Serie TV > Supernatural
Segui la storia  |       
Autore: vannagio    15/08/2015    9 recensioni
«Salve, questo è il numero di Sam Winchester. Se avete bisogno di aiuto, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, sarete richiamati al più presto».
Biiiip.
«Ehm, ciao, mi chiamo Laurel Lance. Non c’è un modo delicato per dirlo, tanto sono sicura che avrai già riconosciuto la mia voce. Sono il corpo che Ruby aveva posseduto sei anni fa. Ho bisogno del tuo... vostro aiuto. Spero che tuo fratello sia ancora vivo. Dio, spero che tu sia ancora vivo. Il numero è attivo, vorrà pur dire qualcosa, no? Ma sto divagando. Vivo a Starling City, California, e sono quasi certa che qui ci sia un caso di tua... vostra competenza. Ieri notte un ragazzo è stato completamente eviscerato. Per favore, richiamami a questo numero».
Biiiip.

[Cross-over con Arrow; storia ambientata durante la seconda stagione di Arrow e la nona stagione di Supernatural]
[Seconda classificata al contest "Lunghe, anzi... lunghissime", indetto da Ili91 sul forum di EFP]
Genere: Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: Cross-over | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 4




Dean si precipitò al tavolo e si guardò intorno come un invasato, cercando di scorgere una chioma bionda tra la folla.
«Felicity, Felicity, rispondi!».
Dean inarcò un sopracciglio. La voce gracchiante di Oliver proveniva dall’auricolare a forma di orecchino di Felicity, che era rimasto sul tavolo insieme allo smartphone. Avvicinò l’orecchino all’orecchio sentendosi vagamente un idiota.
«Sono Dean, lo Scavatore l’ha presa. E credo si trovi dentro al corpo di un uomo, non di una donna».
Da parte di Legolas si era aspettato una crisi isterica in piena regola. O almeno un cazziatone. Invece ottenne in risposta soltanto una gelida domanda.
«Hai visto in che direzione sono andati?».
«No», rispose con un sospiro. Dean si stropicciò gli occhi e per puro caso lasciò cadere lo sguardo sullo smartphone. Nel riquadro in alto a sinistra dello schermo, una sagoma arancione veniva trascinata contro la sua volontà da un’altra sagoma arancione luminosa il doppio. Sullo schermo lampeggiava insistentemente la scritta “rivelate due fonti di radiazioni infrarosse nello stesso corpo”. «Però so dove si trovano in questo momento».
«Guidami».


«Uscita ovest del locale. Sto arrivando anch’io»
, disse la voce di Dean.
Oliver, che si trovava sul tetto, scattò verso il cornicione, saltò sul parapetto per darsi lo slancio e con una capriola a mezz’aria si lanciò nel vuoto. Mentre precipitava, sparò una fune arpionata, il cui arpione andò a conficcarsi nel muro dell’edificio di fronte. Aggrappato alla fune, disegnò una parabola in volo e atterrò sull’asfalto proprio davanti all’uscita ovest del Cuori Solitari.
Da dietro il cassonetto dei rifiuti provenivano dei lamenti. Oliver lo aggirò con circospezione e quello che vide gli gelò il sangue nelle vene. Un ragazzo moro stava schiacciando Felicity contro il muro. Lei gridava e cercava di dimenarsi, ma l’uomo sembrava dotato di una forza sovraumana e la teneva ferma con una sola mano. Il sangue sgocciolava a fiotti e si era raccolto in una piccola pozzanghera ai loro piedi. Dalla camicia strappata sul davanti dell’uomo emergeva la testa di... una specie di vermone, che si era fatto strada attraverso la carne stracciando e squarciando e che adesso stava per affondare i denti nella schiena di Felicity.
Oliver si buttò addosso al mostro (non c’era altro modo per definirlo) e ruzzolarono insieme nel fango misto a sangue.
«Scappa!», urlò a Felicity.
Non fece in tempo ad assicurarsi che si fosse messa in salvo, perché il mostro gli assestò un pugno in faccia che lo mandò in black-out per la bellezza di tre secondi. Quando finalmente il dolore smise di annebbiargli la vista, ignorando le pareti del vicolo che gli ondeggiavano intorno come sul punto di crollargli addosso, Oliver si alzò faticosamente in piedi e si lanciò all’inseguimento del mostro, che aveva appena svoltato l’angolo infilandosi in una stradina secondaria e deserta. Aveva troppo vantaggio, però, così Oliver decise di giocarsi il tutto per tutto: si fermò, estrasse l’arco, incoccò la freccia, tese la corda, prese la mira rallentando il respiro e lasciò la presa.
La freccia si conficcò al centro della schiena del mostro, che per il contraccolpo cadde a terra. Oliver gli fu addosso in un battibaleno con l’accendino e la fiaschetta di benzina in mano, ma il mostro si era già rialzato, parò il suo pugno col braccio e lo mandò a scaraventarsi contro un auto con un calcio rotante. Oliver sfondò il parabrezza e rimase incastrato tra le lame di vetro.
«Ho bisogno di un corpo nuovo», disse il mostro. «Il tuo è un po’ malconcio, ma saprò accontentarmi».
La punta della freccia faceva capolino dalla stoffa della camicia all’altezza del cuore e il sangue si allargava a macchia d’olio sul tessuto. Il mostro afferrò Oliver per il bavero della casacca e lo estrasse dal parabrezza senza alcuno sforzo. Gli rivolse un ghigno spaventoso, tra i lembi della camicia già si intravedeva la testa del verme, ma un colpo di arma da fuoco fece esplodere la parte superiore del suo cranio. Una pioggia di sangue e materia cerebrale si abbatté addosso a Oliver.
Ciononostante il mostro era ancora in piedi.
Brandelli di scalpo gli pendevano sulla fronte, sulle tempie e sul retro della testa, come la buccia di una banana sbucciata, e un rivolo denso di poltiglia grigiastra e sanguinolenta gli colava in mezzo agli occhi. Solo quando Dean svuotò tutto il caricatore nella sua schiena, il mostro si convinse a mollare la presa sul bavero di Oliver, che si afflosciò a terra come un indumento smesso. Nel frattempo gli spari avevano attirato dei curiosi e in lontananza si udiva la eco delle sirene della polizia. Il mostro scappò via.
«Non pensare a me, corrigli dietro!», biascicò Oliver.
Dean scosse la testa, il mostro si era dileguato nella notte, così lo aiutò ad alzarsi.
«Togliamoci dai piedi, prima che arrivino gli sbirri».


Sapeva sempre quando era ora di sloggiare dal suo ospite. Era la stessa sensazione che si prova nel tenere un frutto troppo maturo in mano: se stringi la presa, ti si spappola tra le dita. Solo che lui c’era dentro, al frutto maturo, e ogni volta che osava dimenarsi, la pappetta di carne che lo avvolgeva si sgretolava un po’ di più.
Si fermò a riprendere fiato. O, meglio, a far riprendere fiato al corpo. I lembi di pelle si staccavano dalla carne come gli strati di una cipolla bollita e la ferita sul petto non si era più rimarginata. Per non parlare del cervello, che gli colava sugli occhi come un budino mezzo sciolto.
Era decisamente ora di sloggiare.
Così si appostò dietro a un’auto e attese. Uno dei motivi per cui aveva cacciato sempre nello stesso posto era che conosceva quel luogo come le sue tasche. In quella zona della città c’erano locali notturni ovunque. Non avrebbe dovuto aspettare molto prima che un nuovo corpo si fosse consegnato a lui quasi spontaneamente.
E infatti, non erano trascorsi nemmeno cinque minuti, che dei passi attirarono la sua attenzione. Una ragazza era sbucata fuori da una piccola porticina dalle vetrate scure, sopra la quale lampeggiava la scritta rosso sangue “Dark Night”. Ciondolava a destra e sinistra fumando una sigaretta. Aveva la pelle pallida, i capelli lunghi, dritti come spaghetti e neri. Anche il vestito corto che indossava era nero. Nero e di pizzo. Le lunghe gambe pallide si infilavano come stuzzicadenti in un paio di stivaloni borchiati con tanto di zeppa alta dieci centimetri.
Un po’ eccentrico per i suoi gusti, ma se non c’era altro da indossare...
Era debole, la ragazza però puzzava di fumo e di stantio: sfruttare l’effetto sorpresa sarebbe stato un gioco da ragazzi. La seguì per un paio di metri, muovendosi il più silenziosamente possibile, e non appena intravide l’angolo buio che faceva al caso suo, si preparò a sorprenderla alle spalle.
Qualcosa andò storto, però. Non seppe mai cosa lo aveva tradito. Forse non era stato così silenzioso o forse la ragazza non era così strafatta come aveva creduto. Sta di fatto che lei si girò all’improvviso e con la tutta forza di cui era capace lo colpì in volto con la borsa.
Era debole, in confronto a un’umana però era ancora molto forte. Il colpo alla faccia servì solo a far traboccare fuori dal suo cranio quel poco di cervello che era rimasto, a far cadere la borsa a terra e a sparpagliarne il contenuto sull’asfalto. Poi la ragazza lo mise a fuoco per la prima volta e cominciò a strillare. Ovviamente provò a scappare, ma lui riuscì ad afferrarla per un braccio e a trascinarla nell’angolo buio. Le tappò la bocca con una mano e con l’altra la tenne premuta contro l’intonaco nero di smog, nel frattempo si faceva largo tra la poltiglia in cui ormai si era trasformato il suo vecchio corpo e cominciava a scavarsi con i denti un varco nella schiena di quello nuovo.
Dato che non c’erano stati i preliminari come le volte precedenti, il passaggio fu più doloroso e difficoltoso del solito. La stessa differenza che c’è tra affondare il coltello nel burro e affondarlo in un tozzo di pane duro. A processo ultimato, il corpo alle sue spalle si accasciò al suolo con un plop, mentre il nuovo corpo, anche se si sentiva stanca e indolenzita, la calzava come un guanto. Tirando un sospiro di sollievo, aprì e chiuse i pugni, ruotò su se stessa, si lisciò la gonna e si rimirò compiaciuta nel finestrino dell’automobile dietro la quale si era nascosta poco prima. Mancava ancora una cosa.
Si chinò su Cedric, il suo vecchio ospite, gli tolse il bracciale che portava al polso e il ciondolo a forma di croce agganciato alla catenina intorno al collo. Fissò la croce al bracciale, tra una spilla e una fedina d’oro, e dopo aver accarezzato affettuosamente gli altri ninnoli (una coppia di gemelli da uomo, un ciondolo a forma di scarpetta e un campanellino), indossò il braccialetto. Poi raccolse la borsa da terra e tutti gli oggettini che ne erano sgusciati fuori. Lesse il suo nuovo nome e l’indirizzo della sua nuova abitazione sulla sua nuova patente di guida, e sorrise.
«Anna Hilton, si è fatto tardi, è ora di andare a casa».


Avevano appena raggiunto una mini cooper rossa nel parcheggio del Cuori Solitari, quando Oliver si ricordò improvvisamente di un dettaglio importantissimo.
«Dov’è Felicity?».
«Te lo avevo detto che il momento di usare la forza bruta sarebbe arrivato presto!».
Il viso scosso e pallido di una ragazza bionda e fortunatamente illesa apparve da dietro la portiera aperta della suddetta mini cooper. Dopo un attimo di esitazione, Felicity corse ad abbracciarlo. Oliver gemette per il dolore e lei si ritrasse di scatto.
«Oh, scusa, mi spiace».
Trattenendo a stento un’imprecazione, Oliver si estrasse dal fianco un coccio di vetro lungo tre dita e affilato come un coltello. Felicity sgranò gli occhi e si tappò la bocca con una mano.
«Porca puttana!», disse Dean. «Abbiamo bisogno di un sarto, e subito».
Questa volta fu Oliver a scuotere la testa.
«Ho visto di peggio, non è profonda. É più importante seguire le tracce del mostro». Si rivolse a Dean. «Ce l’hai ancora tu lo smartphone?».
Dean estrasse l’aggeggio dalla tasca dei jeans e lo porse a Felicity, che cominciò subito a smanettarci sopra con dita ancora tremanti.
«Volete prima la notizia cattiva o la notizia pessima?».
«La pessima», risposero Dean e Oliver contemporaneamente.
«Il mostro ha cambiato corpo e la polizia è già sulla scena del crimine».
«Merda».
«E la notizia cattiva?».
Lei sospirò.
«Ha distrutto le telecamere».


«Qualcuno dovrebbe sistemare il casino in cucina».
«Il tono della tua voce sembra suggerire che dovrei essere io quel qualcuno».
«Sei stato tu a rovesciare tutto a terra, no?».
«Non mi sembrava che ti fosse dispiaciuto».
«No, infatti».
Laurel gli rivolse un sorriso malizioso e lo baciò sulla bocca. La sua gamba, sotto il piumone, si era attorcigliata intorno al polpaccio di Sam. Lui le pizzicò il fianco giocosamente, poi se la strinse addosso come una coperta e tornò a fissare in silenzio il lampadario che pendeva dal soffitto della camera da letto. Laurel prese a tracciare la ruga che gli attraversava la fronte con l’indice.
«Quel lampadario dà molto da pensare anche a me».
Sam abbozzò un sorriso, continuando a fissare il soffitto.
«Davvero? Tipo?». La risposta tardava ad arrivare. Quando Sam abbassò lo sguardo, trovò un’espressione combattuta sul volto di Laurel. «Che c’è?».
Si morse il labbro inferiore.
«Se ti dicessi che questa cosa tra noi... non so se venga da me o da Ruby, la prenderesti male?».
«In realtà... mi sentirei molto sollevato, anche per me è tutto molto incasinato...», si indicò la testa ruotando il dito, «...qui dentro».
La risata di Laurel sapeva di imbarazzo e sollievo. Si coprì la faccia con una mano.
«Dio, mi sembra di essere finita in un ménage à trois. È come se ci fosse stata una terza persona a letto con noi».
«So che suonerò molto Dean-esco nel porre questa domanda ma... che c’è di male? È stato bello, stasera. E tu sei una persona molto bella, in tutti i sensi. Ha importanza il perché sia successo? Tu pensi che... dovremmo sentirci in colpa, o roba del genere?».
Lei scosse la testa.
«No, penso di no».
Sam stava pensando che non si sarebbe sentito in colpa nemmeno a baciarla un’altra volta, ma la melodia di Eye Of The Tiger lo prese in contropiede. Era la suoneria associata al numero di Dean. Corse a raccattare il cellulare in cucina, nella tasca dei jeans che aveva abbandonato sul pavimento.
«Ehi, novità?».
«Non hai la voce di uno che si è appena svegliato».
«Mi hai chiamato per controllare se dormivo?».
«No, in realtà ti ho chiamato per mantenere la mia promessa».
Sam sgranò gli occhi.
«Lo avete identificato?».
«Più o meno».
«Sei al motel? Ti raggiungo subito».
Dall’altro alto della linea ci fu un attimo di pausa.
«Vuoi dire che tu non sei al motel a riposarti come ti avevo suggerito?».
«Dean, non cominciare...».
«D’accordo, d’accordo. Ci vediamo davanti al Cuori Solitari. Col vestito delle feste, preferibilmente».
Quando chiuse la conversazione, si voltò per tornare in camera da letto, ma Laurel era già lì, avvolta in una vestaglina leggera, le braccia incrociate sotto al seno, poggiata di schiena alla penisola. Il suo sorriso era a metà tra il divertito e il rassegnato.
«Ho come il presentimento che toccherà a me mettere ordine in cucina. Sbaglio?».


«Andava di fretta, questa volta. E poi i proiettili, e la freccia, e il cranio maciullato? Cosa c’entrano? Che senso ha? Non sembra nemmeno la stessa persona! Rovinare un rituale così fantasioso in questo modo è da mediocri. Mi ha deluso!».
Una folla di curiosi si accalcava intorno alle transenne spinta probabilmente dal gusto per il macabro. I lampeggianti blu e rossi della polizia e il flash dei fotografi della scientifica si riflettevano sui visi delle persone e sulle facciate degli edifici circostanti come le luci stroboscopiche di una discoteca. Il Dottor Morgan era chino sul cadavere e stava esaminando lo squarcio sul petto che anche a un occhio meno attento appariva più grande, dai bordi più frastagliati e meno preciso di quelli delle vittime precedenti. Il ragazzo moro che era stato l’ospite dello Scavatore fino a poco tempo prima giaceva afflosciato sull’asfalto come un preservativo usato, rinsecchito e bucherellato.
«Qualcos’altro degno di nota?», chiese Sam.
Aveva le mani affondate nelle tasche dei pantaloni del completo elegante e un’espressione afflitta, ma un’insolita luce negli occhi tradiva il suo stato d’animo. Era preoccupato per il mostro ancora in libertà, ovvio, ma non era lo Stitico Tormentato di sempre.
Il Dottor Morgan si alzò, scuotendo la testa e sfilandosi i guanti in lattice.
«Mi spiace, Agente Page. Saprò dirvi di più solo dopo l’autopsia».
Ringraziarono il dottore e diedero un’occhiata alla scena del crimine. Cercare indizi con una marea di piedipiatti tra i piedi non era il massimo, ma non avevano altra scelta. Lo Scavatore sapeva che erano sulle sue tracce e adesso che aveva un nuovo corpo, nel giro di qualche ora avrebbe potuto cambiare quartiere o addirittura città in cui cacciare.
«La dormita ti ha fatto davvero bene. Sembri più rilassato», disse Dean, mentre con la scusa di essere un agente del FBI frugava nelle tasche del cadavere.
«Sì, avevi ragione tu. Era quello che mi ci voleva», rispose Sam distrattamente.
Aveva adocchiato qualcosa per terra. Dean, che se n’era accorto, si posizionò strategicamente tra Sam e gli sguardi dei poliziotti, fin quando non lo vide estrarre un rettangolino di carta plastificata da sotto la gamba del cadavere, dargli una rapida occhiata, decidere che era importante e infilarselo nella tasca interna della giacca.
Stavano per svignarsela, ma vennero bloccati da un agente di polizia. Era brizzolato e aveva l’aspetto trasandato di chi non dorme da qualche giorno.
«Lei è l’Agente Page, sbaglio?», chiese rivolgendosi a Sam con uno sguardo ansioso.
«Ehm... sì, e lei sarebbe...?».
«L’agente di polizia Lance. L’ho vista qualche giorno fa insieme al suo collega», rivolse un cenno di saluto a Dean, «al distretto di polizia. E davanti all’appartamento di mia figlia. So che non ho alcun diritto o competenza di intromettermi, ma se mia figlia è nei guai devo saperlo».
Sam aggrottò la fronte.
«Sua figlia? Intende Lau... la Signorina Dinah Laurel Lance?».
L’uomo annuì e Sam spostò il peso del corpo da un piede all’altro. Gesto che agli occhi di uno che lo conosceva bene quanto Dean era un’ammissione di colpevolezza.
«Oh, be’... no. No, non deve preoccuparsi. I miei superiori mi avevano... ehm... incaricato di porre alcune domande alla Signorina Lance riguardo a un caso di cui si era occupata quando lavorava nell’ufficio del Procuratore Distrettuale. Nulla che la coinvolga in prima persona, stia tranquillo».
L’Agente Lance parve riacquistare due anni di vita e porse a entrambi la mano.
«La ringrazio per la sua disponibilità. So che può sembrare... ossessivo, ma mia figlia sta attraversando un periodo difficile e quando questo pomeriggio non si è presentata a un appuntamento...». Scosse la testa come per darsi un contegno. «Be’, mi spiace avervi trattenuti. Sarà meglio occuparci di quel povero disgraziato, dico bene?».
Quando l’uomo fu alle loro spalle, Dean rivolse a Sam un sorriso sornione.
«E così hai interrogato la Signorina Lance, eh? Mi pareva che fossi troppo di buon umore per uno che ha solo dormito...».
«Te lo dirò solo una volta, Dean. Piantala».


«Ci vorrebbe Dig, lui è più bravo a ricucire la gente».
Oliver serrò la mascella.
«Te la stai cavando alla grande».
Felicity tagliò il filo con una forbicina e poi applicò un grosso cerotto sulla ferita. Mentre buttava le garze e il cotone idrofilo sporchi di sangue nella pattumiera, Oliver saltò giù dalla barella di metallo e si mise addosso una camicia.
«Ti fa molto male? Riesci a muoverti liberamente?», gli chiese.
Lui fece spallucce.
«Sto bene».
Stava passando un panno imbevuto di alcol sulla superficie metallica della barella (l’igiene prima di tutto, diceva sempre Dig), quando sentì le dita di Oliver sulla schiena, lì dove i denti del coso che sembrava uscito dal film Tremors avevano quasi scalfito la pelle. Non poté fare a meno di rabbrividire.
«Tu, invece? Stai bene?».
Felicity si scostò dal suo tocco. Si era appena ricordata di stare indossando un vestito ridicolmente scollato sulla schiena e ridicolmente corto sulle gambe, tutto sgualcito e strappato. Lei era sporca di fango e di sangue non suo, i capelli erano un disastro e si sentiva tutta ammaccata. Aveva bisogno di una doccia, e di un tranquillante, e magari di stare in una stanza dove non ci fosse un Oliver con la camicia aperta sul davanti. Provò a sorridere.
«Be’, tutto sommato sì. Non è la prima volta che mi faccio prendere in ostaggio come una cretina e che tu sei costretto a correre a salvarmi».
«Felicity, non è nemmeno la prima volta che facciamo questo discorso. Se c’è qualcuno che deve sentirsi in colpa per aver messo in pericolo la tua vita, quello sono io».
Felicity roteò gli occhi.
«Sei un malato cronico di protagonismo, lo sai, vero?».
Oliver aprì la bocca per ribattere, ma venne interrotto dal sistema di sicurezza che segnalava la presenza di intrusi. Felicity diede un’occhiata al monitor e sgranando gli occhi azionò il comando a distanza per sbloccare la porta di ingresso del seminterrato.
«Hai dato il nostro indirizzo a Dean e Sam?».
Lui sorrise.
«Salvarmi la vita da un verme parassita è un ottimo modo per guadagnarsi la mia fiducia».
«Non c’è di che, Legolas», disse Dean, che stava scendendo le scale seguito da Sam. Indossavano ancora gli abiti eleganti degli Agenti Plant e Page. «Mi piace come hai arredato questo posto, tutto superficie metalliche e gadget i-tech, sembra il set di Star Trek, ma con più frecce e archi».
«Avete trovato qualcosa sulla scena del crimine?», chiese Oliver ignorando il sarcasmo di Dean.
Sam tirò fuori dalla tasca interna della giacca un rettangolino di carta plastificata e lo porse a Felicity.
«L’ho trovato vicino al cadavere, crediamo possa appartenere al nuovo ospite dello Scavatore. Vale la pena fare un tentativo».
Felicity si rigirò il rettangolino tra le mani. Era il pass d’ingresso di una palestra, la Bodyspin Fitness Center, a nome di una certa Anna Hilton. Si sedette davanti al computer e cominciò subito a lavorare a un nuovo algoritmo.
«Posso trovare facilmente l’indirizzo del suo appartamento. Basta entrare nel database della Bodyspin Fitness Center e frugare nelle schede degli iscritti. Per sicurezza, però, avvierò una rapida ricerca con un algoritmo molto semplice. Se Anna Hilton si è registrata in una stanza di motel o di albergo, lo sapremo».
Alle sue spalle, Oliver, Sam e Dean la osservavano lavorare.
«Mi ricordi tanto una mia amica, dovresti conoscerla», disse Dean. «Anche lei è una nerd, esperta di computer e adora i giochi di ruolo dal vivo. Sono sicuro che le piaceresti».
Le dita di Felicity stavano volando sulla tastiera.
«Piacerebbe anche a me. Chiunque partecipi a un LARP diventerebbe mio amico».
«No, intendevo che ci proverebbe. Charlie è più marpiona di me».
«Oh, ehm... okay, sono molto...». Felicity aggrottò la fronte e si aggiustò gli occhiali sul naso. «...efficiente, a quanto pare. Ho trovato l’indirizzo di Anna Hilton. Fino ad ora nessuna stanza di motel o albergo è stata registrata a suo nome. In compenso... posso darvi il suo numero di previdenza sociale e la targa della sua auto».
Oliver stava già indossando la casacca di Arrow.
«Muoviamoci».
«Vieni con noi?», chiese Sam.
Lui scosse la testa.
«No, preferisco la moto, è più veloce».
Dean si imbronciò.
«Questo è tutto da dimostrare».


Fondersi con un nuovo corpo era sempre elettrizzante. La cosa che le piaceva di più era entrare nell’abitazione dell’ospite e curiosare in giro, aprendo cassetti, sfogliando qualche album fotografico, cercando di capire che tipo di persona fosse dagli alimenti in frigo, dagli impegni in agenda, perfino dal modo in cui erano disposti gli oggetti. Tutte quelle piccole cose che rendono una persona quella persona e non un’altra. Tutte quelle piccole cose che, alla fine della giornata, rendevano lei la persona in cui era entrata. Per poi ricominciare tutto da capo in un loop infinito fino al momento in cui avrebbe trovato l’ospite perfetto. Era sicura che ci fosse tanto da scoprire su Anna Hilton, lo intravedeva dal modo in cui vestiva, dalla cura maniacale con cui aveva ordinato i dischi in vinile, dalla noncuranza con cui invece aveva ammucchiato a casaccio gli abiti nell’armadio, dalla rosa nera tatuata sulla coscia, dallo spartito sul leggio del pianoforte aperto su una sonata di Mozart.
Purtroppo quella sera non poteva dedicarsi all’esplorazione della sua nuova vita, quella sera doveva pensare soltanto ad andarsene da Starling City nel più breve tempo possibile. Dopo il traumatico trasferimento, si era concessa soltanto il tempo necessario per recuperare le forze e adesso stava riempiendo una valigia con un mucchio di vestiti neri, borchie e anfibi. Il monolocale in cui viveva era piccolo, perciò non ci mise molto a trovare il necessario per un breve spostamento: documenti, chiavi della macchina, indumenti e qualche vivere di prima necessità. Avrebbe fatto tappa a Central City, poi chissà... Praga era una città magnifica e ormai, in meno di ventiquattro ore, si arrivava ovunque. Anche Dublino poteva essere una buona opzione. Col sorriso sulle labbra, mentre ripensava all’estate del ’54 trascorsa sulle colline ventose dell’Irlanda, chiuse la valigia, prese la borsa a tracolla e si fermò davanti alla scrivania. Frugò nel porta-gioie, scelse un anellino a forma di teschio e lo agganciò al bracciale che portava al polso accanto alla croce di Cedric. Infine, soddisfatta del risultato, prese la valigia e uscì dall’appartamento senza voltarsi indietro. Non appena mise il naso fuori dalla porta, avvertì l’essenza pungente di un dopobarba molto familiare.
«Ehi, Bianconiglio, andiamo di fretta?».
Merda, come avevano fatto a trovarla?
Il cacciatore biondo era in fondo alla prima rampa di scale e le puntava contro una pistola. Ebbe soltanto un secondo per reagire. Nel momento in cui lui fece fuoco, Anna gli scaraventò addosso la valigia, che lo travolse in pieno. Se fosse stata nel pieno delle forze, avrebbe superato i cinque pianerottoli che la separavano dal piano terra buttandosi giù dalla ringhiera e sarebbe corsa via, ma purtroppo non lo era, così tornò dentro casa e chiuse la porta a chiave. Fece appena in tempo a sbarrarla col pianoforte verticale che da fuori il cacciatore biondo aveva cominciato a prenderla a spallate.
A quel punto l’unica via d’uscita era la scala antincendio.
Aprì la finestra, scavalcò il davanzale e cominciò a scendere cercando di ignorare i cigolii metallici dei gradini. Ad ogni rampa percorsa i tom tom contro la porta si facevano sempre più lontani e la speranza di averla scampata per un soffio sempre più certezza. Quando finalmente i suoi piedi toccarono l’asfalto umido della stradina, le venne da ridere per il sollievo. Per fortuna aveva le chiavi dell’auto in tasca. Stava cercando la chiave giusta nel mazzo, quando si accorse di una sagoma alle sue spalle riflessa nel vetro della portiera.
Si abbassò appena in tempo.
La spranga di ferro si abbatté sul finestrino, facendole cadere addosso una cascata di cocci di vetro. Scattò in piedi, le chiavi ancora strette nel pugno, colpì il cacciatore moro in viso lasciandogli un lungo taglio sulla guancia, a cui fece seguire immediatamente un pugno allo stomaco. Col fiatone e il sudore che le colava sulla fronte, si fermò qualche istante a guardarlo contorcersi per terra. Fu allora che si accorse delle gomme tagliate dell’auto.
«Brutto bastardo!».
Gli diede un calcio e corse via nella direzione opposta. Svoltò l’angolo, seguendo l’andamento della stradina, e non poté fare a meno di imprecare, quando si rese conto di essere finita in un vicolo cieco. Picchiò i pugni contro il muro per la frustrazione.
No, no no no no, NO!
L’eco di una risata, poi qualcosa di liquido e maleodorante la colpì in viso. Il cacciatore biondo uscì dall’ombra. Aveva un vistoso taglio sanguinante sulla fronte e imbracciava una pistola ad acqua con cui continuava a spruzzarle addosso quella roba.
«Bon voyage, puttana!».
Anna non ci vide più dalla rabbia. Si scagliò contro di lui, pronta a ridurlo in poltiglia, ma qualcosa le si conficcò nello sterno facendola rovinare a terra. Prima che potesse capire davvero cosa fosse successo, altre due frecce la colpirono al petto. Di fronte a lei l’arciere verde ne aveva incoccato una quarta, la cui punta era infuocata. Abbassò lo sguardo sull’addome solo per vedere le fiamme divampare sui suoi vestiti.
Anna strinse forte il suo braccialetto e si mise a urlare.


Dopo un paio di tentativi falliti e una decina di imprecazioni dovute alla sensazione di avere un buco all’altezza della bocca dello stomaco, Sam era riuscito a mettersi seduto con la schiena poggiata alla fiancata dell’auto. Era intento a tamponare il taglio sulla guancia con la manica della camicia, quando un paio di blu jeans scoloriti comparvero nel suo campo visivo.
«Ti sei perso il barbecue». Dean gli porse la mano e lo aiutò a mettersi in piedi. La ferita sulla fronte sanguinava copiosamente. «Non è che adesso ti incazzi perché non ti ho aspettato per accendere la carbonella, vero?».
Sam gli diede uno spintone.
«Sta’ zitto, idiota. Abbiamo un cadavere di cui occuparci».


Lunedì

Fare le ore piccole a caccia di cattivi o mostri che dir si voglia non è l’ideale, se il giorno dopo devi alzarti presto per andare in ufficio e sai già che troverai sulla tua scrivania una pila di scartoffie da smaltire alta quanto l’Everest.
Felicity represse uno sbadiglio, si sistemò gli occhiali sul naso e strizzò gli occhi, nel tentativo di concentrarsi il più possibile sui documenti di cui, in teoria, avrebbe dovuto occuparsi il caro Signor Queen. Che al momento non stava attraversando i migliori cinque minuti della sua vita, quindi era perdonato.
Felicity lanciò un’occhiata alla parete divisoria in vetro, al di là della quale Isabel Rochev stava gesticolando e, presumibilmente, rimproverando Oliver per non essere un CEO responsabile. Oliver intercettò il suo sguardo per una frazione di secondo e lei ne approfittò per fare una linguaccia alle spalle di Isabel. Lo vide trattenere a stento un sorriso.
Un toc toc leggero la distrasse dalla scena.
Dean e Sam erano sulla soglia del suo ufficio con lo sguardo spaesato di chi non è abituato a frequentare certi luoghi. Si alzò dalla poltrona.
«Ehi, ragazzi, entrate!».
«Eravamo passati per salutare, ma vedo che Guglielmo Tell è occupato». Dean indicò Oliver e Isabel con un cenno del capo. «Fidanzata incazzata?».
«No, è solo la strega malefica che lo tiene per le palle».
Sam ammiccò.
«Si dà il caso che ci occupiamo anche di streghe di tanto in tanto».
Felicity stava per scoppiare a ridere, ma dovette ingoiare la risata sul nascere rischiando di soffocare.
«Buona giornata, Signorina Rochev».
Isabel tirò dritto col naso all’insù e lasciò la stanza senza degnare di un saluto né Felicity né Sam. Prima di varcare l’uscita, però, trovò il tempo di rivolgere un’occhiata interessata a Dean. Che prima fece l’indifferente, poi quando lei era già in fondo al corridoio si girò a guardarle il culo.
«Una strega malefica molto sexy, bisogna riconoscerlo».
«Ti consiglio di stare attento», disse Oliver, che era uscito dal suo ufficio con le mani in tasca e un’espressione mesta. «É una mangiatrice d’uomini».
«Parla per esperienza personale», borbottò Felicity.
«Siete in partenza?», chiese Oliver, glissando con nonchalance sulla sua battuta sarcastica. «Dove siete diretti?».
«Per il momento a casa, in Kansas», rispose Sam. «Ci sono delle ricerche che abbiamo lasciato in sospeso».
«In tal caso...», Oliver strinse la mano all’uno e all’altro, «...buon viaggio, e grazie».
«Non serve ringraziare», disse Sam. «Nonostante le piccole incomprensioni iniziali, c’è stata collaborazione. È stato un bel lavoro di squadra. Dico bene, Dean?».
Il diretto interessato si strinse nelle spalle.
«Non chiamerei “piccole incomprensioni” rapirmi e appendermi a testa in... ouch!». Sam gli aveva assestato una gomitata nel fianco. «Volevo dire che, in fondo, è stato divertente», si corresse.
Oliver, Felicity e Sam scoppiarono a ridere.
Poco più tardi, Oliver era tornato nel suo ufficio e Felicity aveva accompagnato i fratelli Winchester all’ascensore. Premette il tasto di chiamata e abbozzò un sorriso.
«Quindi... addio?».
«Preferisco arrivederci», rispose Dean.
Le porte scorrevoli si aprirono facendo plin. Sam era già entrato nell’ascensore, quando Dean si voltò a guardarla un’ultima volta con la sua tipica faccia da schiaffi.
«Avevi ragione, quella scrivania da segretaria non ti si addice per niente. Dovresti puntare più in alto».
Felicity gli prese il viso con entrambe le mani e lo baciò di slancio. Dopo un attimo di sorpresa, Dean corrispose il bacio, cingendole forte la vita.
«Questo sì che è un arrivederci!», disse dopo.
Lei sorrise.
«Una Smoak paga sempre i suoi debiti».
E sarebbe stata la chiusa perfetta, se...
«Etciù!».
...Dean non avesse starnutito.


«Posso chiamarti, ogni tanto? Giusto per sapere se stai bene».
«Devi. Soprattutto se ti trovi nei guai».
Sam abbracciò Laurel e lei ricambiò la stretta più forte che poté, cercando di riversare in quell’abbraccio tutte le parole che le rimanevano incastrate in gola. Per la prima volta nella sua vita, non riusciva a comporre il puzzle. Le tessere erano lì, sul tavolo, pronte per essere usate, eppure lei non poteva fare altro che guardarle con aria sconsolata. Alla fine fu in grado di pescarne solo una. Che era un po’ come il nero, stava bene su tutto.
«Grazie».
Ma Sam scosse la testa.
«Grazie a te, Laurel. Sei stata decisiva. Hai scovato il caso e senza il tuo intervento con Lockley non avremmo ottenuto la chiave per risolverlo. Penso che tu sia capace di grandi cose, troverai un altro modo per aiutare le persone come hai sempre desiderato. Devi solo recuperare la fiducia in te stessa».
Ancora una volta non le uscì altro che «Grazie».
Di credere in me.
Il clacson dell’Impala la salvò in corner dallo scoppiare in lacrime. Sam sciolse l’abbraccio e fulminò con un’occhiataccia Dean, che dentro all’abitacolo dell’auto si limitò a fare spallucce.
«Avete appianato i vostri contrasti?», chiese Laurel.
Lui si passò una mano tra i capelli e sospirò.
«É... complicato».
Laurel si alzò sulle punte dei piedi e gli diede un bacio sulla guancia.
«Quando mai non lo è?».


«Alla fine avevi ragione tu su Laurel».
«Ah, ma davvero?».
Dean sbuffò.
«Senti, non mi scuserò per la mia paranoia. La mia paranoia ci ha salvato il culo un sacco di volte. Ma in questa occasione avevi ragione tu e ho fatto male a non fidarmi del tuo giudizio. Perciò mi scuso per questo. Ti chiedo scusa, ecco».
Sam sapeva che quel scusa valeva per tante altre cose, ciò che non sapeva era se poteva perdonarle tutte, quelle altre cose. Di certo poteva perdonare questo.
«Scuse accettate», disse semplicemente.
Poi guardò fuori dal finestrino, il pensiero rivolto a Laurel.
L’Impala aveva appena superato il cartello “Now leaving Starling City, come back soon!”.







________________







Note autore:
Puntualmente, quando arrivo alla fine di una storia, mi trovo a corto di parole. Un po’ come Laurel con Sam, in pratica. Ma in fondo è giusto così, è la storia che deve parlare.
A me tocca solo ringraziare chi ha avuto la pazienza di arrivare in fondo a questa piccola long facendomi compagnia. Come prima esperienza con i crossover, direi che è andata bene. Mi sono divertita molto, incastrare e incrociare mondi mi ha dato molte soddisfazioni. Spero che sia stato piacevole anche per voi.
Ancora mille grazie e alla prossima (spero) storia!
Buon Ferragosto!
A presto, vannagio
   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Supernatural / Vai alla pagina dell'autore: vannagio