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Autore: Nat_Matryoshka    24/08/2015    2 recensioni
Condannati all'interno di una Società che mette al bando chiunque non si adegui ai suoi precetti, gli artisti sono destinati a vivere un'esistenza solitaria. Qualcuno, però, decide di ribaltare la propria sorte, di sfidare le regole. Anche di innamorarsi.
Dal testo:
"Continuo a pensarti, N., e il tramonto tinge la città di rosso e arancio, allungando la mia ombra sull’asfalto segnato dal tempo. Al tuo respiro lieve mentre dormivi, alle tue labbra e a quella giovinezza malinconica che ti portavi dietro, che ci portavamo dietro entrambi. Ai tuoi tormenti, che sembravano grandi ma che dovevano essere immensi, e amari. Come i miei."
[Questa storia ha partecipato al contest "21 Prompt in Cerca d'Autore" indetto da ariscarmen sul forum di EFP.]
Candidata a quattro premi Oscar - Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Attrice Non Protagonista, Miglior Attore e Miglior Film - agli Oscar EFPiani 2016.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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  • Nome sul forum: Ino;Chan
  • Nome su EFP: Nat_Matryoshka
  • Prompt: “Una cosa è nascondere la tua vera identità, un’altra fare finta di non esistere affatto!” – Gossip Girl
  • Titolo: Solitario, dipinge fiori.
  • Genere e rating: Introspettivo, Generale, Malinconico / rating giallo
  • Lunghezza storia: one-shot, 17 pagine
  • Eventuali note:
  1. Winston, il nome assunto da Mary Westenra, fa riferimento al Winston Smith di 1984, romanzo di George Orwell. Il protagonista non ha nome, proprio per rappresentare un qualunque individuo oppresso per il proprio modo di essere.
  2. Ogni evento narrato è frutto della mia fantasia, così come sono casuali le eventuali somiglianze con eventi o personaggi realmente esistenti. 




 

Solitario, dipinge fiori.
 
 
 
 





“Despite of my rage, I'm still just a rat in a cage”
[The Smashing Pumpkins – Bullet with Butterfly Wings]
 
 





Da quando l'ultimo decreto ha fatto la sua comparsa nel nostro illustre e glorioso paese, l'unico luogo in cui posso recarmi a dipingere tranquillamente senza rischiare di essere arrestato – o peggio – è il Soul. Un piccolo bar di periferia, poltrone rivestite di pelle sintetica rossa che fanno tanto anni Cinquanta senza averli mai vissuti, lo stereo che diffonde musica lounge, o indie, o jazz (a seconda dell'umore del proprietario), menu dalla copertina vintage e vinili appesi ovunque. Cibo, birra, caffè ma soprattutto libertà. Dentro al Soul, nessuno metterà il naso nei tuoi affari sbirciando sul foglio che hai davanti, o sull'album che ti porti dietro, avido di scandali, speranzoso di scoprire il segreto che potrebbe condurti dritto nelle braccia dei Rieducatori. Al Soul, sei un avventore qualunque: che tu sia un ragazzo o una ragazza, un adulto o un giovane, per loro non fa differenza. Basta che paghi e ti comporti gentilmente, e tutto andrà per il meglio.
Un posto perfetto per gli artisti, insomma.
La proprietaria, ormai, non mi fa nemmeno più domande: mi vede entrare e sorride, facendomi un cenno da dietro al bancone. Sorride e basta, anche quando tiro fuori l'album da disegno e inizio a schizzare figure, anche quando mi porto dietro i pennelli e spremo grandi quantità di tempera rosa, blu e verde sulla mia piccola tavolozza portatile e inizio a tracciare le figure sulla carta ruvida. Non è mai passata a dare un'occhiata a ciò che dipingo, di questo le sono grato: per quanto possa essere curiosa, non si immischia più di tanto. Probabilmente non vuole vedere cose che potrebbero compromettere la sua neutralità nei confronti dei Rieducatori... neutralità che ha scelto di portare avanti, ma che è sempre rischiosa, soprattutto se si desidera vivere in pace e non avere problemi. Forse è meglio per entrambi.

Oggi, in una giornata di pioggia e grandine, ho scelto di dipingere fiori.

Ho iniziato dai petali: N. mi ha sempre detto che è sbagliato, che bisogna cominciare dalle foglie e poi disegnare il resto, tracciare con pazienza il gambo e attaccare con la parte inferiore della corolla, ma non l'ho mai ascoltato. Un artista prende ispirazione e poi crea da solo, o sbaglio? Mi sembra quasi di sentire lo sbuffo esasperato di N., gli occhi che vanno automaticamente al cielo e la bocca piegata in una smorfia seccata, fino al conclusivo “oh, d'accordo, fa un po' come vuoi. Tanto va sempre così”, una sorta di firma alle sue lamentele nei confronti di un allievo che non ascoltava. Quante finte sgridate avrò sentito, in tutti gli anni di tele abbozzate, bozzetti gettati via, pennelli spennacchiati e immersi troppe volte nell'acquaragia?
Sto continuando con la corolla di un iris: viola come il mistero, con una punta di arancione vivace, acceso, l'entusiasmo. Ho mischiato troppo rosso al blu, forse la gradazione non sarà quella giusta, ma non mi importa, il destino di questo quadro non sarà quello di vedere la luce. Potrei averli dipinti anche di verde pistacchio, quegli iris, nessuno se ne accorgerebbe... e poi, io non dovrei dipingere fiori. È vietato.
Il giradischi scricchiola su un disco di musica folk, non ho idea di quale artista, so solo che la voce della cantante è accompagnata da un violino. Fuori, la pioggia batte sui vetri con insistenza, mentre la grandine ce la mette tutta per organizzare un concerto degno di questo nome, ticchettando come tante biglie cadute su un pavimento di marmo. In questa disarmonia piacevole, il campanellino sulla porta trilla, annunciando l'ingresso di un altro cliente.
Istintivamente, faccio per coprire la mia tela con un panno per nascondere tutto, ma poi ricordo dove sono e la mano, ferma a mezz'aria, si ritira e riprende il pennello. Se anche arrivasse un Rieducatore in borghese, riuscirei a capire le sue intenzioni dopo appena due parole: sono talmente ottusi da essere immediatamente riconoscibili, quelli lì. Non ne ho ancora trovato uno che si renda conto di avere di fronte un altro essere umano e non un pezzo di carne stranamente dotato di parola e sentimenti.
 
Un'ombra mi si avvicina con discrezione, senza farmi spaventare. Ormai conosco quel passo deciso ma cortese, lo riconoscerei tra mille.
Un ciuffo blu oscura per un attimo il viola malriuscito del mio iris clandestino, una mano piena di anelli d'argento sfiora la carta ruvida dell'album, quasi fosse il suo modo di salutarla. Alzo la testa in tempo per intercettare uno sguardo grigio, un guizzare di occhi allungati che brillano nel riconoscermi e scompaiono subito dietro al ciuffo, prima che la sua voce giunga a completare il tutto, come al solito.

“Ehi, solitario. Anche oggi dipingi fiori?”
“Viviamo tutti sul filo del rasoio, Winston. Un fiore in più, uno in meno, che differenza fa?”
“Hai un bel coraggio, ma ti ammiro. Se io provassi a dipingere, che so, delle astronavi, probabilmente mi troverei subito qualche Rieducatore attaccato alle chiappe e desideroso di infilare nella mia bella testolina concetti quali la femminilità, l'essere una brava donna di casa e il compiacere un marito” ghigna, infilandosi nella poltroncina di fronte alla mia e tirando fuori un portachiavi per giocherellarci. “Ma hai ragione tu, siamo sul filo del rasoio... tanto vale goderci il giro finché dura e farli incazzare il più possibile senza che riescano a metterci le mani addosso. Ecco perché Mary è diventata Winston e si è tagliata i capelli. Puoi immaginare quanto si arrabbierebbero se mi acchiappassero? Sto violando come minimo una decina di leggi, tutte assieme.”

Alzo gli occhi dal foglio. Di solito a questo punto inizia il nostro gioco, anche se anni fa era più scanzonato, meno serio. Ormai è diventato una sorta di rito per non dimenticare nessuna violenza, nessuna prepotenza subita dalle persone che, un tempo, erano la nostra compagnia chiassosa e allegra di amici. Per un motivo o per un altro, in giro ci siamo solo noi due, unici superstiti fortunati di un periodo troppo bello per durare di più, ancora pronti ad uscire e a farci vedere in pubblico, senza nasconderci. Mi mordo le labbra, pensieroso.
Inizia lei, assumendo un finto tono da governante pomposo e buttando il petto in fuori, tanto che il suo giacchetto di pelle sembra diventato di due taglie più piccolo:

“Ogni uomo è nato per governare. Ogni donna per dargli i figli di cui ha bisogno. Senza tenerezza, ecco l'uomo; senza ribellione, ecco la donna. Nessuno può pervertire il ruolo che l'ordine delle cose ha concesso all'umanità, nessuno può scegliere veramente chi essere. È la nascita il fulcro di tutto, è il sesso a determinare chi siamo. Solo chi accetta le nostre leggi verrà riconosciuto come cittadino a tutti gli effetti.”

Abbasso la voce, ma le concedo il mio intervento. In fondo, sfogarci contro la Società ci ha sempre fatto bene, in qualche modo.

“Hanno provato a convincerci che ognuno possiede una scelta, ma la loro avventatezza ha portato solo a perversione e violenza. Vogliono che i nostri figli voltino la faccia all'ordine prestabilito, vogliono che i ruoli si invertano. Qualcuno di voi desidera davvero una donna che guida una missione scientifica? O un uomo che coltiva fiori in un vivaio? La nostra società è perfetta nella sua divisione, e così andrà avanti, incorrotta e pura. Modello per il mondo, macchina con i meccanismi perfettamente funzionanti: donna, comportati come tale, sottomettiti, sorridi! E tu, uomo, domina, fai sentire la tua voce, dimostra di avere il diritto di possedere una donna e dei figli. E ora, saluto!”
Scattiamo in piedi come due scemi, le braccia lungo il corpo. Mimiamo il saluto dei dirigenti – un braccio all’altezza della testa e uno scatto in avanti, impercettibile ma presente - senza farci vedere dai pochi avventori che riempiono il locale, poi ci risediamo, come se non credessimo nemmeno noi alle idiozie che abbiamo appena detto. Eppure, è su queste idiozie che si basa il nostro ridente paese.
La recita finisce, rapidamente come è iniziata, lasciandoci in bocca un sapore colloso e acido, amarezza che si attacca ad ogni lato della nostra anima. Winston si accomoda davanti a me.

“Quindi, ora controllano anche gli artisti?”

“Pare” sospiro, rimettendomi a dipingere. “Se sei un uomo, la tenerezza e la grazia sono proibite: ergo, niente belle arti. Puoi al massimo disegnare mezzi di trasporto, o prospetti di case, oppure animali, ma guai se non sono connotati scientificamente. Niente nudi, niente ragazze nei campi di fiori, niente nature morte, niente arte in generale. Scuole chiuse per i maschi, corsi vietati, insegnanti rieducati... ora va così. Che degrado, eh?”
Sospira anche lei, aprendo il menu per darci un'occhiata.
“Quando mi hanno rieducata per la prima volta” esordisce, facendo scorrere lo sguardo da un'omelette ai frutti di bosco fino all'elenco dei toast, per poi riportarlo su di me “lo hanno fatto perché mio padre mi considerava troppo ribelle. Non vuole sposarsi, frequenta strane compagnie, sia mai che le piacciano le donne invece dei maschi? Era talmente prigioniero delle proprie trappole mentali da ascoltare un suo amico che consigliava una rieducazione 'preventiva', della serie 'prova questo centro, è fenomenale! Dopo una decina di sedute te la riportano come nuova, probabilmente ti implorerà in ginocchio di organizzarle subito un buon matrimonio!'. E lui ha ascoltato. Solo che la rieducazione non è la simpatica chiacchierata con tè e biscottini che immaginano tutti, oh no. È qualcosa di peggio, specie se sei solo una ragazzina di nemmeno quindici anni che si fa semplicemente i fatti propri.”
Resto in silenzio. Con Winston va così: ci sono state volte in cui è rimasta per ore ad ascoltarmi parlare di N., giorni in cui il ritornello dei miei singhiozzi ha bloccato qualunque abbozzo di dialogo. Col tempo, ho capito che tende ad iniziare conversazioni che vanno avanti da sole, senza bisogno di interventi o domande, senza che un'interruzione possa fermare il flusso di frasi, sentimenti, ricordi che scalpitano e pretendono di essere rievocati tutti assieme. Ho imparato a lasciarla sfogare, perché possa essere finalmente felice… o, se non altro, rilassata. Un lusso che riesce ancora a permettersi.

“Così, sono entrata in rieducazione. Inizialmente, i miei compiti erano molto semplici: dovevo mettermi in testa che avevo un ruolo prestabilito dal mio sesso biologico tramite letture, dialoghi con le Rieducatrici e video che illustravano quanto fosse bello sentirsi ragazze, farsi belle 'per lui' ed essere gli angeli della casa prima, e madri perfette poi. Tutto ok, va benissimo, ci sono tante ragazze a cui piace sentirsi femminili e che sono felici di diventare mogli e madri... ma non io, non ero io quella giusta. Perché tentare di inculcare in me qualcosa che non avrei comunque accettato? Ho provato a farglielo capire con le buone, magari mi avrebbero ascoltato, chissà: ho detto alla Rieducatrice che mi seguiva di non riuscire a definirmi ‘una ragazza’ secondo i loro standard di femminilità e di esserne soddisfatta, che nessuno me lo aveva imposto, lo avevo scelto io e andava bene così, per cui non credevo di aver bisogno del loro aiuto, potevano tranquillamente rimandarmi a casa.
Ricordo ancora quella donna, in ogni minimo dettaglio: si chiamava Eda e portava i capelli raccolti in una crocchia stretta, poco sopra un paio di occhiali dalla montatura di metallo grigio, fredda come lei, impersonale. Mi ha squadrata sgranando gli occhi, poi ha scosso la testa come per dire no, non è possibile. Una bella ragazzina come te, con questo bel faccino e degli occhi tanto espressivi, come fa a non sentirsi femminile? E ha liquidato la faccenda come se non servisse a nulla parlarne più, magari me ne sarei scordata. Ma io non volevo dimenticare... potevano insegnarmi le buone maniere, costringermi a seguire lezioni che mostravano come occuparsi dei bambini e arrabbiarsi perché leggevo libri di scienze non adatti alla mia educazione, quell'idea mi sarebbe rimasta comunque in mente, ben stretta. Così, ho deciso di restare docile: avrei avuto meno problemi. Ho fatto finta di obbedire, di capire e accettare le loro ragioni... e le porte di quel posto orrendo si sono aperte di nuovo per farmi uscire, dopo tre mesi. Per qualche anno mi hanno lasciata in pace.”

Sorrido, anche se so che il flusso di ricordi ancora non si è interrotto. “Te la sei cavata a buon mercato. La preda che si finge morta perché l'orso non la mangi, no?”
Sospira, a metà tra uno sbuffo seccato e un verso di rassegnazione. Fa cenno alla cameriera perché si avvicini a raccogliere l'ordinazione e chiede un cappuccino e una omelette, poi si volta di nuovo e riprende a guardarmi, sempre con quell'espressione appena meditabonda.
“Più o meno. Poi sono arrivati i sedici anni e ho iniziato a capire che abbassare la testa e accettare di buon grado non rende le cose migliori. Che, tra i tanti ragazzi che ti lasciano in pace appena li metti da parte gentilmente – perché per loro non provi nulla, mi sembra normale no? Non possiamo amare tutti - ce ne sono altrettanti che si sentono in dovere di farti del male, di umiliarti perché li hai rifiutati, perché sei una femmina e loro sono destinati a governare e a prendere possesso di te. Cherry ha ancora i segni dell'ultimo a cui ha detto di no e che non l'ha presa bene... ma che devi fare? A loro la tenerezza è vietata, e a te la ribellione. Quadro completo. Applausi dalla platea, lo spettacolo sta riuscendo alla perfezione!
Comunque, col tempo ho capito che potevo, anzi, che dovevo alzare la testa: se c'è gente a cui questa Società sta bene, ok, non c'è problema... ma se io non mi riconosco nei loro binomi, se voglio essere quella che sono senza che qualcuno mi metta a tacere con la forza, perché devo soffrire? Perché devo valere di meno di quelle ragazze che si sono inquadrate, anche loro grazie ad una scelta personale? Ho capito che c'era gente come me, ma non forte, più indifesa, più triste. Che dovevo farmi forza anche per quelle persone, perché avevano bisogno del mio appoggio. Così, ho iniziato a militare. Ed è arrivata la seconda rieducazione.”

Alzo gli occhi, sperando che il tuffo al cuore che ho appena provato non si sia trasmesso anche al viso e allo sguardo, tradendomi. Mi sembra di ascoltare N. quando parlava di diritti, quando si infervorava dicendo che siamo nati per essere felici, non per farci ridurre ad automi privi di sentimenti e preferenze, chiusi in scatole in attesa di adempiere ai nostri compiti. Se chiudo gli occhi mi sembra quasi di vederlo, e l'idea che, riaprendoli, sparirebbe per sempre, mi fa stare male. Così male che il pennello trema per un attimo, lasciando una macchia scura su un petalo di rosa altrimenti pulito, perfetto.
Winston mangiucchia. Ogni tanto getta uno sguardo assorto in direzione del mio quadro, come se volesse trovare il momento buono per riattaccare col suo discorso, ma arriva a metà omelette prima di riaprire bocca.
“Mi hanno presa e portata dentro che avevo diciotto anni compiuti... ma chiunque venga scoperto a compiere attività contro la nostra Società perde automaticamente i propri diritti, per quanto possa essere maggiorenne e in grado di occuparsi di se stesso da solo. All'epoca vivevo con Cherry, Agnes e quei due amici di N., Daniel e Noah., non ricordo se li hai conosciuti anche tu... Noah suona il sassofono e Daniel faceva il cameriere da Middle Earth, quel pub al centro, insomma erano persone ordinarie, tranquille. Abbiamo deciso di partecipare ad una manifestazione per la riapertura della scuola d'arte dove studiava Agnes, che era stata chiusa dopo che gli insegnanti si erano rifiutati di organizzare corsi separati per studenti maschi e femmine: una marcia tranquilla, slogan, persone pacifiche senza armi, sai come andava di solito, no? Peccato che invece sia arrivata la polizia. E, appena hanno letto i nostri cartelli che chiedevano uguaglianza, hanno ovviamente tentato di sequestrarceli.”

“Avete opposto resistenza? Ricordo che c'erano stati degli arresti, ma non immaginavo fossi coinvolta anche tu.”

Sbuffa di nuovo e posa la forchetta sul piatto, concentrandosi sul cappuccino. Un paio di baffi di schiuma le colorano il labbro superiore. “Non avresti comunque potuto scoprirlo... ci hanno acchiappati in cinque subito, senza farsi troppa pubblicità, anche perché gran parte del corteo è riuscito a dileguarsi non appena iniziarono a caricarci. Io mi ero buttata a terra come mi aveva insegnato mia madre, in segno di resa – non aveva senso farsi picchiare, né cercare di spiegare loro che stavamo protestando pacificamente – e hanno colto l'occasione per tirarmi su di peso e infilarmi in un'auto, assieme ad Agnes, Noah e altre tre persone che non conoscevo. Dopodiché, è arrivato il biglietto di sola andata per la rieducazione... e sapevo già che non me la sarei cavata bene come la prima volta. Anzi, ne ero praticamente certa. Ci sono cose che ti senti nelle ossa... e l’ingresso in un Istituto è una di quelle. Sei stato fortunato a non esserci passato, davvero.”

Immagina cosa si provi ad essere additato per una vita intera come sbagliato, difettoso, da correggere. Per un po' ci convivi, provi a costruirti una sorta di autostima piena di buchi, ma in qualche modo ce la fai, ti convinci che non sei così male, che puoi sempre fare qualcosa di buono. Perché è così, no? Non sei un criminale né un individuo pericoloso, che male c'è se sei di animo sensibile e ti piace dipingere fiori? Ciò non toglie che ti possa interessare lo sport, o che tu esca con una ragazza. Sei d'accordo con me?
Immagina, allora, di essere trascinato a forza in un posto dal quale non puoi uscire, con dentro tanta altra gente come te, persone strappate alle loro abitudini e ridotte a scheletri vestiti, a spiriti tristi e tormentati. Ogni giorno subisci un lavaggio del cervello continuo, ogni giorno un uomo col camice ti fa delle domande e ti costringe a ripetere delle risposte preimpostate, cercando di risistemare ciò che sei, di cambiarti... perché sei storto, sbagliato, malato. Perché per la Società non hai diritti. E quando ti fa ripetere che devi dominare, che la tenerezza è per le donne, che amare un ragazzo è abominevole anche se rappresenta il tuo mondo, piano piano una parte di te se ne va, sprofonda inesorabilmente. Ed ecco che tornano le voci che ti tormentano, e ti senti sbagliato, malato, sporco. I più deboli soccombono al lavaggio del cervello. I più forti - o i più folli - cercano di resistere per uscire, ma non saranno più gli stessi. Si porteranno dietro uno spettro nero e vischioso come la pece, fatto di crudeltà, che avvolge i loro cuori e rende l'anima sporca, impossibile da trattenere. Eppure nessuno ti aiuterà a mandarlo via: sarai condannato. La rieducazione ti danna l'esistenza.

N. riempie la mia mente di parole, colmando l'attimo di silenzio lasciato sospeso da Winston: per un attimo mi sembra di sentire davvero la sua voce che riecheggia lungo le pareti del locale, sfiorando le pin-up intrappolate nelle loro cornici, perdendosi nel juke-box impolverato che fissa il bancone malinconico, sperando che qualcuno decida finalmente di riaccenderlo e dar modo alla sua musica di rallegrare l’atmosfera. Quante volte ci siamo seduti qui, al Soul, accompagnati solo da qualche moneta e una cartellina piena di musica e disegni? E quante volte abbiamo alzato un po’ troppo il gomito in un pub qualsiasi della zona commerciale, costretti ad aspettare che uno dei due rinsavisse per tornare a casa senza rischiare un incidente?
Rivedo la bocca morbida del ragazzo con cui ho trascorso degli anni, il piercing al lato del labbro, il modo in cui arrotolava una sigaretta con le dita lunghe e sottili, prima che gliela strappassi di mano nei miei tentativi di portare avanti la campagna anti-fumo con lui e con una Winston che era ancora Mary Westenra, portava i capelli lunghi e non era stata cambiata dai Rieducatori… ma devo smettere di evocare ricordi che mi fanno soffrire. Tiro il filo dei pensieri fino a farlo spezzare e N. sparisce in un filo di fumo, dissolvendosi con la stessa quiete malinconica con la quale l’ho richiamato. Ora siamo in guerra, e nascondermi tra i corridoi vuoti della memoria non servirà a nulla.

“Anche N. è stato rieducato… ma ci è rimasto solo due anni, aveva un parente all’interno di un Istituto che ha garantito per lui e lo ha fatto uscire. Uno dei pochi a restare umani, nella sua famiglia.”

Non aggiungo altro: i fiori chiedono le mie attenzioni. Inizio un motivo di Non-ti-scordar-di-me che esce da un vaso di ceramica scura, l’acciottolio delle tazze e le chiacchiere sommesse degli altri avventori che fanno da colonna sonora alla mia esecuzione, mentre Winston finisce il cappuccino e posa la tazza sul piattino, il finale della Nona Sinfonia del Soul che la chiude in bellezza, ma senza applausi. Si stiracchia appena e sospira, lasciando che altre parole prendano il via, un completamento alla sua terapia personale.
“È stato fortunato… anche se la vita non gli ha sorriso in seguito” si fa scura in volto: quanto è successo ad N. ancora ci tiene svegli la notte, gettandoci in uno stato di incredulità persistente. “Io ci sono rimasta altri tre anni. C’è chi ne esce ancora più motivato a lottare e chi, invece, non può far altro che spegnersi lentamente, come una candela che ha già consumato lo stoppino…”
I più forti – o i più folli – cercano di resistere per uscire
“… ma non puoi mai sapere se stiano veramente reagendo o no, se il loro stoppino si sia consumato o se il fuoco continui ad ardere… per ognuno è diverso. N. ce l’ha fatta, almeno all’inizio… il colpo è arrivato dopo. Forse è a questo che mirano, quando ci rieducano con la forza.”
ma non saranno più gli stessi.
Se sono scappato alla violenza degli Istituti è solo per merito di mia madre: la sua salute è sempre stata così cagionevole da spaventare mio padre e tenerlo in scacco perpetuo. Per quanto tutti i parenti sussurrassero alle mie spalle che una rieducazione – magari in sordina, in un’altra città, dove sarei passato inosservato - avrebbe giovato all’immagine dell’azienda e della famiglia, l’idea che sua moglie potesse peggiorare da un momento all’altro alla vista del proprio figlio trascinato in un Istituto lo spaventava, costringendolo a lasciare in stallo la situazione. Eppure, fin dall’infanzia tutti avevano capito che non avevo nulla del maschio modellato dalla Società, che non sarei stato il leader modello che ogni famiglia tentava di formare con tutte le sue forze. Ero qualcosa di diverso, ma non per questo meno meritevole di attenzioni.
Mi sono fermato a pensare un secondo di troppo: una goccia di pittura azzurra è colata dal pennello su uno dei fiori, trasformandolo in una piccolissima pozzanghera di colore puro. Purtroppo non posso sistemare il danno, ma ci faccio poco caso: continuo a dipingere, assorto, senza badare a ciò che mi circonda. Senza quasi dare attenzione alla mia amica, che ha appena posato il cellulare con aria rassegnata e sta mettendo in ordine i suoi effetti personali nella borsa, disordinatamente.
“Mi dispiace interrompere qui la nostra piacevole chiacchierata, ma devo scappare: Rose ha bisogno di me. Mi ha appena inviato un sms del tipo ‘brutta giornata, torna presto a casa’ e sento di dover andare a far scorta di sushi e cioccolato prima di raggiungerla” sospira, strabuzzando gli occhi tanto da farmi sorridere. La guardo riempire quella specie di straccio etnico beige e viola che si porta sempre dietro con le chiavi, un blocco pieno di post-it e il suo portafoglio, poi si tende verso di me per scompigliarmi i capelli con gesto gentile e mi rivolge un sorriso, il nostro solito saluto. Con Winston abbiamo un rituale prestabilito da anni, spontaneo, che ad entrambi sembra giusto seguire.
Il filo del suo racconto si è interrotto, ma è pronto a riprendere forza, a continuare il viaggio nella nostra memoria per essere raccontato, scritto, dipinto. Termino con pochi tocchi delicati l’ultimo non-ti-scordar-di-me e poso il pennello per rivolgere uno sguardo alla mia amica. Chino appena la testa, la osservo lasciare i soldi per il conto e la mancia sul piatto.

“Allora alla prossima, solitario… prenditi cura dei tuoi fiori, non lasciare che sfioriscano.”
“Sarà fatto. E tu solleva il morale a Rose, mangiate tanto sushi e abbracciatevi pensando anche a me. Meritate di essere felici.”

Si porta una mano alla tempia in una sorta di saluto militare, poi la guardo allontanarsi con passo leggero e varcare la porta del Soul, un cappellino di lana ben calcato sulla testa e le mani che tentano di proteggersi i capelli, mentre si tuffa nella pioggia per raggiungere il primo supermercato disponibile e affrontare i problemi esistenziali di Rose, qualunque essi siano. La immagino correre sotto alle gocce che iniziano a diradarsi, pronta a ripararsi tra i profumi e il calore del negozio sotto la galleria, poco lontano dal cinema, la borsa stretta sotto alla giacca per non bagnarla, le mani inumidite che spingono la porta del negozio… poi torno con l’attenzione alla mia tela, pulisco il pennello sfregandolo con un tovagliolo di carta pulito e ripongo tutto, controllando che i fiori si siano asciugati: l’iris mi sorride, pieno di energia, i non-ti-scordar-di-me sembrano dominare la composizione pur essendo gli ultimi arrivati, ogni soggetto prende lo spazio che gli spetta. La tela somiglia all’immagine che ho in mente, piena di colore, di vita.
Lascio il conto vicino alle tazze, ripongo tutto nella borsa, saluto con un sorriso la proprietaria ed esco in strada.
 

*
 

Ha smesso di piovere: il cielo sta dispiegando le nuvole che prima lo coprivano come lenzuola stese ad asciugare, mentre la città si riprende e un raggio di sole ancora in via di guarigione fa capolino, quasi al tramonto. Posso uscire senza dover tirare su il cappuccio.
La strada è sempre quella, sono io che cambio ogni volta, che sposto i miei pensieri da un argomento all’altro, tentando di dar loro un senso. La gente che cammina accanto a me si accorgerà della mia diversità? O sono talmente immersi nei loro pensieri da non far nemmeno caso ad un ragazzo dall’abbigliamento dimesso, silenzioso e tranquillo, che stringe una borsa di pelle nera al fianco e volge la testa verso il sole che sta per tramontare, per cogliere ogni aspetto della sua luce?
La Società voleva imporre un codice di abbigliamento – niente colori delicati per gli uomini, solo gonne e vestiti per le donne, cravatte vietate agli individui di sesso femminile e via discorrendo – ma, dopo qualche timido tentativo da parte di alcune associazioni di Rieducatori di farlo rispettare, sono arrivati alla conclusione che sarebbe stato troppo complicato e impossibile da applicare concretamente. Se un ragazzo prova ad indossare un cappello vistoso, o se una ragazza rasa un lato della testa, al massimo riceve qualche sguardo di disapprovazione, ma nulla di più. La verità è che siamo esseri mutevoli, rapidi nel cambiamento, capricciosi nel nostro seguire le mode, continuamente portati alla sperimentazione, gettati tra le braccia della trasgressione più spesso di quanto vorremmo ammettere: come possono pensare di trasformarci in una truppa di perfetti cittadini tutti identici, se nemmeno noi siamo in grado di essere coerenti con noi stessi fino in fondo?
Così, stringo le mani nei polsini del mio giubbotto sformato, godendomi i semplici piaceri di una borsa piena di colori e fiori deliziosamente proibiti che mi preme sul fianco, di indossare una sciarpa rosa scuro che mi tiene al caldo il collo e aggiunge quel tocco di tranquilla stranezza al resto della mia apparenza. Misuro i miei passi e sento l’acqua schizzare tra le rotaie del tram mentre attraverso la strada diretto verso l’altro marciapiede, felice che il temporale abbia allontanato gran parte della gente dal quartiere: non è sicuro avventurarsi da soli nel centro della città senza un accompagnatore che sia almeno in grado di coprirti le spalle in caso di aggressione. E se nessuno dei due sa come affrontare uno scontro, allora l’unica cosa che resta da fare è scappare.
La ricordo come se fosse stata ieri, quella serata di qualche estate fa: io e N. appena usciti da casa di Rose e Winston, pieni di birra e patatine e ancora euforici dopo la vittoria ad una serie interminabile di giochi da tavolo… eravamo tranquilli, ci godevamo la brezza che soffiava dal porto in lontananza, e poco dopo ci ritrovammo nella galleria circondati da ragazzini, di quelli che intasano i locali del centro e coronano le loro serate con una bella rissa, meglio ancora se con dei malcapitati presi a caso dalle vicinanze. Stesi sulle panchine della galleria a fissare il soffitto, buttati sul pavimento davanti a dei negozi chiusi, urlanti in brutte parodie di conversazioni tra ubriachi, erano ovunque e sembravano voler indagare su di noi appena facemmo ingresso nel loro campo visivo, felici di aver trovato finalmente una distrazione che li smuovesse un po’ dalla monotonia di un normalissimo sabato sera. Lasciali stare e non aprire bocca, aveva sussurrato N. con la sua solita tranquillità impossibile da incrinare; vedrai che, se resteremo in silenzio e ci allontaneremo facendo finta di nulla, ci lasceranno in pace. E così avevamo fatto: il loro vociare ci aveva infastidito, sulle prime, ma ignorarli era abbastanza semplice, tutto sommato… come non far caso al rumore di fondo del traffico quando si cerca di parlare al telefono con qualcuno e, man mano che la conversazione va avanti, ci si immerge nelle parole del nostro interlocutore e la strada diventa un ricordo lontano, come se si trovasse a chilometri da noi. La galleria scorreva sotto ai nostri piedi ed N. mi conduceva come un capitano porta la sua nave oltre una tempesta, sicuro come sempre, le voci che diventavano più basse e lontane, quasi dei bisbigli… fino a che non commisi uno stupido errore, l’unica cosa che non avrei dovuto fare e che invece mi permisi, pieno di una sicurezza che probabilmente non troverò più: gli afferrai la mano e terminai il percorso in quel modo, tenendola stretta alla mia, fino alla fine della galleria.
Ovviamente, qualcuno ci aveva visto. Una ragazza spettinata, appoggiata alla vetrina di un negozio, seguiva i nostri movimenti con gli occhi spalancati di un gatto. Forse era ubriaca, forse voleva solo impressionare il ragazzo accanto a sé, non lo saprò mai. So solo che, se avessi potuto evitare quell’umiliazione ad N., di certo non avrei allungato con innocenza la mia mano sulla sua.
Ricordo che gridò, ed era un grido stridulo, abbastanza forte da far girare parecchi compagni nella galleria. Abbastanza forte da farmi saltare il cuore in gola, come se mi avessero colpito in pieno petto, con rabbia.

“Siete scappati dalla rieducazione, invertiti?”

N. strinse la presa sulla mia mano: era un messaggio più che chiaro. Non reagire. Il ragazzo accanto a lei si era sporto per guardarci e rideva, sguaiato, mentre un altro aveva afferrato la palla al balzo, non ubriaco ma meschino quanto bastava ad assecondare i compagni senza decidere di essere migliore di loro. Diede una spinta ad N., forte abbastanza da farlo vacillare, ma lui rimase fermo: non si sarebbe mosso nemmeno se lo avesse colpito con la forza di un uragano, ne ero sicuro. Si spostò insieme a me e continuammo a camminare come se niente fosse, accompagnati dalle loro risate, dalle urla di un gruppo di ragazzini stupidi, resi coraggiosi da una Società che premiava la loro diffidenza, la loro cattiveria verso chi appariva – anche se poco – fuori dalla norma. Perché, se vieni istruito a vita su quanto una persona diversa da te sia sbagliata, non ti comporterai forse seguendo quest’insegnamento?
Ancora oggi non so se la mia indifferenza fosse prova di coraggio o di vigliaccheria. Forse di entrambe. So solo che attraversammo quella galleria coi loro checche, abomini, fate schifo che mi rimbombavano nelle orecchie facendomi male, le lacrime trattenute perché non mostrassero altra debolezza, ognuna affilata come un rasoio. Ci avviammo verso casa di N. e lì lo guardai infilare la chiave nella toppa come uno spettatore, dall’altra parte di uno schermo invisibile: una volta entrati nell’androne silenzioso, i nostri passi risuonavano come una marcia tetra sulla pietra del pavimento, cadenzati e pesanti, ma nessuno di noi due sembrava farci caso. Ci saremmo potuti anche trovare in una città abbandonata nel bel mezzo di un’apocalisse e avremmo continuato a tenere gli occhi bassi, persi in pensieri più grandi di noi e inadatti per quelle mura, per i nostri umori, per la Società in generale.
Armeggiava con le chiavi e sostituiva il suono metallico della serratura alle nostre parole, e a nessuno dei due veniva in mente una qualunque frase di circostanza per spezzare quel silenzio. Dopo che la serratura fu scattata, N. si infilò nella fessura della porta e rimase per un attimo a guardarmi, in silenzio, le labbra appena socchiuse di chi vuole lasciare andare un pensiero ma non sa in che modo trasformarlo in parole: finalmente potevo guardare nei suoi occhi e le nuvole nere che vi vedevo mi mettevano tristezza, tanto che abbassai subito lo sguardo. Mi diede la buonanotte e gliela augurai anche io, sempre con lo sguardo basso, arretrando piano come se volessi farmi inghiottire dall’oscurità, cancellando quell’umiliazione e tutta la serata dalla nostra mente.

Solo quando N. chiuse la porta alle sue spalle la realtà sembrò crollarmi addosso tutta assieme.
Ciò che venne dopo mi resta in mente come una serie di immagini confuse, quasi non le avessi vissute in prima persona ma fossero state parte di un libro già letto: la porta di legno serrata davanti a me, il palazzo silenzioso, la mia giacca illuminata di taglio dalla luce che proveniva da un lampione e toccava appena una delle finestre del pianerottolo… e quella sensazione di vuoto, di paura che mi aveva afferrato lo stomaco dopo anni che non la provavo. Come se, ora che N. aveva chiuso la porta alle sue spalle, qualunque cosa sarebbe potuta accadermi senza che nessuno la fermasse, senza che lui potesse mettervi fine. La paura di affrontare la vita da solo, di dover fronteggiare quel vuoto senza nessuno che mi stringesse la mano e mi dicesse che ogni cosa si sarebbe aggiustata. Come avrei fatto? Come mi sarei rialzato? Non lo sapevo. Non ne avevo idea, e continuavo ad essere spaventato.
Successe in un attimo, come tutti gli eventi più spaventosi e incredibili. Mi lanciai contro la porta e bussai con una foga che, prima di quel momento, avrei creduto estranea ad un tipo come me. N. aprì quasi subito e mi fissò: temevo mi avrebbe chiuso la porta in faccia, invece mi guardò di nuovo in viso, questa volta senza le nuvole nere a riempire i suoi occhi. Era sereno, disteso… e rimase sereno anche quando mi buttai tra le sue braccia, anche quando sussurrai un posso restare? appena accennato, in modo che solo lui potesse sentirmi. Accettò subito, e ci chiudemmo la porta alle spalle come avremmo dovuto fare fin dal primo momento: l’idea che N. mi avesse aspettato lì dietro ascoltando i miei passi allontanarsi e sperando che mi fossi fermato, che avessi deciso di tornare indietro, mi cullava come una promessa finalmente mantenuta. Feci scivolare di nuovo la mano tra le sue e fu lui a baciarmi per primo, con foga, una forza inaspettata che solo anni dopo avrei interpretato come disperazione.
Poi trascorremmo la notte insieme. Solo in seguito avrei capito che sarebbe stata l’ultima, ma in fondo non va sempre così? Ci rendiamo conto di quanto siano fragili i sentimenti, le persone che ci circondano solo dopo che li abbiamo perduti, e quando la realtà ci colpisce in pieno viso come uno schiaffo vorremmo distruggere tutto e tornare indietro, recuperare ciò che ci ha tolto… ma non possiamo. È troppo tardi, e restiamo impotenti come bambini, coi pugni chiusi, a prendercela con noi stessi. Credo sia nel normale andamento delle cose.
Continuo a pensarti, N., e il tramonto tinge la città di rosso e arancio, allungando la mia ombra sull’asfalto segnato dal tempo. Al tuo respiro lieve mentre dormivi, alle tue labbra e a quella giovinezza malinconica che ti portavi dietro, che ci portavamo dietro entrambi. Ai tuoi tormenti, che sembravano grandi ma che dovevano essere immensi, e amari. Come i miei.
 

*
 

Il mio rifugio è un appartamento situato nell’angolo più nascosto del centro cittadino, quasi ai confini della parte “moderna”, dove gli alberi iniziano a riguadagnare spazio in lontananza e l’aria fresca che viene dal mare si spande con coraggio tra automobili e tram, sicura di poter conquistare terreno senza essere soffocata da altro cemento. Il portone è altissimo – mi ha sempre messo soggezione, fin da ragazzino – e la guardiola da dove il portiere dovrebbe osservare chi entra e chi esce è vuota, condizione ideale per farmi sgattaiolare dentro e raggiungere il quinto piano, silenzioso come un gatto. Non entro qui da qualche mese, ma è tutto rimasto come lo ricordo: l’ascensore minuscolo, i corrimano in acciaio ben rifinito, quasi Art Nouveau, il cortile con le sue aiuole disordinate e piene di rose, margherite, tulipani, di vita floreale allegra e anarchica, gli unici fiori che non sono ancora riusciti ad eliminare. Ancora il solito odore di chiuso, l’aria impregnata dalle mie visite segrete che mi avvolge col suo profumo e non mi lascia andare. Una volta arrivato davanti all’appartamento, col fiatone per la corsa su per tutti quei gradini, mi fermo a cercare la chiave nella borsa e mi sento avvolgere dal mio passato e dalla sicurezza di poter essere finalmente me stesso se varcherò quelle mura, ma solo dopo aver gettato la borsa in un angolo dell’ingresso e aver chiuso a chiave la porta dietro di me, perché nessuno turbi l’equilibrio che sto cercando di ricostruire… come abbiamo stabilito con Winston, esistono sempre dei riti precisi da rispettare.
Finalmente riesco ad avere la meglio sulla serratura e varco la soglia della casa dove ho vissuto da quando ero bambino, la mia infanzia speciale e solitaria durante la quale tutto mi sembrava nuovo, magico, buono. Il corridoio è buio: ricordo a memoria la posizione degli interruttori, potrei accendere la luce in qualsiasi momento, eppure preferisco restare nella penombra, godermi la vista appena accennata dei quadri che ricoprono le pareti e le accompagnano fino alla porta dal vetro smerigliato in fondo, chiara come un miraggio in quell’imbrunire. Sembra di passeggiare in un museo dopo l’orario di chiusura, piena com’è di tranquillità… e le tele che i miei genitori hanno raccolto negli anni e che anche io ho contribuito ad aggiungere rafforzano quell’idea. In questa casa, la casa che ha rinchiuso la mia adolescenza, non mi sento mai un estraneo. Vago ancora per il corridoio, mi fermo a gironzolare per la cucina vuota e desolata, tocco i prensili, apro il frigorifero, poi mi fermo sul divano e allungo le gambe, buttando la testa indietro fino a toccare il muro e guardare altri quadri, una statua posata su un’angoliera, la tenda bianca di cotone pesante. Tutto mi appartiene, ma allo stesso tempo mi è estraneo. Cosa sono, ora?
Quando sono nato, mio padre si aspettava un vero uomo. Ero l’unico figlio che avrebbe potuto avere da una moglie sempre malata e, per sua immensa gioia, ero un maschio: le aspettative che mi portavo sulle spalle fin da bambino erano enormi. Viviamo in una Società che ci divide fin dalla nascita in Maschi e Femmine tramite caratteristiche precise, controllando i nostri giochi, insegnandoci che un bambino deve giocare con oggetti che una bambina non deve toccare e viceversa… appena cominciai a preferire i colori alle automobiline e a scegliere tinte pastello per i miei disegni invece di fingermi guerriero o re, mio padre iniziò a guardarmi con sospetto. Non notava gli archi e le frecce fatti coi rami che mi portavo dietro dopo le nostre gite in campagna, e sicuramente gli sfuggirono le mie confidenze appassionate sulle bambine di cui mi ero “innamorato” a sette anni… stavo compiendo i primi passi lungo una strada non allineata, un sentiero che lo avrebbe coperto di ridicolo, ne era certo. E per un membro importante della Società, uno “che conta”, un figlio sbagliato come me significava vergogna.

Quando ho iniziato le scuole superiori, la mia diversità spiccava come un’erbaccia in un campo coltivato. Non ero mai affiancato da una ragazza come i miei compagni, non mi interessava lo sport, non partecipavo alle loro feste e non dimostravo la mia “virilità” comportandomi da spaccone e prepotente: avevo imparato a dipingere. Agnes – una compagna di classe alla quale mi ero affezionato e che mi presentò Winston – mi portava di nascosto i suoi libri di arti applicate e i colori che le avanzavano, tutto materiale proibito per qualsiasi individuo di sesso maschile. Trascorrevo ore ad osservare fiori, paesaggi e figure che passeggiavano per i campi e frequentavano caffè e feste popolari piene di colori, provavo a ricopiarli, riempivo i miei album di schizzi e prove tecniche di immortalità, un po’ sgraziate ma piene di speranza. Mi isolavo per delle ore, ogni tanto mi facevano compagnia le mie nuove amiche, ma non bastava: ancora non rientravo negli standard, e le regole si facevano sempre più rigide. Rischiavo di più ogni giorno che passava, forse me ne rendevo anche conto, ma bastava una sola occhiata a quel libro per convincermi che tutto andava bene, che nessuno veniva rieducato per aver provato a riprodurre la Donna col parasole di Monet sul proprio album. Vivevo in una sorta di limbo incosciente, tra l’ansia e una spavalderia nuova, tipica della mia età… e ne ero felice.

Fu in quel periodo che conobbi N., e la mia audacia divenne ancora più dolce e sconsiderata.

Anche ad N. piaceva dipingere: aveva un anno più di me e, assieme ad una certa Mary Westenra amica di Agnes, aveva fondato un gruppo clandestino di politica e arte per poter discutere dei problemi del paese senza finire nel mirino di chi voleva farci diventare tutti uguali. La Società stava stringendo sempre più la morsa di controllo sulla popolazione, tanto che venivano istituiti corsi separati per ragazzi e ragazze e chiunque fosse anche solo sospettato di omosessualità o di qualunque altro tipo di “deviazione” veniva spedito in un Istituto e vi restava per parecchio tempo. Da quando lo incontrai la prima volta e iniziai a parlare con lui, N. mi colpì per la sua schiettezza: era una di quelle rare persone che riescono a parlare direttamente all’anima, non solo al cuore. Voleva il benessere degli altri e si prodigava perché nessuno potesse essere maltrattato o schiacciato da un paese che predicava l’uguaglianza, ma solo per chi si conformava alle sue regole. Era forte, parlava per incitare e far nascere in noi gli stessi sentimenti che animavano il suo operato, ma sapeva anche essere dolce, gentile, pieno di sollecitudine e di affetto. Di amore. E poi era bello, così bello da togliermi il fiato, così bello da farmi chiedere se davvero, prima di quel momento, avessi davvero apprezzato in pieno la bellezza di qualcuno.
Non dissi nulla a casa: per i miei genitori uscivo con gli amici e con Winston, che si erano convinti fosse la mia ragazza. Quando tornavo, però, mi rimettevo subito all’opera e continuavo a disegnare, a dipingere, a lasciare una qualunque traccia che parlasse di me sul foglio… e mi resi conto pian piano di sperimentare cosa significasse innamorarsi: in ogni paesaggio che iniziavo, in ogni giovane pescatore col cappello di paglia, persino nelle insegne colorate che spiccavano sotto la pioggia di Parigi c’era qualcosa di N. C’era un sentimento che non avevo mai provato prima, una frenesia pazza e ingenua che le passeggiate con Winston, gli abbracci che ci scambiavamo spesso non mi davano. Ci eravamo baciati, una volta, io e lei, nell’euforia di una festa di Capodanno tra amici, un bacio breve ma famelico, quasi arrabbiato, come se entrambi volessimo sperimentare ciò che la Società voleva da un ragazzo ed una ragazza… e poi eravamo scoppiati a ridere. Lei mi aveva abbracciato e io l’avevo stretta con forza, l’eco della sua risata piena che ancora mi riempiva le orecchie. Le volevo bene per quello che era, la mia amica fuori di testa, la ragazza che si era tagliata i capelli da sola e che avrebbe fatto follie per l’ultima arrivata nel nostro gruppo di ribelli, una certa Rose che tutti chiamavano Zarina… non avrei mai potuto vederla come una moglie, come la madre dei miei figli, se per me era qualcosa di ancora più prezioso: una vera amica. Quella consapevolezza nessuno me l’avrebbe mai tolta, nemmeno la Società.
Più frequentavo N., più mi rendevo conto di quanto le mie giornate fossero piene, felici. Ero diventato euforico, e incauto: iniziavo a lasciare in giro troppo delle mie frequentazioni clandestine, sicuro che i miei genitori non avrebbero mai violato la privacy della mia stanza per assicurarsi che fossi davvero cambiato… eppure, una sera in cui rincasai dopo un pomeriggio trascorso a chiacchierare e a dipingere con Agnes e altri nostri amici, trovai mio padre ad aspettarmi in piedi in mezzo al salone, nello stesso punto che sto fissando in questo momento. Stringeva tra le mani una tela che avevo appena terminato e che, nella mia avventatezza, avevo lasciato ad asciugare in camera, dietro al letto. Una tela che raffigurava dei fiori. E – per aggiungere un ulteriore tassello al mare di guai nel quale nuotavo – su un foglietto che vi avevo attaccato c’era una dedica per N.
Cerco di chiudere la mente a quei ricordi pieni di violenza e di tristezza, ma è impossibile fermarli, una volta che si sono avviati lungo i corridoi sgombri della mia mente stanca. L’uomo che avevo sempre considerato severo ma gentile e che avevo chiamato papà tante, troppe volte sbatté a terra il frutto di interi pomeriggi di lavoro e di passione, con un’espressione di delusione glaciale che gli pervadeva lo sguardo. Non disse nulla: si limitò a pestare la tela fino a spezzarla, lentamente, fino a sporcare il disegno con la suola di una scarpa, per poi rivolgermi addosso quello sguardo duro, cattivo e una sola frase scelta con cura, “sei la mia delusione più grande”. Non disse altro, ma già sapevo cosa mi sarei dovuto aspettare: Winston era finita in rieducazione qualche anno prima e, per quanto ne fosse uscita più arrabbiata e ribelle che mai, quell’esperienza ancora segnava la sua mente. Sapevo bene che avrei fatto la stessa fine, che mio padre sospettava qualche stranezza da troppo tempo, ma l’idea di essere rinchiuso in un Istituto ancora riusciva a spaventarmi. Che altro avrei potuto fare? Aspettavo, come sempre. Restavo fermo e guardavo gli eventi avvicendarsi attorno a me, fino ad un punto di svolta. Ero inerme come un bambino e altrettanto smarrito e debole.
Come ho già detto, fu mia madre a salvarmi: non avrebbe mai potuto sopportare di vedersi strappare un figlio e farlo ridurre ad un involucro vuoto, senz’anima. Mio padre – che la amava, più di quanto amasse me e i miei fallimenti, di sicuro – acconsentì alla sua richiesta di non spedirmi lontano, a meditare sulla mia anormalità in una stanzetta grigia e anonima, circondato da medici e Rieducatori: sarei rimasto in casa, all’insaputa di tutti, perfino dei parenti che avevano consigliato più e più volte una rieducazione. Una casa come una prigione e un rifugio, questa stessa casa dove loro avevano vissuto sereni fino alla mia nascita e che ora sarebbe diventata mia, mentre i miei genitori si sarebbero trasferiti nella dimora dei miei nonni paterni, una piccola villa immersa nel verde, in periferia, abbastanza lontana da me e dalla città ma non tanto da impedire a mia madre di vedermi ogni tanto e accertarsi che stessi bene. Ed ecco che un nucleo d’amore, il simbolo dell’unione perfetta e fruttuosa secondo la Società (una bella mamma sorridente, un padre benestante che lavora e un pargoletto, maschio per giunta!) diventava una gabbia per un disadattato, l’unico luogo sicuro dove nascondere uno scherzo della natura che nessuno avrebbe voluto tra i piedi. Un ragazzo innamorato di un altro ragazzo, una persona che amava dipingere fiori.
Lì dentro, la mia vera identità sarebbe stata al sicuro: mio padre poteva tirare un sospiro di sollievo.
Così, è iniziato il mio isolamento. Quasimodo si sarà sentito solo, lì nel campanile di Notre Dame? Non lo so. Non ho mai letto il libro, ma conosco bene la solitudine che afferra l’animo e lo dilania inesorabilmente, parte dopo parte, rodendolo nel profondo… così come la paura di essere sbagliati, di non riempire esattamente ogni spazio che la tua famiglia, il tuo paese si aspettano che tu riempia. Per quanto ti possa convincere di essere nel giusto, di non avere nulla di sbagliato, la mancanza di libertà è schiacciante: sapevo di non poter tenere per mano N., di non poter dimostrare il mio amore fuori dalle quattro mura tra le quali vivevo, quelle azioni sarebbero state viste come prese di posizione volte solo a provocare la Società… ci eravamo scambiati un bacio, poi altri dieci, fino a non poterli più contare, e così era nata la nostra relazione, senza che nessuno dei due pronunciasse la parola “fidanzato”, ma l’idea di doverci nascondere dal mondo non ci era mai piaciuta. Sulle prime avevo scrollato le spalle, riservando al mio rifugio le nostre manifestazioni di affetto, la gioia di vivere che ci pervadeva, ma col tempo quella situazione iniziò a pesarmi. Soprattutto vedendo quante persone come me ne soffrivano, incapaci di potersi nascondere a lungo. Per quello dovevamo moltiplicare i nostri sforzi, lottare, essere forti anche per loro, N. lo ripeteva sempre.
Ogni tanto tornavo dai miei genitori (implorato da mia madre), ma la mia vera casa era qui, tra i miei quadri, le visite di N. e dei miei amici, le scampanellate furiose di Winston… erano loro il mio mondo, la famiglia che avevo scelto per me e che mi accettava per quello che ero senza fare domande, donandomi la comprensione e l’amore che cercavo. Avevo staccato ogni traccia della severità di mio padre e riempito il corridoio di riproduzioni di opere d’arte famose, paesaggi, nudi artistici, ma soprattutto fiori, quelli non mancavano mai. Era bello guardare il sole filtrare dalle porte delle stanze e dalle finestre del salotto, ascoltare la radio che riempiva ogni angolo di musica e parole, mista al rumore che veniva su dalla strada. Ed era ancora più bello preparare la cena per N., sentirlo ridere e raccontare aneddoti sulla sua famiglia mentre le forchette tintinnavano sui piatti… le storie sulla rieducazione, però, non trovavano mai posto in quegli istanti di tranquillità: era la mia stanza a custodirle, le nostre notti insonni le portavano con loro e finivano riversate tra le mie braccia, accompagnate da lacrime o confessioni con la voce impastata. Erano interruzioni di una vita serena, che facevano il loro corso. In qualche modo, le cose andavano come avevo sempre desiderato, quasi avessi raggiunto una sorta di punto di stabilità.

La calma prima della tempesta, ma questo lo avrei capito solo in seguito.

Da quella maledetta mattina in cui furono i colpi di Winston contro la mia porta a svegliarmi, le mura che mi avevano protetto e fatto sentire amato non mi sono più sembrate le stesse. Quando le aprii, pallido e spettinato, mi trovai davanti una persona che non riconoscevo: gli occhi pieni di lacrime, un’espressione sul viso vuota e piena di sofferenza al tempo stesso, le labbra che tremavano incespicando su una sola frase, “N. se n’è andato”. Ed era davvero così, non era un brutto sogno né uno scherzo, N. non c’era più e nessuno di noi avrebbe potuto far nulla perché tornasse indietro, né rassicurarlo che lo avremmo protetto noi, che tutto poteva cambiare in meglio grazie alla nostra speranza… aveva deciso di porre fine alla sua esistenza come si strappa una pagina da un diario pieno di eventi che fanno soffrire, come se niente nella sua vita – nemmeno io, nemmeno quel rapporto fatto di amore, litigi e comprensione sofferta – fosse servito a farlo star bene. Per quanto avessi potuto crederci, per quanto mi fossi illuso che la nostra diversità, unita, poteva portare ad una normalità confortante, che il nostro amore significasse tutto per entrambi, il dolore che aveva accumulato negli anni doveva essere troppo, persino per una persona forte come lui.
Ed ecco che tornano le voci che ti tormentano, e ti senti sbagliato, malato, sporco. Mi alzo in piedi e inizio a camminare per la stanza, ormai buia, rischiarata solo dai lampioni giù in strada. Ce l’hanno messa tutta per piegarci alla loro volontà, per convincerci che eravamo nel torto e non meritavamo nemmeno il lusso del rispetto che si dovrebbe ad ogni creatura vivente: noi storture improduttive, noi granelli di sabbia nel meccanismo perfetto che muoveva la macchina precisa della Società, come potevamo anche solo pensare di meritare comprensione? Da una parte ci nutrivano di odio, ci insegnavano a rifiutare a prescindere prima ancora di conoscere, dall’altra cercavano di convincere il mondo che eravamo noi a spanderlo, a tramare perché la Società crollasse e voltasse le spalle alla brava popolazione produttiva e normale. Si riempivano la bocca di questo termine, lo scrivevano ovunque, tanto che alla fine nemmeno loro sapevano più usarlo nel modo corretto: è normale che un padre rifiuti il proprio figlio solo perché dipinge fiori? E se ama un ragazzo, merita per questo di essere messo alla gogna, picchiato, disprezzato come un delinquente? Ma erano considerazioni vuote, inutili, che la mancanza di N. non faceva che acuire e rendere immensamente tristi. Nemmeno la morte di un ragazzo innocente li avrebbe distolti dal voler controllare vite che non gli appartenevano. Senza vergogna, senza pudore, con l’orribile sicurezza di essere nel giusto, di compiere un dovere per migliorare il mondo.
Lentamente, mi piego verso la mia borsa ed estraggo il quadro che ho dipinto oggi, riempiendomi gli occhi del colore dei fiori. Lo tocco e le mani che stringono la tela non mi sembrano le mie: sono bianche e magre, le vene in evidenza come radici martoriate di un albero strappato dal terreno, lucenti nel buio. Con gesto meccanico lo poso sul tavolo tondo del salone e cerco nell’armadio dell’ingresso una cornice o almeno uno di quei gancetti adesivi che si attaccano dietro le tele, per poterlo appendere in corridoio assieme a tutti gli altri. Quanti ne ho dipinti, solo nella malinconia di questa casa ormai vuota, mentre la radio continuava a cantare e la televisione vomitava notizie di odio e crudeltà nel salotto? La casa si svuotava, N. non c’era più… ma io restavo, e dentro di me si faceva strada la consapevolezza di avere un compito, lo stesso che il mio compagno aveva portato avanti con tutto se stesso prima di cedere e consumarsi definitivamente, lo stoppino della sua candela tagliato di netto. Una mancanza che si avvertiva così tanto da lasciarmi senza fiato, da svegliarmi la notte con la mente piena di incubi e il cuore vuoto, una casa svuotata da ogni mobile e suppellettile… tranne che dai propri quadri. Perché in un angolo, ribelli e pieni di spavalderia, i fiori restavano ancora, e con loro la promessa che qualcosa sarebbe cambiato.
Dopo il funerale, le mie amiche e le persone che avevo frequentato per anni facevano a gara per restarmi vicini e non lasciarmi mai solo, ma la mia tristezza era di livello differente: avevo smesso di piangere. Mi capitava ancora, a volte, di scoppiare in lacrime mentre ero solo o sui mezzi pubblici (e mi affrettavo a coprirmi gli occhi con le lenti scure perché nessuno mi fissasse con aria preoccupata o infastidita), eppure non mi serviva a sfogarmi, a farmi star meglio. Ero pieno di una rabbia cieca, di un fastidio e un’ira che nemmeno io sapevo spiegare e che covavo all’interno del corpo come un virus, lasciandoli manifestare solo quando restavo in solitudine. La rabbia di chi deve portare addosso il fardello di un’esistenza rifiutata, il dolore di chi resta indietro e si rende conto che nessuno, tra chi ha provocato il suo dolore, ha intenzione di cambiare mentalità. Mi guardavo allo specchio e continuavo a vedere un ragazzo pallido e magro, il volto emaciato, i capelli che cadevano e un paio di occhiali troppo grandi, l’unica cosa enorme in un corpo piccolo e smunto. Eccolo qui, il vostro mostro! gridavo infuriato, come se qualcuno avesse potuto sentirmi. State provando a togliermi tutto, ma non mi piegherò!
Gridavo e stringevo i pugni, mi mordevo le labbra fino a farle sanguinare, ma la rabbia restava lì, rideva beffarda. Non se ne sarebbe andata via tanto facilmente.
Non sarei mai stato un cittadino perfetto, perché la perfezione non esiste, perché noi esseri umani non siamo tutti uguali, ma meritiamo rispetto, non la volontà costante di disprezzo ed eliminazione. Un conto era nascondersi, eleggere una casa a proprio rifugio e non tenere per mano il proprio ragazzo in strada, un altro cancellare se stessi, costringere il proprio corpo a sparire e la propria mente ad accettare crudeltà e violenze psicologiche come se fossero la normalità… perché non può, non deve essere normale. Ci hanno insegnato a disprezzare la bontà, a lasciare la tenerezza agli individui di sesso femminile, ma chi lascerebbe decidere un altro riguardo alle proprie emozioni?
Ho trovato la cornice: non è elegante né ricercata, il suo legno chiaro scivola liscio sotto alle mie dita, ma è perfetta per il suo scopo. La estraggo dall’armadio e la porto sul tavolino del salotto, girandola perché la mia tela possa trovare alloggio e venire destinata ad uno scopo migliore che restare a prendere polvere in una borsa. Cerco di inserirla come posso negli angoli, faccio pressione perché si incastri, poi osservo il mio lavoro col solito occhio critico che riservava N. ad ogni mia opera, come lo pregavo io: sii spietato se serve, per favore. Winston è sempre troppo buona, non essendo capace a disegnare adora qualunque mio quadro… Rose è più severa. Sii severo anche tu.
Non serve bacchettarti, stai migliorando sempre di più, rideva lui e mi scompigliava i capelli. Hai sempre il solito vizio di partire dai petali quando dipingi fiori, ma la mano diventa più salda. Tra poco supererai il maestro! concludeva, e mi baciava. Io lo ricambiavo, sentendomi la persona più felice del mondo. Bastava poco, all’epoca.
Eccolo qui, il mio quadro clandestino: fiori in ogni angolo, colori proibiti, una nota di allegria da aggiungere ad una parete che ha registrato tutti i miei cambiamenti d’umore, uno dopo l’altro. Lo attacco vicino alla porta della cucina, in un angolo rimasto libero, accanto ad una veduta di Parigi sotto la pioggia e una natura morta con una boccia di pesci rossi che risplende di sfumature luminose: accendo la luce e ognuno di loro si staglia nel corridoio ormai illuminato in pieno, tanti tasselli di vita che costruiscono una storia uno dopo l’altro, tutti vicini. Passo la mano sui vetri, sfioro le cornici ed è lì che i ricordi ricominciano a correre, a muoversi e a riempire la mia mente di voci, di persone che l’hanno percorsa in lungo e in largo e si sono fermate, alcune per poco, altre per più tempo.
Winston è uscita dalla sua seconda rieducazione a testa alta: non ce l’hanno fatta a piegare la sua volontà. Le hanno urlato contro, le hanno spiegato in tono pacato quanto fosse sbagliata, l’hanno picchiata, hanno minacciato di tenerla lì dentro per sempre, ma non è servito a nulla. Tutti i lavaggi del cervello, tutti i loro discorsi le sono scivolati addosso come un acquazzone in estate, mentre Mary Westenra ne usciva vincitrice, anche se piena di cicatrici. È stato suo padre a tirarla fuori di lì, senza che la “guarigione miracolosa” la trasformasse in un vero membro della Società. Se lei c’è riuscita, se ha avuto il coraggio di portare avanti la vera se stessa accettando di esistere davvero, perché non dovrei farcela io?
Mi chiedo se N. mi avrebbe lasciato questo compito. Non abbiamo mai discusso di ciò che facevamo per gli altri – erano le azioni a parlare per noi – ma, in qualche modo, sento che sarebbe stato felice di vedermi prodigare per altre persone in difficoltà assieme a Winston e agli altri, come ai vecchi tempi, quando ci siamo conosciuti. Ci siamo sempre concentrati più su noi due che su tutto il resto, e in fondo non era quello l’importante? Ci battiamo per poter vivere in pace con noi stessi, diceva sempre. Non meritiamo di essere davvero felici?
Forse, se continuerò a muovermi in avanti, a lottare, nessun altro ragazzo dal viso gentile dovrà mai strappare la propria vita come la pagina deludente di un libro appena iniziato. Non ci sarà più un innamorato a soffrire per il proprio compagno suicida, e la Società pian piano inizierà ad accantonare l’odio, ad accettare la gentilezza d’animo come una forza, non come una debolezza da deridere. Magari non servirà a nulla, ma è sempre meglio di restare fermi, in attesa che gli eventi cambino attorno a noi, che ci cambino, come cambiano le stagioni e le nuvole nel cielo, mutando continuamente di forma. Forse invece faremo la differenza, penso tra me e me, e sfioro i vetri dei miei quadri mentre le automobili, giù in strada, si susseguono senza un ritmo preciso e la notte inizia ad avanzare, portandosi via gli ultimi stralci del giorno. Forse, penso, e accarezzo la mia giovinezza mentre la presenza di N. si espande e ruba spazio ai ricordi, riempiendoli del suo profumo e della sua risata inconfondibile.

Fino a quel momento, continuerò a dipingere fiori.
 













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Ho colto l'occasione offerta dal contest "21 Prompt in Cerca d'Autore" per dare finalmente corpo ad un'idea che avevo in mente da secoli ma che non ero mai riuscita a elaborare e scrivere con la dovuta calma. Ora che la rileggo, come sempre, mi trovo a pensare che forse avrei potuto fare di meglio, che avevo in cantiere tante idee che non ho sviluppato in pieno... ma la storia è uscita fuori così come la leggete, spero che non risulti una lettura pesante o incomprensibile. L'uso della prima persona è sempre stato difficile da portare avanti con coerenza, spero di esserci riuscita, in qualche modo.
Ho messo più di una parte di me stessa in ciò che ho scritto e ho trattato di tematiche che mi stanno parecchio a cuore, per cui ho avuto più di qualche remora nel pubblicarla e finirla, eppure sento di essermi sfogata, in qualche modo. Ringrazio in anticipo chiunque sia arrivato fino alla fine, chi abbia voglia di farmi sapere la propria con un commento o chi, semplicemente, ha apprezzato la mia narrazione e si è riconosciuto nelle mie parole, solo in qualcuna o in gran parte del testo. Riuscire a comunicare sentimenti ed emozioni e parlare al cuore di chi legge è sempre stato uno dei miei obiettivi di "scrittrice", per cui sono davvero felice quando (e se) riesco nel mio obiettivo.

La dedica è alla mia beta e compagna di scleri e avventure, lei sa perché. Grazie di tutto e della tua infinita e meravigliosa pazienza, tesoro <3

Nat

 
   
 
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