insopportabile vederlo così.
Potevo capire come si sentiva ad aver perso la sua famiglia, ma in realtà non potevo comprendere fino in fondo il suo dolore. Lui non li vedeva da un tempo troppo lungo, non era con loro quando il peggio era successo. Aveva passato un anno lontano, senza sapere, aggrappato solo alla speranza che fossero ancora vivi e alla paura che non fosse così. Anche io avevo perso un padre, una madre ed il resto della mia famiglia, ma ero stata talmente fortunata, a differenza di Noah, da passare ogni minuto del mio tempo con loro, prima della fine. Solo di Maggie non sapevo nulla, e pensarci fu inevitabile.
Con cautela mi ero avvicinata al corpo della madre e, vedendolo più da vicino, avevo notato il cranio completamente sfondato, aperto, il sangue incrostato e nero che scendeva fino alla spalla. Poco distante c’era una stola, che usai per coprire il corpo in segno di rispetto.
«Riposa in pace», avevo sussurrato, conscia del fatto che, ormai, stava riposando da tanto tempo.
Avevo rischiato di fare la stessa fine una volta entrata in quella che doveva essere la camera dei fratellini di Noah. Uno dei gemelli mi era piombato addosso dal nulla, pronto a mordere, la follia negli occhi e la bramosia che smuoveva quel corpo morto che si esprimeva nei versi tipici dei vaganti.
Dallo spavento ero inciampata in un giocattolo lasciato a terra, e mi ero ritrovata a dover resistere all’irruenza del bambino, trattenendolo lontano da me per le spalle.
Noah, attirato dal mio urlo e dai ringhi era accorso in mio aiuto, piantando la parte più appuntita della riproduzione di una navicella spaziale nel cranio di suo fratello.
Quella volta era stato lui a coprire il cadavere con un lenzuolo, l’espressione addolorata ma ferma, presente.
«Finalmente può riposare», gli avevo detto sorridendo, per confortarlo.
Aveva risposto al mio sorriso, aggiungendo: «Andiamo, è pericoloso stare qui».
Prima di lasciare quel quartiere, avevamo cercato più provviste possibili sia in casa sua che in quelle dei suoi vicini: quella zona, fortunatamente, era abbastanza povera di erranti. Ne avevamo abbattuti cinque o sei, prima di correre di nuovo al lato delle mura dietro al quale avevamo lasciato il pick-up.
Ed eccoci lì, di nuovo in fuga verso un posto sicuro, di nuovo in viaggio senza una meta precisa.
Eravamo stati abbastanza fortunati con le provviste: diversi barattoli di cibo in scatola, bottiglie d’acqua, vestiti puliti, carburante e acqua per il motore. Il tutto raccolto in due grandi borse che ci avrebbero permesso di stare tranquilli almeno per una settimana, prima di cercare nuovi approvvigionamenti.
«Il tuo vicino era appassionato di armi, vedo», dissi, lanciando un’occhiata al fucile d’assalto sistemato nel sedile posteriore, che godeva della compagnia di un fucile a pompa, una pistola automatica e diverse munizioni.
Stiracchiò un sorriso. «Il signor Spencer era leggermente fuori di testa e molto paranoico. Il classico vicino che esce di casa imbracciando il fucile a canne mozze e minacciandoti di morte perché gli hai sfondato la finestra col pallone», replicò, tenendo gli occhi sulla strada.
Ridacchiai, abbassando il finestrino e godendomi l’aria che stava iniziando a rinfrescare l’abitacolo. «Dove credi che dovremmo andare adesso?», domandai poi, seria.
Non mi piaceva per niente l’idea di continuare a viaggiare soli, nonostante fino a quel momento fossimo riusciti a cavarcela. Mi sforzavo spesso di pensare “meglio in due che da sola”, ma la verità era che, tutte le volte che non eravamo al sicuro in macchina, avvertivo l’angoscia attanagliarmi lo stomaco.
Io... Io avevo paura. Guardavo i vaganti arrivare, circondarci, e dovevo reprimere il terrore per rimanere lucida e affrontarli, assieme a Noah. Mi sentivo sola, sentivo che io e Noah eravamo soli. E mi mancava il mio gruppo, la mia famiglia; mi mancava essere circondata da così tante persone sulle quali contare per affetto, protezione, gioco di squadra. Io e Noah, inutile negarlo, non eravamo fisicamente forti come molti di loro; non eravamo combattenti esperti come Rick, Michonne, Glenn, Carol o Daryl.
Daryl…
Solo con lui, nonostante avessimo viaggiato in due, mi ero sentita
sempre al sicuro. Non solo perché conoscevo le sue innate capacità di sopravvivenza, ma perché – contro ogni aspettativa – il suo comportamento schivo, diretto e forte mi infondeva sicurezza. Sapeva quello che faceva, e voleva dimostrarlo anche alle persone che lo circondavano.
Mi mancava Daryl.
Mentre ero al Grady avevo pensato spesso ai giorni passati da sola con lui, e mentirei se dicessi che quei ricordi non avevano rappresentato per me un rifugio dolce in cui nascondermi, quando le cose non andavano ed il senso di prigionia si faceva sentire. Tutte le volte in cui mi ero sentita sola avevo pensato al gruppo, ma ancora più spesso al tempo che avevo trascorso con Daryl Dixon.
Conoscendolo, sapevo che si era messo alla mia ricerca, e quel pensiero mi destava preoccupazione perché, se fosse arrivato all’ospedale, avrebbe rischiato la vita inutilmente. Speravo che si fosse ricongiunto con gli altri, e che non avessero trovato tracce per raggiungermi.
Era frustrante non sapere dove fossero, non sapere se li avrei rivisti di nuovo.


«Tu non ti rendi conto, tutti quelli che conosciamo sono morti!».
«No, questo non lo sai!».
«Beh, è come se lo fossero, perché tanto non li rivedrai mai più!».


Il nostro discorso mi tornò in mente senza che potessi farci nulla, e speravo davvero che Daryl si fosse sbagliato. Non volevo che restasse da solo, non volevo. Volevo che in quel momento fosse con gli altri, al sicuro, insieme a persone a cui teneva e che tenevano a lui.
Quel pensiero mi faceva felice e mi sarebbe bastato. Mi bastava sapere che forse erano davvero di nuovo tutti insieme, poco importava se non li avrei rivisti mai più.
«Pensavo di andare verso Washington», rispose dopo un po’ Noah, ridestandomi dai miei pensieri.
«Perché Washington?», domandai, incuriosita.
«È la città più grande che possiamo trovare da qui in avanti. Forse hanno resistito, o forse possiamo incappare in qualche rifugio in cui trascorrere l'inverno», ipotizzò.
L’idea, in tutta sincerità, mi allettava, ma una parte di me voleva ancora cercare la mia famiglia. Una grande parte di me lo voleva. Io sapevo che non erano morti, sapevo che prima o poi si sarebbero ricongiunti e avrebbero ripreso ad intraprendere lo stesso cammino. Noah ed io non eravamo in grado di resistere troppo a lungo vagabondando, da soli, senza un posto sicuro in cui rifugiarci. Se a Washington avessimo davvero trovato una zona sicura o qualcosa di simile, avremmo potuto sistemarci e tornare indietro a cercare la mia famiglia, magari portando dei rinforzi con noi.
E avevo fede che, prima o poi, ci saremmo riuniti a loro, in un modo o nell’altro.
«Ci sto», dissi, sorridendo. «Però dovremmo riposarci per un giorno o due. È stato lungo il viaggio da Atlanta fino a qui», osservai. Ci avevamo messo quasi una settimana ad arrivare; se non avessimo dovuto preoccuparci di cercare provviste e rifugi, ci avremmo impiegato poco meno di mezza giornata.
«Appena troviamo un posto sicuro», annuì Noah.
Fuggiti dal Grady, non eravamo riusciti a fermarci nemmeno per un secondo, per paura che gli uomini di Dawn ci trovassero e ci riportassero alla prigionia. Noah aveva sentito dire che la gente era stufa della leadership di Dawn, e che presto avrebbero provato a rovesciarla. Sperai che, a quel punto, ce l’avessero fatta davvero.
«Quanto ci vuole a raggiungere Washington, da qui?», domandai.
«Senza troppi intoppi, un paio d'ore».
Annuii, pensierosa. «Possiamo trovare un posto in cui passare la notte, per poi ripartire domani mattina», proposi, contenta che Washington non fosse poi tanto lontana. Se la macchina avesse retto, sarebbe andato tutto bene.
«Aspetta, ma non volevi tornare indietro a cercare la tua famiglia?», domandò con apprensione. «Non voglio importi cose che ti ostacolerebbero».
Sorrisi, intenerita dai suoi riguardi. «Loro sono forti, sono sicura che stanno bene. E se sono riusciti a ritrovarsi, sono numerosi e al sicuro. A differenza nostra, che siamo solo in due», affermai.
Mi lanciò uno sguardo preoccupato. «Sei sicura?».
«Assolutamente sì. Se saremo tanto fortunati da trovare ciò che cerchiamo, potremmo addirittura andarli a cercare aiutati da altre persone. Mal che vada, due ore di macchina non sono poi così tante per tornare indietro a cercarli», risposi, sorridendo.
Tolse per un secondo gli occhi dalla strada, rivolgendomi un'espressione poco convinta che trovò il mio sorriso – speravo – rassicurante: la questione era chiusa.
A metà pomeriggio, appena fuori Richmond, incappammo in un vecchio motel abbandonato, che sembrava abbastanza deserto. Nascondemmo il pick-up in un vecchio garage lì vicino e ci incamminammo con cautela all'entrata del motel. Perlustrammo il perimetro del cortile in cerca di qualche vagante, e ne abbattemmo due senza difficoltà. Decidemmo di sistemarci in una camera al pianoterra, così, se ci fosse stata la necessità, saremmo riusciti a correre fino all'auto più facilmente.
Sistemammo due sedie davanti alla porta, unendole tra loro con una corda alla quale avevamo appeso dei vecchi cerchioni e barattoli che avevamo trovato mentre cercavamo provviste. Era un trucco che utilizzavano sempre Daryl e gli altri per essere avvertiti nel caso un vagante si fosse avvicinato troppo al nostro rifugio; riprodurre quell'espediente senza di loro mi provocò un piccolo tuffo al cuore.
Sistemate le sedie, ci barricammo nella stanza, posizionando la piccola scrivania contro la porta e oscurando le finestre con i camici del Grady.
Era da un po' che non riposavamo su un letto, perciò non ci pensammo due volte a coricarci sul matrimoniale con sbuffi di soddisfazione, senza però lasciare andare le armi.
Chiusi gli occhi, respirando profondamente e sorridendo tra me e me. Rimanemmo in silenzio per non so quanto, ma non c'era bisogno di parlare. Noah non si era fermato un attimo da quando avevamo scoperto il terribile destino di sua madre e dei suoi fratelli, perciò volevo dargli il tempo di elaborare, per quanto possibile, quello che aveva passato.
«Non vergognarti», sussurrai, fissando il soffitto.
«Cosa?», domandò, la voce piatta.
«Se senti il bisogno di piangere, sfogalo. Non vergognarti», chiarii, voltando la testa alla mia destra, per guardarlo.
Lui non rispose, fissandomi per qualche secondo. Il suo sguardo era così addolorato, così stanco... si voltò dall'altro lato, dandomi le spalle. Con gli occhi al sicuro dai miei, scoppiò a piangere, singhiozzando piano e stringendo le ginocchia al petto. Osservai la sua schiena e le sue spalle sussultare e, lentamente, mi avvicinai a lui, poggiando la testa sul suo cuscino e la fronte contro la sua spalla.
Pianse per molte ore, ininterrottamente; quando crollò, esausto, le fessure che i nostri camici non erano riusciti a coprire facevano entrare le luci soffuse del tramonto. Mi alzai dal letto, attenta a non svegliarlo, e controllai la situazione nel parcheggio del motel: sembrava tutto tranquillo. Sperai con tutte le mie forze che sarebbe stato così anche durante la notte e la mattina dopo.
Quando Noah si risvegliò dopo un paio d'ore, consumammo la nostra carne essiccata e bevemmo un po' d'acqua, con parsimonia. Non eravamo sicuri che a Washington avremmo trovato quello che cercavamo, perciò dovevamo far durare le nostre scorte il più possibile.
Fortunatamente nel piccolo bagno della stanza c'era ancora un po' di acqua corrente, perciò, dopocena, ne approfittammo per rinfrescarci, a turno. Sistemammo le nostre borse vicino alla porta, in modo che, la mattina dopo, fosse stato tutto pronto per partire senza ulteriori indugi.
La notte calò e trascorse abbastanza tranquilla, anche se non riuscii a chiudere occhio, se non molto tardi. Non sapevo se Noah fosse riuscito a dormire, perché mi aveva dato le spalle tutta notte, perso nel suo lutto.
Alla mattina, dopo aver fatto una scarsa colazione, guardammo fuori dalla finestra e scoprimmo che tre vaganti si erano radunati nel cortile durante la notte: non erano molti, potevamo cavarcela se avessimo agito con velocità e precisione. Provai ad ignorare il nodo in gola causato dalla paura che quelle situazioni mi mettevano, e mi sforzai di concentrarmi.
Misi in spalla una delle due borse e Noah prese l'altra, imbracciando il fucile che si era portato dietro, mentre spiava i vaganti.
«Se ci sbrighiamo a raggiungere il pick-up, possiamo anche sparargli da lontano», affermò, la voce intrisa di concentrazione e fermezza.
«Speriamo che il rumore non ne attiri altri», mormorai, guardando anche io fuori dalla finestra.
«Se anche dovesse succedere, saremmo già a bordo del pick-up», ribatté, sforzandosi di sorridere.
Decidemmo di sparare ai vaganti dalla finestra, liberare la zona e correre il più velocemente possibile verso il pick-up. Una volta abbattuti, aspettammo qualche secondo per vedere se ne sarebbero arrivati altri; quando fummo certi di essere al sicuro, aprimmo con cautela la porta, scavalcando la corda tra le sedie cercando di non farla muovere. Ci osservammo intorno e, guardinghi, corremmo verso il capannone dentro al quale avevamo nascosto il pick-up.
Sul tetto di quella piccola costruzione erano cresciuti muschio e rampicanti, che funsero da perfetta copertura al nostro mezzo; ci eravamo curati persino di sporcarlo per farlo sembrare fuori uso, nel caso qualcuno avesse cercato di prenderlo.
«Sali a bordo, Beth», disse Noah, sottovoce ma concitato. Strappò velocemente i rampicanti dal tetto, in modo che fosse più facile uscire da lì, ma improvvisamente un vagante fu alle sue spalle, trascinandolo per terra. Afferrai il coltello che mi portavo sempre appresso e lo estrassi dal fodero, scendendo in fretta dal posto del guidatore.
Noah era a terra che tentava di mantenere le fauci del non-morto accasciato sopra di lui lontano dal suo collo, prendendolo per le spalle. Piantai il coltello nel cranio del vagante, e Noah spinse via la carcassa con un verso strozzato.
Gli presi la mano per aiutarlo a rialzarsi. «Tutto okay?».
Lui guardò il cadavere ai suoi piedi, respirando pesantemente. «Sì, grazie mille», rispose, cercando di tranquillizzarsi.
Con un movimento secco del braccio, tagliai di netto metà della “tenda” che i rampicanti formavano, occupandomi poi del resto. Rinfoderai il coltello e salii di nuovo al posto di guida, mettendo in moto e partendo alla volta di Washington.
«Sei sicura che vuoi guidare tu?», domandò Noah con tono spento.
«Tu hai guidato molto più di me, dovresti rilassarti un po'», lo rassicurai, sorridendo.
Per qualche secondo non disse nulla, ma non me ne preoccupai. Avevo notato che era diventato più silenzioso da quando eravamo stati a Richmond, ma era comprensibile.
«Tu ce la faresti anche senza di me», disse, all'improvviso. Nella sua voce ero riuscita ad udire un misto di ammirazione e frustrazione.
Gli lanciai uno sguardo veloce, per mantenere gli occhi sulla strada. «Non dire sciocchezze, Noah. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra», ribattei, accorata.
Gli sfuggì una risata amara. «Non è vero. Tu sei forte, Beth, molto più forte di me. Se mi lasci da solo per mezzo minuto vengo aggredito da uno di quegli esseri», disse, con disgusto.
«Sai quante volte mi sono distratta io, mettendo in pericolo me e...», mi bloccai, il nome di Daryl sulle mie labbra e il suo ricordo a pesarmi sul cuore. «...chi era con me? Tante. Non devi sottovalutarti, così come non devi sopravvalutare me».
«Però vuoi lo stesso andare a Washington, perché credi che io e te qua fuori non ce la faremmo. Non sei al sicuro con me, Beth. Non sono riuscito a proteggere mia madre ed i miei fratelli, figurati se riuscirei a tenere al sicuro te!», disse con rabbia. «Per questo vuoi arrivare là il prima possibile e trovare aiuto in qualcun altro. Hai le ore contate assieme a me».
Accostai con un gesto rabbioso ed uno stridore di ruote, tirando il freno a mano e mi voltai di scatto verso di lui.
«Smetta di dire queste cose!», esclamai alterata, incontrando finalmente il suo sguardo.
«Perché?!», domandò concitato, allargando le braccia.
«Perché sono tutte cazzate, Noah!»
Rimase interdetto dal mio eccesso d'ira, fissandomi incerto e con gli occhi spalancati. In effetti, per lui che mi aveva conosciuta come la dolce e gentile Beth, doveva essere stato strano sentirmi parlare in quel modo.
«Quello che hai trovato a Richmond ti ha sconvolto, lo capisco. Ma sbagli ad insinuare di essere tu il responsabile di quello che è successo a tua madre e ai tuoi fratelli, perché non è così. È Dawn che ti ha rinchiuso in quel maledetto ospedale per un anno, è colpa sua se non sei riuscito a tornare prima. È colpa di Dawn se non ho potuto ricongiungermi col mio gruppo. Non è colpa tua, e nemmeno mia, se siamo stati separati dalle nostre famiglie – sentii gli occhi riempirsi di lacrime e un nodo stretto stringermi la gola – non è colpa nostra se qualcuno che amavamo è morto. Entrambi abbiamo perso qualcosa di importante ed entrambi abbiamo bisogno l'una dell'altro per andare avanti.
Insieme siamo forti, okay? E invece che pensare a quello che non hai fatto, pensa a quello che hai fatto: non saremmo qui, non saremmo liberi, se non fosse stato per il tuo piano!».
Presi una pausa per respirare e calmarmi, ignorando le lacrime che erano scese a bagnarmi le guance; mi passai il dorso della mano sul viso per asciugarle.
Noah era ancora immobile a fissarmi, anche se gli occhi gli erano diventati lucidi; una lacrima gli rigò il volto quando sbatté le palpebre.
«Stai già soffrendo abbastanza, non peggiorare le cose addossandoti colpe che non hai», dissi, piano, guardandolo negli occhi.
Le mie parole sembrarono colpirlo così tanto che non trovò nemmeno la forza di rispondere o replicare: si sporse verso di me e mi abbracciò, stretta.
«Non so se ringraziarti o chiederti scusa», sussurrò, stringendo la presa.
Ridacchiai, scostandomi da lui. «Se proprio devo, accetto il grazie».
Lui mi rispose con un sorriso e si rimise al suo posto, sospirando.
Guardai nello specchietto retrovisore, e notai che alcuni erranti si stavano avvicinando al nostro pick-up.
«Abbiamo compagnia; meglio andare», dichiarai.
La successiva ora e mezza di viaggio scivolò tranquilla e senza particolari intoppi. Noah sembrava riprendersi lentamente di minuto in minuto, e lo provò il fatto che conversammo come due ragazzi normali: mi parlò della sua vita prima, di storie divertenti che coinvolgevano suo padre e i suoi fratelli, di come era Noah nel mondo che conoscevamo; anche io gli parlai di me, della fattoria, della mia famiglia e anche di come avevo conosciuto il gruppo di Rick. Non so che espressione avessi in faccia quando iniziai a raccontargli di
loro, ma qualcosa che vide nel mio sguardo lo spinse a cambiare subito argomento.
Come uno scherzo di pessimo gusto fatto da qualcuno con un senso dell'umorismo orribile, il nostro pick-up iniziò a tossire e ad arrancare qualche miglia prima di Washington, in una zona fitta di boschi e zone rurali.
Tanto per cambiare.
«Merda, abbiamo trovato ricche scorte di carburante e ovviamente la batteria se ne va a puttane», berciò Noah, richiudendo il cofano con un colpo secco; vi appoggiò le braccia e si guardò intorno. «Non c'è neppure qualche macchina attorno, per vedere se possiamo sostituirla».
Il pensiero di non avere un mezzo di trasporto con cui cercare un riparo e riprendere a viaggiare a piedi mi fece ingarbugliare lo stomaco. «Proviamo comunque ad andare avanti, ci siamo quasi», proposi, cercando di nascondere l'ansia. «Non possiamo arrenderci ora».
E non ci arrendemmo: portammo sulla nostra schiena i pesanti borsoni in cui trasportavamo provviste e le armi armi di scorta per un numero imprecisato di chilometri. Per tre lunghissimi giorni vagammo per i boschi, in costante pericolo, scappando di giorno e non chiudendo occhio la notte, sempre in allerta, senza sapere se la strada fosse quella giusta.
Eravamo stanchi, demoralizzati e le provviste cominciavano a scarseggiare. Fu in un vecchio fienile che Aaron ed Eric ci trovarono.
Si avvicinarono piano, senza far rumore, come si fa nei confronti di animali che potrebbero spaventarsi. Quando fecero capolino dall'ingresso della struttura, io e Noah scattammo in piedi nello stesso momento, puntando contro di loro la pistola ed il fucile in un gesto automatico.
La sensazione di essere in trappola mi offuscò la mente per i primi secondi, a tal punto che non mi resi subito conto che i due sconosciuti non avevano, a loro volta, tirato fuori le armi: si erano semplicemente limitati ad alzare le braccia, con cautela, in segno di resa.
«Salve», esordì uno dei due, con un sorriso. L'altro, anche se più nervosamente, lo imitò.
«State indietro», li minacciò Noah, avvicinandosi di un passo allo sconosciuto. Guardai il mio amico con apprensione, poi il mio sguardo gravitò nuovamente sui due uomini di fronte a noi.
L'uomo continuò a sorridere, abbassando le mani. «Tu devi essere Noah, vero?».
Noah strabuzzò gli occhi, aumentato la presa attorno all'impugnatura del fucile. «Come sai il mio nome?», domandò, accorato. «Chi siete?! Cosa diavolo volete?!».
«Io sono Aaron», si presentò, conciliante. «E lui è Eric», proseguì, indicando l'interessato con un cenno del capo. «Non vogliamo farvi del male, vogliamo soltanto aiutarvi».
«Certo», commentai con scetticismo sprezzante. «Ci credi tanto sprovveduti?».
«Niente affatto, Beth», replicò Aaron con un sorriso. Un brivido mi risalì lungo la spina dorsale e sussultai, inquieta. «Siete tutt'altro che sprovveduti e abbiamo avuto modo di vederlo, in questi giorni».
«Ci hanno spiato», mormorò Noah, incredulo.
«Sì», ammise Eric, «Ma non è come pensate. Non abbiamo cattive intenzioni, tutt'altro: vogliamo solo aiutarvi», ripeté.
«Se avessimo voluto attaccarvi lo avremmo già fatto, non credete? Vi avremmo presi alla sprovvista, puntandovi addosso un'arma come state facendo voi», disse Aaron, senza smettere di sorridere e cercando di essere il più convincente possibile.
«Siamo amici», aggiunse Eric.
In quel momento mi sorpresi ad elaborare un pensiero che fece capolino nella mia testa in modo improvviso ed inaspettato:
cosa farebbe Daryl?
Non dovetti pensarci su molto: avrebbe intimato loro di andarsene e, se fossero stati tanto stupidi da non ascoltarlo, li avrebbe uccisi lì dove si trovavano.
La nostra sicurezza prima di tutto, sempre: mai fidarsi delle altre persone, in un mondo del genere.
Mi sembrò quasi di sentire la sua voce avvertirmi ed ordinarmi di non fare stronzate, di non fidarmi di loro, per quanto potessero essere quasi rassicuranti i loro volti e i loro atteggiamenti. Potevano volerci fregare e quella poteva essere tutta una finta bene architettata... o forse no.
Dopotutto, non era stato Daryl stesso ad ammettere che stava iniziando a credere che esistessero ancora brave persone?

«Perché hai cambiato idea?».
Silenzio, ed uno sguardo talmente intenso che le parole non erano servite.
«Oh».

Al ricordo, il cuore mi si strinse in una morsa, che cercai di ignorare; studiai di nuovo Aaron ed Eric, apertamente, senza dire nulla.
Loro sembravano brave persone, decisamente.
Eppure, per una volta, decisi di riflettere prima, e mi sforzai di trovare un equilibrio tra la mia indole, troppo ingenua e ottimista, e quella di Daryl, sospettosa e diffidente.
Sorrisi ad Aaron ed Eric. «Immagino che non sia bello parlare a due persone che ti puntano una pistola in faccia», proferii.
Aaron ridacchiò. «Avete tutte le ragioni di farlo, non ci si può fidare degli altri in un mondo come questo. Nemmeno io lo farei. E comunque, ci siamo abituati».
Mai fidarsi delle altre persone, in un mondo del genere.
«Vi ascolteremo», dissi, guardando l'uomo negli occhi.
«Beth!», mi redarguì Noah, guardandomi scioccato.
Gli lanciai uno sguardo di rassicurazione. «Ad una condizione: dovete posare a terra tutto ciò che avete, armi comprese».
«I vestiti possiamo tenerli?», domandò Eric, sorridendo.
Una risata spontanea mi salì alle labbra. «Certo. Ma il mio amico dovrà comunque perquisirvi», ribattei in tono tranquillo.
«Niente in contrario», ribatté Aaron.
Dentro di me rimase la paura che ci fosse qualcuno, fuori dal capanno, pronti ad intervenire in caso di bisogno. Sperai che fossero solo loro due e che non fossero in maggioranza.
Si tolsero gli zaini e li posarono per terra, per poi dare una spinta col piede in modo che rotolassero a metà tra noi e loro, il tutto tenendo le mani alzate.
Con un cenno, diedi a Noah il benestare per iniziare a perquisirli: lo fece, ma non trovò nulla di sospetto addosso ai due uomini, che non smisero di sorridere nemmeno per un istante.
Noah si allontanò da loro e tornò al mio fianco, puntando di nuovo il fucile contro di loro. «Sembrano a posto», mi disse, poco convinto.
Lanciai ai due un ultimo sguardo, prima di abbassare la pistola. «Vi dispiace se tengo lo stesso in mano la pistola?», domandai, retorica. «Per sicurezza».
«Assolutamente no», rispose Aaron. Forse era la prima volta che gli veniva data la possibilità di parlare senza vedersi puntare addosso qualcosa.
«Bene», dissi, cercando di rilassarmi. «Volete accomodarvi?», chiesi, indicando la postazione vicino al fuoco con cui io e Noah cercavamo di combattere il freddo autunnale.
Ci sedemmo in cerchio, come in un normale falò. Noah continuava a mostrarsi sulla difensiva, rigido ma pronto a reagire in caso di bisogno.
«Allora, avete detto che volete aiutarci. Come?», domandai, senza troppi giri di parole.
«Avete un accampamento?», intervenne il mio compagno.
Aaron scosse la testa, più rilassato rispetto a quando era entrato. «No, viviamo in una vera e propria comunità, una piccola città eco-sostenibile protetta da mura di acciaio, che vive della risorsa più importante che possiede: le persone che la abitano».
Come al Grady, mi venne spontaneo pensare; mi irrigidii all'istante.
«Siamo appena fuggiti da un posto del genere», dissi in tono piatto. Sentii lo sguardo di Noah su di me, e non ebbi bisogno di guardarlo per capire che eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. «Costretti a vivere lì dentro senza possibilità di andarcene finché chi comandava non lo avesse deciso di sua spontanea volontà», aggiunsi, con tono disgustato e a pugni serrati. «È di questo che stiamo parlando?».
«No, Beth. La zona sicura di Alexandria non è niente di tutto questo», intervenne Eric, scuotendo la testa e parlando con tono rassicurante. «Nessuno è costretto a rimanere ad Alexandria, al contrario: chi non dà il proprio contributo alla comunità viene, ehm,
sollecitato ad andarsene. È una regola, una condizione per rimanere al sicuro, ma di certo chi arriva e decide di stabilirsi non ha debiti da saldare. Viverci - e accettare le condizioni - è una scelta, non un obbligo».
«Proprio così», commentò Aaron, guardando prima Eric e poi noi. «Alexandria è una comunità che funziona», continuò, con il tono che si usava per descrivere una terra promessa. «Ognuno degli abitanti ha un compito, un lavoro da svolgere che gli viene assegnato in base alle proprie competenze e capacità; in cambio gli viene data una casa, acqua corrente, elettricità, cibo e tutto quello che serve per vivere dignitosamente. Tutto questo al sicuro dal caos che vige qua fuori».
«Noah, per favore, guarda nello zaino di Aaron: dovrebbe esserci una busta con delle foto all'interno», disse Eric, indicando la sacca alle sue spalle. «Le foto vi faranno capire che non stiamo mentendo».
«Il vostro compito è cercare nuove persone da accogliere?», domandai ad Aaron, mentre Noah si alzava con cautela per prendere le foto.
«Esatto. Abbiamo iniziato ad osservarvi un paio di giorni fa, e ci siete subito sembrate due brave persone», rispose con convinzione. «È come se foste abituati a vivere qua fuori, come se sapeste come comportarvi di fronte ad ogni evenienza: sarebbe una risorsa enorme, per noi, avervi sotto la nostra protezione. Avremmo molto da imparare da voi».
Noah, che aveva già cominciato a sfogliare le foto, si fece più vicino per farle osservare anche a me. In quelle piccole immagini, che erano tutte in bianco e nero, c'era tutto ciò che Aaron ed Eric avevano decantato: mura alte e, all'apparenza, solide; case fotografate dall'esterno e che sembravano grandi ed accoglienti; una cisterna d'acqua enorme; una torre alta dalla quale si riusciva a vegliare su tutta la zona sicura; dei pannelli solari che garantivano una risorsa energetica praticamente inesauribile; una dispensa collettiva enorme e ben fornita, così come lo era il deposito di armi.
La zona sicura di Alexandria sembrava la concretizzazione di tutto ciò che io e Noah eravamo andati a cercare a Washington.
«Cosa ne pensi?», domandai a Noah in un sussurro, fingendo che Aaron ed Eric non fossero lì davanti a noi.
«Sembrano dire la verità», rispose, pensieroso. «Se rimaniamo qua fuori, moriremo. Se invece proviamo a fidarci, potremmo cadere in una trappola e morire comunque o...».
«Essere fortunati e trovare un posto sicuro in cui vivere», terminai, abbassando lo sguardo sulle foto. «Sei disposto a correre questo rischio?».
Dopo qualche secondo, rispose con un'unica parola: «sì».
Il mio sguardo corse prima a lui, poi ad Aaron ed Eric – che avevano assistito a quello scambio di opinioni senza proferir parola – ed infine alle foto che tenevo in mano: quella che ritraeva le mura era la prima del plico.
«Anche io».

~

Ci rimettemmo in viaggio non appena presa la decisione di fidarci, anche se rimanemmo comunque tesi e in allerta fino ai cancelli di Alexandria. Durante il viaggio non parlammo molto con Aaron, che guidava tranquillamente il SUV con il quale lui ed Eric – alla guida dell'altra auto – andavano in giro a reclutare le persone. Non so a cosa stesse pensando Noah che, in silenzio, se ne stava al mio fianco sul sedile posteriore, guardando fuori dal finestrino. Per quel che mi riguardava, non feci altro che sperare tra me e me di non aver fatto una cazzata a fidarmi, tutto il tempo. Mi sorpresi nuovamente a pensare a Daryl, a come si sarebbe comportato lui e, soprattutto, cosa avrebbe detto se mi avesse vista correre un rischio tanto grande riponendo la mia fiducia in persone che non conoscevo.
Sarebbe stato molto vicino a uccidermi, o forse non lo avrebbe fatto semplicemente per non negarmi il piacere di sentirlo inveire contro di me per la mia avventatezza. Immaginare il suo volto distorto dalla furia, però, mi fece sorridere; avrei anche accettato un'ora di insulti pur di averlo accanto a me, pur di vedere con i miei occhi che era vivo e che stava bene. Una piccola parte di me si domandò per quale strana ragione il mio pensiero corresse così spesso a lui, ma non ebbi il tempo di trovare una giustificazione o una risposta, perché la voce di Aaron mi distolse dai miei pensieri.
«Siamo arrivati», annunciò, voltandosi verso di noi per sorriderci.
Scendemmo dall'auto con cautela, le nostre borse ancora in spalla e le armi ben salde tra le dita.
Gli alti cancelli della zona sicura di Alexandria interrompevano bruscamente la strada che avevamo percorso in auto, ed era protetta ai lati dalla boscaglia che la contornava; anche dall'esterno si notava la stessa torre di guarda che avevo scorso sfogliando il plico di foto.
Aaron ed Eric si fecero riconoscere dall'uomo che stava di guardia al cancello d'ingresso, che era costituito da una solida grata che lasciava intravedere l'interno e da una lastra di acciaio che, invece, serviva ad oscurare la città a vaganti e umani.
«Nuove reclute?», domandò lo sconosciuto, con un ghigno.
«Nicholas», salutò Aaron con un cenno del capo, avnzando verso di lui mentre le barriere erano aperte. «Visitatori», lo corresse. «Ma io spero ardentemente che decidano di rimanere», aggiunse, voltandosi verso me e Noah, facendoci l'occhiolino. Mi venne da sorridere, spontaneamente.
Ci avvicinammo all'uomo che ancora imbracciavamo le pistole, quando con la mano fece fece segno di fermarci.
«Bellezza, devo chiederti di lasciarmi tutte le armi che hai», disse, guardandomi dalla testa ai piedi con un sorriso sghembo e lo sguardo viscido. «Anche a te, ragazzino», aggiunse poi con scherno, guardando di sfuggita Noah.
Chi distribuiva i compiti tra gli abitanti di Alexandria doveva essere straordinariamente bravo a comprendere chi fosse più tagliato per un certo ruolo di altri: se fosse stato Nicholas a trovarci in mezzo al bosco, non l'avrei mai seguito. Cercai di ignorare il disgusto per concentrarmi sulla sua richiesta, che aveva scatenato il panico dentro di me: cosa?! Dovevamo entrare in quel posto disarmati?! Guardai Aaron con gli occhi spalancati, in attesa di una spiegazione.
«Beth, fidati di me. Le armi non ti servono qui dentro», spiegò, col tono che si riserva ai bambini.
«Sono le nostre armi», intervenne Noah, alterato, sporgendosi in avanti.
«E rimarranno vostre: potrete usufruirne se andrete la fuori, in ogni momento; ma qua dentro non servono», replicò, in tono gentile ma fermo.
Come ci aveva ridotto quel modo, se non riuscivamo a pensare di vivere senza imbracciare un'arma?
Ignorando la parte di me che si opponeva a fidarmi di Aaron, allungai a Nicholas il borsone dentro il quale avevamo raccolto tutte le armi in nostro possesso: ignorai deliberatamente il ghigno vittorioso dell'uomo.
Aaron ci sorrise, come se fosse orgoglioso di noi e mi mise una mano sulla spalla. «Venite, vi porto da Deanna».
«Chi è Deanna?», domandò Noah, mentre Aaron iniziava a incamminarsi.
«La leader - se così si può definire - di questa comunità».
Mi fu impossibile evitare di pensare a Dawn e, scambiandomi una veloce occhiata con Noah, capii che nemmeno lui ci riuscì.
«La signora Monroe si occupa di assegnare i ruoli a chi vive qua dentro, e riesce a trovare il lavoro più adatto semplicemente parlando, chiedendo ad ognuno la propria storia. È straordinaria, non potremmo avere di meglio», continuò Aaron, senza nascondere l'ammirazione ed il rispetto che provava per la donna.
Aaron mi condusseda lei, da sola, e appena entrata in casa sua mi guardai attorno, girovagando per il vasto salotto: poche volte nella mia vita avevo visto case così eleganti e belle. Era la classica casa di città, così diversa da quella in cui ero cresciuta io.
«Ciao Beth, piacere di conoscerti», disse Deanna con voce soave, incurante del fatto che stessi curiosando in giro. Mi voltai di scatto, trasalendo dalla sorpresa.
«Salve, signora Monroe», risposi in un mormorio, rimettendo a posto il libro che tenevo tra le mani.
La osservai, ripensando alle parole di ammirazione che Aaron le aveva riservato: effettivamente, Deanna Monroe dava subito l'impressione di essere una donna tutta d'un pezzo, il volto rassicurante e l'atteggiamento deciso.
«Chiamami Deanna», ribatté, gentile, per poi sedersi su uno dei due sofà e indicandomi l'altro. «Prego, siediti».
Titubante seguii il suo consiglio, accomodandomi sul bordo del divano e stringendo le ginocchia tra le mani.
«Ti dispiace se filmo il nostro incontro?», domandò, e solo allora notai la telecamera ben sistemata sul cavalletto alle sue spalle. Scossi la testa.
«Allora, Beth, parlami un po' di te», mi sollecitò sorridendo, dopo aver capito che non avrei fatto il primo passo per iniziare la conversazione. «Da dove arrivate tu e Noah?».
«Da Atlanta», risposi, nervosa. Il suo sguardo attento e carico di aspettative mi metteva a disagio.
«Avevate un gruppo?», domandò, interessata.
«No. Cioé, non proprio», mi corressi. «Io avevo un gruppo, ma poi siamo stati divisi ed io ho finito per ritrovarmi a vivere nella comunità dove avevano imprigionato anche Noah»
.
Deanna alzò le sopracciglia. «Imprigionato?».
Annuii, abbassando lo sguardo. «Dawn, la leader, aveva il controllo sull'ospedale in cui vivevamo. Per come la vedeva lei, averci salvato la vita ci aveva messi nella condizione di esserle debitori. Avevamo un debito da saldare, lavorando nella comunità ed eseguendo ciò che ci veniva chiesto. Saremmo dovuti rimanere lì finché lei non avesse deciso di liberarci da quell'obbligo», spiegai, senza nascondere il disgusto.
«Poi cos'è successo?», domandò Deanna, sporgendosi inconsapevolmente verso di me.
«Siamo scappati», risposi, lapidaria.
I suoi occhi mi studiavano, pieni di ammirazione. «E siete riusciti ad arrivare fino a qui. Due ragazzi così giovani... Incredibile. Come avete fatto?».
«Il mio gruppo...», esitai un attimo, avvertento un groppo in gola. «Loro mi hanno insegnato a sopravvivere là fuori».
«Siete stati fuori per tutto questo tempo?», chiese di nuovo, lo sguardo ancora più sorpreso di prima.
«Quasi dall'inizio, ma è una storia lunga», tagliai corto. Non avevo voglia di ripensare a quando eravamo ancora tutti insieme, tutti vivi.
Papà...
«Lei invece?», domandai, per evitare che approfondisse la questione, più che per un interesse sincero. «Come è arrivata qui? Chi ha creato tutto questo?».

Se si accorse del mio intento di sviare il discorso, non lo diede a vedere. Mi raccontò invece che era stata un membro del congresso dell'Ohio che era stata rieletta. Quando era scoppiata la crisi, lei e la sua famiglia stavano cercando di tornare in Ohio, ma l'esercito li aveva fermati e condotti verso la zona che, già al tempo, era conosciuta come Alexandria Safe Zone. C'era, inoltre, un enorme centro commerciale in costruzione, vicino ad Alexandria, e lei e la sua famiglia avevano utilizzato i materiali del cantiere per costruire le mura attorno alla comunità. Man mano che il tempo passava, erano diventati sempre più numerosi: una comunità in piena regola, eco-sostenibile e autosufficiente.
«Perciò siete qui dentro dall'inizio», conclusi quando finì di parlare.
«Esattamente, Beth», asserì, lo sguardo deciso. «Per questo tu e Noah sareste un'enorme risorsa per noi».
«Noi non... Noi ce la caviamo, ma di certo non bene come la mia famiglia», ribattei, con la voce che si spezzò a fine frase.
«Dove sono loro? In quanti eravate?».
Avvertii gli occhi gonfiarsi di lacrime e guardai da un'altra parte, mordendomi un labbro. 
«Credo che siano ancora in Georgia... All'inizio non arrivavamo a venti persone, poi ci siamo stabiliti in una prigione e, essendo un luogo ben protetto, abbiamo iniziato ad accogliere altri sopravvissuti. Li andavamo a cercare, un po' come fanno Aaron ed Eric. Poi la prigione è andata distrutta e da lì ci siamo dispersi. Adesso non so quanti siano ancora vivi».
«La prigione è andata distrutta? Come?».
«La follia di un solo uomo può provocare danni enormi», risposi, atona. «Siamo come entrati in guerra con un'altra comunità, capeggiata da un omicida che si faceva chiamare Governatore. E' lui che ha iniziato tutto, è lui che si è presentato ai cancelli della prigione e li ha distrutti», raccontai, udendo ancora nelle orecchie il rumore delle esplosioni, delle urla e degli spari; avvertendo la stessa paura di quella volta scuotermi le membra,  mentre le immagini del Governatore che decapitava brutalmente mio padre mi riempirono i pensieri, dolorose.

«E per salvarvi, siete stati costretti a scappare ma non siete riusciti farlo insieme», concluse Deanna, gli occhi pieni di compassione.
«Sì», mormorai.

«Capisco. Mi dispiace moltissimo per quello che hai passato
», disse con sincerità.
Se sapessi davvero tutta la storia, ti dispiacerebbe di più, pensai fra me e me.
«
Per quel che riguarda il resto del tuo gruppo, se fossimo certi del fatto che si trovano più vicini, potremmo andare a cercarli». Il mio sguardo guizzò sul viso di Deanna, speranzoso.
«Ma, ora come ora, non riusciamo a compiere un viaggio così lungo. Un giorno, forse, ne saremo in grado», aggiunse subito dopo, attenta alla mia reazione.
Mi irrigidii, delusa. «
Un giorno potrebbe essere troppo tardi», ribattei, in tono piatto. 
«Beth, capisci che non posso mobilitare i miei uomini per cercare qualcosa che non siamo sicuri di trovare, vero?», domandò con fermezza.
«Anche Eric ed Aaron non sono sicuri di trovare persone da salvare, quando escono da quel cancello», mi infervorai. «In questo caso ne abbiamo la certezza: io so che sono vivi».
«Eric e Aaron non sono mai andati così lontano. È un viaggio lungo e rischioso, bisogna ponderare bene una decisione del genere», ribatté Deanna, cercando di farmi ragionare.
«Prenditi il tuo tempo per ambientarti qui, Beth. Se sono sopravvissuti fino ad ora, saranno in grado di continuare a farlo. Poi, quando sarà il momento giusto, ci mobiliteremo per andarli a cercare», disse, prendendo a guardarmi con uno sguardo che cercava di trasmettere tutta la sicurezza possibile, le labbra piegate in un sorriso.
La guardai per qualche momento, non sapendo bene cosa dire. Poteva dire la verità, come poteva dire una bugia, ma in entrambi i casi lo avrei scoperto solo rimanendo lì ed integrandomi nella comunità. Avrei potuto rifiutare l'offerta e tornarmene là fuori, in quel mondo impazzito; oppure avrei potuto attendere e cercare, col tempo, di convincere Deanna o Aaron ad aiutarmi, il tutto rimanendo al sicuro e conducendo una vita normale. Avrei avuto più possibilità di rimanere viva per cercarli se fossi rimasta al sicuro dietro le mura di Alexandria, lo sapevo.
E Deanna aveva ragione: ce l'avrebbero fatta in ogni caso. Mi fidavo di loro, delle loro capacità, della loro forza, del loro prendersi cura l'uno degli altri.
«Okay», dissi, espirando rumorosamente e appoggiando la schiena contro lo schienale del divano. «Rimarremo qui, ma non mi dimenticherò della mia famiglia», l'avvertii, con tono tranquillo ma fermo.
Deanna continuò a tenere i suoi occhi allacciati ai miei, sorridendo soddisfatta. «Sarebbe grave il contrario», ribatté. «Non potrei essere più
felice della tua decisione». Mi limitai a sorriderle in risposta, senza trovare nulla da dire. Dentro di me, speravo che Noah fosse d'accordo.
«Giusto per capire a quale compito sarà meglio assegnarti, cosa ti piaceva fare prima? In cosa eri brava? Stavi studiando per specializzarti in qualcosa di particolare?», domandò, interessata.
Ci pensai su un attimo. «Non saprei», risposi, scuotendo la testa. «Quando tutto questo è iniziato io ero ancora al liceo. Passavo le giornate nella fattoria della mia famiglia», iniziai a raccontare, fissando il vuoto e perdendomi nei ricordi. «Aiutavo mia madre nelle faccende, davo una mano a svolgere le mansioni della fattoria. Aiutavo mio padre, che era un veterinario e mi insegnava le basi della medicina. Avevamo un vecchio pianoforte, mia madre aveva cominciato a darmi lezioni... Mi piaceva suonarlo la sera, quando papà smetteva di lavorare. E amavo cantare», sussurrai, alla fine di quel discorso sconnesso e confuso.
Deanna capì cosa mi provocava ricordare la mia vecchia vita, e non mi fece ulteriori domande. Mi ringraziò per il tempo che le avevo dedicato e mi riaccompagnò da Aaron, mentre era il turno di Noah per colloquiare con la leader di Alexandria. Seguii Aaron fino ad una villetta che era più piccola rispetto alle altre che avevo visto quando avevo camminato per la via principale, ma altrettanto bella. Aveva un giardino, un patio e sembrava di costruzione recente per quanto tenuta bene.
«Questa sarà la tua nuova casa», annunciò Aaron, con un sorriso. «Quella lì vicina invece è destinata a Noah», aggiunse, indicando la villetta a destra della mia con un cenno del capo.
«Sono bellissime», sussurrai, facendo correre lo sguardo sulla porta, sulle finestre e sugli elementi architettonici che le caratterizzavano. «Sei sicuro che siano regalate?», domandai, voltandomi verso di lui con un'occhiata esageratamente sconcertata.
Scoppiò a ridere alla vista dei miei occhi spalancati. «Sicurissimo, è regalata ed è tua». Poi il suo sguardo si fece tenero e si avvicinò a me, appoggiandomi una mano sulla spalla. «Non riesco minimamente ad immaginare quello che tu e Noah possiate aver passato là fuori. Capisco che questa realtà vi disorienti e che facciate fatica a rilassarvi, ma adesso potete. Siete al sicuro, Beth, davvero. Qui dentro non si tratta di sopravvivere, si tratta di vivere. E voi ne avete il completo diritto».
Il suo tono di voce era talmente dolce, sincero e rassicurante che le lacrime salirono agli occhi senza che potessi farci niente.
Vivere, finalmente, non solo sopravvivere.
Se da una parte mi sembrava di scappare dai problemi e da quella che era la realtà del mondo fuori da quelle mura, dall'altra vedevo finalmente un nuovo inizio dopo mesi e mesi di stenti e sofferenze. Se solo gli altri fossero stati lì con me... Maggie, Glenn, Carl, Judith, Rick, Michonne, Bob, Sasha, Tyreese, Carol, Daryl: i loro volti cominciarono a susseguirsi nella mia mente ed il mio cuore si strinse in una morsa dolorosa.
«Vorrei che anche la mia famiglia ricominciasse a vivere, Aaron», mormorai, la voce spezzata.
Lui si fece vicino a me, coinvolgendomi in una sorta di goffo abbraccio. «Ci occuperemo anche di quello, Beth. Te lo prometto».

________________________________________________________

Angolo autrice.

Allooora, salve a tutte/i!
Sono l'ennesima nuova leva nel fandom Bethyl - come autrice più che altro, visto che di fanfiction su TWD ne leggo/seguo parecchie - e, sì, ho deciso di uscire allo scoperto con una storia che mi vortica in testa da un bel po'. Da come avrete capito, è una "what if" con la quale vorrei salvare la vita a Beth e regalarle un happy ending con Daryl.
Perché li amo smodatamente, e non si meritano per niente quello che gli autori hanno avuto in serbo per loro nel telefilm originale.
Ci tengo molto a dare una versione alternativa della storia, e ci tengo soprattutto che sia coerente e credibile: sono molto attiva su Tumblr, e ogni tre per due incappo nei post del Team Delusional (così si fanno chiamare il gruppo di fan della Bethyl che credono che Beth sia ancora viva nonostante la 5x08), che mettono in piedi mille teorie ricche di indizi secondo i quali il colpo alla testa di Dawn non sia stato mortale per lei. Per quanto mi piacerebbe che il Team Delusional avesse ragione, mi riesce molto difficile crederlo. Mentre aspetto di essere contraddetta su tutta la linea dalla sesta stagione - magari! -, pasticcio un po' per conto mio con i miei due piccioncini preferiti :)
Per cui sì, per qualche fortunata ragione Noah e Beth sono riusciti a scappare con le loro forze e ad allontanarsi il più possibile da quella stronza di Dawn, alé alé!
Posso capire se il fatto che Beth non sia tornata indietro a cercare Daryl e gli altri possa stonare un po',  ma ho provato a immaginare come si sarebbe sentita a viaggiare in coppia con qualcuno non forte quanto Daryl (Noah ha passato quasi tutto il capitolo a piangere, per dirvi ahahah) o qualcun altro del gruppo. Io sarei morta di paura. Tornare indietro avrebbe comportato maggiori rischi, senza contare il fatto che non avrebbe nemmeno saputo da dove iniziare a cercare la sua famiglia.
Dovevano andare avanti.
Questo capitolo è lunghissimo, mi rendo conto, e probabilmente piuttosto noioso (vista la mancanza del nostro arciere o di colpi di scena), ma sarà l'ultimo così pesante. Dovevo inquadrare bene le situazioni e dare una base a tutto ciò che succederà nei prossimi capitoli e nel resto della storia.
Lo dico già da ora: non offrirò una versione tutta mia della sesta stagione, semplicemente perché non ho in mente niente di geniale o idee belle con le quali arricchire la trama originale. Questa storia si occuperà semplicemente del rapporto tra Beth e Daryl, episodi che trattano loro come coppia e molto spesso saranno pure discordanti tra loro (forse non seguirò nemmeno un ordine cronologico, chissà). Credo sarà una longfiction/raccolta di slice of life dei nostri amorini. Semplicemente ho dovuto dividere la parte iniziale da cui parte la mia versione alternativa perché già solo questo capitolo è lungo DICIOTTO PAGINE. Mi scuso già da ora per eventuali episodi di latte alle ginocchia!
Per aiutarvi a capire quanto tempo passa, mi sono scervellata sulla wikia di The Walking Dead e sono riuscita a elaborare una piccola linea temporale che dovrebbe aiutarvi a far quandrare meglio l'arco di tempo in cui si colloca tutto questo (e cosa succede lontano da Beth e Noah):

gg 504la prigione viene distrutta
gg 504-507 Beth e Daryl viaggiano assieme
gg 507Beth scompare
gg 510Beth e Noah scappano (4 gg per arrivare a Richmond)
gg 511il gruppo si riunisce dopo Terminus
gg 513cercano Beth ma non la trovano
gg 514il gruppo si muove verso Washington/
              Beth e Noah sono a Richmond/
              Sostano nel motel
gg 515arrivano a Washington
gg 516 Beth e Noah vagabondeggiano
gg 518Aaron li trova/Arrivano ad Alexandria
(Il gruppo dovrebbe arrivare più o meno dopo un mese rispetto a Beth e Noah)

Vi lascio inoltre il link al video che ho montato assieme, visto che un AU del genere su youtube non l'ho mai trovato:
https://www.youtube.com/watch?v=bEl1UtvtjnU
Potrebbe contenere spoilers, ma lo so sia io che voi che tanto questi due finiranno insieme, ahahah! Inoltre ci sono degli elementi di questa storia che non sono riuscita ad inserire nel video, perciò sono collegati, sì, ma non più di tanto :)
Potete anche visitare il mio tumblr che è tuuutto dedicato a loro, nel caso voleste chiedermi qualcosa riguardo la storia o per qualsiasi altro motivo!
Potremmo anche seguirci a vicenda, non mi stanco mai di vedere post sempre nuovi su Bethyl :F ecco il link:
http://itsbethylness.tumblr.com/ http://itsbethylness.tumblr.com/tagged/bethylness-fanart se volete vedere i disegni associati alla mia storia e alla Bethyl in generale.
Sì, sono ossessionata.

Qui invece scrivo tutto quello che riguarda solo la mia storia: http://blakieefp.tumblr.com/
E nulla, credo di avervi trattenuto anche troppo: prometto che è la prima e ultima volta. 
Domani partirò per le vacanze e credo che starò via un paio di settimane, dopodiché mi rimetterò a scrivere e a completare il secondo capitolo, che è già a buon punto!
Grazie mille a chiunque vorrà lasciarmi il suo parere, o anche a chi leggerà silenziosamente.

Un bacio!
Blakie



   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Walking Dead / Vai alla pagina dell'autore: Blakie