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Autore: MIKYma    31/01/2009    4 recensioni
Una ragazza si risveglia nel buio della sua casa grazie alla sua segreteria telefonica. Da quel momento comincerà una lunga nottata alla ricerca della sua memoria e cercando un perchè a quegli orribili segni sui suoi polsi...
Genere: Dark, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5. Epilogo

Era strano vedersi da fuori. Come vedere se stessi ad uno specchio che si muove da solo, indipendente da te. Sinceramente la prima volta che quella si mosse mi diede fastidio: era così innaturale vederla spostarsi.

Cercando di nascondermi nell’ombra mi appiattii contro il muro. Lei camminò verso di me, imprecando.

Si piazzò davanti alla scrivania e appoggiò una borsa: ecco che tirava fuori i libri che prima erano lì sopra.

Doveva essere un dejavù perché io tutto quello sentivo di averlo già vissuto. Da un'altra prospettiva...ma l’avevo già vissuto.

Mi guardai: i capelli scombinati e boccolosi, i lineamenti delicati contriti in una smorfia di dolore.

La mia mano tremante cercò un appiglio. Stavo per cadere, stavo pensando troppo senza sapere cosa fare.

Ma cos’era successo? Non ricordavo davvero. Per quanto mi sforzassi...per quanto cercassi di pensare...no, proprio non ricordavo.

Allora cercai di seguirmi. Osservai con gli occhi il mio percorso: quella me attraversò la stanza e aprii le tende. La luce fioca della mezzanotte si era sostituita ad un tramonto di colori chiari e sanguigni.

La vidi avvicinarsi al letto, proprio dove poco prima c’era un'altra me.

"No..." dissi, ma ebbi l’impressione che non mi potesse sentire...ne vedere.

La me presente non diede segni di aver sentito una voce e continuò a fare tutto di propria testa.

Si diresse verso il letto e ci si sedette sopra. La testa fra le mani, il tremore leggero delle labbra rosate. I capelli scuri le caddero in avanti deformando la sua figura. Da dove mi trovavo io la sensazione di una cupa tristezza si distendeva nell’aria.

Mi avvicinai a me, con calma e con dolcezza cercai di sedermi sul letto. Appena appoggiai il mio corpo quella si alzò.

"Dannazione!" disse con voce strozzata.

La fissai come una bambina, pendevo dalle sue labbra senza capire che cosa fosse successo. Volevo sapere, la mia mente avrebbe appreso come una spugna se necessario.

Per ora non c’era molto da ricordare. Qualche imprecazione e qualche < dannazione >.

Quella vagò un po’ per la stanza e poi si fermò, seduta sulla scrivania, una mano a coprire gli occhi, mentre pian piano un gemito salì dalla gola.

La vidi e mi vidi. Sapevo che stavo per scoppiare a piangere, sul serio. Era sempre così, ogni volta che mi sentivo depressa. Quell’idea, quel pensiero che mi faceva stare male cominciava a bloccarsi in testa, come un vecchio disco incantato. Sempre quello, sempre quello. Una pressione psicologica tremenda, con conseguenza disastrose. La gola cominciava a raschiarsi e a seccarsi, pur di deglutire dovevo inspirare rumorosamente e singhiozzare per qualche attimo.

E poi partivo. Cercavo di calmarmi, di dirmi che andava tutto bene, ma le ondate, come la marea, crescevano, si facevano sempre più insistenti, fino a che non mi calmavo, il mio cuore si riappacificava e potevo tornare a pensare normalmente.

Questo in poco più di mezz’ora.

Rimasi a guardarmi mentre i lucciconi agli occhi si presentavano spontanei.

Avevo paura, avevo paura di quella strana atmosfera.

Di solito non piangevo mai, MAI. Ero una persona forte, che non si piegava mai a nulla. Combattevo, non pensavo.

E invece qualcosa di terribile doveva essere successo per ridurmi in quello stato. E avevo paura di scoprire cosa fosse.

All’improvviso quella me smise di fissare nel vuoto, sospirò un ultima volta e poi i suoi occhi cambiarono. Erano diventati feroci.

Era cambiata in un secondo.

Scese dalla scrivania e la vidi aprire l’armadio. Le scarpe scure volarono fuori all’improvviso, andando a sbattere sul parquet nero dove le avevo trovate in precedenza.

Era facile pensare cosa era successo, ero tornata indietro, indietro nel tempo.

Stavo rivivendo qualcosa...ero terribilmente spaventata nel sapere e capire che cosa.

Perché sapevo...ma comunque non capivo.

Pietrificata sul letto la vidi chiudere le ante con un sonoro sbattere. Si voltò verso il letto...verso di me.

Ci guardammo, o meglio io la guardai, mentre lei stava semplicemente fissando la trapunta nera.

Eppure il suo sguardo mi fece paura. Più paura di qualsiasi altra cosa. I suoi occhi emanavano una cattiveria mistica, incomprensibile.

Ma poi vidi quel luccichio e capii. Capii che qualcosa era andato storto, che qualcuno mi aveva ferita.

Forse un affermazione, più veloce di un lampo, ma letale come un veleno.

Seppur mi dimostrassi sempre così serena, sapevo benissimo di essere fragile. Nascondevo dietro un sorriso l’insicurezza che mi avrebbe resa un nonnulla davanti a tutti.

La legge era chiara: Essere forte per sopravvivere in una giungla urbana.

E cominciai a pensare. Amici, parenti...ovunque c’era pericolo, ovunque c’era la paura di poter rimanere delusa dalle affermazioni della gente.

Coloro che credevano di conoscerti e invece alla fine non sanno che sei totalmente differente. E tu scema che credi che loro capiscano e invece...vedono solo il tuo apparire, la copertura del tuo < essere >.

La riguardai e mi avvicinai a lei. Osservava ancora il letto, pensando forse a calmarsi.

"Cos’è successo...dimmelo, ti prego" le chiesi dolcemente. "Ti conosco, so chi sei...per favore, rivelamelo".

Allungai una mano verso di lei, ma quella si voltò dandomi le spalle e sbattendo un pugno contro il muro.

"Dannazione!" la voce ancora incrinata dalle lacrime.

Ritrassi il braccio portandomelo al cuore. Chiusi gli occhi mentre cercavo di concentrarmi, di pensare davvero.

Il suono del telefono mi bloccò. Quella suoneria, quell’omonimo bip mi spaventava troppo.

Sia io che la me stessa davanti a me, rimanemmo immobili. Io fissavo intimorita il telefono scuro sulla scrivania, mentre il duplice suono rimbombava nella mia testa.

Alla fine partì la segreteria telefonica.

...qui risponde la mia segreteria telefonica. Se volete lasciare un messaggio personale anche se non sono in casa, vi sarà possibile dopo il segnale acustico.

Bip.

< So che sei a casa >

La voce di una ragazza. Era dolcissima, era tremendamente preoccupata. Mi vennero i brividi nel sentire quella voce. La reazione mia e della ragazza davanti a me fu a stessa: impallidimmo.

< Rispondi, per favore >

Ancora silenzio. Spostai lo sguardo su di lei, ma non sembrava intenzionata ad avvicinarsi. Osservava il telefono come se volesse bruciarlo con gli occhi, mentre le lacrime continuavano a scendere.

La voce sospirò, si sentì un lieve crepitio, come se stesse per piangere.

< Ti prego...non fare così. So che sei lì, che sei a casa. Ti prego rispondimi... >

Sembrava implorarmi, se sono non avessi visto la sua faccia, mi sarei alzata e avrei risposto io: i suoi occhi, i miei occhi! Piangevo disperatamente...per cosa? Mi sentivo frastornata, non capivo perché davanti ad una persona tanto gentile avrei dovuto piangere...

< Non fare stupidaggini, Tini...non fare cose... >

Silenzio. La voce si era fermata e un lieve singhiozzo si sentì dall’altra parte del ricevitore: stava piangendo. Guardai me stessa, lì rintanata in un angolo: piangevo anche io. Forse avevo capito. La testa cominciava a girare...

< So che è una ferita, Tini! lo so bene! ma tu sei venuta qui anche per questo, no? Sei venuta da noi perché potessi tornare ad una vita felice, no? >

Incertamene voltai lo sguardo. La me nel buio non smise un attimo di tenere la testa chinata; prese una scarpa e la lanciò addosso al telefono senza neppure alzare lo sguardo: lo mancò.

< Ora non fare stupidaggini...comunque stiamo arrivando >

A quelle parole sentii la pressione e l’ansia della me Tini (che nome era?) seduta a terra. Alzò gli occhi e li vidi impauriti. Che avesse timore...di quella ragazza?.

"Non qui" disse lentamente, poi sempre più veloce, come una cantilena.

"Non qui".

Mi alzai da terra e mi massaggiai le tempie.

"Non qui" dicevo velocemente guardandomi intorno, ripetendo quelle stupide due parole.

< Non commettere sciocchezze...noi ti vogliamo bene >

A quelle parole fui presa come da un improvviso singhiozzo e rimansi immobile alla ricerca di un aggrappo: il cuore vacillava. Perché delle parole tanto gentili dovevano farmi sentire male? Non ero in grado di capire, come sempre d’altronde.

Mi guardai alla ricerca di una spiegazione. La sua mano si era bloccata davanti al suo viso, la maschera cadde, del tutto, definitivamente.

Un sorriso amaro.

"Io non voglio essere amata da voi...volevo solo essere amata da coloro che mi hanno voluta...non abbandonata così, al caso, come se non appartenessi a nessuno".

Si tolse la mano da davanti agli occhi. Ci guardammo.

Sta volta vedevo che lei sapeva.

"Giusto, Tini?".

Non risposi, davanti a me solo buio.

Solo all’ora mi fu concesso di ricordare.

 

Flash....Back.

Non era semplice vivere in una grande metropoli, figuriamoci in una stretta città di provincia. Le pressioni, gli sguardi della gente che credeva di sapere tutto e che in realtà non ne sapeva esattamente nulla, ti opprimevano e ti uccidevano a poco a poco, avvelenandoti con lo sguardo.

Questo era quello che diceva sempre mamma quando da piccola uscivamo a fare una passeggiata.

Ricordo ancora il profumo del ciliegio vicino a casa e la triste malinconia che mi prendeva quando la mamma parlava in quel modo. Ero piccola, non capivo, ma nel profondo avevo l’impressione di sapere.

Quando la guardavo il suo sguardo mi diceva tutto e gli occhi mi si riempivano di lacrime; sapevo che prima o poi ci avrebbe lasciati.

Di notte, stesa sul letto, pensavo a quando papà mi avrebbe chiamato da lui e mi avrebbe stretto tra le braccia singhiozzando: non ci sarebbero state parole, avrei capito.

Quelle notti le passavo a piangere, ma all’albeggiare vedevo il sole e sorridevo: avrei ritrovato la mamma ovunque fosse andata, con chiunque fosse stata.

Non credevo nella Morte, non sapevo neppure che gli esseri umani potessero morire.

Fu per questo che un anno dopo, mentre stavo tornando a casa da scuola, la mia prima elementare, mi ritrovai spiazzata nel vedere mio padre piangere disperatamente...accanto al corpo addormentato di mia madre.

"Papà, perché piangi?" chiesi abbassando la voce, temevo che mamma potesse svegliarsi.

Mio padre mi guardò, stanco. Non ebbe la possibilità di rispondermi che il mio sguardo vagò per la stanza, sui muri, sul soffitto.

"Papà...perchè qui è tutto rosso?" feci un passo indietro, facendo cadere la mia cartelletta.

"Papà...perchè c’è questa puzza?...papà...perchè la mamma è sporca di pittura?...papà...perchè...lo sei...anche tu?".

Il rosso che tanto mi piaceva ora dipingeva la scena di un crimine.

Un crimine troppo pesante perché io potessi capire fino in fondo quelle ragioni.

Rimasi immobile quando mio padre si alzò da terra, da di fianco al letto, e mi superò mettendosi in testa il suo stupidissimo berretto nero.

"Addio cara" quelle parole, ricordo, non furono rivolte a me.

Passarono anni, sballottata da una casa all’altra, tra parenti mai visti e persone dallo sguardo caritatevole.

Ero cresciuta, ne sapevo molto e allo stesso tempo molto poco di quello che era successo quel giorno. Non ricordavo molto bene, ero svenuta dopo poco e la polizia mi aveva portato da una zia.

"Tini!" la voce stridula di una ragazza mi avvisò, all’età di quattordici anni, che ero entrata in una nuova casa.

"Piacere" dissi senza forza. Oramai era tutto perduto.

La ragazza portava lunghi capelli biondi e i suoi occhi erano di un azzurro intenso. Il suo nome era Eva.

Non poteva esistere altra persona più diversa da me. Mi sembrava di avere il mio negativo davanti agli occhi; era tremendamente fastidioso.

Quel primo giorno, un giorno di neve, di fine dicembre, cambiò la sorte della mia vita.

Non era passato molto da quel momento, passai i miei più bei due anni da quella maledetta primavera, quando la mamma era morta. Avevo conosciuto un mucchio di persone e tutte le altre ragazze della scuola che oramai frequentavo.

Tutti mi consideravano una brava ragazza, ero tornata anche a sorridere...quando mio padre tornò.

L’avevano liberato dal carcere. Aveva tentato di scappare quel giorno, ma lo avevano beccato subito. Non sapevo che se ne sarebbe uscito così presto.

"Ciao, Tini" mi disse con voce profonda e grave.

Eravamo davanti a casa, una sera prima di capodanno. Non me lo sarei mai aspettata.

Mi feci indietro, Eva si lanciò contro di lui accusandolo di molte cose. Non ricordo molto di quel momento, ma so che dalla sua bocca uscirono così tanti insulti che mi chiesi se dopo quelle parole sarebbe stata ancora Eva, la ragazza calma e pacata di un tempo.

Mio padre sembrò insensibile, forse per lui gli insulti di una ragazzina erano nulla in confronto a quello che aveva subito in carcere.

Ad un certo punto, senza neppure accorgermene, feci da parte Eva e guardai fisso mio padre.

"Cosa c’è?" la mia voce tremava.

Lui abbassò gli occhi come sconfitto.

"Caterine" il nome della mamma "Avrebbe voluto che tu sapessi".

Mi feci indietro come schifata, quelle parole erano da film tragico.

"Avrebbe voluto che tu, una volta grande avessi saputo che cosa aveva. Eri troppo piccolina perché te lo spiegassi prima".

"Ho ancora sedici anni" gli dissi io a brucia pelo.

Papà mormorò poche parole annuendo.

"Non mi resta ancora molto".

Mi zittì sospirando.

"Caterine avrebbe voluto che tu capissi in che situazione si trovava. Stava diventando isterica, dormiva poche ore a notte, i suoi occhi sembravano quasi uscire dalle orbite quando era in preda alle risa. Quando non era depressa cercava di farmi capire quanto fossi importante per lei e che non voleva rovinarti la vita. Oramai si sentiva un niente. Da quando...da quando fece quell’incidente le sembrò di non poter più vivere".

Alzò gli occhi nei miei e mi accorsi che la spiegazione era sempre stata a portata di mano.

La mamma era sempre stata depressa per quell’incedente. L’incedente che aveva causato pochi mesi prima dei miei tre anni in cui morì un’intera famiglia. Si era sempre sentita tremendamente in colpa e la voce per cui lei non fosse nel pieno delle sue capacità quella notte si era diffusa in tutto la città.

Ecco cosa significavano quelle parole, le frasi sussurrate al mio orecchio e da me mai interpretate perché così lontane dalla mia logica.

Aveva già deciso da tempo come fare per liberarsi da quel peso, si era confidata con me, una piccola bambina che faceva finta di capire, ma allontanava inconsciamente da se la realtà.

"Non ho potuto far altro che..." papà boccheggiò. "C-che assecondarla...io volevo che lei fosse felice...e così...così forse..." alzò gli occhi di nuovo verso di me, occhi pieni di lacrime. "Dovevi vederla. Sorrideva mentre i suoi occhi si socchiudevano. Il tuo fu l’ultimo nome che sussurrò".

In quel momento mi accorsi di piangere. Dentro il mio cuore sapevo di cosa papà stesse parlando, di come la mamma si fosse sentita: avevo vissuto tutto quello sulla mia pelle, da dieci anni.

Mi ritrassi avvicinandomi ad Eva.

Ciò che mio padre aveva fatto, così astrattamente mi mise il cuore in pace...ma poi, al solo pensare la pelle candida e vellutata di mia madre sfiorata, infilzata, massacrata da una lama lucente, le mie gambe cedettero e la mia mente cercò un appoggiò: lo sguardo di mio padre.

"E ora cosa dovrei fare?...non posso comunque perdonarti...hai portato via la cosa più preziosa che avevo...". Dissi cercando di rivenire.

Papà sembrò arrabbiarsi.

"IO HO SALVATO TUA MADRE DALLA PAZZIA!".

Sia io che Eva lo guardammo.

"Cosa credi? Che mi sia divertito a fare quel che ho fatto? Che ho passato dei bei momenti pensando di aver macchiato le mie mani di un tale peccato?!" si fermò infervorato. "Se solo tu fossi stata più grande...forse sarebbe stoccato a te farlo! E invece...invece eri così piccola che non capivi nulla! e non capisci tutt’ora!" mi guardò come schifato. "La gente alleva i figli per essere ricambiato in questo modo...".

"Ma io..." dissi cercando di formulare delle frasi di senso compiuto, ma sembrava fin troppo difficile. "...una famiglia felice..." dissi soltanto reclamando il mio sogno più segreto.

Mio padre mi guardò tirando indietro le spalle. "Saremmo stati una famiglia felice se tu non ci fossi stata, se non ci fosse stata una bambina da nutrire, di cui preoccuparsi...se non ci fossi stata avrei saputo come curarla, ma lei...lei ripeteva che eri più importante tu! E io non potevo andare contro il suo volere...."

Prese la sua borsa e si allontanò.

"Non cercarmi!" urlò, ma fu solo un sussurro in quella sera. Sembrò quasi una minaccia, ma io ed Eva non avemmo tempo per pensarci. Rimasi immobile nella fredda serata invernale.

Ricordo che quando il giorno dopo mi svegliai era come se avessi avuto addosso un peso indicibile. Mi ero guardata allo specchio e mi ero accorta degli occhi estremamente gonfi: avevo pianto, e anche tutta la notte.

Eva comparì sulla porta con lo stesso sguardo di quando l’aveva lasciata la sera prima: dispiaciuta e sconfitta.

"Se ti va..." chiese titubante. "Se ti va di scendere per la colazione...poi potremmo andare a fare compere per...per passare un po’ di tempo".

La guardai addolcita: sapevo cosa voleva dire per lei; nella sua testa quella era la cosa più giusta da fare in un momento del genere. Accettai di buon grado: avrei fatto di tutto per allontanarmi da lì.

Camminando per strada mi resi conto di non averla mai vista con gli occhi di tutti gli altri: camminavo sempre a testa china accorgendomi di rado di quante cose ci fossero da vedere.

Alzando gli occhi vidi tante persone conosciute con splendidi sorrisi; incontrammo anche i nostri compagni di classe, tra cui Rika, la migliore amica di Eva, e molti altri.

Passammo una giornata stupenda, mi sembrava di vivere fuori dalla mia vita. Fuori da me stessa.

Ma non si può.

È quasi illegale;

ingiusto per gli altri;

troppo felice...

Tutto torna.

Quando le persone sono maledette...

...sono maledette, no?

"Guardate là!" uno sparo o meglio, una voce.

Alzai gli occhi sorridendo. Mi ero staccata un attimo dal gruppo, la voce mi giunse un po’ lontana, ma chiara.

Guardate là...se sono non l’avesse detto...

Lo vidi precipitale, come se fosse un uccello ferito. Lo vidi oscurare il sole per un attimo, passando come un ombra quasi sopra di me. Ebbi un fremito, poi un sussulto...e infine rimasi ad occhi sbarrati fissandolo sconcertata.

Cadeva, papà cadeva dall’alto.

Come un angelo, o meglio come Lucifero. Scaraventato al suolo da Dio per aver peccato di hubris. No, non era una colpa tanto grave quella di mio padre, ma lo stesso ciò che gli accadde era ciò che meritava. Era quello che pensai mentre lo guardavo inorridita.

E poi cadde. Ci doveva essere una fine. Una possibile fine, o meglio, un inevitabile fine.

Splat.

Vero, fece proprio splat. Come lo sentii non lo so...immersa com’ero tra tutto il rumore.

Ricordo di non aver chiuso gli occhi, ricordo di aver assistito secondo per secondo a quella disgrazia. E non riuscivo più a chiuderli, ero rimasta bloccata.

Le persone giunsero come mosche ad osservare a e schifarsi. Che senso aveva allora guardare? Solo per il gusto di dire "Io c’ero!"?.

Giunsero anche i miei compagni...quei ragazzi che mi avevano accompagnato per un percorso di vita; pensai così, ero già prossima alla fine.

"Non guardare! Non guardare!" mi disse Eva. Riconobbi la sua voce strozzata.

Non guardare. Cosa c’era oramai da guardare? Un corpo vuoto?.

"Tini" la sua voce e fu silenzio. "Ricordati di tua madre e di me".

Quello proprio non doveva dirlo. Tutto, ma non quello. Accanto ai pensieri che mi stavano entrando in testa quello proprio non doveva andare.

Fu in quell’esatto momento che mollai la presa. Scalando la montagna della vita io persi la presa e senza una protezione caddi verso il vuoto.

Eva mi strinse a se, ma non sentivo calore. Le sue parole non avevano senso, la sua immagine non aveva più contorni. Piangevo? No, pensavo e vedevo altro.

L’immagine di mia madre stesa sul letto, il suo corpo esanime straziato dalle coltellate. Mio padre e il sangue sull’asfalto.

Ed io.

Era impossibile non associarmi a quella fine, legata a loro in vita e in morte. Oramai non aveva più senso quella cosa...non era possibile neppure chiamarla vita.

Scossi la testa per un lieve istante e poi nascosi il volto sotto i capelli scuri e ricci. No, ero arrivata tardi a capire anche quella volta.

La mia vita era finita molto prima, segnata con il sangue di mia madre, marchiata a fuoco da quel dolore che non mi aveva dato più scampo.

No, non aveva paura. No, non mi sentivo neppure nera. Ero soltanto stanca.

Stanca di tutto, che nulla andasse bene.

In quel momento rinunciai e cambiai strada. Mi allontanai da Eva, fisicamente e psicologicamente.

La vidi osservarmi spaventata, sapevo che aveva capito. Sbarrò gli occhi e nello stesso momento impallidì.

Sorrisi leggermente, come facevo quando volevo tranquillizzarla, ma quella volta era diverso: avevo preso una decisione così grave che per lei era troppo difficile sostenerla. Era ancora troppo ingenua e giovane per capire e io oramai mi sentivo così vecchia.

La folla ci separò e io potei cominciare a camminare verso chissà dove. Camminare e poi correre, seppur mi sentissi così stanca.

Pian piano che camminavo la lucidità tornava, il batticuore cresceva. Cominciavo a chiedermi perché, il perché di tutto quello.

Piansi, ma le lacrime presto finirono.

Mi ritrovai dentro casa.

La casa buia e silenziosa. Quella che utilizzavo per me stessa, che i miei parenti mi avevano lasciato per i miei momenti di sconforto, quando la solitudine reclamava il mio corpo e il silenzio si impadroniva di me.

Quella casa così buia, dal parquet nero che voi conoscete così bene...forse quanto me.

Sbattei la porta d’entrata e rimasi ferma qualche secondo, solo per respirare.

Attraversai la sala e la cucina, percorsi il corridoio e arrivai in camera...

"Ora, concludiamoci"

***

 

Dopo quell’affermazione vidi il buio. Era come se le mie palpebre fossero calate a celare la scena; come un sipario che scende dopo l’ultimo atto di un’opera...ma io sapevo che non era così, che non era ancora finita.

Lottai contro me stessa per vedere, ma non ce la feci: sentivo soltanto dei rumori, senza riuscire a capire. Poi cominciai a tranquillizzarmi ed ad ascoltare.

I passi di me stessa che poggiavano veloci sul pavimento, il loro allontanarsi...verso la cucina.

Ebbi un brivido e cercai di alzarmi: non ce la feci.

E poi sentii un rumore metallico e un singhiozzo. Capivo, capivo perfettamente quello che stava succedendo e senza accorgermene presi a piangere anche io, sentivo le lacrime che mi lenivano il volto mentre accompagnavano i gemiti provenienti dall’altra stanza.

Infine un urlo, sobbalzai.

Un urlo straziante, da lacerare il cuore. Le lacrime si arrestarono un momento, mentre il mio cuore accelerava. Potevo sentirlo benissimo rimbombarmi nelle orecchie.

Mi sentivo stanca, il polso sfregiato cominciava a farmi male, sempre più male, ma non riuscivo a capire; il cuore accelerava sempre di più fino a che non cominciò a rallentare.

Lentamente, ma rallentò.

Credevo potesse essere un bene, perché mi stavo calmando, ma quando mi accorsi che il cuore non smetteva di rallentare capii che ero prossima alla fine.

Le mie orecchie percepirono uno struscio. Sicuramente ero io, strisciante nel corridoio e poi in camera. La sentii stramazzare al suolo oramai priva di forze; si aggrappò al piumone e lo trascinò con se.

Il cuore cominciò a fermarsi, mentre cercavo di respirare più forte. Non c’era scampo, non potevo fare nulla.

La morte giungeva, sentivo freddo, il buio oramai non sembrava più un problema.

Un ultimo battito ovattato, un ultimo rintocco nelle mie orecchie, poi silenzio.

Le forze mancarono del tutto e mi ritrovai a cadere nel nulla. Non sentii il letto sotto di me, non sentii un tonfo. Galleggiavo nel nulla e temevo che nulla sarebbe cambiato da così.

La morte è tale? Mi chiedevo senza poter sentire la mia voce, pensando solamente. Che strana sensazione...

Non è una strana sensazione.

La voce di qualcuno rimbombò nelle orecchie.

Come? Chi è?

Qui non è nessuno,

qui non vi è nessuno,

qui non regna neppure il nulla.

Cosa stai dicendo?!

Non sto dicendo nulla.

Chi sei?

Io non sono nessuno, sono come te.

Hai un nome?

Io non sono nessuno, sono come te.

Ma io sono qualcuno!.

Silenzio.

Ehi!

Tu non sei nessuno.

Non più.

Eri, ma non sei più...

Eri e non sarai.

Hai perso la tua possibilità di vivere.

Cosa vuol dire?

Vuol dire che sei morta pensando ad un futuro migliore,

ad un mondo diverso dove dimenticare le ingiustizie.

Lo hai trovato...

È ciò che non è, questo posto non ha proprietà, è impossibile da definire...

Esiste, ma non esiste...

È ma non è.

Sembra il nulla, ma è qualcosa di più oscuro.

E cos’è?

La Morte.

______________________________________________________________________________THE END_____________________

Note dell'Autrice.

...ummm...si. giustamente è tutto finito: per me, questa storia, e per Tini, la sua vita.

Scusate se c ho messo davvero troppo a postare l'ultimo capitolo, ma il pensiero di dover cambiare qualcosa mi opprimeva.

Emily Doyle : si, capito molto bene. Spero che questo ultimo cpaitolo ti sia piaciuto e mi fa piacere che la storia ti sia sembrata originale =]

Gotick_92 : cosa dovrei dirti?  =[ Mi sento svuotata. Sigh, è sempre così terribile che qualcuno che ti ha accompagnato per così tanto tempo ti abbandoni...poor Tini! Guarda, le ho dato quel nome solo perchè mi hai totalmente convinto che poteva essere lei...tranne per l'aspetto fisico. Grazie ancora per il consiglio e spero che il finale sia di tuo gradimento. Sinceramente mi ero chiesta come poter spiegare la tanta tristezza di Tini...e purtroppo non ho avuto molta fantasia... =[

l_s : Grazie del genio...ma ora sono troppo triste per poterti ringraziare...sigh...cmq spero ti possa piacere il finale e che sia degno della Miky sempre nei cuori e di una piccola shinigami... =)

Vegeta4ever : eccomi! Finalmente concludo...fammi sapere!

Marluxia25 : graaazie per i complimenti, forse non li merito...eh eh...sarei molto felice di sapere la tua opinione sull'ultimo capitolo...

CharmingVampire : Una new Entry! grazie, spero commenterai anche quest'ultimo capitolo...ciao!

  
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