Ciao a
tutti!!
Dopo la
bellezza di...ehm... (tot) mesi di religioso e meditativo silenzio ritorno su
EFP con una nuova storia, questa volta originale! :)
Ringraziando
anticipatamente tutti coloro che mi hanno sostenuto nella mia precedente - e taaaaanto sofferta- fic (prometto
che un pensiero su una One Shot
ambientata qualche anno dopo lo faccio :-P), spero che
anche questo esperimento vi piacerà!
Un bacio
Grande a tutti!
Elendil
Ricordava
quel luogo.
Nella sua
mente serbava vivido il riverbero di quei sentieri ampi e polverosi, bianchi
come avorio e lucenti di luce.
Ricordava
quei suoni.
Vacuo
rincorrersi di note alte ed acute, armonia riarsa di un ritmo vago e lontano,
troppo distante per esprimere un vero senso compiuto.
La volta
scorsa “Deserto” l’aveva chiamato, tutto ciò.
Oggi
dubitava di quel primo, incauto, appellativo. Avaro, forse, di una più attenta
visione.
Giacchè ieri il vuoto pareva fatto di sabbia e onde
ventose. Oggi di creste dure, inamovibili, come pietre a fil d’orizzonte.
Le toccò
piano, incerta e nel calore di un istante nacque il dolore.
Pietre
cattive.
Gli sussurrò
il tempo.
Pietre
vendicative.
Ansimò
l’aria. Ora cauta, ora opprimente come un respiro mancato.
Dimenticò
di respirare, poichè sapeva che anche così facendo
sarebbe sopravvissuta. Ma dimenticò anche di avanzare, di proseguire, e nel
farlo eccole, le dolci carni del suo corpo imbianchire piano, lentamente, un
velo alabastro a celarle istante dopo istante, una carezza di luce a fare di
lei nulla più che un velo lucente, di spire celato.
Che tu sia
bellissima, al ritorno. La lusingò il cielo. Poichè
di pietra saranno gli istanti del risveglio.
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Destarsi fu
come voltarsi dall’altra parte e semplicemente prendere un profondo respiro. E
scoprire che un velo invisibile la separava dal voler respirare al doverlo fare
per forza. Un velo abbastanza vacuo da lasciarla per un attimo intorpidita e
attonita nel progressivo scurirsi del paesaggio attorno a lei mentre il sogno
cedeva il passo alla nuova realtà.
Ancora
chiusi, gli occhi tremarono appena sotto il velo delle palpebre, un fremito
catturato presto da una garza appena inumidita calata sul suo volto.
Si chiamava
“Yi” e la sua unica funzione era quella di trattenere
il suo primo sguardo al mondo dopo il lungo sonno della notte e darle sollievo
dall’arsura del giorno imminente. Fresco sugli occhi, il panno profumava appena
di erbe del deserto, asciutte eppure incredibilmente fresche al naso. Si
rilassò.
“Un sogno
dolce, Somma Nihaar’i?” la chiamò
la vecchia balia, Danhe. La sua voce pareva un misto
di sonnolenza e apprensione mentre con dita umide le picchiettava il viso.
Ancora distesa, la ragazza scosse il capo controvoglia.
“Affatto”
replicò con indolenza “Chiamate l’Aruspice”.
Un
movimento leggero poco distante, poi la voce di un uomo ad allontanarsi “Sarà
qui a breve, Somma Nihaar’i”.
“Desiderate
mangiare qualcosa prima dell’ Elegia?”
la richiamò ancora Danhe. Malgrado l’età, la vecchia
aveva ancora una voce giovane, leggera e delicata mentre con malcelato affetto
le scostava le coperte dal corpo. Ancora inebetita dal sonno, la Nihaar’i le rivolse una smorfia vagamente infastidita: il
sogno di quella notte ed in particolare le parole che ne avevano segnato la
conclusione le avevano lasciato addosso un vago senso di indolenza e fastidio
difficili da rimuovere. Tuttavia si risolse finalmente dal mettersi seduta, la
garza umida che, cadendo, rivelava due occhi ancora gonfi e nebulosi.
Come da
usanza gli occhi di Danhe erano celati da una sottile
garza dalle maglie larghe, comunemente usata per impedire il contatto diretto
degli occhi, ma attraverso di essa la Nihaar’ì colse
comunque il rapido saettare degli occhi della vecchia in direzione delle sue
iridi cristalline, come cedendo per un attimo alla curiosità di scrutare
nell’oro intenso in esse racchiuso. Lo schiaffò colpì la balia dritto in volto
costringendola ad abbassare lo sguardo a terra.
“Ancora
nessuno strappo, immagino” la prese
quasi in giro la ragazza sebbene la sua voce tradisse una nota di gelo “Ma
immagino che una simile constatazione debba essere lasciata all’Aruspice
piuttosto che ad una comune serva, non credi?” l’altra rimase in silenzio,
immobile, la testa ingrigita che non accennava a risalire mentre le porgeva un
panno dalle tinte blu scure, fresco e morbido come appena lavato.
Tuttavia,
la Nihaar’i non fece cenno ad accettarlo.
“O forse
l’antica usanza di rispettare lo sguardo altrui evitando di indagare i segni
del Risveglio negli
occhi della tua Nihaar’i è cosa superflua qui, nella Torre del
Tempo?”
No, certo
che no. Si disse
mentre lo afferrava di scatto scostandosi dal letto basso e sottile, una stuoia
fittamente intrecciata che ne sosteneva l’ampia base. Sopra, strati di lenzuola
bianche come avorio componevano una trama di stoffe più o meno pesanti nelle
quali ella pareva quasi scomparire, piccola e sottile rispetto all’ampiezza di
quel trono ovattato.
Nervosa, la
ragazza prese ad avvolgere attorno al proprio corpo nudo le morbide vesti di
modo che esse le fasciassero collo e petto per poi cadere in una morbida gonna
trasversale sulle gambe. Lasciò quindi che la vecchia Danhe
ornasse l’abito così ottenuto di nastri e bracciali atti ad impreziosire il
tutto. Infine, senza una parola, la balia prese a spazzolarle i capelli
corvini, lunghi e sottili come ragnatele.
Fu mentre
la donna stava finendo di intrecciare il tutto in una treccia alta ornata di
catenine dorate e apporre l’ultimo ornamento - un velo in tinta con le vesti -
che giunse l’Aruspice. La Nihaar’i lo sentì arrivare
nel frettoloso strisciare delle ampie vesti sui bianchi pavimenti, un mormorio
ovattato quasi quanto la medesima voce usata dall’uomo per annunciarsi poco
dopo.
“Lasciateci”
sillabò la ragazza prima di voltarsi e fronteggiarlo con un sorriso di
circostanza. Nella stanza sostavano immobili una decina di guardie, altrettanti
servi, serve e qualsivoglia lacché pronti ad
assisterla ed assecondarla al semplice cenno della mano, ma fu in meno di un
istante che l’intera camera da letto si svuotò lasciandoli soli a fronteggiarsi
nella muta ritualità del mattino.
Lo sguardo
fisso dell’uomo, anch’esso celato dal velo rituale, era cosa nota alla Nihaar’ì - del resto le sue visite erano il primo e
l’ultimo appuntamento fisso del giorno- eppure a fatica trattenne l’impulso di
mostrare il vago disagio che quella perizia le provocava ogni volta. Poi, dopo
un attimo, egli chinò il capo in segno di saluto.
“Nessun
accenno al Risveglio, sua Eccellenza”
decretò con pacata tranquillità. C’era una nota breve nel respiro di lui, quasi
facesse fatica a trarre aria e nel contempo parlare “Eppure vi vedo turbata.
Avete per caso avuto una premonizione?”
La ragazza
annuì lentamente “Mandate una guarnigione di Araldi a Hevnan
K’ar” per un attimo le labbra dell’Aruspice parvero
arricciarsi come nel preambolo di uno starnuto. “Un altro attacco alle cave di
pomice?” parlare sembrava costargli fatica e sforzo senza pari. Noncurante,
l’altra si limitò a volgere lo sguardo dall’altra parte, la tolleranza di quel
forzoso contatto oramai giunta alla soglia limite.
Si rilassò.
“Vi ho
detto di inviare degli Araldi, non di obiettare i miei ordini” ribatté asciutta
per poi, nel notare l’immobilità dell’altro come in attesa di altre rivelazioni
aggiungere con pacata freddezza “Nè di dilungarvi
oltre in futili conversazioni”.
L’affrettato
strisciare delle vesti dell’uomo fu l’ultimo suono che le giunse prima che il
silenzio si impadronisse nuovamente della stanza lasciandola libera di
sospirare di sollievo.
Per quanto
funzionale allo svolgimento dei suoi doveri quotidiani, quell’ispezione
mattutina cominciava a darle quantomai noia. Volse lo
sguardo in direzione delle ampie finestre che davano sull’esterno, saggiandone
per un attimo con la vista l’elegante scorcio ritagliato dal sole albeggiante.
Sarà stata la voce mezza sibilante mezza soffocata dell’Aruspice? O forse quel
vago sentore agrodolce che egli emanava al solo ingresso nella stanza?
Socchiudendo
appena le palpebre lasciò che il suo sguardo si spostasse piano oltre la
balaustra, oltre il bianco parapetto e con la semplice vertigine della
sensazione si lasciasse poi cadere a precipizio nel panorama circostante la
Torre, metri e metri di salto nel vuoto privo di qualsivoglia barriera o
impedimento.
Esalò un
sospiro silenzioso.
Situata al
centro esatto della città, la Torre del Tempo era l’edificio più alto e
splendente di tutta Chermak, abbacinante nel proprio
candido biancore. Una struttura alta e slanciata che pochi avrebbero faticato a
notare anche da miglia e miglia di distanza e che proprio per quello era stata
scelta come sede della più importante carica politica e spirituale del continente
di Harryan: la Nihaar’i, la
Veggente.
Tutt’attorno
alla Torre del Tempo si estendeva Chermak, un’altrettanto candida città adagiata sulle rive dello Himnakan - il Mare Celeste- che con le sue maree e correnti
salate riusciva a mantenerla da tempo immemore brillante e incrostata
di preziosi
riflessi salini. Pur essendo un mare interno, lo Himnakan
era vasto e sconfinato abbastanza da dominare la vista e sfiorare gli orizzonti
con i suoi colori chiari e sgargianti.
Sulla pelle
il vago brivido della vertiginosa vastità di quel mondo, la Nihaar’i
ne ammirò ancora una volta i contorni pallidi e sfumati per via del sale, tinte
bianche e rosse a perdersi nell’ocra pallido del deserto circostante. Per un
attimo pensò quasi di allungare una mano oltre il parapetto e saggiare con le
dita il conosciuto afrore salmastro che a quell’ora prendeva a spirare lungo i
fianchi della Torre. Una fragranza bagnata e oleosa al contempo, frizzante
sulla lingua e cristallina contro la pelle.
Tuttavia si
bloccò.
Non oggi.
Si umettò
le labbra, sentendole già vagamente salate.
Non dopo il
sogno che aveva allietato il suo riposo regalandole la
percezione che pietra e sale potessero entrarle dentro al punto da trasformarla
per intero in creatura nuova e marmorea.
Suo
malgrado fece un passo indietro, sfuggendo non senza un vago rammarico alle
prime brezze termiche che prendevano a risalire dalle piane sabbiose per
riversarsi poi nelle acque limpide dello Himnakan e
da li salire ancora, salire fin dove lo sguardo
poteva arrivare. Da lassù, i cristalli di sale disegnavano talvolta arabeschi
scintillanti, destinati a lì perdurare fino all’attimo in cui gravità e
leggerezza finivano con l’esaurirsi costringendoli di nuovo a scendere ed in un
sentiero d’argento disperdersi nello Iarhan: Il Sentiero del vento.
Da lassù,
dalla Torre del Tempo, a volte la Nihaar’ì aveva
quasi la sensazione di avvertire i profumi di cibi lontani, banchetti e convivi
oramai terminati, voci e discorsi passati. Un intero mondo di sabbia e sale
sulle labbra e fra i denti mentre ella si sporgeva oltre il parapetto ed
immaginava come sarebbe stato, forse una volta, vederli per davvero.
“Ben
svegliata, Somma Nihaar’ì” una voce la sorprese alle
spalle. Come da usanza, prima di voltarsi la ragazza abbassò sugli occhi il
semplice velo che Danhe le aveva appuntato al capo e
solo quando fu certa che fosse ben aggiustato si voltò in direzione di Zaphil, ora fermo sulla soglia della camera, in attesa di
un cenno per entrare.
“Entra
pure” lo accolse con un mezzo sorriso facendogli dopo un attimo cenno con la
mano di accomodarsi dove meglio preferiva. Il Naphilchinò
una volta il capo per poi attraversare la stanza ed accostarsi a lei.
L’uomo
aveva volto asciutto ed ovale, uno sguardo acuto e vagamente sornione che
nascondeva rughe intrecciate a fil di pelle attorno alle labbra e lungo gli
zigomi.
Quarant’anni
d’aspetto, forse, ma qualcosa di più stando alle voci delle Torre.
Davvero un
bel soggetto, commentavano tavolta e non senza una
punta di concupiscenza dame e nobildonne.
Qualcuno di
cui valesse almeno la pena parlare, non potevano esimersi
dall’ammettere tutti gli altri ospiti della Torre giacchè
sia per carattere che per atteggiamento innato Zaphil
pareva una naturale calamita per pettegolezzi, invidie e interessi di ogni
genere tanto per le pulzelle quanto per le Deynes più attempate.
Come da
usanza, il Naphil si esibì in un lungo e profondo
inchino, le vesti nere che si richiudevano in un leggero sbuffo su di lui
portando al naso della Nihaar’ì un vago sentore
speziato.
“L’Aruspice
dice che avete avuto una premonizione” riprese l’uomo dopo un attimo
incrociando le braccia al petto. La Nihaar’ì annuì
una volta, quasi con noncuranza “Nulla per cui valga la pena preoccuparsi”
lenta, prese a costeggiare una ad una le finestre della stanza “Il solito
attacco alle cave di pomice” battè le mani una volta
affinché venisse portato il primo pasto del giorno.
A
differenza degli altri inservienti e personaggi dell’alta nobiltà presenti
nelle zone ricche di Chermak, i Naphil
erano soliti lasciare il volto totalmente scoperto e coprire solo il capo con
bende arrotolate da calare dinnanzi agli occhi una volta usciti all’esterno.
Questo perché, a differenza di tutti gli altri, essi erano vincolati dal
Giuramento di Verità nei confronti della Nihaar’ì, erano cioè obbligati a servirla e proteggerla per
tutta la vita senza misteri e riserve nei suoi confronti, comprese quelle dello Ivah nah’am, Il Risveglio.
Ma anche in
presenza del Velo cerimonale la Nihaar’ì
non avrebbe comunque faticato ad indovinare l’immediato accigliarsi di lui. “Lo
definireste un sogno ricorrente? Non è la prima volta che ne parlate...” “Così
come non è la prima volta che le Ombre attaccano quella zona” lo liquidò
rapidamente nel momento in cui giungeva un servo con un piccolo vassoio contenente
una tazza di erbe infuse e qualche radice accuratamente ricoperta di succo pahma distillato. Solo quando l’inserviente se ne fu andato
la ragazza riprese a parlare.
“Credo di
saper riconoscere io stessa la differenza fra un sogno ricorrente ed un sogno che
si manifesti per il semplice fatto che qualcosa accadrà per certo” Zaphil la osservò deviare lentamente dalla sua camminata
“panoramica” per accostarsi leggera al pasto mattutino. Lo osservò qualche
istante in silenzio, ogni volta apparentemente critica nel valutare
l’assembramento di gusti e sapori che i Bjes erano in grado di scovare per
lei, per poi, forse convinta, allungare una mano e trarre a sé la tazza
d’infuso.
Le sorrise,
pur non muovendo affatto le labbra “Non era mia intenzione offendervi” riprese
con noncuranza “Cercavo solo di capire se in voi vi fossero tracce del
Risveglio. Una Nihaar’ì della vostra età avrebbe già
dovuto...” ancora prima di essere accostata alle labbra, la tazza sbattè fragorosamente sul tavolino di marmo facendo
sobbalzare entrambi.
“Zaphil” pur velata, il Naphil
indovinò la vaga sfumatura di minaccia nel tono di lei “Credo di conoscere
abbastanza bene la mia situazione senza che chiunque in questa dannata Torre me
lo ricordi ogni santo giorno!”
Diciannove
anni erano molti, per una Veggente. Ancora di più per una Veggente che ancora
non si fosse Risvegliata ricevendo in dono daOneiron, il mondo del Sogno, la propria Visione.
La Nihaar’ì trasse un profondo respiro, tentando senza
successo di riacquistare quella parvenza di eleganza e controllo propri della
sua carica. Non vi riuscì al primo tentativo. Così cercò di prendere tempo
fingendo di interessarsi all’affresco riccamente decorato sul soffitto a volta
della sua stanza. Un Falco in volo pronto a scagliarsi, rostri e artigli
spiegati, su vaghe sagome nere poste tutt’attorno a lui in un incastro frattale
di luci azzurre e ombre nere. Sbattè una volta le
palpebre.
Spesso si
era chiesta perché mai disegnare una rappresentazione metamorfica della
Veggente proprio nella stanza della Veggente medesima. Vago tentativo di
ricordarle il suo unico e solo scopo nella vita? Giustificazione di una
reclusione eterna nelle mura della Torre? O velato avvertimento nel ricordarle
quanto orrore e disfatta si annidassero costantemente attorno a lei?
Sospirò.
“Le vostre
premonizioni e nayel del futuro ci permettono di
sopravvivere ogni giorno ed evitare che gli spostamenti delle Ombre siano per
noi uno spreco di vite e forze inutili...” tentò di blandirla Zaphil dopo qualche attimo. Il viso della ragazza non
sembrò tuttavia intenzionato a spostarsi dalla propria attenta osservazione “Ma
non bastano. Serve lo Ivah nah’am, la
Visione” per
quanto improbabile, Zaphil ebbe la netta sensazione
di vedere la ragazza sobbalzare a quelle parole “Senza questo, una Veggente non
è altro che una Risvegliata qualsiasi, abbastanza pericolosa da dover essere
uccisa prima che il suo enorme potere richiami la distruzione su tutti noi”
Tacque e
per un attimo la Nihaar’ì immaginò gli occhi azzurro
pallido dell’uomo fissarsi su di lei con un misto di indolenza e puntiglio
assieme. Non era la prima volta che accadeva. Sospirò, alzando finalmente lo
sguardo e solo allora, rigida, incontrare lo sguardo dell’uomo duro e grave
esattamente come se l’era prefigurato.
No, anzi.
Zaphil amava davvero molto ricordarle in ogni
occasione i suoi amabili doveri e ancor più amabili pericoli quasi quanto
adorava - e non si poteva certo dire che mancasse di talento- rimproverarla per
ogni dannata volta che veniva meno agli stessi. Il che accadeva stranamente
abbastanza spesso da rendere biasimi e critiche le attività perno della sua
stessa vita.
Ma questa
volta la fortuna era dalla sua parte: non c’era tempo per una ramanzina in
piena regola perchè i venti già desti reclamavano a
gran voce l’inizio dell’Elegia.
Così,
quando già la Nihaar’ì cominciava a pensare che il Naphil avrebbe comunque osato uno strappo alla regola
giusto per togliersi il puntiglio di rimproverarla, a stretti Zaphil si limitò a dirle “Le correnti si stanno alzando.
Che tu sia pronta al mio ritorno per l’Elegia” prima di uscire in un silenzio
grigio.
Poco tempo
dopo, muta e rigida, un mantello bianco come neve a fasciarla da capo a piedi,
la ragazza saliva gli impervi gradini della Torre del Tempo. Dinnanzi a lei un
corteo di suonatori riccamente agghindato di perle e stoffe color del sole.
Dietro al piccolo strascico che ella portava, un altrettanto fornito stuolo di
Nobili, assistenti, lacché e altri ancora tutti
vestiti nel cerimoniale rosso porpora.
Nel mezzo
di tutto ciò, la Nihaar’ì pareva quasi un ciottolo
sparuto in un fiume sanguigno. Alla sua destra seguitava Zaphil,
silenzioso e altero nelle sue solite vesti nere come carbone. Da che si erano
lasciati e ricontrati, non le aveva rivolto una sola
parola, segnale che la sviolinata era stata solo rimandata, non dimenicata.
Un gradino
dopo l’altro, la giovane si ritrovò a domandarsi come sarebbe parso ora il
volto di lui sotto al cappuccio nero, i simboli del Giuramento della Verità a
scintillare di quando in quando sul suo volto e lungo il collo nel vago
tralucere del sole albeggiante.
Ansimò
piano, il tocco rovente dell’astro nascente che già si avvertiva attraverso i
muri quale vaga sensazione di tepore sotto i polastrelli
ogni qualvolta capitava di appoggiarvisi nella lunga risalita.
Teso?
Arrabbiato? Sorridente? Pronto a sciorinarle una nuova invettiva colma di
emozionanti epiteti e forme retoriche...
Alzò per
l’ennesima volta lo sguardo -ben attenta a non tradirsi con il reclinarsi della
testa- e dopo un attimo le riuscì di intravedere la fila di lucide sfere poste
poco sopra le sopracciglia dell’uomo piegata in una curva dura e tesa. Sospirò.
Pronto
all’azione, dunque. Come sempre.
C’era stato
un tempo in cui aveva trovato affascinanti le sfere dorate incastonate sulle
sopracciglia e lungo il collo del Naphil. Belle
nell’accentuare le espressioni di lui. Eleganti nell’inscrivere i suoi
lineamenti calamitando l’occhio in un scintillio di riflessi e ornamenti. Deriserabili a tal punto da esprimere anche lei il
desiderio di averne giusto un paio su viso e spalle così da poter - ai tempi le
era sembrata una cosa così ovvia - avere anche lei l’impressone di essere un
qualche tesoro umanizzato come lo era Zaphil
ai suoi occhi.
Sciocca
fanciullina...
Solo dopo
averle scoccato un’occhiata vagamente derisoria l’uomo si era degnato di
risponderle “Ad ognuno il suo dono, ragazzina. Inutile chiedere un destino che
non ti può essere dato” liquidando per sempre le sue velleità ornamentali ma
non, il moltiplicarsi delle sue domande quando, anni dopo, aveva avuto modo di
scoprire che impianti e innesti di qualsiasi tipo non erano un vezzo riservato
a Zaphil solo ma propri di tutti gli appartenenti
all’Ordine dei Protettori in quanto simbolo di casta e gerarchia.
Emulazioni
e copiature erano severamente punite, il che giustificava il perché esse fossero
ovviamente diffuse in tutto il Regno.
Ma le
domande, quelle vere, andavano ben al di là di questa semplice - seppur
evocativa- constatazione.
Perchè due piuttosto che tre? Perchè
collo e non fronte? Perchè uncini e non palline?
Difficile
credere che un semplice fazzoletto colorato o qualsivoglia tatuaggio non fosse
in grado di emulare simili emblemi gerarchici fonte di dolore e sofferenze
senza pari.
Ammesso che
tortura e patimenti non fossero stati proprio gli obiettivi topici di questa
pratica....
La Nihaar’ì aveva avuto la sensazione di trovarsi quasi vicina
allo scoprire la verità solo una volta in occasione di una grandiosa festa alla
quale erano stati invitati tutti i Naphil
dell’Ordine.
Una
cerimonia incredibile, a dire la verità, dove Zaphil
aveva brillato tanto per quantità quanto per bellezza degli ornamenti che
portava su volto e collo.
Nessuno si
avvicinava anche solo lontanamente a lui. Il che poteva significare solo che o Zaphil era terribilmente
vezzoso e fissato con quegli ornamenti o che probabilmente egli era l’unico
autorizzato a portarli in tale quantità....
Finalmente,
i respiri ansanti e gonfi di fatica per la lunga salita, il corteo giunse sulla
sommità della torre, un’ampia apertura a ventaglio a rivelare una lucente zona
sgombra di tutto se non di alti e robusti colonnati bianchi posti al confine
dello spiazzo. Apparentemente sottili come giunchi questi sorreggevano una
cupola istoriata di arabeschi e preziosi intrecci disegnati che a tratti
rivelavano dei veri e propri varchi nel disegno volti a lasciar intravedere il
cielo retrostante. Coriandoli di luce cadevano a
pioggia sui presenti illuminandone di quando in quando i volti accaldati e
arrossiti.
Barcollanti
di fatica - sebbene quella bieca cerimonia avesse luogo ogni santo giorno
dall’alba dei tempi - i Nobili i si concessero allora
di sostare un attimo come banderuole inferme al centro del colonnato, aprendo
le braccia per inondare di vento le vesti appiccicate di sudore e alzando i
volti grondanti per rinfrescare pelli ambrate e olivastre.
Virah la Jarid del Mercato Orientale.
Eshei, il prestigioso Kirey delle Città Nascenti.
Varik, il noto contabile delle alte Corti.
Ed altri
ancora, tutti lì radunati in ansante meraviglia al cospetto della Nihaar’ì così da placarne potere e grandezza che grandi ed
inattaccabili sarebbero stati all’interno delle loro splendide magioni, i loro
alti uffizi. Ma non lì, non all’interno di muri provvisti di occhi e orecchie,
di specchi leggeri come porte scorrevoli, di casse sempre provviste di doppio
fondo onde nascondere le più mirabili occorrenze.
Al notare
sulle labbra di alcuni le brune macchie dello Zai la Nihaar’ì
distolse subito lo sguardo, una vaga sensazione di disagio a scorrerle in un
brivido freddo lungo la schiena prima che le fosse possibile controllare
l’espressione del proprio volto. Sapeva però che qualcuno l’aveva certamente
veduta compiere quel questo. Di certo uno spunto fastidioso su cui sparlare più
tardi...
Così, per
distrarsi, tentò di concentrarsi sulle parole che a breve avrebbe dovuto
pronunciare durante l’Elegia, il sacro Canto di Benedizione per tutti coloro
che si affidavano alla Nihaar’ì, la Veggente. Un
canto che, come diceva Zaphil, dall’alba dei tempi
impediva alle Ombre di vedere e ghermire coloro che in esso confidavano e si
lasciavano al contempo permeare.
Nel
frattempo i musicanti si erano disposti ognuno su una delle venti e più
postazioni presenti nello spiazzo circolare recanti un piccolo sgabello e poco
distante un sottile e ricco corno d’ottone affisso ad un cavalletto istoriato.
I Corni della Torre del Tempo erano famosi in tutte le Terre per la loro
lunghezza - due uomini lunghi distesi non avrebbero potuto eguagliarla - e
bellezza frutto dell’arte dei più abili fabbri di Chermak.
Posti a
sbalzo oltre il bordo della Torre e lì lasciati ogni giorno salvo durante il
periodo delle tempeste di sabbia, era ogni volta necessario controllarne il
buono stato, la presenza o meno di danneggiamenti dovuti al caldo o alle
intemperie e si, ripulire bocchetta e struttura interna da eventuali ruggini
dovute all’uso. Per questo, mentre Zaphil invitava
gli ansanti nobili a scostarsi da un lato della Torre così da lasciare al
centro della stessa solo la Veggente, gli istanti precedenti al rito venivano
ogni volta destinati ad un religioso silenzio colmo di cura e dovizia per quei
mirabili strumenti.
Il Vento
però si stava alzando. L’aria attorno alla Torre prendeva a scaldarsi in acuti
sibili e fischi vaganti, quasi che la fuori, oltre il bordo, stesse avendo
luogo un sempre più affollato raduno di spiriti vocianti che con voce a tratti
profonda, a tratti stridula chiamavano a gran voce gli altri dicendo di
affrettarsi, di far presto perchè si, la festa stava davvero cominciare. Con calma, Zaphil si sporse allora oltre il parapetto, saggiando con
le dita tese le correnti ascensionali turbinanti attorno alla Torre in una
sorta di cascata invisibile e inversa, da vertigine in quella precipitosa
altezza qual’era l’ultimo piano della struttura.
Poi
improvvisamente Zaphil si ritirò, volgendo alla Nihaar’ì un’occhiata di intesa. “E’ il momento” l’avvisò
spostandosi repentinamente dinnanzi a lei e
chinandosi in uno sbuffo di stoffe con un ginocchio a terra; senza proferire
parola, i nobili lo imitarono rapidamente in un movimento di comune rispetto
che lasciò in ultimo solo la Veggente in piedi al centro esatto della Torre.
Rispetto e
ritualità in egual misura. Si ritrovò
lei a pensare mentre con un movimento leggero faceva ricadere sulle spalle il
cappuccio bianco che fino ad allora l’aveva protetta da vento e sguardi. Una
perfetta compagnia di teatranti, non c’è che dire. Ma quanti fra di voi
darebbero di buon grado tutti i propri averi per scongiurare anche solo la
possibilità essere al mio posto? La
benda calata sugli occhi le prudeva in modo atroce per via del sudore, ma in
quell’istante alzare semplicemente un dito e grattarsi - come ogni buonuomo
avrebbe fatto senza darsi nemmeno pena di pensarci su- avrebbe potuto causare
uno di quei famigerati incidenti diplomatici per cui era classico vedere
saltare teste coronate e colli agghindati nelle manifestazioni risaputamente più gradite alla gente comune.
In Pubblico,
dinnanzi ai suoi fedeli, la Nihaar’ì è una Dea. Una
Divinità. Possono le divinità starnutire? Sbadigliare? Tossire? Mostra la tua
umanità, e mostrerai loro quanto poco si debba osare per distruggerla....e
con essa distruggere te.
Per un
attimo la ragazza ebbe nella coda dell’occhio l’immagine di un giovane nobile
che scostava una mano dalle pesanti maniche e, credendo di non essere visto, si
infilava un intero dito indice dritto dritto nel
naso.
Ecco. Sospirò suo malgrado la Nihaar’ì. Lui
può. Lui, figlio di uno fra i più ricchi Seibala
dell’acqua...lui non deve curarsi del luogo e del momento più adatti per dare
avvio alle pulizie dei suoi dotti respiratori. Nè di
poter scatenare l’ennesimo attacco fratricida se si scaccola Qui. Dinnanzi a
me.
Ed
improvvisamente eccola, una folata più potente delle altre. La Folata che prima
fra le più impetuose che ad essa seguirono avvolse in
un attimo la Torre in uno spiro rovente, caldo come il fuoco.
“Preparatevi!”
fu l’ultimo grido di Zaphil prima che ogni cosa
smettesse di avere suono se non il precipitoso insinuarsi di quelle correnti
infernali in ogni finestra, stanza, salone e rientranza che della Torre
componevano il mastodontico corpo centrale. Arroventato, per un attimo quel
torrente di puro calore inondò la vista di tutti, stravolgendo in una foschia
dai tratti sdrucciolevoli e tremolanti ogni cosa ed ogni dove.
Lo
chiamavano Il Respiro della Terra, quel fenomeno, poiché in molti pensavano che
quello fosse l’esatto istante in cui il mondo, destandosi, traeva la sua più
grande e potente sorsata di vita che vibrando, sciabordando ed infine inondando
ogni più piccolo pertugio della Torre ne strappava una lunga, gloriosa,
terribile ed al contempo stupefacente nota.
Mentre
nell’aria essa si espandeva con la forza di mille boati, mille tuoni cavernosi,
la Nihaar’ì non potè che
ammirarne la terrorizzante potenza, ogni volta distruttiva e stupefacente in
confronti a lei che, sola, ora si preparava suo malgrado a fronteggiarla.
Che per
Divina Grazia, tutto ella può, tutto le è concesso a lei, la Figlia del Sogno
che dal Sogno nasce ed in esso prospera nell’Eternità....
Subito ne
seguì l’eco dei Corni, all’unisono suonati quale inno e tributo alla prima,
suprema, intonazione.
Che per
Divina Grazia, tutto ella è in grado di osare e pensare, Creatura della
Salvezza, scongiura di Distruzione. Vita immota.
Ed infine,
dopo un sospiro lungo come una vita intera, vibrò cristallina la voce della
Veggente la quale, più alta di tutte, prese allora a
recitare l’Elegia diretta a tutti i suoi Fedeli, al suo popolo ed
a tutto il mondo che con quel Canto sarebbe stato protetto per quel giorno
intero contro le Ombre e le nefande paure della Notte.
Parola
antiche. Dicevano i Vecchi. Che solo le Veggenti avrebbero potuto
proferire poiché la lingua dei sogni era cosa assai arcana e potente, affare
esclusivo di chi fosse in grado di apprenderla senza cedere alle tentazioni di Oneiron.
Come
facesse una sola voce ad udirsi in quel rombo apparentemente capace di
assordare perfino il remoto pensiero chiuso nelle sicure pareti della mente,
nemmeno la Veggente stessa avrebbe saputo dirlo. Ma ogni giorno, alla stessa
ora, secondo le medesime ritualità e convenzioni, ecco che la suprema vocale da
essa pronunciata scuoteva il mondo e con essa, il terrore delle mille e più
Ombre che lo popolavano.
Ma il
rituale non era ancora finito. Estasi magica e fisica che solo gli anni e
l’esperienza avrebbero potuto far collimare in un unico prodigioso attimo, le
correnti ascensionali che nella torre erano rimbalzate all’impazzata dandole
voce, anima e corpo in ultimo trovando loco ove disperdersi turbinarono a
precipizio lungo le vie di Chermak, ne percorsero in
una semplice frazione d’attimo l’intera lunghezza per venire infine ghermite
dalle ampie Vele che proprio sul confine della città erano state poste a
guardia e difesa dei suoi abitanti. Rosso porpora, le Vele erano l’unica
struttura conosciuta che per colore, forma e grandezza erano in grado di
scoraggiare le Ombre dall’avvicinarsi ai centri abitati. Il rosso, perché
pareva intimorirle. La Vela, poiché l’anima del vento dava vita costante a quei
giganti alti fino al cielo - e quasi quanto la torre- rendendoli ancora più
vivi e...minacciosi.
Quando
finalmente il vento calò, e con esso l’Elegia, i nobili e con essi i musicanti
vennero invitati ad abbandonare l’ultimo piano della Torre così che, per
qualche attimo, la Nihaar’ì ed il Naphil
potessero rimanere soli sulla sommità. Era cosa necessaria, poiché in genere
questo rituale stancava tanto la ragazza da richiederle al termine qualche
momento di tranquillità per riprendere le forze e riguadagnare la voce.
Ancora in
piedi la Nihaar’ì fece allora qualche passo in
avanti, socchiudendo appena gli occhi così da bearsi dei sibili e mormorii del
vento fra le alte colonne tutt’attorno. Parevano piccoli spiriti curiosi che a
più riprese si sporgessero dai propri nascondigli per sfiorarle una guancia o
pizzicarle una gota per poi fuggire via in un guizzo divertito.
“Sei stata
brava, oggi” la lodò poco distante Zaphil. Come
sempre l’uomo se ne stava nella parte più estrema della torre, ad un passo dal
precipizio, come se quell’altezza vertiginosa non lo turbasse ma anzi
stuzzicasse sfidandolo ad andare un poco più avanti, più oltre. A volte la
ragazza aveva il sospetto che quell’uomo fosse stato in un’altra vita un falco
o un’aquila tramutata poi per dispetto in essere umano così da potergli negare
le grandi altezze, le correnti ascensionali e si, il volo.
“Sono
sempre brava” si strinse nelle spalle allungando una mano e giocando a
dondolarsi da una colonna all’altra “Se è chiedermi scusa per il tuo
comportamento di questa mattina ciò che desideri, ti pregherei di farlo e basta
senza blandirmi”.
Qualcosa si
tese per un attimo nella figura di Zaphil. Poi però,
silenzioso, egli abbozzò un movimento di resa.
“E’ il mio
dovere, mia Signora” sillabò in un mezzo sorriso sghembo “Poiché nessuno è
autorizzato a farlo, spetta a me il difficile compito di proteggerla, badare a lei e si, provvedere alla vostra istruzione” “Credevo
che per questo ci fossero i Maestri” lo apostrofò l’altra. Zaphil
annuì “Al mondo ci sono diversi gradini nella scalata all’istruzione. Io mi
occupo di tutti quello meno gradevole ma dal quale dipende la vostra stessa
vita, mia Signora”.
Per un attimo
la Nihaar’ì si dondolò piano, le mani incrociate
attorno ad una colonna, il capo indietro onde lasciare che la nera treccia le
scivolasse oltre le spalle in un fruscio ovattato “Finora non ho mai sbagliato”
disse dopo un attimo con un sorriso leggero - forse un po’ sbarazzino-, come a
voler intendere che tutto sommato lui era un buon maestro e lei una buona
allieva. Pace fatta.
“Finora non
ti è stato chiesto di fare giusto” fu però la gelida risposta del Naphil. Il sorriso della ragazza svanì in un attimo.
Facendo un passo avanti, l’uomo si tolse dal capo le stoffe arrotolate,
rivelando una chioma di bruni capelli tagliati poco sopra le spalle. Nel
guardarlo la ragazza non tardò a comprendere il perché tutte le dame bramassero
anche solo un’occhiata da parte sua. Distolse rapida lo sguardo, incerta
sull’espressione del suo viso.
“Del resto nessuno si sognerebbe di reclamare il volo ad una creatura
senza ali” la apostrofò lui apparentemente incurante delle sue reazioni “Ma le
voci della Torre cominciano a farsi sempre più insidiose giorno dopo giorno”
Notte dopo
notte.
Annuendo
una volta -quelle di Zaphil non erano affatto parole
gonfie di novità-, la Nihaar’ì percorse per intero lo
spiazzo per giungere ad uno dei corni. Vi poggiò una mano sopra avvertendone
sotto le dita la superficie liscia e calda. Sospirò.
“Temono di
essersi portati a casa una Rashid...” ancora prima di
terminare la frase, la Nihaar’ì capì di aver fatto un
errore. Si morse troppo tardi la lingua, preparandosi alle conseguenze della
sua noncuranza nel parlare.
“Chi ti ha
insegnato questa parola?” la gelò infatti Zaphil poco
distante. Immobile, la Veggente parve non trovare nulla di meglio da fare se
non stringersi nelle spalle “Non ha nessuna importanza” sillabò tentando di
mettersi sulla difensiva “Voci di corridoio”. Zaphil
parve però per nulla intenzionato a concederle una nuova tregua, quella mattina
“E queste voci hanno anche un nome o mi dovrò limitare a punire chiunque dimori
in questa Torre per fare un po’ di chiarezza a riguardo?”.
Strabuzzando
gli occhi, la Nihaar’ì si ritrovò a schioccare
stizzita la lingua sul palato per poi sbottare “L’ho sentito dire da una delle
guardie qualche giorno fa” Zaphil parve poco
impressionato “Sai cosa vuol dire?” la pungolò implacabile. Ora palesemente
sull’offensiva, la ragazza diede diede un sonoro
strattone al corno rischiando quasi di farlo cadere “Parlano giusto perchè hanno la lingua per parlare. Non vuol dire niente,
lo sappiamo tutti e due!”
“Un Rashid è un traditore, una spia” pareva che non l’avesse
sentita “Uno che dice di essere qualcosa mentre è qualcos’altro o mente su
fatti che lo riguardano. Che tale parola abbia preso a circolare nella Torre è
cosa grave..” esitò “Ben più grande di quello che tu
possa credere”.
Ovviamente. Convenne la ragazza con un’occhiata velenosa
decidendo in quell’istante che la cosa migliore da farsi era inforcare la via
d’uscita da quel luogo e lasciare solo Zaphil per
tutto il resto della mattina...anzi, della giornata.Visto che ogni tua spiegazione è molto meno
che una mezza menzogna o una quasi verità.
Dannato Naphil. Unica sua fonte di informazione sulle cose del
mondo esterno, mai nella vita egli le aveva rivelato per intero qualcosa.
Probabilmente non le aveva mai mentito. Anzi, quasi certamente. Ma vi sono modi
davvero fantasiosi per rivelare la verità. Modi arguti ed eleganti. Modi docili
e modi irruenti.... e lui di certo li conosceva tutti.
“Aspetta”
Per un
attimo Zaphil parve come intenzionato a toccarla, ad
afferrarla per il braccio.Era vietato per i Naphil
toccare le Nihaar’ì. Vietato dall’alba dei tempi. Solo all’ultimo si bloccò a
metà strada, la chiara espressione di una presa che si trasformava in una
semplice mano aperta sul suo cammino.
“Sarà
meglio scendere. Oggi ho lezione e preferirei passare per i Giardini prima di
cominciare...” tentò di dire lei con il cuore in gola ma lui non la lasciò
finire.
“Odayn” la sua voce era bassa e cupa ora. Abbastanza da
impietrirla lì, un piede su ed un piede giù come nell’atto di spiccare un balzo
in avanti “La Torre del Tempo non sarà per sempre un luogo sicuro per te. Cerca
di fare attenzione”.