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Autore: Sara Orwell    16/08/2015    7 recensioni
Quattrocento, Ducato di Grifo.
Sibilla è una giovane dama di corte circondata da spasimanti interessati solo al suo denaro, divisa tra la fedeltà al padre e quella alla duchessa, tormentata da sogni spaventosi e premonizioni indecifrabili.
In un momento storico in cui le donne sono in balia di un mondo governato dagli uomini e soggette più che mai alle persecuzioni contro le streghe, deve riuscire a sopravvivere.
Dal prologo:
«Corre, corre con tutte le sue forze nel bosco, disperata, sfiorando i rami degli alberi e sostenendo la lunga gonna dell’abito per non inciampare. Scappa, fugge per salvarsi la vita, abbandona tutto ciò che ha sempre conosciuto. Non è più un luogo sicuro per lei. Non lo è mai stato. L’odore acre del fumo le raggiunge le narici nonostante lei si stia allontanando sempre più dal rogo. È orribile.»
Genere: Fantasy, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Cap 1
Un ringraziamento speciale a Lilith, la mia beta,
che mi ha aiutata a dare la forma migliore a questo capitolo.





Capitolo 1

 
Il fruscio degli abiti che sfioravano il pavimento si univa al tacchettio ripetitivo degli stivali dei gentiluomini, al battito ritmico delle mani, in un connubio di suoni e rumori che denotavano brio e serenità. Le risate soffocate provenienti dagli angoli nascosti della sala e le composizioni allegre dei musicisti facevano da sottofondo alle danze con cui i commensali erano soliti passare l’ora successiva al pranzo. Quel giorno il tempo dedicato a quest’attività sembrava non dover finire mai: in attesa dell’imminente arrivo del nuovo ambasciatore spagnolo, il duca di Grifo non si era ancora ritirato dalla Sala Grande del castello e tutta la sua corte era rimasta con lui, assecondando il suo momentaneo buon umore.
In quest’atmosfera leggera e spensierata, Sibilla si muoveva con grazia, impegnata nell’arte che più amava, con un sorriso sulle labbra sebbene il suo cavaliere non fosse di suo gradimento. Era un discreto ballerino, migliore di quello al suo fianco che aveva rischiato più volte di urtarla con i suoi movimenti impacciati, ma il suo sguardo tradiva le sue vere intenzioni e lei non avrebbe mai potuto sopportare un uomo simile per più di un paio di danze. Come la maggior parte degli uomini che aveva conosciuto fino ad allora, Domenico Busti era interessato solo a tre cose: potere, denaro e sesso. Se il padre di Sibilla avesse deciso di accettare la sua proposta di matrimonio, lei sarebbe stata sua e lui si sarebbe preso tutto ciò che avrebbe voluto. Potere, perché nonostante non fosse di nobili origini come lui, il ruolo che aveva avuto suo padre nel consolidare il ducato di Grifo l’aveva fatto salire ai primi posti tra le grazie del duca Terenzio. Denaro, perché egli era stato ripagato abbondantemente per i suoi servigi. Sesso, perché una volta sposata Sibilla non avrebbe potuto opporsi a nessun desiderio del marito. Una volta sposata avrebbe perso anche la poca libertà di cui godeva in quel momento. Era il destino di ogni donna e la sua ricchezza non l’avrebbe aiutata a cambiarlo. Non aveva fratelli o sorelle, sua madre era morta dandola alla luce e i due matrimoni successivi di suo padre non avevano generato altri figli. Era l’unica erede di un grande patrimonio, ma non avrebbe mai potuto toccarlo. Lei era solo una donna, incapace di prendersi cura di se stessa e vivere un’esistenza indipendente dall’aiuto degli uomini. Non aveva diritto di parola nemmeno nella scelta del suo consorte perché, a dispetto delle sue preferenze, sarebbe stato suo padre a scegliere l’uomo più adatto a lei e alla sua fortuna. Se, Dio non voglia, egli fosse passato a miglior vita prima di aver preso la sua decisione, si sarebbe incaricato il duca in persona di questo compito. Così Sibilla doveva danzare con lui, donargli sorrisi affabili, ridere alle sue battute noiose e non infastidirlo mai. Tutto purché egli non ritirasse la sua offerta, che era ormai da settimane al vaglio di suo padre, insieme a quella di un altro uomo di pari qualità.
«Sibilla.» La voce del suo compagno di danza la richiamò e per un momento temette che lui avesse notato che si era distratta, intenta a riflettere sul suo futuro mentre avrebbe dovuto prestare tutta la sua attenzione a lui. Si rese conto però che lui non si era accorto di nulla: la stava ancora guardando con un sorriso orgoglioso quando si chinò verso di lei per sussurrarle all’orecchio.
«La Duchessa Giacinta ci sta osservando» mormorò, con sguardo complice. «Sembriamo piacerle molto insieme.»
Sibilla sorrise, senza guardare verso la sua signora: sapeva che lei non apprezzava affatto l’uomo che aveva davanti.
«Ne sono certa, non c’è motivo per cui non dovremmo piacerle insieme» mentì, approfittando del movimento del ballo per superarlo e non dovergli mostrare il suo volto.
Sarebbero stati davvero una bella coppia, se non si fossero considerati i loro caratteri contrastanti, i loro pensieri diametralmente opposti e la totale mancanza di interessi comuni. Graziosi come due bamboline di pezza, con un finto sorriso cucito sul volto e il cuore di stoffa, incapaci di provare un sentimento di vero affetto l’uno per l’altra.
Fu il suono di decine di passi rumorosi e affrettati a interrompere le danze. Bastò che il duca alzasse la mano, una volta udito il rumore, perché i musicisti smettessero di suonare i loro strumenti e i ballerini si ritirassero ai lati della sala, pronti ad accogliere i nuovi arrivati. Sibilla recuperò il suo posto tra le dame di compagnia della duchessa, ai piedi dei tre gradini che rialzavano gli scanni dei consorti rispetto al resto della sala.
«Dicono che sia molto affascinante» le sussurrò Caterina, la sua compagna di stanza, tenendo gli occhi puntati all’entrata della stanza.
«Chi lo dice?» domandò Sibilla, incuriosita. L’ambasciatore non era mai stato nel ducato di Grifo prima d’ora e pertanto nessuno degli abitanti del luogo l’aveva mai visto.
«Me l’ha raccontato Helena quando abbiamo avuto la notizia del suo incarico, prima di…» Non concluse la frase, non ce n’era bisogno. Tacquero entrambe, memori della terribile fine della ragazza. Helena era giunta dalla Spagna come accompagnatrice della duchessa sei anni prima, le era stata vicina nel primo periodo di matrimonio, il più difficile. Il temperamento di Jacinta Ribera non era affatto mansueto e docile come avrebbe desiderato suo marito. Nei primi mesi di convivenza si erano ripetuti litigi e discussioni: la donna non voleva accettare il posto sottomesso e silenzioso che era stato pensato per lei, era cresciuta in un ambiente in cui aveva sempre potuto esternare la sua opinione e prendere decisioni a riguardo della propria persona e di coloro che la circondavano. La sua battaglia per avere maggior peso negli affari del marito era andata persa: aveva dovuto arrendersi e relegarsi nel ruolo a lei prescritto. Era la duchessa di Grifo, la figlia del barone Ribera, era stata una delle prime dame del Regno di Spagna, ma rimaneva sempre una donna. Di fronte a suo marito era impotente: nessuno l’avrebbe salvata dalla sua furia se lui avesse deciso che non valeva la pena di tenerla con sé solo per salvaguardare i rapporti con il suo paese natale. Così aveva richiesto che la si chiamasse Giacinta ed era diventata la buona moglie a cui egli aveva aspirato: bella, giovane, servizievole, indifferente alle questioni politiche e sempre pronta ad accoglierlo tra le sue braccia quando lui l’avesse voluto. Non era mai riuscita a imporsi in nessun frangente: non aveva nemmeno potuto salvare la sua più fidata confidente quando Terenzio Grifo aveva deciso che quell’ingenua ragazza spagnola era aveva certamente una strega e l’aveva mandata al rogo.
Senza di lei la duchessa era rimasta sola in quel paese straniero, aveva dovuto imparare a fidarsi delle altre dame di corte ma Sibilla dubitava che ci fosse mai riuscita realmente. Helena era stata fedele alla duchessa prima di tutto, la loro priorità era invece il ducato.
L’arrivo di una persona che condivideva i suoi valori e che era cresciuta nel suo stesso ambiente doveva portarle grande conforto: di lui avrebbe potuto fidarsi ciecamente.
Quello che ben presto sarebbe diventato il suo uomo di fiducia era appena stato presentato dal valletto di corte e si stava inchinando al centro della sala.
«Helena aveva ragione» mormorò Caterina sottovoce, osservandolo.
«Ambasciatore Lozano» lo salutò il duca, invitandolo a sollevarsi. «Voi e il vostro seguito siete i benvenuti nel Ducato di Grifo. Mi auguro che con questa vicinanza l’alleanza tra i nostri paesi si possa rafforzare e il nostro legame diventare più solido e duraturo.»
«In qualità di rappresentante del Regno di Spagna, vi posso assicurare che questo desiderio è reciproco. Sua Maestà tiene molto a quest’alleanza e mi ha mandato a voi per preservare i vostri interessi comuni.» La sua voce era roca, forse per via del forte vento che aveva dovuto sopportare durante la cavalcata, e possedeva un timbro particolare, l’accento tipicamente spagnolo che Sibilla non sentiva da molto tempo. La duchessa aveva appreso a parlare la loro lingua in modo impeccabile e nessuno, udendola, avrebbe potuto dire che non fosse originaria del Ducato stesso.
«Sono certo che ricordiate mia moglie» disse allora il duca, accennando alla donna seduta al suo fianco. Giacinta si sollevò e scese i gradini, allungando il braccio in modo che l’ambasciatore potesse baciarle la mano.
«Nessuno potrebbe dimenticare il fiore di Ribera» rispose, posando le sue labbra sul dorso della sua mano e sfiorandole con le dita il polso. «È una gioia rivedervi, duchessa.»
«Sono lieta che siate giunto da noi, Lozano. La vostra presenza mi ricorda la mia felice giovinezza in Spagna e questo mi rende grata dello splendore che la vita continua a offrirmi anche ora.» Pronunciò le ultime parole voltandosi verso il marito con un sorriso convincente e apparentemente sincero.
«Dovete essere assetato» s’intromise l’uomo. «Seguitemi nel mio gabinetto, potrete godere di un piccolo rinfresco e avremo la possibilità di discutere delle incombenze più urgenti.»
Giacinta si fece da parte con un cenno del capo, senza far notare al marito che avrebbe potuto rimandare le discussioni almeno al giorno successivo e lasciare al loro ospite il tempo di riposare. Con ogni probabilità le avrebbe risposto che lei, essendo una donna, non poteva capire l’urgenza di quelle faccende e non aveva la costituzione adatta a un lavoro continuo e impegnativo. Sarebbe stata umiliata davanti alla corte e questo non poteva sopportarlo.
Così sorrise e accennò un inchino, un piccolo e aggraziato movimento del corpo per congedarsi in modo appropriato al proprio rango.
Si diresse ai propri appartamenti, seguita dalle sue dame, per quello che a tutti sarebbe apparso un banale pomeriggio passato a ricamare e a leggere le Sacre Scritture, le attività più adatte a una signora rispettabile.



*     *     *
 

 
Sibilla si fermò nel corridoio che portava alla sala dove si tenevano solitamente i banchetti e si ritirò in un angolo, attendendo che suo padre la raggiungesse. Aveva sentito il suo sguardo insistente posarsi su di lei mentre camminava con le altre dame e aveva capito che voleva parlarle.
«Padre» lo salutò, abbassando il capo in segno di rispetto.
«Domenico Busti mi ha riferito che la duchessa ha dato segni di apprezzamento nei vostri confronti mentre danzavate. Ha mai parlato di lui nelle sue stanze? È forse uno dei suoi favoriti?» chiese lui, senza soffermarsi in convenevoli.
Da qualche mese era diventato particolarmente diretto e pragmatico. Forse perché iniziava a sentire il peso degli anni sulle sue spalle e non credeva di avere ancora molto tempo a sua disposizione. Aveva fretta di sistemare tutti gli affari ancora aperti e Sibilla era uno di questi.
«Non è uno dei suoi favoriti. Sapete che non ha favoriti tra gli uomini del duca.»
«Non ne ha di ufficiali. Deve pur avere qualche preferenza, non può disprezzare tutti gli uomini della corte allo stesso modo. Pensaci bene. Sai che è tuo dovere tenerla d’occhio e riferirmi ogni comportamento o commento fuori luogo. Il duca fa affidamento sulla nostra famiglia e non possiamo permetterci di deluderlo.»
«Ne sono consapevole, padre. L’unico motivo per cui non ho riferito nulla è che la duchessa non ha mai detto o fatto niente di equivoco. Se davvero, come ritenete, non è fedele al ducato, è un’abile simulatrice.»
«È una straniera» le ricordò l’uomo, con tono disgustato. «Non sarà mai fedele ai Grifo.»
Sibilla abbassò lo sguardo, consapevole oramai che contraddirlo non era una buona idea.
«Se Busti non è tra i suoi preferiti, non posso ancora scegliere lui come mio erede. Vedi di danzare con Giuliano Crespi questa sera; e sii amabile.»
«È davvero necessario?» sospirò lei, quasi senza accorgersene. Si morse la lingua per quella sua esclamazione, preannunciando la reazione di suo padre.
«Hai ricevuto un titolo nobiliare senza che io lo sapessi, ragazza?» sibilò lui con voce bassa ma tagliente. «La nostra ricchezza non ha valore senza un titolo. Se dovessimo per sventura uscire dalle grazie del duca, potremmo rimanere senza un soldo e un tetto per ripararci la notte. Abbiamo bisogno di unirci a qualcuno che abbia un nome e tu sei il mezzo per farlo. Quindi, sì: è necessario, assolutamente necessario!»
Sibilla non riuscì a rialzare gli occhi per incontrare quelli dell’uomo ormai visibilmente alterato che aveva davanti.
«Scusami, papà» mormorò, sperando di calmare la sua ira con un tono docile e parole più intime del «Perdonatemi, padre» che avrebbe utilizzato di solito.
«Entra» le rispose lui, indicandole la sala del banchetto. Sibilla obbedì immediatamente, congedandosi con un rapido inchino e sforzandosi per mantenere un sorriso sul volto per non far vedere a nessuno che avevano avuto una discussione. Le sue scuse non erano servite a nulla, suo padre era ancora alterato e questo l’avrebbe reso più vigile che mai sul comportamento che lei avrebbe avuto quella sera. Si accomodò al tavolo riservato alle dame di corte, dove l’ambasciatore spagnolo rimaneva il principale argomento di conversazione.
«Quanto credete che resterà?»
«Mio fratello ha detto che al duca sembra piacere molto.»
«Secondo voi sta cercando una moglie?»
«Siete sicure che non sia già sposato e non abbia una famiglia in Spagna?»
Domande veloci e curiose si sovrastarono in una lotta di sussurri e occhiatine all’uomo seduto accanto al duca al tavolo d’onore. Anche Sibilla s’intromise nella conversazione, improvvisando risposte che portavano a ulteriori punti interrogativi.
«La duchessa non ha parlato affatto del suo arrivo, oggi. Non trovate che sia strano? Credevo che le avesse fatto piacere rivedere un volto familiare della sua infanzia!»
Sibilla si concentrò su quelle parole, attendendo una replica, a disagio. Aveva il dovere di ascoltare, ma non aveva mai avuto il desiderio di scoprire qualcosa che potesse mettere la sua signora nei problemi. Era una straniera, sì, ma rimaneva pur sempre una donna in balia di un mondo governato da uomini. Vederla lottare per mantenere la sua indipendenza, nei primi mesi dopo il suo arrivo a Grifo, l’aveva riempita di pena e simpatia nei suoi confronti perché nonostante fosse la prima donna del ducato non aveva diritto a nessun potere.
Solo quando si era ritrovata divisa tra due pretendenti che ricercavano solo l’approvazione di suo padre e non la sua, però, aveva compreso davvero cosa aveva dovuto subire. L’idea di riportare i suoi segreti a suo padre e tradirla le doleva fisicamente. Le sembrava di tradire anche se stessa. Le era infinitamente grata per non averla ancora dato nulla da riferire.
Quando i servitori portarono i vassoi ricchi di pietanze prelibate, Sibilla se ne servì senza appetito. Il fagiano ai carciofi, uno dei suoi piatti preferii, non le riportò la fame che aveva perso durante la conversazione avuta con suo padre. Sentiva una morsa allo stomaco che le rendeva estremamente difficile finire il piccolo piatto che aveva composto, ma sapeva che se non avesse mangiato nulla qualcuno l’avrebbe notato e si sarebbe chiesto cosa la tenesse così sulle spine. Aveva una brutta sensazione, un presentimento che le diceva che qualcosa sarebbe andato storto, che sarebbe sorto un problema. Non aveva idea di cosa si trattasse, ma era certa che la sua non era una sciocca paranoia. Da alcuni mesi le capitava di provare talvolta una confusione simile e solitamente questa era seguita da sogni strani e indecifrabili. Si svegliava nel cuore della notte, spaventata da ciò che aveva visto e che non riusciva a dimenticare. Immagini di cui non comprendeva il significato e che la facevano tremare. Non ne aveva mai parlato con nessuno, per qualche motivo non riusciva a confidare quel segreto che le sembrava pericoloso, come se fosse colpa sua. Anche in quel momento, mentre beveva e sorrideva tanto da avere dolore ai muscoli del viso, il pensiero di passare un’altra notte d’inferno la terrorizzava. L’unica cosa che riusciva a calmarla un po’ era la consapevolezza che la sua compagna di stanza aveva il sonno pesane e che non si era mai svegliata a causa sua.
Quando sentì le prime note dello Spagnoletto diffondersi nella sala sollevò lo sguardo dal suo piatto finalmente vuoto e cercò tra le decine di volti maschili quelli dei due giovani uomini di cui doveva occuparsi. Vide Domenico Busti avvicinarsi a lei ma fermarsi a metà strada quando suo padre lo chiamò a sé, sicuramente per permetterle di passare del tempo con Giuliano Crespi e mantenere interessati entrambi. Si alzò e cominciò a passeggiare con aria noncurante intorno alla sala, osservando coloro che ballavano al centro della stanza e dirigendosi nel frattempo verso il tavolo di Crespi, che stava ancora ridendo con i suoi commensali. Salutò una donna intenta alla stessa attività, sebbene il suo obbiettivo fosse un altro uomo, in modo da attirare con il suono della sua voce l’attenzione del suo pretendente. Ci riuscì, perché nel giro di un paio di minuti egli era al suo fianco e, con una mano poggiata sulla sua schiena, la stava accompagnando verso le danze.
«Siete splendida stasera» si complimentò quando i passi li portarono vicini. Sibilla chinò il capo con un sorriso di ringraziamento e posò la mano sopra la sua, prendendo a ruotare a ritmo di musica insieme agli altri ballerini. Il corpetto dell’abito si stava facendo troppo stretto e l’ansia che provava non l’aiutava di certo a respirare meglio. Quando dovette fermarsi per lasciar spazio all’altra coppia, inspirò a fondo, mantenendo il mento alto e il viso più rilassato che poté. A un paio di metri da lei, il suo compagno non smetteva di fissarla con interesse. Sollevò leggermente le gonne e si spostò con grazia indietro, per poi scivolare nuovamente in avanti, a pochi centimetri da lui.
«Avete le mani fredde» le fece notare quando le afferrò le dita per muoversi in sincrono con lei.
«Davvero?» domandò, sinceramente sorpresa. Si sentiva accaldata e spossata per l’agitazione, avrebbe giurato di essere febbricitante. «Che strano,» mormorò, fingendo indifferenza, «non capisco cosa possa averlo causato. Mi sento perfettamente in salute.»
«Sembrate perfettamente in salute» replicò lui prima di allontanarsi di nuovo. Sibilla si chiese se davvero il suo stato d’animo non si notasse o se l’uomo con cui stava danzando non la osservasse con interesse sincero e la vedesse quindi nel modo in cui desiderava.
Quando il ballo finì, Crespi non ebbe il tempo di chiederle di fargli compagnia per una seconda danza. Non appena gli strumenti tacquero, la duchessa si alzò dalla sua poltrona e si ritirò ufficialmente dalla sala, inchinandosi al marito. Sibilla si scusò brevemente e si aggiunse al seguito della sua signora, mentre le donne che non facevano parte di quel gruppo ristretto di fidate persone ripresero a ballare.
«Perché se ne va così presto?» domandò a Caterina, affiancandosi a lei.
«Non lo so, stava parlando con Lozano quando ha improvvisamente annunciato che si stava facendo tardi ed era venuto il momento di lasciarli per la notte» rispose lei, affrettando il passo.
Sibilla si zittì, confusa. Sebbene la duchessa avesse moderato molto il suo comportamento da quando aveva ceduto alla volontà del duca, danzando raramente e mantenendo un contegno impeccabile, non aveva mai abbandonato in anticipo i festeggiamenti. Doveva avere in mente qualcosa e l’idea la spaventava.
Non appena giunsero alle sue stanze, la donna volle che le venissero tolti i pesanti abiti di velluto che indossava e che i capelli venissero sciolti.
«Potete andare, sono stanca e voglio riposare» disse, una volta che ebbe infilato la camicia da notte. «Sibilla, rimani un momento» aggiunse poi.
Attese che le altre dame fossero uscite prima di parlare. Erano solo in tre: la duchessa, Sibilla e la ragazza che era solita dormire nell’anticamera per essere a disposizione della sua signora anche nel mezzo della notte, in caso di necessità.
«Sibilla, da domani prenderai il posto di Anna» la avvisò improvvisamente. «È giunto il momento che Anna possa riposare liberamente e sono certa che tu e tuo padre apprezzerete quest’onore.»
«Come desiderate, mia signora» si affrettò a rispondere, chiedendosi a cosa fosse dovuta l’allusione a suo padre. Certamente, se fosse stata a conoscenza del suo dovere di tenerla sotto controllo non le avrebbe offerto quel posto. Un dubbio la assalì: la voleva forse mettere alla prova?
 








Vi ringrazio per essere arrivati fino a qui, se vorrete lasciarmi un parere onesto ve ne sarò immensamente grata.
   
 
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