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Autore: Helena Kanbara    16/08/2015    3 recensioni
[Sequel di parachute, che non è indispensabile aver letto]
[...] io ho scelto, Stiles. Ho scelto ancora. Ho scelto di seguirti quella sera di settembre alla Riserva di Beacon Hills, quando ci siamo fatti beccare da tuo padre a curiosare sulla scena di un crimine e Peter Hale ha trasformato Scott nel licantropo buono che è tutt’oggi. Ho scelto di entrare a far parte della tua vita, ho scelto di accettare la mano che mi porgevi pur senza conoscermi e ho scelto di restarti accanto fino all’ultimo. [...] Stiles, ti amo. [...] Sono innamorata di te [...]. Ho scelto fin dal primo momento – inconsapevolmente – di innamorarmi di te e questa è probabilmente l’unica cosa che non mi pentirò mai – mai – di aver fatto. [...] ti amo. Ti amo così tanto [...].
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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NB. Da come avrete potuto leggere già nell'introduzione, questa storia è un sequel; per essere più precisi, fa da seguito a parachute: prima long che ho pubblicato e completato in questo fandom. Leggerla prima di kaleidoscope non è di certo obbligatoriamente necessario, ma vi consiglio comunque di farlo per poter avere poi le idee più chiare su cos’è successo prima che si arrivasse a “questo”. La protagonista, Harriet Carter, è un personaggio di mia invenzione, così come tutti i suoi familiari e alcuni dei suoi amici. Gli altri personaggi, ahimè, non mi appartengono. Il timeline, questa volta, è quello della 2S di Teen Wolf.
Buona lettura!
 
kaleidoscope
 
 
1.    Sirens
 
È pazzesco come una semplice canzone riesca ad influenzare e modificare – anche radicalmente – il tuo umore.
Voglio dire: succede sempre, no? Credi che sia una giornata come tante altre e senti che tutto va bene – sei anche vagamente felice – poi magicamente ti capita di infilare un paio di cuffie nelle orecchie, lo shuffle seleziona – bastardo – la canzone più triste dell’intera raccolta e puff: non sei più così felice. Te ne stai imbambolata ad ascoltare quelle note col cuore che rischia di cedere sotto il peso di tutte le sensazioni che proprio non riesci a gestire né a comprendere ed è allora che realizzi, che non importa quanto sorridi ed eviti di pensarci: hai problemi.
Ora, non che avessi bisogno di The way – quella di Zack Hemsey, una delle canzoni più spacca-cuore che avessi sul mio cellulare – per rendermi conto di quanto fosse sul serio incasinata la mia vita: la situazione era già piuttosto chiara di per sé e quella stronzissima canzone servì come nient’altro che l’ennesima conferma della cosa, tanto che – irritata – premetti il tasto pausa dopo due minuti e mi sfilai le cuffie con stizza, riponendo tutto disordinatamente nella borsa, pur sapendo che di lì a poco mi sarei auto-insultata per quel gesto che mi avrebbe reso impossibile trovare il cellulare e slegare i nodi che si sarebbero stretti magicamente attorno alle mie cuffie.
Ma non mi curai della cosa, ben decisa a distrarmi. Feci vagare lo sguardo tutt’intorno a me nella sala d’attesa del Beacon Hills Memorial Hospital, capace di diventare – in quegli ultimi due giorni – una specie di seconda casa per Stiles, che osservai addormentato come se nulla fosse su tre sedie accanto alla mia. A causa dei braccioli di queste ultime era obbligato a stare in una posizione scomodissima e per un attimo mi chiesi come facesse a dormire, ma non trovando risposta mi limitai ad allungare una mano verso i suoi capelli per accarezzarli – sempre nella speranza di potermi distrarre.
Quando sentii Stiles mugugnare e muoversi appena appena nella mia direzione temetti di averlo svegliato, ma mi accorsi poi del fatto che ancora dormisse profondamente e indisturbata continuai con le mie carezze. Ma l’improvviso rumore di una porta che si apriva e chiudeva velocemente mi colse di sorpresa, portandomi a sobbalzare e interrompere i miei movimenti. Sollevando lo sguardo, scoprii fosse proprio la porta della stanza di Lydia e trovai sulla soglia niente di meno che il signor Martin. Nell’indecisione di riservargli un saluto o meno, mi limitai a ricambiare la sua occhiata curiosa, abbozzando un sorriso nella direzione di Melissa.
«Da quanto tempo sono lì?», percepii che il padre di Lydia le chiedeva, facendosile vicino.
«Stiles da quasi due giorni», mormorò la signora McCall, osservando brevemente Stiles sdraiato di fianco a me.
Sentirle dire una cosa del genere riportò immediatamente alla mia mente l’immagine delle precedenti quarantotto ore che Stiles aveva trascorso al Beacon Hills Memorial Hospital, nell’attesa che Lydia si svegliasse. Cosa che, per fortuna, aveva fatto.
«Harriet è arrivata poche ore fa», continuò Melissa, puntandomi con un dito mentre io fingevo – forse stupidamente – di non notarla.
Sì, l’idea di raggiungere Stiles all’ospedale mi era venuta solo quel pomeriggio, quando finalmente libera dalla febbre – anche se ancora un po’ tramortita – avevo deciso di mettere fine ad inutili giornate trascorse da sola a letto, tra una lettura dei diari di Charles e una telefonata a mia madre Jenette. Oh sì, perché finalmente avevo potuto parlarle e soprattutto il coraggio per farlo non m’era venuto a mancare. Tuttavia, dalle mie labbra non era uscita mezza parola su mio padre, Philip.
Osservai di sottecchi il signor Martin mentre annuiva per far comprendere che avesse capito, poi sentii Stiles muoversi ancora e capii quando si sollevò lentamente a sedere che quella volta si fosse svegliato sul serio. Improvvisamente divertita dallo spettacolo che era capace di diventare da appena sveglio, me ne rimasi in assoluto silenzio ad osservarlo mentre si stiracchiava allungando entrambe le braccia sopra la testa e poi si guardava intorno, sbadigliando sonoramente. Quando i suoi occhi finalmente giunsero sulla mia figura, ridacchiai divertita e feci ondeggiare le dita nella sua direzione in segno di saluto. Quando sgranò gli occhi rendendosi conto del fatto che fossi sul serio lì, scoppiai direttamente a ridere.
«Buongiorno, straniero», lo apostrofai, facendogli pesare ancora una volta il fatto che per ben due giorni si fosse fatto vedere a malapena.
Comportamento infantile da parte mia, lo ammetto. Ma piuttosto giustificato.
«Che ci fai qui?», fu la sua unica domanda, alla quale risposi ironicamente com’era giusto.
«Anch’io sono felice di vederti».
Stiles s’imbronciò come un bimbo al quale veniva negato un giocattolo nuovo e d’istinto m’intenerii. Non ci andare giù pesante, Harry, mi ammonii, distendendo il viso. Era preoccupato per Lydia: la conosce da anni. Voleva esserle vicino. Non poteva passare tutto il suo tempo a pomiciare con te.
Be’, non tutto il suo tempo, magari, mi risposi, rendendomi conto solo troppo tardi di quanto fossi stupida a conversare con me stessa. Ma tre quarti di questo? Due? Sono stata male anch’io!
Stupida. Stupida, stupida, stupida. Alla mia espressione persa e distratta, Stiles rispose con le sopracciglia aggrottate. Ma quando si fu accertato di avere di nuovo tutta la mia attenzione, ripartì alla carica con l’irresistibile faccetta da cucciolo.
«Sono felice di vederti», mormorò, e lessi sul suo viso l’indecisione: sorridere o restare imbronciato? Voleva sfoggiare l’espressione che mi avrebbe fatta sciogliere di più.
Sei troppo intelligente, Stiles Stilinski.
Ma alla fine non riuscì a decidere e lasciò perdere, cambiando argomento.
«Ti senti bene? Fino a ieri avevi la febbre altissima», domandò, quella volta tradendo preoccupazione.
Sorrisi. Sempre il solito.
«Sto bene, tranquillo. E anche Lydia».
L’ombra di un sorriso simile al mio attraversò il viso di Stiles, poco prima che distogliesse lo sguardo dal mio per sbadigliare nuovamente.
«D’accordo», disse, strofinandosi gli occhi stanchi. «Hai fame?».
Scossi la testa.
«No, ho mangiato prima di venire qui».
«Va bene. Io ho bisogno di mettere qualcosa tra i denti, però».
Recepii le sue parole subito e le assimilai completamente nel momento in cui si alzò, sicuramente diretto alla ricerca di cibo. Mi limitai ad annuire silenziosa, credendo che sarebbe sparito subito chissà dove. Ma quando Stiles mi si posizionò di fronte, la sorpresa prese possesso del mio corpo e m’immobilizzò così tanto che presi coscienza di quanto fosse successo con molto ritardo.
«Torno subito», sussurrò piegandosi su di me, le mani strette attorno ai braccioli della mia sedia e le labbra a pochi centimetri dalle mie.
E poi lo fece: mi baciò. Fu nient’altro che uno sfioramento di labbra, così veloce che addirittura mi chiesi se non l’avessi solo sognato. Ma non ero ancora impazzita e sì, Stiles mi aveva baciata a fior di labbra in un luogo pubblico, sotto gli occhi di Melissa McCall. Sembrava l’avesse fatto senza nemmeno pensarci su, proprio come se fosse la cosa più naturale del mondo, e fu quello a destabilizzarmi così tanto. Non il bacio, perché di certo non era stato il primo – e speravo nemmeno l’ultimo – ma com’era successo.
«Potrei svenire», fu l’unica cosa che riuscii a dire quando se ne fu andato, a voce speravo abbastanza flebile da non essere sentita da nessuno e con gli occhi bassi sulla mia maglia blu notte.
Ma sfortunatamente sia Melissa che il signor Martin parvero cogliere quel mio commento, e se la mamma di Scott si limitò a sorridere intenerita, il padre di Lydia al contrario mise su un’espressione vagamente preoccupata. Forse fu proprio per quello che immediatamente mi misi in piedi e lo raggiunsi sulla soglia della stanza di Lydia. Ancora non lo so esattamente.
«Buonasera, signore», salutai, mettendo su un sorriso che lui ricambiò presto. «Come sta Lydia?».
«Bene. Ha ritrovato anche la forza di fare del sarcasmo», esalò, fingendo di essere scocciato. In realtà era felice. «Frequentate scuola insieme, vero?».
Annuii, stringendomi le braccia al petto. Poi sorrisi ancora. Sorrisi di circostanza ma pur sempre sorrisi. Brava, Harry.
«Abbiamo alcuni corsi in comune».
E qualche esperienza soprannaturale, pensai, ma ovviamente evitai di dirlo, riducendomi a mettere su una smorfia contrariata. Passò qualche minuto di silenzio, poi il signor Martin prese fiato e parlò di nuovo.
«È molto gentile da parte vostra». Si riferiva a me e Stiles. «Essere…».
Immagino volesse dire “essere qui”. Magari pure “per Lydia”. Ma immagino anche che non lo saprò mai.
Prima che il signor Martin potesse completare la sua frase, infatti, un urlo quasi disumano spezzò ogni cosa intorno a noi. Interruppe il suo discorso, il mio respiro e i movimenti di chiunque si trovasse nei paraggi. E tutto sembrò fermarsi magicamente, almeno finché il silenzio non tornò e tutti – seppur tramortiti – prendemmo la rincorsa verso la stanza di Lydia. Era chiaro fosse stata lei ad urlare e mentre irrompevo insieme al signor Martin, Melissa e Stiles nella sua stanza d’ospedale, pregai – forse inutilmente, forse no – che non le fosse successo nulla di male. Non ancora, per favore.
Non potei dirlo con certezza. Non in quel momento. La stanza infatti era vuota, sembrava addirittura che nessuno ci mettesse piede da tempo. Le coperte sul letto erano disfatte, segno del fatto che Lydia si fosse alzata. Per andare dove? Mi chiesi subito. E fu allora che vidi la porta chiusa del bagno. Quando il signor Martin ci si diresse a passo spedito, capii subito che sapesse delle azioni di Lydia. Magari gli aveva detto di aver bisogno di una doccia.
Ma lei non era nemmeno lì. L’acqua scorreva nella vasca da bagno: Melissa McCall si premurò di chiudere il rubinetto e poi riprese a guardarsi intorno. Riuscivo ad avvertire senza problemi il nervosismo di Stiles e avrei potuto giurare che gli stessi pensieri ci stessero attraversando la mente in quel momento. Non ancora, mi ripetei. Non ancora.
Allora mi voltai verso destra e Stiles m’imitò. I miei occhi scuri e liquidi per le poche lacrime che già li riempivano si fusero col nero della notte, ben visibile attraverso la finestra spalancata.
Lydia Martin era scappata.
 
Precedevo Stiles di alcuni passi nella nostra corsa verso il parcheggio e la Jeep contro la quale se ne stava poggiato Scott ad aspettarci. Non c’era stato nemmeno bisogno che lo chiamassimo: l’urlo di Lydia non era certo passato inosservato ai suoi sensi iper-sviluppati e gli erano bastati pochissimi minuti per raggiungerci al Beacon Hills Memorial Hospital, esattamente il tempo che avevamo impiegato io e Stiles per procurarci la camicia da notte di Lydia ed evitare che Stephen Stilinski s’insospettisse nel vederci lasciare l’ospedale di tutta corsa. Proprio lui ci aveva infatti ordinato di andare a casa e noi avevamo finto di ubbidire subito. Poco importava poi che in realtà fossimo diretti da tutt’altra parte.
Quando fu vicino a Scott abbastanza da poterlo fare, Stiles gli consegnò la camicia insanguinata con stizza e poi mi raggiunse dal lato del guidatore. Aprì lo sportello per farmi entrare e s’infilò in macchina a sua volta, seguito da Scott che gli si sedette al fianco.
«Era questa che indossava?», domandò subito McCall, interrompendo il silenzio teso nel quale ci trovavamo bloccati.
Stiles si limitò ad annuire, facendo aderire la schiena contro il sedile mentre sbuffava. Improvvisamente mi sembrava esausto, tanto che qualcosa m’intimò di provare a rassicurarlo in qualche modo. Ma non c’era nulla che potessi dire o fare per rimediare a quell’assurda situazione. Non quando io mi trovavo ad affrontarne una identica.
«Nessuno le farà del male. Non di nuovo», mormorò Scott, che capii avesse intuito cosa ronzasse in testa a Stiles almeno tanto quanto me.
In risposta alle sue parole annuii, sporgendomi tra i due sedili anteriori quel tanto che bastava ad essere più vicina ad entrambi. Mossi una mano verso il braccio di Stiles, sfregandola contro la stoffa della sua felpa nella speranza che capisse che – nonostante tutto – aveva anche me su cui contare.
«Troviamola», ordinò, riservandomi uno sguardo veloce prima di ritornare seduto composto e mettere in azione il motore della Jeep.
Quella volta fu Scott ad annuire semplicemente, poi provò a mettersi a lavoro affinché l’odore che Lydia aveva impresso sulla sua camicia da notte potesse condurci di nuovo da lei, ma in realtà non poté fare a meno di bloccarsi col naso a pochi centimetri dalla stoffa quando Stiles sobbalzò vistosamente e sollevando lo sguardo, tutti e tre individuammo la figura di Allison Argent illuminata dai fanali della Jeep.
«Come l’ha saputo?», chiesi a nessuno in particolare, aggrottando le sopracciglia mentre la osservavo avvicinarsi a Scott.
«Non l’hai chiamata tu?», domandò Stiles, voltandosi a guardarmi, improvvisamente sorpreso.
Scossi la testa e, sotto lo sguardo incredulo di Scott, feci per provare a spiegarmi. Ma Allison me lo impedì.
«Ho sentito che mio padre ne parlava con tre dei suoi uomini. Sono usciti con due SUV», esalò, e non appena ebbe finito di parlare, i visi di tutti si riempirono di terrore.
«Stanno cercando Lydia?», provò a chiedere Scott, stupidamente speranzoso di star sbagliando.
«No, sono andati a caccia».
Non ci fu bisogno di aggiungere altro: velocemente Scott permise ad Allison di salire in macchina e con altrettanta fretta Stiles mise in moto, avviandosi verso nemmeno lui sapeva dove. Una domanda cominciò insistentemente a rimbombarmi in testa finché non la posi ad Allison.
«Credono che si sia trasformata?», chiesi, e lei mi rispose con una scrollata di spalle.
«Dopo così tanto tempo dal morso? È possibile, almeno?».
Ma nemmeno per quella domanda la Argent aveva una risposta. E nemmeno Scott.
«Io… io non lo so», balbettò, la voce rotta e il corpo che tremava accostato al mio. «Dovremmo parlarne con qualcuno che se ne intende».
Stiles sbuffò. La cosa non era fattibile. E seppur in silenzio, acconsentii anch’io.
Ma non per questo si perse d’animo, continuando a guidare nella direzione che Scott man mano gli indicava. Lo osservai brevemente riempirsi le narici dell’odore di Lydia, ma quando Stiles parlò, riportai tutta la mia attenzione su di lui.
«D’accordo, lasciamo perdere», esordì, poco prima di porre la domanda che gli premeva di più. «Se Lydia si fosse trasformata, i tuoi la uccideranno?».
«Può darsi».
Quelle due parole suonarono alle mie orecchie come nient’altro che una condanna a morte e il tono improvvisamente incolore di Allison non aiutò. Pareva che la morte di Lydia fosse in quel momento molto più che probabile. Non mi rassicurò per nulla.
«Ma non ne sono sicura. I miei non mi dicono niente», continuò Allison dopo qualche attimo, esprimendo alla perfezione tutta la sua frustrazione. «So solo che ne parleremo quando arriveranno gli altri».
«Gli altri chi?», domandai allora, credendo che fossimo finalmente giunti a una svolta.
Ma mi sbagliavo, e l’unica risposta che ricevetti fu l’ennesima scrollata di spalle. Allison non avrebbe potuto aiutarci più di così. Quando anche Stiles lo capì, si aprì in un: «Fantastico…» seguito da uno sbuffo scocciato e poi l’auto si riempì di silenzio ancora una volta.
Per tutto il viaggio l’unica cosa che fummo in grado di fare fu pregare affinché almeno Scott riuscisse ad aiutare in qualche modo. Perché noi tre, lì, non potevamo proprio nulla.
 
«Non è possibile».
Queste le uniche parole che continuavo a ripetermi da quando Scott aveva ordinato a Stiles di parcheggiare la Jeep all’entrata della Riserva di Beacon Hills. Il posto dove mesi prima tutto era cominciato e dove quella sera l’olfatto di Scott ci aveva condotti, come per un tragico scherzo del destino.
«Perché mai Lydia dovrebbe essere venuta qui?», pigolò Allison, la voce spezzata dai brividi di freddo mentre si stringeva le braccia al petto nella speranza di riscaldarsi un po’ di più.
Mi ponevo la stessa domanda da ormai qualche minuto, ma pareva che nessuno dei quattro avesse una risposta valida da dare e perciò ci limitavamo a starcene tutti in silenzio mentre avanzavamo in direzione della vecchia casa Hale. Le foglie scricchiolavano sotto i miei piedi ad ogni passo ed una sensazione di pericolo non accennava a volermi abbandonare, ma non capendo cosa il mio istinto volesse comunicarmi, mi limitavo a starmene vicina a Stiles mentre avanzavamo nel bosco vuoto. Di Lydia non pareva esserci traccia, ma Scott giurava che il suo odore si fermasse lì.
«Sei sicuro che è venuta qui?», domandò Stiles ancora una volta, voltandosi a fissare il viso del migliore amico.
Voleva essere certo di non essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, mentre Lydia era chissà dove, magari in pericolo. Scoprii che i nostri desideri coincidessero ancora una volta.
Scott rispose annuendo.
«Deve essere così», mormorò, deciso.
Ma non convinse Stiles, che: «Come faceva a sapere di questo posto?», chiese, scettico.
«Con me non ci è mai venuta», aggiunse Allison, avvalorando la “tesi” di Stiles mentre mi rendevo effettivamente conto di come Lydia fosse quella che – per fortuna o meno – era riuscita a stare più lontana di tutti da quel mondo.
«Forse…», ricominciò la Argent, deglutendo rumorosamente e guardandosi intorno. Tremava. Per il freddo o anche per la paura non riuscii a capirlo. Poi continuò a parlare, prendendo coraggio e con l’aria di qualcuno che cercava in tutti i modi di misurare le proprie parole. «forse sta cercando Derek».
«Un alpha», realizzò Scott immediatamente, e ad Allison non restò altro da fare che annuire.
Lo stomaco mi si strinse all’idea. Non riuscivo ad accettare il pensiero di una Lydia licantropo.
«È istintivo cercarne uno, no?», sentii dire ancora, ma già la voce di Allison cominciava ad arrivarmi ovattata, come se fosse lontana miglia e miglia da me.
E in effetti era così. Perché se fisicamente le ero solo pochi passi più avanti, la mia mente invece vagava di già in lidi sconosciuti, evitando di proposito quella conversazione affinché potesse proteggermi dai risvolti ai quali avrebbe portato.
Con lo sguardo perso e distratto, osservai Stiles guardarsi intorno. Poi chinarsi sul terreno di foglie, scostarne un po’ con la punta delle dita lunghe ed infine trattenere un sospiro sorpreso.
«Wow», mormorò, mentre poco a poco ritornavo vigile. Il chiacchiericcio di Allison e Scott s’era bloccato, dunque non avevo più bisogno di protezione. «Guardate cos’ho trovato».
Non mi avvicinai, e Scott mi imitò.
«È… un filo», spiegò Stiles ad Allison, inginocchiata di fianco a lui. Anche se mi dava le spalle, riuscii comunque ad immaginarlo mentre sfiorava in punta di dita il filo da lui trovato. «Sembra una trappola».
Allora un improvviso spostamento d’aria mi distrasse così tanto che distolsi subito l’attenzione da Stiles ed Allison, intenti a confabulare teorie sulla vera identità di quel filo misterioso. Non li ascoltavo più, in effetti, né ci sarei riuscita a breve. Al contrario mi limitai ad urlare con tutto il fiato che avevo in gola, facendomi lontana da Scott con la paura che mi stringeva fin nelle viscere. Io, Allison e Stiles ci voltammo a guardarlo in contemporanea, ritrovandolo appeso a testa in giù.
«Era proprio una trappola», fu l’unica cosa che riuscì a dire Allison, ancora col respiro accelerato almeno tanto quanto il mio.
Avevo fatto spaventare troppo sia lei che Stiles.
«Dio, amico, non l’ho fatto di proposito!», esclamò proprio lui, raggiungendomi vicino a Scott.
Prese a guardarsi intorno per capire come aiutare McCall a scendere, ma prima che potesse riuscire a chiedere ulteriore aiuto a me ed Allison, l’espressione di Scott si freddò improvvisamente e capii che qualcosa di brutto stesse per succedere.
«Sta arrivando qualcuno», mormorò Scott infatti, immobilizzandoci tutti. «Nascondetevi!».
Per qualche attimo ci limitammo a guardarci intorno, sorpresi. Poi Scott ripeté il suo ordine alzando la voce un po’ di più e sia io che Allison e Stiles ci dirigemmo a grande velocità contro il tronco di un albero che reputammo grande abbastanza da coprirci tutti e tre alla bell’e meglio. Mi ritrovai schiacciata tra i corpi di Stiles ed Allison e solo in quel momento mi scoprii tremante: freddo e paura erano sul serio una coppia micidiale, oramai lo sapevo fin troppo bene.
Stiles era l’unico a cui era permesso di sporgersi per osservare cosa stesse succedendo a Scott senza farsi vedere: io non provai nemmeno a muovermi, ma comunque me ne stetti in religioso silenzio, sperando di riuscire a carpire qualche parola. L’unica conclusione alla quale arrivai fu che quella che sentivo in lontananza era la voce di Chris Argent. E quando Allison lo sentì parlare trattenne il respiro.
Passarono minuti che mi parvero interminabili, poi all’improvviso Stiles abbandonò il suo rifugio ed io strizzai gli occhi confusa. Ancora una volta ero riuscita a distrarmi, ma ciò non m’impediva di riprendere coscienza subito, tanto che mi decisi a seguire Stiles subito dopo Allison. Di Chris non c’era più traccia, ma comunque mi guardai attorno, ansiosa, mentre Stiles ed Allison provavano a liberare Scott e lui decideva invece di fare da solo.
Con un solo colpo d’artigli recise infatti la corda che lo teneva legato a testa in giù ed il suo infallibile equilibro da lupo lo aiutò ad atterrare perfettamente sui piedi. Sotto le espressioni sbalordite di Stiles ed Allison, Scott mise su un sorrisino soddisfatto ed io ridacchiai mentre lo osservavo fare spallucce come se niente fosse e lo sentivo mormorare: «Grazie comunque».
Poi ci diede le spalle e si avviò verso la vecchia casa Hale, salvo arrestare improvvisamente la sua camminata quando si rese conto che non lo stessimo seguendo. Si voltò di nuovo a guardarci, infossando le mani nelle tasche dei pantaloni e sollevando le sopracciglia, scettico.
«Venite o no?».
Affermativo, capo.
 
Non avrei dovuto trovarmi lì, lo sapevo benissimo. Eppure eccomi: mercoledì mattina, otto meno venti, cimitero di Beacon Hills. Braccia incrociate al petto, capelli scompigliati dal vento e Stephen Stilinski al mio fianco. Agli Sceriffi non era concessa mai una pausa. Dovunque andassero e qualunque cosa facessero, morte e violenza li seguivano. Difatti, quella mattina Stephen non avrebbe dovuto lavorare, ma semplicemente portarmi a fare colazione fuori prima di scuola. Questo prima che ricevesse una chiamata capace di cambiargli totalmente la giornata.
Dondolando annoiata sul posto, feci ruotare lo sguardo, ascoltando distratta i convenevoli che educatamente Stephen stava scambiando con un signore di mezza età e un ragazzo che aveva tutta l’aria di essere un mio coetaneo. Prima di quel giorno non ero mai stata al cimitero di Beacon Hills e capii quella mattina del sei novembre che avrei preferito mantenere le cose tali. Almeno per un altro po’.
«Sono Lahey. Isaac Lahey».
Quello era il nome del mio coetaneo: quello che aveva denunciato alla centrale di polizia un’intrusione notturna al cimitero colpevole di aver annullato il giorno libero dello sceriffo. Mentre ancora parlava, col capo chino e le spalle rigide – come se fosse teso e vagamente spaventato – strizzai gli occhi quanto bastava ad osservarlo meglio.
Non l’avevo mai visto. Ma c’era anche da dire che ero a Beacon Hills da soli due mesi e non avevo chissà quale vita sociale. Mentre Stephen prendeva appunti sul suo block notes nero, me ne rimasi in silenzio ad ascoltare.
«Isaac lavora per lei?», fu la prima domanda che lo sceriffo pose all’uomo anziano che affiancava Isaac, e solo allora posai il mio sguardo su di lui.
Con la coda dell’occhio osservai che Isaac infossava il capo tra le spalle. Mai una volta i suoi occhi s’erano posati sull’uomo che doveva di certo essere suo padre. Ne sembrava terrorizzato, quasi.
L’uomo annuì ed io riportai i miei occhi scuri sulla sua figura.
«Quando non è a scuola. Dove dovrebbe essere tra venti minuti», berciò.
Poi all’improvviso sembrò accorgersi delle occhiate curiose che gli stavo lanciando, perché i suoi occhi porcini si posarono su di me.
«Proprio come questa ragazzina, suppongo».
Non mi piaceva il suo tono di voce: era, senza alcun motivo apparente, sprezzante e pieno d’odio. Ma non mi feci intimidire, nemmeno dallo sguardo di Isaac aggiuntosi a quello di suo padre. Al contrario sollevai il mento e me ne rimasi in assoluto silenzio: non volevo dare a quell’uomo soddisfazione alcuna. Stephen mi rivolse una breve occhiata e poi si voltò nuovamente a guardare il signor Lahey. Fece per parlare, ma lui glielo impedì.
«Chi diavolo è? Non voglio che assista all’interrogatorio», sputò, continuando – nonostante fosse rivolto allo sceriffo – a tenere gli occhi fissi su di me.
Sentii una non indifferente ondata di rabbia riempirmi tutta e fu allora, poco prima di scattare, che capii fosse proprio quello l’obbiettivo di quell’uomo. Voleva che reagissi e gli procurassi un vero motivo per cui lamentarsi della mia presenza. Allora cercai di calmarmi.
«Chissà cosa potrebbe raccontare…».
Ma prima ancora che potesse finire, Stephen lo interruppe.
«È la mia assistente», spiegò, e quelle quattro parole in croce mi sorpresero così tanto che per poco non urlai, sgranando gli occhi.
Ma immaginavo di dover portare avanti la farsa, perciò mi sforzai di rimanere impassibile mentre deglutivo impercettibilmente. Gli occhi del signor Lahey non si erano mossi dalla mia figura nemmeno per un attimo e fu solo allora che mi chiesi come stessi andando. Potevo davvero sembrare l’assistente dello sceriffo? Che poi, a parte preparare caffè e rispondere alle telefonate, un’assistente cos’avrebbe dovuto fare? Di certo non assistere agli interrogatori. Cosa che parve capire anche il signor Lahey. Ma prima ancora che potesse provare a ribattere, Stephen lo interruppe.
«È maggiorenne», mentì, regalando al padre di Isaac uno sguardo che fosse altrettanto duro e astioso. «E lavora per me. Fine della questione».
Accantonato il momentaneo pericolo e messo a tacere quell’uomo insopportabilmente spocchioso, l’interrogatorio riprese come se nulla fosse e per la maggior parte del tempo fu Isaac a parlare e a rispondere alle domande dello sceriffo. Notai avesse una voce flebile e tremolante e l’idea che fosse sul serio spaventato – che non stessi solo costruendomi inutili castelli di carta – s’insinuò in me sempre più a fondo, ogni minuto che passava. Non ascoltai attentamente tutto ciò che Stephen e Isaac si dissero: mi limitai a starmene in silenzio ad osservare suo padre con la coda dell’occhio, nel terrore che trovasse qualcos’altro di cui lamentarsi, pur sapendo che non gli stessi dando alcun motivo per farlo. Possibile che quell’uomo sconosciuto fosse riuscito ad intimidire anche me? Come faceva Isaac a viverci insieme senza impazzire? Fu allora che notai un sospetto alone nero intorno al suo occhio sinistro.
Lo stomaco mi si strinse in una morsa. No. Oh, no. Magari era stato un incidente. O magari… Feci per riportare gli occhi sul signor Lahey senza più nascondermi e spiarlo di sottecchi, ma prima ancora che potessi riuscirci fu lo sguardo di Isaac a catturare la mia attenzione e distrarmi. Sentivo in sottofondo la voce di Stephen – stava davvero parlando di lacrosse? – ma ero distratta, e Isaac proprio non sembrava da meno. Osservai nella direzione in cui erano puntati i suoi occhi azzurrissimi: improvvisamente mi sembravano ancor più pieni di paura e agitazione. Credetti che avesse visto qualcosa capace di spaventarlo ancor più di suo padre, ma tra gli alberi del bosco che osservava, immobilizzato, non trovai nulla. Allora tornai a guardare Isaac, con le sopracciglia aggrottate.
«Scusi», lo sentii mormorare in direzione di Stephen, mentre distoglieva repentinamente lo sguardo dalla vegetazione circostante. Infossò le mani nelle tasche dei pantaloni scuri e sollevò le sopracciglia. «Mi sono solo ricordato che tra poco dovrei andare ad un allenamento».
Lo sceriffo non mi sembrò per nulla convinto – proprio come me – ma ad ogni modo decise di non indagare oltre e donò un ulteriore sguardo al block notes nero che ancora stringeva tra le mani.
«Un’ultima domanda», annunciò infine, ridonando tutta la sua attenzione ad Isaac. «Subite molti furti nelle tombe?».
Isaac si strinse nelle spalle. Poi i suoi occhi si spostarono sulla buca scavata alla mia sinistra e a me venne istintivo imitarlo.
«Qualcuno», sentii che mormorava, un po’ più tranquillo – forse all’idea che di lì a poco l’avremmo lasciato libero, chissà – mentre io indietreggiavo di un passo. Fino a quel momento non mi ero resa conto di essere così vicina alla buca. «Di solito prendono cose tipo i gioielli».
Stephen aggrottò le sopracciglia.
«Questa volta, invece?».
«Il fegato».
 
A fatica mossi gli ultimi passi verso l’aula di chimica, guadagnandone l’interno con aria stanca e affannata. Numerose paia di occhi mi corsero subito addosso e gli sguardi dei miei compagni descrissero alla perfezione la confusione che quella mia entrata in scena assolutamente poco consona aveva causato in loro.
Tuttavia li ignorai tutti come se nulla fosse, puntando gli occhi scuri sulla schiena del professor Harris mentre istintivamente mi dirigevo – cercando di fare il meno rumore possibile – verso il banco in penultima fila occupato da Stiles.
Il professore era di spalle, intento a muoversi agilmente tra le file di banchi, perciò ancora non aveva notato il mio vergognoso ritardo. Ma sapevo già che la cosa non sarebbe rimasta a lungo inosservata: al contrario temevo un suo richiamo infastidito più di ogni altra cosa. Sapevo di non poter evitarlo, eppure ci provai.
Magari se sguscio velocemente accanto a Stiles…, pensai, non si accorgerà nemmeno del fatto che sono arrivata adesso. Ma ancora non avevo fatto i conti col Destino, sempre pronto a rifilarmi inadeguate sorprese nei momenti meno opportuni.
Quando raggiunsi il banco occupato da Stiles, infatti, Harris ancora non aveva notato né me né il mio fiatone, ma in compenso la sconosciuta compagna di banco di Stiles mi guardò altezzosa al di sotto delle lunghe ciglia fulve. Presa di sorpresa dalla sua inaspettata presenza, di primo acchito rimasi immobilizzata con gli occhi scuri posati sul suo viso niveo spruzzato di lentiggini. Poi qualcosa si agitò dentro di me ed assunsi, quasi senza nemmeno volerlo, un’espressione contrariata.
Come hai osato sederti di fianco a Stiles?, avrei voluto chiederle, ma per fortuna riuscii ad evitare.
«Questo è il mio posto», sibilai però, rendendomi conto subito di non stare nemmeno provando a migliorare la situazione.
Al contrario mi stavo mostrando scorbutica e prepotente nei confronti di quella ragazza sconosciuta, tanto che addirittura Stiles mi dedicò un’occhiata stranita che registrai a malapena, troppo concentrata nel fulminare con gli occhi la sua nuova compagna di banco.
«Non mi pare che porti il tuo nome», mormorò proprio lei dopo qualche secondo, cogliendomi di sorpresa con quel tono per nulla indeciso.
Non avrei mai detto che fosse capace di tenermi testa: sembrava una ragazzetta carina e indifesa e invece…
Ma non avevo tempo da perdere con lei.
«Senti, hai bisogno di un invito scritto per scollare il culo da questa sedia?», borbottai, muovendo un passo nella sua direzione senza che nemmeno me ne rendessi conto.
Sul finale di frase mi ritrovai infatti così vicina al suo volto che mi sarei aspettata di vederla indietreggiare, quantomeno intimorita dal mio comportamento “minaccioso”. Tuttavia la rossa non batté nemmeno ciglio, il che riuscì ad infastidirmi ancor di più.
Feci subito per aggiungere qualcos’altro, irritata e pronta a discutere per qualcosa di così stupido, ma Stiles – bravo come al solito a predire i miei movimenti – si limitò ad ammonirmi con uno sguardo infastidito e allora provai a rilassarmi, solo perché indirettamente mi aveva chiesto lui di fare così.
«Sharon, potresti per favore lasciare il posto ad Harriet?», lo sentii chiedere alla rossa – a Sharon – e capii che, al contrario mio, stava usando la carta “gentilezza”.
Non si poteva negare che fosse più furbo della sottoscritta, ma nonostante quanto fossi convinta del fatto che almeno lui avrebbe avuto successo, le cose non andarono affatto così. Difatti Sharon lo fissò inebetita per un solo, breve attimo. Poi il suo visino spruzzato di lentiggini si piegò in un’espressione vagamente imbronciata e la stronzetta esplose in un: «DOVE ALTRO DOVREI SEDERMI?» pronunciato a voce così alta che non potemmo fare a meno di ritrovarci immediatamente addosso tutta l’attenzione del professor Harris.
Proprio ciò che avrei voluto evitare.
Nell’esatto momento in cui i piccoli occhi azzurri del professore si fossilizzarono sulla mia figura, urlai internamente e maledii Sharon. Era finita, ne ero consapevole.
«Signorina Carter! Che piacere vederla concedermi l’onore di assistere ad una delle mie modestissime lezioni», esclamò difatti, mentre l’unica cosa che avrei voluto fare io era scomparire. «Ha intenzione di sedersi a breve o vuole continuare ad oltranza col suo teatrino?».
Avrei voluto rispondergli a modo come mi piaceva fare di solito, ma evitai: un nodo pieno d’imbarazzo mi stringeva la gola e gli occhi già pizzicavano, inumiditi da insopportabili lacrime. L’unica cosa che feci fu distogliere lo sguardo dal viso di Harris per puntarlo nuovamente su Sharon, che – non so ancora come né perché – sembrò immediatamente ritrovare un briciolo di buon senso e decise di togliersi silenziosamente dalle scatole, defilandosi chissà dove mentre io, in assoluto silenzio, prendevo posto di fianco a Stiles.
«Credevo che non saresti venuta, ecco perché non ti ho tenuto il posto», lo sentii che mi spiegava velocemente, tenendo d’occhio Harris senza farsi notare.
Subito feci altrettanto, osservandolo mentre ritornava come se niente fosse alla cattedra. Quanto lo odiavo.
Rassicurai Stiles con una serie di parole alle quali non credevo io in primis, poi distrattamente lo ascoltai mentre continuava a parlarmi. Ma tutto ciò che colsi fu un: «Ero preoccupato per te» sussurrato che acquistò tutta la mia attenzione.
«Ho avuto un problema», fu l’unica giustificazione che donai a Stiles, voltandomi velocemente a fronteggiarlo. «Te ne parlo dopo, promesso. Com’è andata con Jackson?».
«È il solito menefreghista. E come se non bastasse fa finta di essere estraneo a tutta questa roba», mi rispose velocemente, subito dopo aver fatto spallucce. «Ma ha ragione lui».
Aggrottai immediatamente le sopracciglia, più che confusa da quella sua spiegazione evasiva. Io gli avevo fornito davvero pochi dettagli sul mio contrattempo, ma Stiles proprio non stava agendo da meno. Lui e Scott avevano parlato con Jackson, senza di me, ma capire come fosse andato sul serio il loro confronto non mi sarebbe stato permesso prima della fine di scuola.
Provai a chiedere ulteriori informazioni, sempre attenta a non farmi sorprendere da Harris impegnata in quella conversazione proprio durante lo svolgimento di uno dei suoi soliti test a sorpresa. Tuttavia le mie misure cautelari si dimostrarono tutte inutili nel momento in cui proprio il mio professore di chimica richiamò le nostri attenzioni, riprendendoci – proprio come gli piaceva un sacco fare – di fronte all’intera classe.
«Ci vediamo alle tre per la punizione, signor Stilinski», furono le uniche parole che colsi, ed immediatamente le mie labbra assunsero la forma di una perfetta “O”.
Com’eravamo potuti arrivare a quel punto? Feci per chiederlo, a nemmeno sapevo io chi, ma Harris ancora una volta mi anticipò, domandando: «Vuole unirsi a noi, signorina Carter?» ed io – vagamente terrorizzata dall’idea – mi limitai a scuotere la testa lentamente.
Evidentemente soddisfatto da quella mia reazione atterrita, Harris si limitò a sorridere e poi si mise seduto – finalmente – dandoci il permesso di cominciare a lavorare sui test. Tuttavia non ebbi tempo di occuparmi della cosa, perché uno «Stai bene?» sussurrato e proveniente dalle mie spalle attirò immediatamente tutta la mia attenzione.
Sentii il forte impulso di girarmi a controllare e lo feci, ruotando il capo di novanta gradi e trovandomi di fronte l’immagine di Jackson e Danny, seduti l’uno di fronte all’altro nel loro banco in ultima fila. Bastò l’espressione di Danny a farmi capire subito che fosse Jackson quello a “non stare bene”, perciò spostai lo sguardo su di lui ed immediatamente aggrottai le sopracciglia.
Si teneva una mano premuta contro il naso, vittima probabilmente di un episodio isolato di epistassi. Ma allora perché Danny aveva in viso un’espressione così preoccupata? Lo capii nel momento in cui Jackson si mise in piedi, sempre con la mano premuta contro il naso, e poi corse fuori dall’aula senza nemmeno ascoltare i richiami del professor Harris.
Un liquido denso e nero che difficilmente poteva essere sangue aveva imbrattato il foglio del suo test a sorpresa e sia io che Danny osservammo la macchia con occhi sgranati finché non fu tempo di metterci a lavoro.
Cosa sta succedendo?, fu l’ultima domanda che mi posi prima di ritornare a fronteggiare il mio compito.
 
Non appena ne ebbi l’opportunità, sgusciai fuori dall’aula di chimica e mi unii anch’io alla folla di persone intente ad affollare i corridoi della Beacon Hills High School durante il solito cambio d’ora. Quella giornata era appena cominciata e sembrava non dover finire più, ma nessuno intorno a me era giù di morale tanto quanto la sottoscritta. Non sapevo bene se fosse stata colpa del mio ritardo oppure del test di chimica che non era andato bene come volevo: fatto stava che non ero tranquilla e le condizioni instabili di Jackson e Lydia proprio non mi aiutavano a stare meglio. Sapevo che non avrei dovuto preoccuparmi – perlomeno, non per Jackson – ma non potevo impedirmi di farlo.
Sospirando raggiunsi il mio armadietto: Allison era già lì intenta a trafficare con libri e quaderni ed io la salutai con un semplice sorriso amichevole. Mentre inserivo la combinazione per aprire la serratura e poi spalancavo l’antina, l’osservai con la coda dell’occhio tirare fuori dall’armadietto un lungo vestito nero ricoperto da una busta di cellophane. Immediatamente mi sentii a disagio, riconoscendo quello come l’abito che avrebbe indossato in occasione del funerale di sua zia Kate. Sapevo di star sbagliando ancora una volta, ma non potei fare a meno di provare dispiacere per lei e per come era finita. Non se lo meritava e lo sapevo, perciò scossi la testa per scacciare via quei pensieri e donai ad Allison l’ennesimo sorriso, nella speranza vana di poterla rassicurare almeno un po’.
Lei mi ricambiò in silenzio poco prima di riportare l’attenzione sull’armadietto: un fogliettino di carta straccia aveva appena attirato il suo sguardo curioso ed io la osservai con la coda dell’occhio mentre lo prendeva tra le mani e ne leggeva il contenuto. Non le chiesi niente, ma quando Allison prese a ridacchiare di gusto la curiosità ebbe la meglio e decisi subito di chiudermi l’armadietto alle spalle per fronteggiare la mia amica senza l’impiccio dell’anta a dividerci.
«Che succede?», le domandai velocemente, cercando di sbirciare sul foglietto.
Non ne ebbi bisogno, tuttavia, perché Allison me lo porse dopo un ultimo accenno di risata.
«Scott», sussurrò semplicemente prima che potessi leggere, e tutto ciò che quel semplice nome venuto fuori dalle sue labbra riuscì a comunicare, mi diede già la risposta.
Lessi le parole “perché ti amo” con le labbra piegate in un sorriso. Quella era sicuramente la calligrafia di Scott e credevo di non averlo mai visto prima d’ora compiere un gesto così bello e romantico. Colpita, ridonai ad Allison il suo regalo ma, nel momento in cui feci per dire qualcosa, una voce sconosciuta m’interruppe.
«Bel vestito», constatò, ed immediatamente sia io che la Argent ci voltammo nella direzione dalla quale proveniva.
Ciò che ci trovammo di fronte fu un normalissimo adolescente dai capelli scuri e gli occhi chiarissimi, intento a fissare Allison – ed il suo vestito – attentamente. Proprio lei, non appena capì a cosa fosse riferito, donò allo sconosciuto un sorriso e – non sapendo come replicare – fece scorrere lo sguardo lungo tutta la sua figura finché non si scontrò con la Canon che il tipo teneva gelosamente tra le mani.
«Bella videocamera», ricambiò allora, e il discorso cadde lì.
Di nuovo provai a chiedere qualcosa ad Allison: non mi pareva di aver visto mai quel ragazzo sconosciuto prima d’allora, ma se lui le aveva parlato magari si conoscevano. Ed io non ne sapevo niente? Poco probabile, ma non impossibile. Provai a parlare, ma delle voci confuse provenienti dalle nostre spalle catturarono la mia attenzione e, purtroppo, anche quella di Allison.
«È sua zia. La pazza che ha causato l’incendio e ucciso tutta quella gente», sentii, e nonostante il fatto che quelle parole m’avevano gelato il sangue nelle vene, mi voltai comunque alle mie spalle, cercando di rintracciare chi fosse l’autore di tutte quelle cattiverie.
Due ragazze di colore erano intente a portare avanti quella sessione di pettegolezzi. Ma non le avevo mai viste prima d’allora, dunque non c’era molto che potessi fare.
«Stai scherzando? Io sto seduta vicino a lei!», trillò una delle due, allarmata, e nel silenzio che era sceso momentaneamente, quella battuta acida raggiunse perfino le orecchie del ragazzo che solo pochi secondi prima aveva parlato ad Allison.
Lo vidi infatti voltarsi ad osservare la situazione con occhi confusi, poi fissò nuovamente la Argent e mi spinse a fare altrettanto. Era ormai nient’altro che una statua di sale e mi sentii inutile: incapace di aiutarla.
«Cambia posto», fu la risposta che la ragazza preoccupata ricevette, seguita da una risata divertita alla quale si unì poco dopo.
A quel punto, per Allison fu troppo. La osservai chiudersi l’armadietto alle spalle con un tonfo, trattenere le lacrime e poi scappare letteralmente via senza che potessi fare niente per impedirglielo. Nemmeno urlare il suo nome riuscì a fermarla ed impotente, non potei far altro che ritornare a fronteggiare il mio armadietto chiuso. Sospirando tristemente ci poggiai contro la fronte, desiderando fortemente che tutto quello non fosse mai successo sotto lo sguardo leggermente allibito del ragazzo sconosciuto.
 
«Ehi».
Non appena fu vicino abbastanza da poterlo fare, Stiles salutò Scott a bassa voce e poi si inginocchiò alle sue spalle, velocemente seguito da me. Sembrava che l’essere in ritardo fosse il denominatore comune di quella giornata, tanto che ancora una volta m’ero ritrovata in tale scomoda situazione. Era il giorno del funerale di Kate Argent e sia io che Scott e Stiles avevamo deciso più o meno di comune accordo che ci saremmo stati – seppur dietro le quinte. Tutto per provare sempre e comunque a sostenere Allison.
Fu proprio lei che mi sporsi istintivamente a guardare, nascosta alla bell’e meglio dai corpi di Stiles e Scott e dalla statua in pietra consunta che ci precedeva. La vidi seduta compostamente e in maniera rigida, le mani abbandonate in grembo, lo sguardo basso e il lungo vestito nero che già aveva mostrato a scuola. Sapevo che se fosse dipeso da lei avrebbe passato l’intera funzione in quella posizione – col viso al sicuro, protetto dai capelli scuri, libera di piangere senza vergognarsi – ma quando la figura di un uomo anziano le si parò di fronte reclamando la sua attenzione, Allison fu costretta a portare gli occhi nei suoi.
«Chi diavolo è quello?», domandai presto, stupita da quella nuova presenza.
Nuova a me, certo, ma di sicuro non al resto di Beacon Hills. Mi bastò infatti vedere quell’uomo intento a parlare con Allison per capire di come fosse originario del posto e, sicuramente, in stretti rapporti con gli Argent.
Ma non ebbi tempo di ascoltare nessuna risposta perché proprio l’uomo misterioso voltò velocemente il capo nella nostra direzione e sia io che Stiles e Scott subito provvedemmo a nasconderci meglio dietro la vecchia statua in pietra, cercando di non sobbalzare troppo vistosamente.
Quando il pericolo sembrò essere scampato, Scott disse: «Decisamente un Argent» e poi ritornò a sporgersi per tenere d’occhio la situazione, muovendosi però con cautela.
Io e Stiles lo imitammo subito e catturammo lo sguardo color cioccolato di Allison, che sorrise al saluto di Scott senza però farsi notare troppo.
Incoraggiato dal silenzio teso che ci avvolgeva, Stiles cominciò a fare teorie sui nuovi arrivati – come suo solito.
«Forse è qui solo per il funerale. Magari lui e il suo gruppo sono quelli non violenti della famiglia, o qualcosa del genere», esalò, ma non sembrava molto convinto nemmeno lui. «Voglio dire: ci saranno degli Argent “tranquilli”. Spero».
La sua arringa si chiuse in nient’altro che un sussurro, e allora deglutii. Non mi era ben chiaro perché, ma sapevo che le sue speranze fossero più che vane. Lo capii donando un ulteriore sguardo in direzione dell’uomo anziano seduto di fianco ad Allison, scrutando il suo volto severo e la posa di sufficienza che aveva assunto. Tutto lasciava pensare che non fosse di certo un pacifista.
«Io so chi sono», affermò allora Scott, interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Sono i rinforzi».
Lo sapevamo. Tutti. Io in particolare. Anche Stiles che aveva provato a convincerci del contrario. Perfino Scott che dopo interi minuti di silenzio era giunto a quella conclusione più che ovvia. Eppure il tutto non ci aiutò a stare tranquilli. Al contrario, l’arrivo di altri Argent voleva significare solo una cosa: la guerra – quella vera – stava per incominciare, e i cacciatori volevano essere sicuri di non perdere più nessuno, dopo Kate. Volevano essere preparati. Proprio come avremmo dovuto essere noi.
«Non ci credo».
Una voce familiare mi riscosse all’improvviso e sobbalzai, distogliendo lo sguardo da Allison – sulla quale mi ero fossilizzata senza guardarla sul serio, persa nei miei pensieri – per voltarmi alle mie spalle, la direzione dalla quale la voce era venuta. Purtroppo però, non ebbi tempo di fare altro.
«Mi rifiuto di crederci!», continuò Stephen, afferrando Stiles e Scott affinché si mettessero in piedi.
Ecco perché la voce mi pareva familiare. Si trattava di niente di meno che lo sceriffo e come al solito, ci aveva beccati. Non avrei dovuto più stupirmi, eppure non ne ero in grado, tanto che me ne rimasi immobilizzata dalla sorpresa sotto il suo sguardo azzurro.
«Harry. Tirati su». Sapevo che non avrei dovuto, ma tentennai. «Non costringermi ad usare le maniere forti anche con te».
“Maniere forti” uguale: farsi trascinare da Stephen. Grazie ma passo.
Mi misi in piedi velocemente, facendomi vicina ai tre uomini. Essersi fatti beccare era comunque sempre fastidioso e imbarazzante, ma perlomeno non avrei più dovuto nascondermi nel cimitero che mi era capitato, in un solo giorno, di visitare troppo spesso. Avrei voluto davvero rimanere lì, per Allison, ma allo stesso tempo la cosa mi metteva a disagio – assistere di nascosto al funerale. Non mi sembrava… giusto. Dunque meglio andar via con Stephen.
Ecco perché lo seguii silenziosamente verso l’auto di pattuglia, imitata da Scott e Stiles. Stephen li lasciò andare solo quando fummo giunti alla macchina, intimando loro di prendere posto nei sedili posteriori, allacciare le cinture di sicurezza e tenere le bocche chiuse. Se fosse stata un’altra situazione avrei anche riso, ma allora mi sentivo semplicemente un nodo allo stomaco, perciò anch’io presi posto in assoluto silenzio al posto del passeggero. Quando anche Stephen entrò in macchina, provò a dire qualcosa e a mettere in moto per andare via, ma la voce di un agente glielo impedì.
«4-1-5, Adam», annunciò una voce metallica, proveniente dalla radio di servizio posizionata sul cruscotto.
Immediatamente il silenzio diventò pesante. Stiles e Scott, dietro di me, assunsero un’espressione confusa specchio di quella di Stephen, mentre io cercavo di dissimulare e mi fingevo impegnata ad allacciare la cintura di sicurezza.
«Hai detto: “4-1-5, Adam”?», domandò lo sceriffo.
«Problemi con un auto».
Era stato Stiles a sussurrarlo. Il suo intento era quello di parlare silenziosamente, ma le sue parole avevano raggiunto sia me che, ci scommettevo, Stephen. Tuttavia lui fece finta di nulla, rimanendo in attesa di una risposta dalla radio. Io invece mi voltai a cercare i visi di Stiles e Scott con le sopracciglia aggrottate. Purtroppo però non ebbi tempo di dire né fare nulla.
«Stavano trasportando una vittima d’infarto, ma andando in ospedale qualcosa li ha colpiti», sentii, e gli occhi mi si sgranarono in automatico.
«Hanno colpito un’ambulanza?».
Non era quella la domanda più importante, me ne resi conto subito. Piuttosto c’era da chiedersi: chi ha colpito un’ambulanza? Speravo che la risposta alla quale stavo pensando – sicuramente insieme a Scott e Stiles – fosse sbagliata.
«Affermativo», confermò l’agente attraverso la radio, prima di continuare a parlare. «Sono qua davanti, adesso. Qualcosa li ha presi da dietro. C’è sangue dappertutto: proprio dappertutto».
La voce dell’uomo si spezzò, divenendo ancor meno udibile attraverso la linea disturbata dal maltempo in arrivo. L’agente tradiva tutta la sua agitazione e nessuno meglio di me riusciva a capirlo. Tuttavia il suo atteggiamento non avrebbe portato a nulla di buono e Stephen lo capì subito, cercando di tranquillizzarlo e riportare la sua mente al lavoro.
«Qual è la vostra posizione?», gli domandò, e allora l’agente – seppur ancora scosso – ritornò attento e gli rispose in modo esauriente.
«Non ho mai visto niente di simile», concluse prima che il collegamento s’interrompesse, e un brivido mi corse immediatamente giù per la schiena, provocato da un improvviso spiffero di vento – e non solo.
Stephen spense la radio, sospirando mentre si accasciava contro il sedile.
Poi: «Devo andare», spiegò, voltandosi a guardarmi prima di girarsi alle sue spalle e dire: «In quanto a voi…».
Ma la sua frase restò incompiuta, e seguendo il suo sguardo azzurro capii subito perché. I sedili posteriori della volante erano vuoti: Stiles e Scott erano sgattaiolati via in silenzio e nessuno di noi se n’era reso conto – io addirittura avevo pensato che lo spiffero di vento che sommato all’agitazione mi aveva fatta rabbrividire vistosamente fosse stato semplicemente casuale. Che povera illusa.
«Li ammazzo», borbottò Stephen, mettendo in moto l’auto senza nemmeno lasciarmi il tempo di dire nulla. «Giuro che li ammazzo».
Ti do volentieri una mano.
 
Arrivammo sulla scena del crimine esattamente dieci minuti dopo. Il luogo era tenuto sotto stretta sorveglianza da diverse pattuglie della polizia e le luci delle auto risplendevano nel buio della notte, tutte condensate nel punto focale dello scenario. Quando vidi, le gambe divennero gelatina e dovetti aggrapparmi ad uno degli specchietti dell’auto di Stephen per non cadere, stravolta da quell’orrore.
L’ambulanza biancorossa del Beacon Hills Memorial Hospital, quella coinvolta nell’incidente, si presentava agli occhi di tutti col portellone posteriore spalancato e distrutto. Ma non era quella la parte peggiore, no. All’interno di essa se ne stava un uomo visibilmente morto, la testa riversa e gli occhi chiusi. Le pareti del mezzo, un tempo candide, erano ora ricoperte e screziate di rosso. Il sangue di quell’uomo che i paramedici avevano tentato di salvare, imbrattava i muri dell’ambulanza e di fronte a quella vista sentii salirmi in gola un fiotto di bile. Se fossi stata sola penso che avrei anche rovesciato e mi sarei lasciata libera di abbandonarmi al crollo, ma una moltitudine di agenti – primo fra tutti Stephen – mi guardavano di sottecchi con espressione preoccupata e capii subito di essere obbligata a controllarmi. Anche perché non ero certo io quella meritevole di attenzioni. C’erano problemi più gravi.
M’ero fatta lontana dalla scena, tuttavia, incapace di sopportare ancora quella vista terrificante. Eravamo al limitare del bosco, e lontana dalla folla di persone che affollavano il posto mi riscoprii intenta a riflettere. Era sul serio stata Lydia a compiere quella violenza così atroce? Si era trasformata in un mostro irriconoscibile e assetato di sangue? Perché non era successa la stessa cosa a Scott? Lydia era forse stata più debole? E Jackson, ora che Derek l’aveva morso, avrebbe seguito le sue orme? Ma allora perché sembrava stare così male?
Quei pensieri erano solo uno scudo, tuttavia. Lo sapevo benissimo, anche se preferivo non ammetterlo. Mi faceva comodo arrovellarmi su questioni che non avrei mai potuto comprendere piuttosto che pensare a dove potesse essere Stiles e preoccuparmi a morte per lui. Era di gran lunga più conveniente, ma non era affatto ciò che avrei voluto fare. Lo compresi a pieno quindici minuti dopo, quando Stiles rifiutò la mia quattordicesima chiamata e decisi di lasciarmi andare al crollo mentale che già da tempo minacciava di accogliermi a braccia aperte.
Non riuscii nemmeno ad impedirmelo: semplicemente scoppiai a piangere molto più forte di quanto mi sarei mai aspettata e con mani tremanti decisi di ricomporre il numero di Stiles. Non potevo credere che fosse successo qualcosa anche a lui, e a Scott. Quella non era un'opzione accettabile. Ma se stava bene, allora perché non rispondeva alle mie chiamate? Perché non tornava da me?
«Stiles», gemetti ancora, non appena la segreteria mi diede il via. «Stiles, ho bisogno di sapere che stai bene. Ho bisogno di sapere che sia tu che Scott siete sani e salvi».
Deglutii, cercando di calmare i miei sussulti. Tirando su col naso, mi passai una mano sul viso e strinsi più forte le dita attorno al mio cellulare. Lo premetti ulteriormente contro l’orecchio prima di riprendere a parlare, sperando che il mio pianto non fosse poi così rumoroso da attirare l’attenzione di qualcuno degli agenti nelle vicinanze.
«Sono preoccupatissima», aggiunsi, balbettando quasi. «Anche tuo padre lo è. Stiles, rispondi».
Un improvviso bip interruppe la registrazione e il respiro mi si mozzò in gola, facendo sì che anche la mia voce venisse meno. Il mio tempo era scaduto, anche quella volta. Quello era il quindicesimo messaggio che lasciavo in segreteria. Quella era la quindicesima volta che non ricevevo alcuna risposta. Avevo perso.
«Ti prego…», mormorai a me stessa, completando la mia frase anche se sapevo che Stiles non avrebbe potuto sentirmi.
O perlomeno così credevo, perché scoprii presto di starmi sbagliando. Difatti, ad un passo dallo scoppiare a piangere ancora – più forte di prima – sentii qualcosa sfiorarmi la spalla e prima ancora che me ne potessi rendere conto, mi ritrovai stretta in un abbraccio fin troppo familiare.
Oh Dio. Oh Dio, oh Dio, oh Dio. Pensai immediatamente, stringendo le mie braccia attorno al corpo di Stiles come se ne dipendesse della mia stessa vita. Da dov’era spuntato? Ma soprattutto: stava bene? Mi aveva sentita piangere e parlare al telefono? Non ebbi la forza di porgli tutte quelle domande.
«Mi dispiace», mi sentii dire, e allora lo strinsi più forte.
Tutto questo finché la rabbia non riprese a montarmi dentro, accecandomi totalmente com’era successo interi minuti prima. Stravolta, mi feci lontana da Stiles e gli donai un’occhiataccia non troppo convinta. Avevo ancora gli occhi pieni di lacrime e le guance bagnate: di certo la mia cera era pessima e perciò non molto minacciosa. Ma me ne fregai. Stiles mi aveva fatta preoccupare a morte e volevo che lo capisse.
«Sei un deficiente», sbottai, spintonandolo lievemente. «Si può sapere cosa cazzo ti è saltato in mente?».
«Harry», provò a fermarmi, chiamando il mio nome con un tono di voce tranquillo.
Ovviamente non ne volli sapere di stare calma.
«No, ora stai zitto!», redarguii, puntandogli un indice contro. «Stavo morendo di paura. Lo vedi come sto? Uno schifo. Non devi fare mai più una cosa del genere!».
Al mio: “Lo vedi come sto?” fu naturale, per Stiles, guardarmi – quella volta sul serio. Non so cosa vide sul mio viso, non voglio chiedermelo né saperlo, fatto sta che si rabbuiò di conseguenza e qualcosa dentro di me si spezzò. Capii solo in quel momento che c’eravamo fatti del male a vicenda.
«Eravamo preoccupati per Lydia…», mormorò dopo qualche secondo, distogliendo lo sguardo dal mio viso.
«Lo ero anch’io. Ma ero anche preoccupata per te. E per Scott». Compii qualche passo nella sua direzione, contrariata da quel suo improvviso allontanamento. «Non dovreste mettervici anche voi».
Solo allora Stiles riprese a guardarmi. Eravamo così vicini che potei vedere i suoi occhi lucidi, e per poco la sorpresa non mi fece vacillare.
«Mi dispiace», ripeté, non distogliendo mai – nemmeno per un attimo – gli occhi dal mio viso.
Capii che non sarei riuscita a sostenere oltre quel suo sguardo senza crollare di nuovo, ecco perché mi affidai completamente a Stiles, stringendolo ancora tra le mie braccia e facendomi stringere a mia volta.
«Ti odio», borbottai però quando fui nascosta contro il suo petto, asciugandomi le guance alla bell’e meglio.
Stiles s’irrigidì contro di me, smise di accarezzarmi i capelli e poi provò a dire qualcosa. Allora lo fermai, facendomi lontana dal suo corpo quel tanto che bastava a guardarlo in viso. Quasi rinata, gli sorrisi e poi gli porsi una mano affinché la afferrasse. Quando lo fece, sperai di averlo tranquillizzato almeno un po’.
Poi: «Andiamo da tuo padre», dissi, e insieme ci avviammo verso la meta.
Insieme. Ancora.
 
 
 
 
I’m getting weaker everyday,
yeah.
 
 
 
 
Ringraziamenti
Agli Honor Society, perché la loro
Kaleidoscope fa da titolo a quest’ennesimo viaggio che farò insieme ad Harriet e Stiles (e spero insieme a tutti voi).
A Cher Lloyd, perché la sua
Sirens fa da titolo/canzone citata in questo primo capitolo della storia.
A Zack Hemsey, perché
The way è TUTTO.
In anticipo, a chiunque leggerà/seguirà/ricorderà/preferirà/recensirà.
 
Note
Il banner/gif non è di mia proprietà: non l’ho creato io, dunque non intendo – ovviamente – prendermene il merito.
Su facebook mi trovate come
Lena Harmon (ancora per poco, perché ho intenzione di ritornare ad essere la signora Kanbara anche lì. Ma vbb). Potete aggiungermi per spoiler, scleri vari e anche per farmi domande (sarò felicissima di rispondere a qualsiasi vostro quesito).
Vi chiedo scusa per questo capitolo-papiro. Davvero.
Quale sarà il contrattempo che ha impedito ad Harriet di arrivare in orario alla lezione di Harris?
   
 
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