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Autore: Iria    21/08/2015    8 recensioni
“Prima o poi, tutto ritorna, inesorabilmente. Un giorno la tua penna preferita scompare e il mese dopo la ritrovi in un quaderno degli appunti. Funziona così. Una sorta di magnetismo a rilento. Be’, Boris è un po’ più grosso di una penna, ma il meccanismo è lo stesso. Tornerà.”
[Kei x Boris x Yurij e un destino mai magnanimo con loro]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Boris, Kei Hiwatari, Yuri
Note: OOC | Avvertimenti: Triangolo
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Il caso diede lo scacco matto alla loro vita
 
“Fermati e facciamo a cambio: guido io per un po’.”
Yurij sussultò, non se lo aspettava.
La mano di Kei era caldissima sulla sua spalla ossuta e i suoi movimenti leggeri, come quelli di un gatto cauto. Il giovane non si era reso conto che l’altro fosse sveglio, credeva dormisse; e invece, dalle ombre sotto i suoi occhi, poteva ben dedurre che probabilmente aveva passato buona parte del viaggio a scorgere in silenzio il paesaggio deserto della campagna irlandese.
“Limerick è ancora lontana?” lo chiese dopo che Yurij ebbe accostato, il tono appena seccato, stirando le braccia e respirando per un lungo attimo l’aria gelata della notte.
C’era una lieve luminescenza tutto attorno a loro, il sole era calato da un po’, ma era estate inoltrata e in Irlanda si aveva quasi quell’impressione di crepuscolo perenne.
O forse era tutta colpa dei Lepricani con i loro calderoni colmi di oro…
Kei sghignazzò divertito tra sé, e Ivanov lo fissò per un lungo istante con un sopracciglio inarcato oltre il limite del sopportabile, quasi a prendere in considerazione se fosse saggio affidargli la propria vita.
“È a circa altre due ore e mezzo di viaggio. Sei proprio sicuro di essere in grado di guidare?” Gli domandò scettico, muovendosi verso il sedile del passeggero e lanciando le chiavi a Kei, che le prese al volo, guardandole appena.
“Quello che ha dato di matto all’esame di guida, per poi ripeterlo un’infinità di volte, è il Rosso Malpelo tra i due, non io di certo… e poi, da che pulpito.” fu tutto ciò che disse in risposta, salendo a bordo e fissando soddisfatto l’espressione sdegnata dell’altro.
Uno a zero per Hiwatari, palla al centro.
Pensò tra sé, mentre ripartiva senza preoccuparsi troppo di sollevare il piede dall’acceleratore.
Allora, avvertì al suo fianco Yurij muoversi automaticamente e lo scatto della cintura di sicurezza.
Lo invase una vaga euforia, un divertimento appena crudele nei confronti del compagno e, senza tanti complimenti, alzò il volume dello stereo che fino a un istante prima era stato solo un ronzio indistinto e lontano.
*Sometimes I was so messed up and didn’t have a clue.
I ain’t winning no one over,

I wear it just for you…
I’ve got your name written here 
In a rose tattoo* 

Lo cantò in un bisbiglio, mentre lanciava uno sguardo a Yurij che si rannicchiava contro il finestrino, provando a dormire perché “Io non sono esaurito come te”.

L’Irlanda era stata una decisione inaspettata.
Boris un giorno aveva marciato inesorabile nell’appartamento che condividevano e con tono solenne aveva blaterato qualcosa sulla buona birra, sulle belle donne, su un freddo simile a quello russo col bonus di non essere accompagno da brutti ricordi, sintetizzando il tutto con la parola “Irlanda”.
Kei lo aveva ascoltato sinceramente interessato, del tutto preso dalla sua delirante pazzia, annuendo e disquisendo amabilmente sulla mitologia dell’isola di smeraldo.
Fra un susseguirsi di “Sì, ma la birra..!” e “Vorrei proprio farmi dare qualche consiglio da un Gancanagh, Yurij sembrò essere la sola voce ragionevole.
“Vi ha dato di volta il cervello?”
L’ex capitano li fissava sconvolto, lo sguardo truce e accusatore, perché Boris aveva sempre delle pessime idee, e Yurij avrebbe potuto compilarne una lista piuttosto accurata, a partire da quella volta che aveva tentato di preparare un uovo sodo sulla fiamma di una candela (Kei aveva cronometrato con estrema precisione come tre ore, quaranta minuti e trenta secondi il tempo in cui il ragazzo era rimasto seduto a rigirare l’uovo sulla fiamma, prima di arrendersi) al mirabolante schiuma party in cui si era trasformata la lavanderia perché “Che male potrebbe fare un po’ di ammorbidente in più?”.
Però, d’altra parte, Yurij aveva inteso che dietro l’apparente follia di quella proposta si nascondesse una ragione forse molto più sensata.
Il loro rapporto era stato inizialmente una scommessa.
Nessuno dei tre credeva che sarebbe durata a lungo, e Boris temeva sempre che Yurij, di punto in bianco, decidesse di sparire con Kei.
Non che fosse del tutto in torto, considerando che Hiwatari avesse un limite di sanità mentale superiore a quella del russo.
Eppure avevano stretto i denti, resistendo.
Mollato il beyblade, mentre Takao, ormai professionista, sorrideva loro dalle riviste sportive, ognuno aveva scelto una strada che sentiva più affine alle proprie possibilità: Boris si era ritrovato in una compagnia teatrale praticamente per sbaglio, Kei era prossimo alla laurea in Economia e Yurij… be’, lui era un intrattenitore.
Gli Host Club erano un business piuttosto fiorente in Giappone, e molti avevano iniziato ad assumere stranieri per soddisfare i gusti esotici di certi clienti.
Non sembrava poi tanto male: la paga e le mance erano buone, nonostante le notti in bianco passate ad ascoltare chiacchiere futili, e poi la divisa elegante gli stava decisamente bene.
C’erano pro e contro, ovviamente (e molti erano i contro, come una reputazione ormai andata a farsi benedire), ma se gli permetteva di pagare la sua parte di affitto, Boris e Kei erano tenuti a non mettere becco in quella questione.
Però, una delle cose che più gli facevano storcere il naso era uscire in strada ad attrarre clienti.
Lo trovava degradante: avvicinarsi a una ragazza, trattenerla a sé con un sorriso accomodante, parlarle suadentemente all’orecchio per convincerla ad entrare nel locale…
Era una sorta di prostituzione priva di sesso.
Ma Yurij riscuoteva un successo notevole col suo fascino intimidatorio (e le pavide, frustrate, represse giapponesi quasi imploravano la sua attenzione), quindi, fintanto che portava soldi per il locale, nessuno gli avrebbe tolto quel lavoro.

Per quanto riguardava Boris, insomma… la sua intenzione iniziale era stata quella di presentarsi per un colloquio come corriere, ma ad un certo punto doveva aver fatto casino con gli indirizzi (chiaro segno che non sarebbe mai stato un corriere efficiente) e si era ritrovato in fila per un casting di una compagnia teatrale.
Solo dopo due ore si era reso conto di aver giusto sbagliato qualcosa, e dopo un’altra buona mezz’ora, considerando che ormai l’orario del suo colloquio fosse passato da un pezzo, scrollò le spalle, decidendo di tentare la sorte.
Alla sera, quando rientrò spalancando la porta (e Yurij pregò mentalmente che i cardini resistessero almeno fino al prossimo stipendio), non si risparmiò i particolari nel raccontare la sua straordinaria avventura.
Riuniti nel salone, Kei mise persino da parte il suo adorato volume di Finanza Aziendale per prestare orecchie alla sua epica esposizione dei fatti, mentre Yurij sembrava più interessato a una macchia di umidità sul soffitto.
“Arrivato sulla scena, ero letteralmente terrorizzato… che diavolo avrei dovuto fare?”
“Domanda più che legittima.” Ivanov intervenne con aria seccata, già pronto ad alzarsi dal divano.
“Non interrompere il pathos, Yurij.” Kei lo rimproverò prontamente, trattenendolo per un braccio e costringendolo a sedersi di nuovo. Quindi, allungò le gambe, poggiandole comodamente in grembo al russo che lo fulminò con lo sguardo, ormai costretto all’ascolto.
“È esilarante quanto sia grottesco. Continua pure, Huznestov.” Aggiunse, infatti, il giapponese, ignorando del tutto l’aura omicida del compagno.
“Grazie, Hiwatari.” Boris gli rivolse uno sguardo colmo di riconoscenza, rimproverando poi Yurij in un’occhiata, ma l’altro roteò gli occhi al cielo, sbuffando e tornando alla macchia di umidità.
Ovviamente, Boris non attese oltre delle scuse che non sarebbero mai arrivate.
“Be’, ero lì che me ne stavo con le mani in tasca. Ad un certo punto sento il mio pacchetto di chewingum  preferito sotto le dita e, ignorando tutto il resto, lo tiro fuori, lo apro e mi ficco un paio di gomme in bocca con estrema soddisfazione. Erano alla coca-cola, insomma.” Aggiunse, come se quello avesse potuto giustificare una simile idiozia.
“Sì, il gusto frizzante e il vago aroma di limone sono irresistibili.” Concordò ragionevolmente Hiwatari, sotto lo sguardo sconvolto di Yurij, che contava almeno sulla sua sanità mentale.
Appunto. Comunque, vado a sedermi su una sedia al centro del palco e chiacchiero adorabilmente con i proprietari della compagnia per cinque minuti buoni. Credo lo abbiano chiamato monologo. Eccellente monologo! Sì, hanno detto così… e alla fine raccontare di voi, di noi deve averli impressionati parecchio, perché mi hanno preso senza alcuna esitazione.”
Silenzio.
“Hai raccontato di noi?”
“Geniale.”

Kei e Yurij si guardarono, il primo con sadico divertimento nello sguardo, il secondo ormai in bilico tra l’incredulità e la voglia di strozzarli entrambi.
“Sei entrato in una compagnia teatrale masticando una gomma e parlando della nostra vita?!” Riassunse a quel punto il russo, mentre Kei riprendeva la lettura del libro di Finanza là dove l’aveva lasciata.
“Sì.” Boris scrollò le spalle.
“… sai che è un’offesa per tutti quelli che hanno studiato teatro per anni, vero?” Continuò Yurij, in un crescendo di incredulità.
“Buon per me e peggio per loro. Si chiama talento.” La secca convinzione in quell’affermazione fu disarmante.
“Hai la vaga idea di cosa significhi essere un attore?” Rincarò infine la dose Ivanov, sperando di farlo ragionare.
“Soldi, donne, imparare qualche battuta a caso.” Elencò Huznestov sulle dita, dandogli le spalle come a far intendere che per lui la conversazione finiva e moriva su quell’ultimo punto, dirigendosi verso la loro camera da letto.
Silenzio. Di nuovo.
Solo che a quel punto fu la risata sghignazzante di Kei a spezzare la contemplazione di Yurij di un doppio omicidio con annesso suicidio dell’assassino.
“Sarà divertente. Andiamo a vedere la prima?” Gli occhi viola lo fissarono da sopra la copertina rigida del tomo, accesi da uno scintillio di sadica aspettativa.
Yurij non rispose subito, metabolizzando le intenzioni del compagno con esasperata complicità.
“In teatro non sono ammessi stuzzichini o pop-corn.” Affermò infine, quasi a dare la sua benedizione all’idea.
“Oh, dannazione. È un vero, un vero peccato.”

Il punto fu che alla fine Boris si dimostrò migliore di quanto avrebbero mai potuto credere.
Sapeva stare sulla scena, aveva carisma, calibrava voce, tono, espressione e movenze; riusciva anche ad improvvisare (e i due lo capivano solo perché le orecchie del giovane si facevano appena più rosse come quando mentiva… ma ai più quella sua reazione fisica era sconosciuta, e quindi appariva solo come un abilissimo oratore).
Furono costretti a rassegnarsi all’idea che, , Huznestov fosse davvero bravo e che oltre all’aiuto di una fortuna sfacciata, quella volta, all’improvvisato provino, doveva aver partecipato anche un talento celato a lungo.
 
Kei, invece, aveva ovviamente ereditato la fortuna del nonno.
Tuttavia, e in questo il vecchio aveva realizzato in pieno la sua essenza di perfetto bastardo, parte del patrimonio era stata vincolata all’educazione universitaria di Hiwatari il quale, se non avesse completato gli studi, non avrebbe potuto usufruire del resto.
Kei aveva ascoltato le condizioni con impassibilità, e aveva accettato con una scrollata di spalle.
Studiare non gli dispiaceva.
E se il vecchio aveva creduto di poterlo indispettire, si era sbagliato di grosso: il giovane era fra gli studenti migliori del corso, risolvere problemi di Economia gli veniva piuttosto naturale e si era ritrovato ad essere in perfetto anticipo per la laurea.

Comunque sia, tornando all’Irlanda, la questione fu un po’ più complicata di quanto Huznestov avesse voluto davvero dare a vedere.
Yurij rimase a lungo in silenzio, mentre Kei e Boris chiacchieravano sconnessamente di “Assalto ad un rath” e  de “Il desiderio di una sana rissa da pub”.
“Okay, ma ora calmatevi.”
Ivanov alzò il tono della voce, pur restando perfettamente calmo, chiaro segno che si stesse preparando a una sorta di interrogatorio al quale Boris non sarebbe potuto sfuggire.
Come a intendere la situazione, Kei gli batté solidale una mano al centro della schiena e si accomodò ad una sedia nella cucina, mentre Huznestov non poté far altro che deglutire rumorosamente, restando lì al centro come un condannato sul patibolo.
“Boris, io ho il mio lavoro, tu il tuo e Kei sta per laurearsi.”
Uno sbuffo seccato venne dal giapponese, che guardò Yurij deluso e tradito, come a dire che si aspettasse di certo una scenata migliore di quella, dannazione.
Yurij lo ignorò di sana pianta, tornando a guardare Boris dritto negli occhi.
“Insomma, per quanto ti manchi qualche rotella, credo tu capisca che prendersi una vacanza di punto in bianco non sia contemplabile.” Disse serio, senza perdere neanche la minima reazione sul viso dell’altro.
Ivanov aveva una capacità di analisi e di osservazione piuttosto acuta, la qual cosa lo aiutava nel lavoro: dai gesti e dalle espressioni dei suoi clienti, ne capiva i desideri e riusciva ad accontentarli con gentilezza affettata e falsa; e se riusciva con i volti sconosciuti, figurarsi quanto potesse essere semplice con Boris.
L’altro russo era agitato.
I suoi occhi verdi vibrarono per un istante in un timore lontano e la fronte gli si imperlò appena di sudore freddo.
Oh, e ovviamente le punte delle orecchie gli si tinsero di rosso
“In realtà, non stavo pensando ad una vacanza…” Buttò lì infine, e quelle parole misero persino Kei in allarme. Hiwatari fece ricadere con un colpo sordo sul pavimento la sedia sulla quale si stava dondolando, e fissò serio i due compagni.
“Il che è anche peggio… sputa il rospo.” Sospirò allora Yurij, incrociando le braccia al petto, in una tipica posa ed espressione alla “Yurij Ivanov, capitano dei Neoborg”.
“La compagnia teatrale è stata acquistata da un benestante irlandese, che ha fatto una selezione degli attori da tenere o da licenziare, ed io sono sopravvissuto alla mietitura.”
Kei rise a quella battuta, ma trasformò la risata in un attacco di tosse all’occhiataccia di Yurij.
“È stato chiesto il trasferimento in Irlanda… in realtà non so ancora se a titolo definitivo, e pensavo potessimo andare assieme.”
Silenzio.
L’ennesimo tra di loro, il più pesante di sempre.
“Io… non credo sia possibile.”

Non era stato semplice, e nessuno lo avrebbe mai voluto.
Dalla sconfitta della BEGA erano sempre rimasti insieme: Sergej e Ivan avevano deciso di tornare in Russia, ma Yurij era piuttosto convinto che quella terra crudele non avesse più alcuna occasione da offrirgli, e aveva deciso di restare in Giappone con Kei.
Ovviamente, questo aveva scatenato una reazione piuttosto contraddittoria in Boris: non c’era stato giorno di cui avesse memoria in cui non aveva condiviso la propria vita con Yurij, e spezzare di colpo quella costante, quell’unico appiglio sicuro della propria esistenza appariva spaventoso.
Quindi, Huznestov aveva accettato diversi compromessi scomodi nell’arco del loro primo anno di convivenza: condividere parte della propria quotidianità con quella creatura bizzarra che era Kei, ingoiare il rospo di vedere i due in atteggiamenti ben più che amichevoli e accomodarsi in prima fila come spettatore pagante di una vita che non era la sua.
Kei e Yurij litigavano, Kei e Yurij si riappacificavano con un grugnito scontroso, Kei e Yurij facevano l’amore.
La prima volta che li aveva sentiti dalla propria stanza, si era ritrovato con un’erezione fastidiosamente dolorosa.
I gemiti di Yurij suonavano bassi.
No, non erano rumorosi, e probabilmente i due compagni erano anche i tipi da sesso a luci spente; però c’era una musicalità affascinante ed erotica nella voce di Yurij, qualcosa che lo solleticava a tal punto da fargli desiderare di essere lui quello ad affondare fra le sue cosce.
Se ne vergognava maledettamente, perché Kei tutto sommato gli piaceva.
Quell’esperienza gli aveva fatto conoscere lati del giapponese insospettabili e alla fine era arrivato a considerarlo un buon amico, addirittura un complice.
Ma Yurij…
Yurij era il pezzo con cui aveva iniziato il puzzle della propria vita, quella colonna portante e incrollabile che gli aveva teso la mano per strada, quando erano piccoli, soli, sporchi e abbandonati dal mondo.
Yurij era i rimproveri severi, la sua prima vodka rubata a Vorkov e il suo primo bacio nella cella delle punizioni.
Era la risata amara quando avrebbe voluto piangere e la sola lacrima che c’era da versare quando l’universo del Monastero diventava una sofferenza troppo penetrante ed umiliante per poter essere sopportata dalla freddezza apatica di una maschera.
Quando, alla fine, aveva trovato il coraggio di esprimere tutta quella carrellata di sentimenti contrastanti, impronunciabili e indefinibili, non lo avevano deriso, né scacciato.
Kei aveva scrollato le spalle, guardando Yurij come a lasciare a lui qualsiasi decisione in merito, e con quello il russo aveva accettato di diventare un veicolo, un catalizzatore nel quale persino Hiwatari e Huznestov, così distanti dal desiderio di avere anche solo un contatto fisico tra loro, avrebbero potuto raggiungere quell’unico e intimo atto del dare, di completarsi.

Boris non vedeva il corpo di Yurij completamente nudo da tempo.
Le piccole efelidi sulla schiena e le spalle erano sempre lì, come tante chiazze di fango su un mantello di neve, le vertebre erano ancora perfettamente distinguibili e la muscolatura appariva ormai matura e definita.
Era bello.
Non perfetto, certo.
Però lo lasciava inesorabilmente senza fiato.
Ad un secondo studio del suo corpo, mentre Kei gli passava una mano fra i capelli disordinati e lo prendeva in giro su qualcosa di probabilmente stupido e futile, Boris individuò su un fianco del ragazzo un ghirigoro nero ed elegante, tanto sottile da passare quasi inosservato.
“The bones you couldn’t break.” Bisbigliò, attirando l’attenzione degli altri due che smisero di battibeccare.
“Quando l’hai fatto?” Chiese allora, alzando gli occhi verdi a incontrare il sorriso vagamente amaro di Yurij.
“Una volta messa fuori gioco la BEGA, qualche tempo dopo le dimissioni dall’ospedale…”

Il litigio era stato feroce.
In realtà, era diventato un crescendo, perché Yurij aveva iniziato giustificando le sue parole con un discorso perfettamente ragionevole.
“Boris, ascolta, a te piace questa cosa del teatro, no? È da due anni che va avanti, sembra che tu abbia del talento e non hai ancora tentato di ammazzare nessuno.” A quell’ultima frase, Huznestov soffocò una risata, una nota d’allegria nata dal vuoto che improvvisamente gli si era aperto nel torace.
Yurij lo prese come un segnale positivo.
“Quindi, perché non ci provi e basta, indipendentemente da noi? Non sarebbe giusto negarti questa possibilità e poi, be’… io avrò il tempo necessario per chiedere delle vacanze, di certo Kei vorrà una pausa dopo la laurea e allora verremo a trovarti.” Concluse con semplicità disarmante, restando fermo nella sua posizione iniziale, le braccia strette contro al petto e l’espressione di chi era piuttosto seccato nel dover esprimere una simile banalità.
Boris si guardò le mani.
Sì, detta in quel modo sembrava davvero una sciocchezza, eppure il giovane aveva paura, un timore folle.
Se vi era stato un prima tra Kei e Yurij senza di lui, poteva benissimo esserci anche un dopo e così continuare.
Ed era un pensiero insopportabile.
Aveva il bisogno di essere rassicurato, di sentirsi dire che nulla sarebbe mutato, che avrebbe potuto inserirsi ancora tra di loro, perché se Yurij aveva anche Kei da amare, lui non aveva nessun altro.
Fare l’idiota con le ragazze non contava: infatti, considerava Ivanov una certezza e il resto del mondo poteva anche andare a rotoli, purché Yurij restasse.
Kei dovette intuire quei pensieri, perché a quel punto fu lui a parlare.
“E sarebbe anche ora che prendessi la vita con più intraprendenza, no?” Secco, indifferente, atono.
Dritto al nocciolo della questione.
Yurij gelò.
“Kei…”
“No, no, lasciami finire, Yurij.” Proseguì, alzandosi in piedi, girando attorno al tavolo per fronteggiare Boris, che si era irrigidito e aveva stretto i pugni in un riflesso incondizionato.
“È anche questo il motivo per cui è rimasto in Giappone con noi.” Disse inesorabile, mentre la mascella di Huznestov si contraeva e la bile gli risaliva in gola.
Aveva ragione.
E lo mandava su tutte le furie.
“Ad un certo punto della tua esistenza ti ritroverai necessariamente solo con te stesso. Yurij non potrà esserci in eterno.”
Lo sapeva benissimo, era una verità con cui aveva già fatto i conti e che aveva deciso di riconsiderare solo quando lo avesse ritenuto strettamente necessario.
“Me ne rendo perfettamente conto.”
“E allora smettila di comportati come un moccioso impaurito e molla il culo di Ivanov.” Dichiarò spiazzante Kei, gli occhi fermi in quelli di Boris senza cedere di un battito.
Quella fu l’ultima goccia, le parole che rovesciarono il vaso di Pandora della sua pazienza (e dignità).
Abbatté un pugno dritto su uno zigomo del giapponese, che barcollò e poi cadde, guardandolo con un mezzo ghigno divertito e tremendamente soddisfatto.
Rabbia cieca.
Perché Hiwatari aveva ottenuto ciò che voleva, e Boris era ormai implacabile.
“No!”
Yurij aveva cercato di fermare Huznestov prima che potesse tornare a caricare Kei, e si ritrovò il fiato mozzato in un colpo che lo piegò in due contro il tavolo.
Strinse gli occhi e sollevò lo sguardo verso il compagno.
“Io… me ne vado.”
Boris era terrorizzato da ciò che era arrivato a fare.
Kei aveva un rivolo di sangue che dalle labbra era scivolato a macchiargli la camicia e Yurij era impallidito, perché le uniche volte in cui Boris aveva, anzi, in cui entrambi avevano perso il controllo l’uno contro l’altro era stato a causa degli strani esperimenti di Vorkov, e il trauma li aveva inesorabilmente segnati (e condannati alla paura) in eterno.
 “Boris, calmati. Ne riparliamo, davvero, ma…”
Non ebbe neanche il tempo di concludere, perché l’altro russo si era catapultato fuori dalla cucina.
“… aspetta.”
Per favore.
Gli morì tutto in gola, mentre udiva la porta di casa che sbatteva.
“Quindicimila yen di camicia buttati nel cesso.” Kei ruppe il silenzio, e quello fu tutto ciò che ebbe da dire.

Passarono diversi giorni, ma Boris non tornò.
Nelle sue pause dallo studio, Kei sollevava spesso lo sguardo e fissava Yurij.
Il russo in quei momenti leggeva o guardava un film al pc con le cuffie per non disturbare il compagno, ma Hiwatari ben sapeva che genere di tormento si celasse dietro quegli occhi azzurri.
Un pomeriggio, dopo che gli ebbe preparato una tazza di tea, silenzioso, gli sfilò le cuffiette dalle orecchie e si accostò al suo viso quel tanto che bastò all’altro di voltarsi e di scontrarsi coi suoi occhi viola.
“Kei…”
“Alle volte bisogna essere in grado di lasciare andare ciò che amiamo.” Disse d’un tratto, fissandolo indecifrabile.
“Prima o poi, tutto ritorna, inesorabilmente. Un giorno la tua penna preferita scompare e il mese dopo la ritrovi in un quaderno degli appunti. Funziona così. Una sorta di magnetismo a rilento. Be’, Boris è un po’ più grosso di una penna, ma il meccanismo è lo stesso. Tornerà.” Disse, soddisfatto della sua spiegazione, posando la tazza calda sulla scrivania.
“Io non gli ho mai detto di amarlo.”
“Ah, ma indirettamente lo hai fatto eccome.” Hiwatari rise, soddisfatto di poter essere lui, per una volta, a dare una lezione a Yurij, che lo fissava interrogativo.
“Quando gli hai conservato l’ultima fetta di pizza, quando gli hai sistemato il bottone della camicia o quando l’hai aiutato fino allo sfinimento ad imparare una parte. Io non sarò un eccelso esempio di umanità, Yurij, ma ci sono tanti modi di dichiarare i propri sentimenti, e sono molto più incisivi di un banalissimo “Ti amo”.”
Portò gli occhi sul cielo grigio e colmo di pioggia fuori dalla finestra spalancata, prima di muoversi e chiuderla con uno scatto leggero, voltandosi a guardarlo.
Ivanov gli sorrise appena.
“Andrà bene, quindi. Ha solo bisogno di trovare l’autonomia che merita.”
“Esattamente. Poi ci presenteremo in Irlanda e gli scroccheremo vitto, alloggio e pure le fate dal giardino.”

Solo che le cose non andarono secondo le loro più rosee previsioni.
Yurij si ammalò.
E, banalmente, del più comune dei mali moderni: una bella porzione di cellule impazzite a banchettare col resto del suo corpo sano.
O qualcosa del genere.
Già qualche tempo prima che Kei ottenesse l’ambita laurea, aveva iniziato a non stare particolarmente bene.
Toccandolo, Hiwatari gli aveva fatto notare con un cipiglio severo che era dimagrito un bel po’, e c’era sempre più una spossatezza ingiustificata nelle sue azioni.
Il culmine era stato quando, a causa di una forte febbre, aveva dovuto rinunciare ad assistere alla tesi del compagno.
Be’, in realtà era stato costretto.
Kei, vestito di tutto punto, gli era letteralmente saltato addosso e, dopo diversi minuti di tenace lotta e qualche mossa improvvisata di wrestling, lo aveva semi-legato al letto in un bozzo di lenzuola e coperte, ficcandogli il termometro in bocca e imponendogli di restare dov’era fino al suo ritorno.
“Mi dispiace.”
Lo so, ma a me non disturba.” Kei gli aveva sorriso appena, gli occhi viola immobili in uno sguardo che nascondeva mille splendidi sentimenti, e nessuno mai davvero espresso.
“Ora riposa. Quando torno, ti accompagno in ospedale.”

La visita in ospedale si era protratta per più giorni, fra accertamenti vari, scartoffie da compilare e un’infinità di analisi da fare.
Il tutto si era concluso con due sole certezze: no, niente influenza stagionale e, sì, era terminale.
Dai quattro ai sei mesi.
Be’, la cosa si era evoluta piuttosto velocemente, finendo un tantino fuori controllo.
Tuttavia, Ivanov si mostrò all’altezza delle aspettative di Kei e, nonostante la paura avesse irrigidito i suoi lineamenti, scosse il capo con un sorriso amaro.
“Niente chemio.” Dichiarò, di fronte al medico che non sapeva come prendere quella calma piatta.
Insomma, teoricamente, vi erano cinque fasi nell’elaborazione del lutto, eppure il ragazzo sembrava essere saltato direttamente all’accettazione.
“Sei tu il boss.”
Kei aveva accolto la cosa con un cenno comprensivo del capo, come se trovasse quella decisione del tutto sensata, per poi guardare Yurij.
Il russo aveva ricambiato, sogghignando complice in tutta risposta.
“Le vuoi ancora quelle fate da giardino?”

Quindi, dopo che Yurij ebbe dato le dimissioni al proprietario dell’Host Club, si erano ritrovati su quell’infinita autostrada irlandese, a fare salti mortali fra i cartelli in gaelico e in inglese.
No, non erano lì per riportare Boris indietro, anzi.
Sia Yurij che Kei concordavano sul fatto che sarebbe stato meglio, per il giovane, proseguire in quel modo la propria vita.
Però, Ivanov voleva andarsene senza rimpianti e con la consapevolezza di aver potuto riabbracciare ancora una volta quel dannato testardo di Huznestov.
Kei era perfettamente in grado di controllare e calibrare ogni emozione, ecco perché continuare a vivere con lui sembrava una soluzione più che salutare.
Huznestov, invece, sarebbe stato una bomba ad orologeria di nervi, ed essere la causa del malessere del compagno non l’avrebbe fatto stare di certo meglio.
“Quindi gli diciamo che stai per morire e ce la diamo a gambe?” Kei guidava tranquillo, il cielo ormai rosa per l’alba. L’erba bagnata a causa della notte appena trascorsa sembrò brillare di luce propria, accecante nel suo verde intenso.
Hiwatari respirò a fondo, mentre mancavano ormai pochi chilometri per la città. Erano riusciti ad ottenere l’indirizzo di Boris da una delle ex-attrici della compagnia che avevano rinunciato al soggiorno in Irlanda, schiacciate dalla paura dell’ignoto.
Il navigatore, poi, aveva fatto il resto.
“Più o meno. Elaboreremo un piano dopo avergli comunicato la notizia.” Stette al gioco Ivanov, con voce impastata dal sonno e il tono divertito.
Anche se, be’… quella era davvero la parte più difficile.
“Sai che vorrà tornare.”
“Se non l’ha fatto finora, significherà pur qualcosa, no? Forse sta finalmente bene.” Yurij azzardò quella teoria, ma neanche lui ne parve particolarmente convinto.
“Può darsi che si vergogni della sua scenata e basta. Se gli avessi dato altri due mesi di tempo, probabilmente ce lo saremmo ritrovato di nuovo sulla porta di casa.” Disse con ragionevole ironia Kei, lanciandogli uno sguardo che per un attimo fu incrinato dalla tristezza.
Yurij rise amaramente, gli occhi azzurri a contemplare il profilo grigio della città poco distante.
“Solo che io non so se avrò altri due mesi in cui poter attendere…”

Alle volte, però, il caso, il destino, o qualunque altra cosa fosse, risultava essere piuttosto crudele.
Entrati in città, la prima cosa che fecero fu di sistemarsi in un bell’albergo che affacciava proprio sul fiume Shannon e che scrutava il profilo del King John’s Castle in lontananza.
Restarono per un po’ lì, a memorizzare quel paesaggio nuovo e infine, con silenziosa risoluzione, decisero di uscire.
Avrebbero potuto recuperare i bagagli sin da subito e tornare in Giappone senza neanche tentare.
Però la vigliaccheria non era contemplabile.
Tuttavia, quando andarono alla ricerca della piccola villetta a schiera che Boris aveva preso in affitto, la trovarono vuota.
“Oh, il signor Huznestov è partito ieri. A breve, inizierà un tour mondiale con la compagnia teatrale e starà via ben sei mesi! Avete bisogno di lasciargli detto qualcosa?”
Un’anziana dalle guance rosse e con i capelli sbiaditi dalla vecchiaia li informò con tono cordiale, gli occhi nocciola vivi e splendenti nella luce del giorno.
Yurij, però, portò la sua attenzione alle mani rugose della donna che accarezzavano i petali delle rose curate fino ad un attimo prima e allora, quasi avesse avuto una sorta di epifania, anticipò Kei, prendendogli un polso e scuotendo il capo, evitando che dicesse qualsiasi cosa.
“Non si preoccupi, signora. Grazie di cuore per l’informazione, le auguro una splendida giornata.”
L’anziana ricambiò con un sorriso radioso quelle parole e i due giovani si allontanarono, camminando a lungo in silenzio l’uno di fianco all’altro, fino a quando Kei, risoluto, fermò Yurij, prendendolo per le spalle e fissandolo negli occhi.
“Sei sicuro?”
No.
Però non poteva di certo inseguire Boris in capo al mondo.
Per un attimo, chinò lo sguardo sulle proprie mani bianche e giovani, che così sarebbero rimaste nella memoria di chi l’aveva conosciuto, e sorrise amaramente.
Niente vecchiaia, per lui.
Ecco, questo gli faceva decisamente male.
Annuì.
“Sì, va bene così. Evidentemente, c’è qualche altro meccanismo in atto nella sua vita che lo porterà altrove, più felice di quanto potrebbe esserlo sapendo di me.” Disse, scrollando le spalle e allungando una mano a sfiorare le dita di Kei, incamminandosi con lui lungo il marciapiede già affollato.
“Sai che prima di morire dovrai lasciargli una bella registrazione pregna di significato, di scuse e di spiegazioni, sì? Giusto per prevenzione nei miei riguardi: non voglio che Huznestov mi faccia fuori… desidero prima fare più soldi di mio nonno, poi potrò raggiungerti all’Inferno.” Dichiarò impassibile e terribilmente serio; e Yurij, in tutta risposta, fece schioccare la lingua contro il palato, divertito.
“Sì, sì… ci sarà tempo.”
“Mmh. E cosa vorresti fare adesso?” Studiò il suo profilo, e vide lo sguardo del compagno fissare la strada con attenzione e poi fermarsi su un punto indefinito e lontano.
“Birra. Voglio una birra. Poi potremmo andare al mare… mi dicono che le coste irlandesi siano tra le più spettacolari al mondo.” Disse quindi dopo un lungo attimo di silenzio, voltandosi a guardare Hiwatari con ironia.
Kei, allora, rise e, individuando l’insegna di un pub poco lontano, lo trascinò lì con tranquillità; gli aprì la porta ed entrò con lui.
“Sì, mio capitano.”

In Giappone era già sera, quando Boris, fermo dall’altra parte della strada, sollevò lo sguardo verso quello che era stato anche il suo appartamento.
Tutto era fermo e buio, sembrava quasi che non ci fosse nessuno.
Be’, considerò tra sé, Yurij poteva essere a lavoro e Kei… oddio, Kei doveva studiare, quindi avrebbe avuto di certo bisogno di una luce, no?
Però… se non ricordava male, quello doveva essere proprio il periodo della sua possibile laurea, quindi forse aveva dato la tesi e lui e Yurij erano fuori a festeggiare.
Sorrise tra sé, abbassando gli occhi sull’asfalto e scuotendo il capo. 
Forse non era ancora il momento di tornare a farsi vivo.
Avrebbe dovuto ringraziarli, certo, perché la sua vita aveva iniziato a prendere una svolta inaspettata e positiva, dopo il taglio sagacemente elaborato e improvvisato ad arte da quel diavolo di Kei, però, tutto sommato…
“Ci sarà tempo.”
Lo bisbigliò, lanciando un ultimo sguardo alla finestra della loro camera da letto, e si incamminò nuovamente verso la stazione metropolitana più vicina.
Di lì a sei mesi, sarebbe tornato, chiedendo scusa, per poi portarli a cena nel locale migliore della città.
Non era di certo come aspettare un’eternità, e loro sarebbero stati lì.
Quindi, li salutò con un pensiero dolce e caldo, un sentimento bellissimo che gli investì il cuore e che tuttavia lo rese maledettamente malinconico.
“A presto.”

Una vita poteva avere mille sfumature, e spesso nascondere molti più inganni e tranelli di quanti se ne potessero in realtà smascherare.
Kei, Yurij e Boris lo avevano imparato molto presto, quando erano solo ragazzini, ed anche da adulti non ebbero modo di evitarne le crudeltà.
Portavano quella verità nel sangue, nella memoria… l’avevano custodita nei loro corpi, e lì era rimasta, indelebile.
Lontani per le distanze e vicini nelle intenzioni, in quell’ultimo e sadico scherzo, il caso diede lo scacco matto alla loro vita.

*This one means the most to me, stays here for eternity: a ship that always stays the course, an anchor for my every choice, a rose that shines down from above.
I signed and sealed these words in blood, I heard them once, sung in a song… It played again and we sang along.
You’ll always be there with me. Even if you’re gone, you’ll always have my love.
Our memory will live on.*
(Rose Tattoo, Dropkick Murphys)

Fine

Note:

 
*Questo è il più significativo, è qui da sempre: una nave che prosegue nel suo corso, un’ancora per ogni mia singola scelta, una rosa che risplende dal basso.
Ho firmato e sigillato queste parole nel sangue, le ho ascoltate una volta cantate in una canzone… suonò ancora, e cantammo assieme.
Sarai sempre qui con me. Anche se scompari, avrai sempre il mio amore.
La nostra memoria continuerà a vivere.*

Oh.
Oh.
Dopo secoli, ritorno anche qui, con una storia che ha subito tre fasi nella sua elaborazione: inizialmente, doveva essere qualcosa di molto rosso e molto erotico, poi ho pensato di evolverla in una roba più idiota e infine ne è uscito uno scritto più serio e meno definito.
Da molto tempo desideravo mettere giù una cosa del genere, qualcosa che giocasse sui tiri mancini che molto spesso la vita tira alle persone.
Però, volevo farlo in modo leggero, tramite un sorriso amaro e una risata che facesse riflettere.
Non ho voluto soffermarmi sulla malattia e le sue conseguenze fisiche.
Penso che al riguardo, su questa sofferenza, siano stati già scritti fiumi di parole, e la mia intenzione non era quella di tuffarmi in queste acque.
Questa è solo la narrazione di uno scherzo del destino e di un rapporto con basi così complesse da rischiare di frantumarsi nella fragilità di una banale insicurezza.
Spero davvero che possa essere stata una lettura gradita.
Grazie di cuore per il vostro tempo.
Iria.


 
   
 
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