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Autore: Kim_HyunA    14/08/2015    2 recensioni
“Dovresti lasciarmi il tuo numero”. Voleva sembrare sciolto e disinvolto, ma era certo che la velocità con cui aveva parlato avesse rivelato il suo nervosismo e l’aver abbassato lo sguardo a terra l’aveva sicuramente tradito.
Kibum tornò verso di lui, un sorriso storto sul volto.
“Mi vuoi chiedere di uscire?” domandò.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jonghyun, Key
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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La notte sembrava interminabile.

Dopo il normale controllo delle camere, non gli rimaneva molto da fare. Si sedette per qualche minuto in un corridoio, le gambe pesanti e stanche dopo aver trascorso il pomeriggio in piedi, a correre da un reparto all’altro.
 
Jonghyun chiuse gli occhi per qualche secondo mentre buttava giù il secondo caffè della serata per rimanere vigile. Era imbevibile (e non gli piaceva nemmeno tanto il caffè, ad essere sinceri), ma era tutto ciò che offriva la macchinetta del quinto piano dell’ospedale.
 
Ovviamente preferiva quella rara tranquillità; significava che non c’erano emergenze e nessuno era in pericolo di vita, e questo riusciva a confortarlo come poco altro al mondo: nel corso degli anni aveva sviluppato una certa empatia; si trovava sempre troppo coinvolto nel dolore altrui.
 
A volte si chiedeva perché avesse iniziato a studiare medicina. In un ospedale il dolore e la sofferenza erano all’ordine del giorno, come pensava di poter sopravvivere in quell’ambiente?
 
Ma ne valeva la pena.
 
Di questo era certo.
 
Le notti insonni, le lacrime, il cuore pesante. Tutto veniva ripagato ogni volta che un paziente guariva o lo ringraziava, o quando un parente in ansia gli sorrideva pieno di gratitudine. Portare benessere era il suo compito. La sua missione.
 
Aveva ancora qualche ora prima di terminare il turno di notte. Non gli dispiaceva dover rimanere fino alle prime ore del mattino; soffrendo di insonnia non avrebbe dormito neanche se si fosse trovato nel suo letto. Gli dispiaceva solo non essersi portato un libro per quel giorno: approfittava dei (rari) ritagli di tempo per studiare; medicina non era una materia semplice, richiedeva costanza ed impegno, oltre che serietà, e dover trascorrere buona parte del suo tempo a fare pratica lo metteva a dura prova.
 
Si disse che appena arrivato a casa avrebbe cercato di riposare per qualche ora, prima di buttarsi a capofitto sui libri e tornare in ospedale nel tardo pomeriggio.
 
 
 

 
La casa era silenziosa ed immersa nel buio quando tornò, stanco e con un leggero mal di testa, intorno alle tre e mezza. Appoggiò le chiavi e il casco della sua fedele moto all’ingresso insieme alle scarpe.
 
Sentì un soffice zampettare che si avvicinava e, con un sorriso e un saluto che era poco più di un sussurro, prese tra le braccia la sua scodinzolante bassotta Roo che festeggiava felice il suo ritorno. Presa da un attacco di euforia — in effetti non era più molto il tempo che trascorrevano insieme ora che era impegnato in ospedale — prese a leccargli la faccia senza sosta e Jonghyun non poté fare a meno di ridere appagato.
 
Socchiuse piano le porte delle camere della mamma e della sorella per assicurarsi che fossero addormentate, e quando vide le sagome scure e sentì il respiro regolare, disse a bassa voce: “Sono a casa”.
 
Si diresse poi verso la sua camera, appoggiò una Roo ancora in festa sul tappeto e crollò su letto ancora vestito.
 
 




Aveva chiuso gli occhi da forse mezz’ora quando sentì Roo saltare sul suo letto e piangere tenendo il guinzaglio in bocca. Aprì un occhio solo per metà.
 
“Roo~ dopo, è presto” grugnì contro il cuscino.
 
Ma qualcosa non tornava. Perché entrava così tanta luce dalla finestra? E perché la sua sveglia indicava le undici e venticinque?!
 
Prese il cellulare e fissò incredulo la scritta luminosa che gli diceva che aveva sprecato tempo prezioso. Com’era potuto succedere? Doveva riposarsi solo qualche ora!
 
Con un balzo scese dal letto, lasciando solo un’ignorata Roo ad aspettarlo ancora piena di speranza ed entusiasmo.
 
Jonghyun corse in cucina, dove sua mamma stava preparando le ultime cose prima di uscire per uno dei suoi turni all’asilo nido, dove lavorava ormai da alcuni mesi.
 
“Mamma!” quasi urlò mentre lanciava un’occhiata all’orologio da parete, come se si aspettasse di ricevere una risposta diversa dalle precedenti.
 
“Perché non mi hai svegliato?” chiese rassegnato, senza alcun tono di accusa.
 
“Sembri così stanco in questi giorni, ho pensato che farti dormire più del solito potesse farti bene” gli spiegò, guardandolo preoccupata. Non era la prima volta che gli diceva che gli sembrava dimagrito da quando aveva iniziato a seguire quei turni massacranti.
 
“Dovevo studiare…” disse più a se stesso che a lei.
 
“Lo so, ma non dimenticare che anche il riposo è importante. O dovremo portare anche te all’ospedale, e non come specializzando stavolta”.
 
Jonghyun sorrise. La raggiunse e l’abbracciò da dietro, prima di augurarle buon lavoro con un bacio e ringraziarla per le sue continue attenzioni nei suoi confronti.
 
Mentre si stava rifiondando in camera per raccogliere i suoi libri e non sprecare altro tempo, notò la stanza di Sodam, la sorella. Era vuota. Doveva essere già al lavoro da qualche ora. Era frustrante incontrarla così poco, non riusciva mai a combinare i propri turni con quelli del resto della famiglia.
 
Entrò in camera con un sospiro e trovò Roo esattamente come l’aveva lasciata: scodinzolante e in attesa con il guinzaglio in bocca, pronta per la sua passeggiata mattutina.
 
Si mise a ridere.
 
Avrebbe recuperato le ore di studio un’altra volta.
 
 
 


Nel pomeriggio, con un leggero senso di colpa e i vestiti ricoperti dai peli di Roo, Jonghyun si infilò nello spogliatoio maschile per indossare la sua divisa: camice e pantaloni azzurri.
 
Era pronto per un altro, lungo, turno.
 
Aveva appena fatto in tempo a terminare il giro delle visite, quando il suono insistente del cercapersone — che riusciva a farlo sussultare sorpreso ogni volta — lo avvisò di un’emergenza.
 
Si precipitò per le scale per affiancare i medici che trasportavano una donna su una barella, chiedendo informazioni sull’accaduto e indicazioni sui suoi parametri vitali.
 
A quanto pareva la donna era stata coinvolta in un frontale, il viso e le braccia ricoperti da graffi e lesioni. Ma non era questo ciò di cui si preoccupavano maggiormente i medici, quanto della ferita che aveva riportato alla testa, dopo aver presumibilmente sbattuto contro il cruscotto.
 
Dopo i primi accertamenti e le prime medicazioni, era chiaro che la situazione era piuttosto grave e che la paziente doveva essere tenuta in coma farmacologico prima di essere pronta ad essere operata.
 
Jonghyun cercava di tenere a freno le emozioni mentre osservava la donna, il suo bel viso di mezza età coperto da lividi e la fasciatura intorno alla testa.
 
Quando dovettero cercare tra i suoi effetti personali un numero di telefono per contattare un parente, fu grato che il compito non spettasse a lui quella volta. Sentiva un groppo allo stomaco e la voce gli moriva in gola quando doveva comunicare una cattiva notizia. Ma sapeva che avrebbe dovuto superare questo suo blocco: anche questo faceva parte del mestiere, che gli piacesse o no.
 
A quanto pareva, la persona a lei più vicina era il figlio che, a detta dello specializzando che l’aveva contattato, era rimasto in silenzio per qualche secondo, incapace di proferire alcun suono, prima di rispondere con voce ferma: “Arrivo subito”.
 
Jonghyun non poté fare a meno di pensare a come avrebbe reagito lui stesso se avesse ricevuto una simile telefonata. Scacciò il pensiero con un movimento della testa.
 
Il figlio della donna arrivò dopo poco meno di mezz’ora, una borsa a tracolla e le guance arrossate dal freddo pungente. Appena raggiunto il reparto di terapia intensiva, aveva chiesto indicazioni dettagliate sulle sue condizioni di salute e, dopo che gli venne detto che per motivi medici, non gli era permesso entrare nella sua camera, rimase a guardarla dalla parete a vetri, il volto privo di qualsiasi espressione.
 
Jonghyun lo osservò a lungo con attenzione. Non dava segno di aver pianto, i suoi occhi non erano lucidi. All’apparenza sembrava silenzioso e fragile, con quel corpo che sembrava minuto nonostante l’altezza, ma doveva essere forte, perché non vide nessuna lacrima. Non che le lacrime fossero segno di debolezza, questo Jonghyun lo sapeva bene.
 
Si avvicinò a lui per dirgli qualche parola di conforto. Se c’era qualcosa per cui era portato, era il contatto umano. Creare una connessione positiva con chi aveva intorno.
 
“Si riprenderà presto, vedrai”. Infondere speranza. Uno dei punti fondamentali.
 
Si era rivolto a lui senza alcun onorifico, non dimostrava più di una ventina d’anni, doveva essere sicuramente più giovane di lui.
 
Il ragazzo non rispose, ma annuì senza troppa convinzione per lasciare intendere che lo aveva sentito.
 
Decise di non insistere. Probabilmente aveva bisogno di rimanere solo con i suoi pensieri.
 
Quando ritornò a controllare qualche ora più tardi, lo vide seduto in corridoio, lo sguardo perso nel vuoto mentre si portava alle labbra un bicchiere di plastica che conteneva senza dubbio caffè. Jonghyun avrebbe potuto riconoscere quel debole aroma annacquato tipico della macchinetta dell’ospedale tra mille.
 
Dedusse che non si era mosso da lì tutto il pomeriggio e che non aveva nemmeno cercato di buttare giù qualcosa per cena. Non lo biasimava.
 
Si sedette in silenzio accanto a lui, non riuscendo ancora a capire se la sua presenza fosse ben accetta o meno.
 
Finito il caffè, lo vide tamburellare le dita contro il bicchierino, chiaramente nervoso e in ansia, prima di stritolarlo talmente forte in una mano che le nocche gli erano diventate bianche. Era quello il suo modo di mostrare la tensione, tenendo le mani costantemente impegnate.
 
“Ce la farà, non è vero?” chiese rompendo il silenzio, la voce leggermente tremante che tradiva l’apparente solida facciata.
 
Jonghyun non sapeva dirlo. Era troppo presto. Avrebbe voluto rassicurarlo che sì, sarebbe andato tutto bene, che si sarebbe ripresa come gli aveva detto in un primo momento. Ma la verità è che non lo sapeva, non prima dell’operazione. Decise di essere sincero, per non nutrirlo di false speranze. Dopotutto, era un (quasi) dottore, doveva dimostrare una certa professionalità. E perché se si fosse trovato lui al suo posto, avrebbe voluto sapere la verità.
 
“Dobbiamo aspettare l’operazione per poterlo dire con certezza”.
 
Si sentì lo stomaco contorcersi nel pronunciare quelle parole ad alta voce.
 
Il ragazzo prese a giocare nervosamente con le proprie dita.
 
“Ho bisogno di un altro caffè” disse alzandosi e buttando nel cestino accanto il bicchiere vuoto.
 
Jonghyun lo guardò tornare verso di lui qualche minuto dopo. Il suo viso aveva dei lineamenti particolari, non comuni. Gli occhi erano allungati, quasi felini, e la bocca era piena e ben disegnata. Dal suo volto non sembrava trasparire nessuna apparente emozione.
 
L’orario delle visite era già finito da un pezzo, ma non se la sentiva di mandarlo via. Approfittò della chiamata al cercapersone per lasciarlo solo e si allontanò.
 
 
 

 
Le condizioni della donna rimasero stabili nei giorni seguenti. Gravi, disperate, ma stabili.
 
Jonghyun non era riuscito a chiudere occhio quando era rincasato in mattinata. La notte precedente un’anziana signora con cui aveva stretto un forte legame di affetto era venuta a mancare in seguito ad una complicazione. Complice l’età avanzata, il suo corpo era troppo debole e provato per reagire efficacemente e tempestivamente alle cure.
 
Era la prima volta che vedeva qualcuno morire davanti ai suoi occhi.
 
Jonghyun non aveva potuto fare altro che chiudersi in un bagno e piangere. Piangere fino a quando gli occhi non gli fecero male. Perché era ingiusto, perché si sentiva impotente di fronte alla morte. “Non potete salvare tutti”. Gli era riaffiorata alla memoria una delle prime frasi che erano state dette a lui e agli altri studenti il primo giorno in ospedale. La lezione più dura di tutte. Quella che Jonghyun non riusciva ad imparare. Che si rifiutava di imparare. Perché doveva essere così dolorosa la realtà?
 
Rimase con gli occhi lucidi fino alla fine del turno e quando arrivò a casa si sentì sollevato nel non dover rimanere solo. Abbracciò la sorella, incapace di trattenere il suo pianto sofferente. Sodam aspettò a fargli qualsiasi domanda, lo lasciò singhiozzare contro la sua spalla, prima di acciambellarsi sul divano tenendoselo stretto tra le braccia.
 
Jonghyun le raccontò di quello che era successo, di come non avevano potuto fare niente per salvarla. Le raccontò di quando le aveva regalato una scatola di biscotti un giorno in cui si sentiva particolarmente triste, o di come si fosse sempre interessata alla sua vita, chiedendogli notizie sulla famiglia e sullo studio.
 
“Non è giusto, non è giusto…” aveva preso a ripetere come una litania quasi sussurrata. E si era lasciato accarezzare dolcemente i capelli mentre cercava di calmarsi.
 
 
 

 
Quando il giorno seguente tornò ad infilarsi il camice (due pesanti occhiaie gli erano comparse sul volto a ricordargli la mancanza di sonno), Jonghyun era deciso ad impegnarsi più che mai affinché episodi come quelli del giorno precedente non si ripetessero più. Non l’avrebbe permesso.
 
Andò dalla donna coinvolta nell’incidente d’auto. Controllò le sue condizioni ed effettuò tutte le medicazioni necessarie: quel pomeriggio sarebbe finalmente stata operata. Era sollevato e nervoso allo stesso tempo. L’incertezza dell’esito gli mise addosso una certa nausea.
 
Stava finendo di riordinare le sue cartelle, quando notò fuori che il figlio stava seguendo attentamente i suoi movimenti dalla parete di vetro. Lo raggiunse e cercò di incoraggiarlo con un lieve sorriso.
 
“Pomeriggio sarà operata. Domani mattina potrai già parlarle.”.
 
Lo disse come se fosse un dato di fatto, come se la percentuale di rischio fosse nulla. Gli appoggiò per qualche secondo una mano sulla spalla per infondergli maggiore fiducia.
 
Come d’abitudine, il ragazzo non rispose. Si limitò ad un cenno del capo.
 
Nonostante l’apparente distacco, Jonghyun riusciva a percepirne il dolore, lo sentiva scorrere dentro di sé come se gli appartenesse.
 
“Devo finire il giro delle visite, ci… ci vediamo dopo” si congedò sentendosi un po’ in colpa a doverlo abbandonarlo con la propria sofferenza.

 
 
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A/N: oddio è passato più di un anno dall’ultima volta che ho pubblicato qualcosa. non me ne sono proprio resa conto. sono successe così tante cose negli ultimi mesi, che ho perso la nozione del tempo.
 
qualche aggiornamento su di me, se a qualcuno interessa. lo scorso febbraio mi sono laureata!! è la sensazione migliore del mondo, credetemi. è stato uno dei giorni più belli della mia vita! e da novembre invece sto lavorando, quindi capite che non ho tantissimo tempo per scrivere, i’m sorry TT
 
parlando della storia invece, se vi è piaciuta dovete solo ringraziare questa splendida persona che non solo mi ha dato l’ispirazione per scriverla, ma mi ha sopportato ogni santo giorno mentre la scrivevo. grazie ale, ovviamente è dedicata a te c:
 
la storia è composta da 4 capitoli, nei prossimi giorni posterò la seconda parte!
 
spero vogliate continuare a leggerla!
 
a presto c:

PS. = se sparisco, sappiate che è perché avrò avuto un infarto con gli album di hyuna e di simon d. è colpa loro D:
  
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