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Autore: Feynman    25/08/2015    2 recensioni
Gallipoli.
Marina vive a Roma, ma a Gallipoli c'è sua madre.
Serena vive a Firenze, e anche sua madre è a Gallipoli - come tutta la sua vita, d'altronde.
Serena e Marina erano Schiele perché avevano colore.
***
Finchè l'uomo avrà occhi, avrà respiro,
vive la mia parola, e in lei sei vivo.
***
[Prequel di "Siamo Soutine e partecipante al Contest “V’è un piacere nello scrivere”, bandito da Chloe R. Pendragon e AmahyP sul Forum di efp]
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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 Questa storia partecipa al concorso "V'è piacere nello scrivere" indetto sul forum di efp. Il concorso prendeva spunto dalle opere di Ovidio e io ho scelto di costruire questa storia sull' Ars Amandi. Ovviamente, non credo di esserci riuscita [il concorso era leggermente più complicato e non sto qui a spiegarvelo] comunque, questo è il risultato! Una storia che mi ha consumato i polpastrelli, per quante volte l'ho riscritta e che mi ha offuscaro la vista, per quanto ho pianto. 
Spero possa piacervi; io ho fatto del mio meglio. 

P.S.: per chi volesse leggere il seguito, "Siamo Soutine" potete - ovviamente - trovarlo sul mio profilo! Se avete letto "Siamo Soutine", spero che il prequel non vi deluda. 
Un saluto, 
Feynman





I.
 
 
Gallipoli
 
 
 
 
Il mare era cristallino, quella mattina.
Sua madre aveva obbligato lei e sua sorella a scendere in spiaggia alle sette e trenta, subito dopo la colazione, perché la spiaggia era libera e, per le otto, sarebbe stata già piena e invasa da famiglie con i bambini piccoli che si divertivano a lanciar sabbia come se ne andasse della loro stessa vita.
A Marina piaceva il mare.
O meglio, le piaceva cosa rappresentava: due mesi lontana da suo padre, dalla scuola e dalle finte amicizie di un liceo che non sopportava e che era stata costretta a frequentare; era arrivata al quarto anno di liceo scientifico solo per grazia ricevuta e, a settembre, avrebbe iniziato l’ultimo anno. Il futuro era una di quelle x incognite che non aveva mai capito come trovare.
Il lido della Purità, a due passi dal centro storico di Gallipoli, era la spiaggia preferita di sua madre, quando passava le vacanze estive con lei. Ormai, Marina conosceva Gallipoli come il centro di Roma, con i suoi vicoli che sbucavano in enormi piazze circondate da bar e ristoranti. Odiava vivere con suo padre, ma amava Roma e amava perdercisi tenendo sottobraccio solo il suo album da disegno, invece di passare il pomeriggio su equazioni logaritmiche e teoremi di trigonometria.
«Ti dovrò comprare una scatola di colori, Mar» disse la madre, continuando a prendere il sole con gli occhi chiusi. La ragazza, stesa accanto alla sorella che stava leggendo un libro, alzò il viso dal suo album e guardò la madre. «Che ne dici di una scatola di acquerelli, Mar?».
«Mh, perché no?» rispose Marina, tornando ad alternare il suo sguardo tra una coppia di ragazze sul bagnasciuga e il disegno a matita.
«Sì», iniziò la sorella togliendo il libro dal suo viso, «così papà avrà nuovi buoni motivi per lamentarsi dell’andamento scolastico di Marina. Non dovresti dargli dei motivi per rimproverarla, sai mamma?».
La madre sbuffò, posizionandosi meglio gli occhiali sul naso e continuando a prendere il sole. «Sei una guastafeste, Carlotta» le disse, infine.
«Non è una guastafeste, mamma. Ha solo ragione» disse Marina, sovrappensiero, sfumando le ombre sulle schiene delle due giovani che, nel mentre, completamente ignare, si erano alzate e avevano raggiunto alcuni ragazzi.
Marina le seguì con lo sguardo. Le vide avvicinarsi al gruppo di amici – tutti maschi, neanche una ragazza –, le due non davano impressione di conoscerli e iniziarono a parlare, come se fosse davvero così dannatamente semplice.
Marina si voltò, come pizzicata da una zanzara, e si accorse che la madre guardava nella sua stessa direzione. «Sai, dovresti fare amicizia con i ragazzi della tua età. Sono dieci anni che vieni in vacanza qui e…».
«Loro li conosco, mamma».
«Allora perché non vai a parlarci?».
«Perché…».
«Perché i tempi sono cambiati» la interruppe la sorella, intromettendosi nel discorso, «quelli erano Tommy, Salvo e Carota, fino a cinque anni fa. Adesso sono Tommaso, Salvatore e Cristiano. Degli sconosciuti, praticamente».
Carlotta aveva la capacità di far apparire tutto stupido e superfluo, dopo aver parlato. Era fuori dal mondo, sua sorella. Fuori da ogni tipo di norma sociale o buonsenso civile; Carlotta faceva le cose perché voleva farle e non si chiedeva se fosse giusto farle, se fosse giusto parlare, se fosse giusto pensare con la propria testa o con quella degli altri, della massa, della società.
Carlotta viveva solo per i libri e per i numeri che Marina non riusciva ad afferrare, a capire. La sorella le diceva che era indole, te li dovevi sentire dentro i numeri. Carlotta le diceva che il compito di Marina era capire le persone, intrappolarle tra le sue iridi color nocciola e farle vivere su carta perché era lei che capiva le persone, non Carlotta.
Marina la ringraziò in silenzio, voltandosi a guardarla e donandole uno dei suoi piccoli sorrisi con gli occhi, di quelli che non venivano condivisi con la bocca. Era un linguaggio silenzioso tra lei e sua sorella, quando volevano sfuggire agli interrogativi pressanti del padre, quelli cattivi che ferivano Marina nel profondo perché lei, la facoltà di Medicina, non l’avrebbe mai frequentata.
«Nel pomeriggio c’è la cuccagna al mare» parlò di nuovo la donna, fingendo disinteresse alle figlie. Germana aveva sempre fatto così: proponeva attività, dava opinioni personali ma non guardava mai in viso i suoi interlocutori. Fingeva disinteresse, guardava da un’altra parte; è stato così che lei e il padre di Marina e Carlotta si erano lasciati. Germana, guardando fuori dalla finestra del loro appartamento a Roma, gli aveva detto che le mancava Gallipoli, Antonio le aveva risposto che le vacanze estive erano ancora lontane e Germana, continuando a guardare fuori dalla finestra, gli aveva detto che lei se ne andava, che gli avrebbe lasciato casa, che non avrebbe voluto né la sua carità né la custodia delle figlie. Avrebbe rinunciato a tutto, tranne che alla sua bella Gallipoli.
«Divertente. Una ventina di uomini che si vanno ad arrampicare su un palo pieno di grasso, per cosa poi? Per il tricolore! Capisco che amor patriæ nostra lex, ma fino a un certo punto» rispose Carlotta, calcandosi ancor di più il cappellino da baseball sulla testa e ritirandosi, ancor di più, sotto all’ombrellone.
«Dai, musona! Vi farà bene uscire un po’. E poi, per una sadica come te dovrebbe essere il miglior divertimento».
«Lo sarebbe se, invece di cadere in mare, cadessero sul cemento del porto».
«Marina», disse la donna, tornando all’attacco «tu cosa ne dici di uscire, questo pomeriggio?».
La ragazza, mentre sua sorella e sua madre avevano continuato a parlare, non aveva spostato lo sguardo da Tommaso e gli altri. Avevano giocato assieme per sei anni di seguito, ma quando il suo corpo aveva iniziato a cambiare, le sue spalle si erano aperte, il seno era cresciuto e i suoi fianchi avevano iniziato ad ammorbidirsi e incurvarsi, allora la storia era cambiata. Tommaso non le aveva più chiesto di accompagnarli a caccia di granchi, sotto gli scogli, quando preferiva andar a caccia di ragazze assieme a Salvatore e Cristiano. Ormai avevano tutti la stessa età, non le parlavano quasi più e Marina non avrebbe saputo nemmeno cosa dirgli, per riallacciare i rapporti.
La madre aveva iniziato a parlarle dei festeggiamenti di Santa Cristina, ma Marina annuì silenziosamente e disegnò due lunghe code squamate alle ragazze abbracciate sul bagnasciuga, stracciò il foglio e decise, in silenzio, di correre verso il mare.
«Ehi» la chiamò Carlotta, correndole dietro, «si può sapere che ti prende? Cinque minuti prima disegni e sorridi, un attimo dopo stracci il foglio e corri via». La sorella si piegò tenendo le mani sulle ginocchia: non era fuori forma, ma qualsiasi movimento che prevedesse uno scatto la portava ad avere il fiatone e la bomboletta per l’asma sempre sotto mano. «Non sarà per quello che ha detto mamma, vero? Anche a me non fa impazzire l’idea di uscire ma-».
«No» la interruppe Marina, agitando l’acqua con le dita e portandosi le mani, a coppa, sulle spalle per abituarsi alla temperatura. «Non è per la festa, o per la cosa di “usciamo a fare amicizia”».
«Allora cos’è?» le chiese la sorella, rincorrendo lo sguardo dell’altra.
«Ma niente, in realtà… mi andava solo di farmi un bagno, tutto qui».
«A te non piace l’acqua del mare: ti secca i capelli».
«Sentirmi dire cose stupide tutto il giorno non deve essere piacevole, per una come te».
Carlotta le circondò le spalle con entrambe le braccia, stringendola da dietro, in uno dei suoi rari abbracci avvolgenti. Il padre l’abbracciava così, quando era piccola e aveva avuto un incubo. Adesso le diceva solo che non andava bene.
«Tu non sei stupida, Marina. Sei solo diversa dalle altre persone che conosci, ma questo non vuol dire che tu sia sbagliata» le sussurrò in un orecchio, appoggiando il mento sulla sua spalla destra. Carlotta, a diciassette anni da compiere, aveva raggiunto e superato il metro e settanta di Marina che dopo ogni osservazione sull’altezza della sorella, diceva che Carlotta era nata per guardare lontano.
«Non dovresti dirmi queste cose» bisbigliò Marina, accarezzandole le braccia ancora bianche, nonostante fossero lì da dieci giorni.
«E perché no, scusa?».
«Sono io la sorella grande; si presuppone sia io, a consolare te. Non il contrario».
«Non ti formalizzare sulle cazzate, Marina».
Pensò che dovevano sembrare due stupide, agli occhi degli altri. Due ragazzine bionde abbracciate in mezzo al mare, una che si trattiene dal piangere e l’altra con un sorriso da trattenere sulle labbra. Carlotta era la sorella Sperilli che sarebbe andata lontano, oltre i confini di quel mare, mentre lei sarebbe rimasta a terra.
«Dovremmo uscire veramente, stasera» disse d’un tratto Carlotta, lasciando la stretta su Marina. Sentì il freddo sulla schiena e si ritrovò a pensare che mai, con diciassette anni di vita condivisa, Carlotta le era stata così vicina.
«E dove vorresti andare?».
«A ballare» esclamò l’altra, ignorando il sopracciglio alzato della sorella maggiore. «Ieri, Maria mi ha chiesto se fossi mai scesa in paese, con i suoi amici. Io le ho detto che dovevo pensarci e ho detto che la mamma non m’avrebbe lasciata, se non ci fossi stata anche tu».
«La mamma? Sarebbe capace di buttarti fuori di casa!».
«Sì, ma Maria mi lascia perdere e ieri sera non mi andava» le disse, distogliendo lo sguardo e riportandolo sulla striscia di spiaggia dove la madre stava amabilmente chiacchierando con un uomo che avrà avuto sessant’anni e tre matrimoni alle spalle. «Allora?».
«Va bene, va bene!» rispose Marina, alzando le braccia, «stasera si esce, per somma gioia di nostra madre…».
«Ottimo!». Carlotta batté le mani fra loro e l’abbracciò, di nuovo; stavolta fu meno costrittivo e meno intimo. «Tu fatti il bagno, io vado a soccorrere la mamma».
«Sarebbe capace di dire che fosse anche un bell’uomo. È in astinenza da troppo tempo, quella donna».
Carlotta sorrise, girò la visiera del cappello da baseball e raggiunse la madre in spiaggia. Marina la vide fulminare il vecchio con lo sguardo e lo costrinse a lasciarle in pace. Borbottò qualcosa, toccando le falde del cappello di paglia e si diede una mossa a fuggire via, ignorando persino la sabbia bollente.
Marina si spinse un po’ più a largo, giusto dove fosse sicura di non toccare, e si immerse cercando di non chiudere gli occhi, per godersi il fondale pulito e sabbioso.
 
 
 
 
 
La casa della madre di Marina e Carlotta, si trovava a Gallipoli vecchia in una traversa di via De Pace Antonietta. Il borgo aveva mantenuto, nel tempo, la tipica organizzazione di una città greca, come lo era Gallipoli ai tempi.
Sarebbero stati gli amici di Maria ad accompagnare le ragazze sul lungomare Galilei, dato che avrebbero dovuto attraversare il ponte che collegava la città vecchia alla città nuova e se fossero volute arrivare prima dell’indomani mattina, si sarebbero dovute far accompagnare. Gli amici di Maria, la figlia dei vicini di casa della madre di Carlotta e Marina, erano i tipici vacanzieri di fuori Gallipoli che, ogni anno, a luglio, sembravano non aver mai visto il mare e qualche coscia scoperta dal bikini. Avevano tutti dai diciotto anni in su ed erano tutti talmente fissati con cose incomprensibili come i videogiochi, l’informatica e i giochi di ruolo che con poca probabilità sarebbero riusciti a concludere, anche quella sera.
Maria aveva detto a Carlotta che la obbligavano ad uscire ogni sera, per presentare loro tutte le sue amiche – quasi tutte ancora liceali – per avere qualche storia da raccontare una volta tornati fra la nebbia, a soffrire il freddo e la depressione.
Marina si era chiesta tante di quelle volte perché Maria uscisse ancora con loro, quando venivano d’estate che, molto presto, aveva rinunciato a trovare una risposta. O meglio, una risposta l’aveva trovata ma quando aveva raccolto il coraggio per parlarne con Maria, lei si era talmente arrabbiata che Marina aveva preferito lasciar stare e parlare d’altro.
Erano le nove e mezza e Carlotta stazionava ancora davanti all’armadio che condivideva con la sorella, per trovare qualcosa da indossare. Marina aveva optato per una gonna a pieghe, non troppo corta, e una camicetta senza maniche azzurra, solo per non far notare quanto poco le andasse di uscire. In compenso, si era legata i capelli bagnati con un matita e stava lasciando che si asciugassero e arricciassero quanto volessero.
«Lot, ne stai facendo una questione di stato. È solo un’uscita».
La sorella si voltò, la guardò in cagnesco per un paio di minuti e poi portò nuovamente l’attenzione all’armadio. Marina ruotò gli occhi: «Ti concedo ancora due minuti, Carlotta. Se ancora non avrai trovato nulla, ti vesto io e non ti piacerebbe».
La ragazza si morse il labbro inferiore, infilò la mano nell’armadio e tirò fuori un paio di pantaloncini di jeans – una volta era stato un paio di jeans a vita alta ma Marina glieli aveva tagliati, rendendoli più giovanili – e mostrandoli alla sorella: «Che ne dici?».
«Con la canotta gialla?».
Carlotta annuì. «Non mi va di vestirmi di nero, almeno quando è estate».
«Fa’ in fretta, però» le disse Marina, uscendo dalla camera da letto e andandosi a sedere sulle scale in pietra fuori dalla porta della casa. La madre non aveva cenato con loro: era uscita con le ragazze del circolo e poi avrebbero trascorso la serata in uno dei piccoli bar a picco sulla costa di Gallipoli vecchia. Le sue compagne di classe, a Roma, le invidiavano tutte la madre: Germana era una donna ancora bellissima nonostante avesse raggiunto i cinquantatré anni. I suoi lunghi capelli biondi, tendenti al bianco perlaceo, il fisico ancora tonico e per niente provato dalle due gravidanze, faceva sì che risultasse una donna estremamente piacente. Inoltre, era una grande estimatrice d’ogni tipo d’arte ma, nonostante questo, non aveva avuto libertà di opinione quando Marina aveva detto di voler frequentare il liceo artistico e il padre glielo aveva proibito.
«Ciao Marina!».
Maria proveniva dall’inizio della strada, solo un paio di case più su. Per Carlotta era iniziata come la semplice “amicizia da vacanza” anche se si sentivano più spesso di quanto la sorella fosse mai pronta ad ammettere. Si mandavano un regalo, anche stupido, per ogni tipo di festa e quando Marina e Carlotta scendevano per quei due mesi, Maria era sempre con loro e sempre pronta per far casino.
«Carlotta è ancora a-».
«Andiamo, forza! O faremo tardi!» esclamò Carlotta, uscendo fuori e correndo ad abbracciare Maria, come se non si fossero lasciate due ore prima. Marina alzò gli occhi al cielo, che iniziava a rabbuiarsi, prese le chiavi dalla tasca della gonna e chiuse il portone blu. Si accodò, in silenzio, alle due ragazze che continuavano a chiacchierare. Quando vide, però, Maria prendere la strada che portava verso il lido della Purità e non l’altro lato di via De Pace, le fermò: «Ehi, non dovremmo andare dall’altra parte?».
Maria, continuando a camminare tenendo sottobraccio Carlotta, si volse indietro: «Cambio di programma! C’è una festa, sulla spiaggia. Lot non te l’ha detto?» aggiunse, alzando un sopracciglio in direzione dell’amica. Carlotta, per risposta, fece spallucce e chiese a Maria di proseguire con il discorso.
Marina, ormai, aveva perso la speranza con la sorella: pensava, veramente, che avrebbero trascorso la serata, con un gelato in mano, e tranquillamente a passeggio per lungomare Galilei? Insomma, aveva quasi diciotto anni e cadeva ancora in tranelli così infantili…
«Non fare quella faccia, Mar!» le disse Carlotta, ridendo «partecipare a una festa ogni dieci anni ti fa bene!».
Marina sbuffò, sciogliendosi i capelli ancora umidi e agitandoli, esasperata. «Cosa ci andiamo a fare, ad una festa, se nessuna di noi può bere?».
«Il trucco è quello sorellina: farsi offrire da bere e-».
«E nel caso ci sono sempre Mirko e gli altri» finì Maria, completando la frase di Carlotta e facendola ridere.
Iniziano a completarsi perfino le frasi, ‘ste due, pensò distrattamente Marina, cercando di aumentare il passo per raggiungerle. Non era mai stata un’amante delle feste sulla spiaggia, doveva ammetterlo, e non sapeva nemmeno come diavolo avrebbe fatto a farsi offrire anche solo una birra. Con molta probabilità, si disse, non avrebbero controllato troppo e poi… mancava poco ai suoi diciotto anni. Così poco, che se ne erano dimenticati tutti.
 
La festa sulla spiaggia è un cliché, lo è sempre stato.
C’è il gruppetto con la chitarra attorno a un falò che sarà semplice da spegnere se arriveranno i vigili, quelli con la birra in mano che chiacchierano e scherzano, quelli che stanno progettando di farsi un bagno completamente nudi quando ci sarà meno gente, quelli che ridono, quelli che non sarebbero voluti andare, quelli che si stanno pentendo e, alla fine, ci sono quelli che ballano.
Sono sempre tanti, quelli che ballano. Invadono lo spazio antistante il bancone del bar, per dissetarsi in fretta dopo essersi agitati per quaranta minuti, amano stare in silenzio perché, anche se ballano, sono solitari tanto quanto quelli che si stanno pentendo seduti sul bagnasciuga, facendosi carezzare i piedi dalle onde. Quelli che ballano, raramente cantano le canzoni che li accompagnano: non sanno le parole perché, la loro musica, non ne ha. Quelli che ballano sono i più tristi, anche se pensi che si stiano divertendo: vogliono solo ballare, spegnere il cervello e dimenticare tutto quello che non va nella vita che gli è capitata.
Le ragazze ballano in gruppo, per farsi invidiare i sorrisi smaglianti e i vestiti svolazzanti; i ragazzi fanno finta di impegnarsi e, intanto, cercano la nuova fortunata della notte senza chiedersi se, l’altra, la fortunata, lo voglia davvero e le faccia piacere.
Poi, c’è la ragazza che balla da sola perché ha deciso di smettere di pentirsi della decisione di scendere in spiaggia, ha lasciato che i suoi amici continuassero a lamentarsi e si è infilata senza paura, con una birra in mano e troppa voglia di non sapere cosa sta facendo, tra i corpi pressati. Quella ragazza – la ragazza che balla da sola, quella che ha in progetto di bere talmente tanto da dimenticare il suo nome e di vomitare anche l’anima, sulla strada verso casa – ha i capelli dello stesso colore della brace del falò e guizzano, quando salta e muove il bacino, come la fiamma delle fiaccole.
Marina la guarda, poco lontano, e invidia il suo volto rilassato, le labbra arricciate appena in un sorriso e le palpebre abbassate. La birra non esce dalla bottiglia, anche se la ragazza continua a ballare e ad agitarsi. Il dj ha messo su una di quelle canzoni prive di senso compiuto, di quelle che servono solo per acuire il senso di alienamento, mentre si balla. La musica è alta e Marina non riesce quasi a sentire i suoi stessi pensieri, anche mentre prende la matita fra i capelli e inizia ad alternare lo sguardo fra la ragazza che balla e il tovagliolo con cui teneva il cono gelato. È solo una silhouette disegnata con movimenti veloci, ci sono solo i capelli, la curva della schiena e i fianchi tondi. C’è solo quella mezzora di osservazione quasi adorante, quegli sguardi che tutti hanno ignorato perché erano rivolti a qualcuno che a loro non interessava. A qualcuno che non rientrava nei canoni di bellezza.
«Marina!».
La voce della sorella la riporta al presente, alla musica assordante e alle chiacchiere che aveva isolato in un parte del cervello.
«Cosa?» chiese, quasi esasperata.
«Mi avevi promesso che non ti saresti isolata, ecco che c’è».
Marina guardò la sorella. Aveva le gote arrossate e gli occhi lucidi perché aveva bevuto troppo – Mirko avrebbe dovuto darci un taglio – e non sembrava veramente arrabbiata. Subito dopo, infatti, un leggero sorriso le increspò le labbra che diverse in una risata aperta, da ubriaca. Sentì le sue sopracciglia arcuarsi e le labbra stringersi in una linea sottile e severa.
«Non fare quella faccia, Marina» le disse Carlotta, dandole una pacca sulla spalla sinistra. «Sembri papà».
Rimase in silenzio, si alzò e lasciò Carlotta alla spiacevole compagnia di Maria e dei suoi altri amici ubriachi. Facessero ciò che più faceva loro comodo, a lei non interessava. Carlotta aveva le chiavi di casa e se pensava di essere abbastanza coraggiosa da rientrare alle cinque della mattina, facesse pure.
Marina si vide costretta a fiancheggiare la pista da ballo sulla sabbia, per avvicinarsi al bar e prendersi da bere – aveva appena rimproverato la sorella, silenziosamente, perché stava esagerando con i drink e lei, per dimenticare se ne stava per prendere uno –, riuscì a guardare la pista senza inciampare sulla sabbia o sulle coppie distese e intente a baciarsi. C’era solo lei che, da vicino, aveva i capelli di una particolare sfumatura di marrone, le labbra piene e le spalle ampie. Lei che non era per niente alta e nemmeno bellissima. Era solo bella, a modo suo.
«Cosa ti do?» le chiese il barista – un tipo molto carino, che l’aveva già adocchiata – distogliendola da quell’analisi ingombrante.
«Baileys, senza ghiaccio» rispose lei, sicura. Lui alzò appena un sopracciglio e Marina fece in modo di risultare il meno patetica possibile, non distogliendo lo sguardo. Le protagoniste dei libri ordinavano sempre un Baileys senza ghiaccio, per darsi un tono e per risultare più dure di quanto non fossero veramente. Il ghiaccio avrebbe solo annacquato la bevanda e loro non potevano permetterselo.
«Ecco il tuo Baileys».
Prese il bicchiere e bevve tutto d’un sorso, come una boccata d’aria. Sentì quel 17% di alcol salirle fino al cervello, aprirle le via respiratorie e allargarle le pupille; ecco cosa voleva dire non essere abituate all’alcol e riuscire a ubriacarsi con un solo drink. Marina riuscì a sentirsi patetica ma il Baileys le permise di non pensarci troppo e di inghiottire anche quelle stille di panico e di autocommiserazione che le si erano installate in fondo allo stomaco.
Si voltò, lasciando il bicchiere sul bancone e il suo sguardo venne di nuovo calamitato dalla sconosciuta che ballava l’ennesima canzone. La ragazza prese un sorso di quella birra, sicuramente diventata una brodaglia senza schiuma e calda, aprì gli occhi e sorrise a un’altra ragazza che ballava, davanti a lei, sulla pista. Le strinse i fianchi con entrambe le braccia e se la portò più vicina, facendo cozzare i loro bacini e iniziando a ballarle contro, respirandone l’odore nell’incavo del collo.
Marina si ritrovò ad annaspare senza un motivo apparente. Sentiva lo stomaco in fiamme e diede la colpa all’alcol. Sentì gli occhi umidi e diede la colpa al vento serale che aveva alzato la sabbia. Sentì la rabbia montarle nello stomaco e non seppe più a chi dare la colpa. Abbassò lo sguardo e vide le dita strette rabbiosamente attorno al bordo della gonna, come a volerla strappar via, con un gesto. Era solo una ragazza sconosciuta, con una birra in mano, che stava ballando con un’altra. Le stava sfiorando la schiena, le stava sussurrando qualcosa di divertente all’orecchio perché l’altra le gettò le braccia al collo e le posò un leggero bacio, dietro all’orecchio sinistro.
 
Le gambe si mossero da sole.
Le braccia si staccarono dal sostegno del bancone.
I piedi, nudi, accarezzarono la sabbia fredda.
Le orecchie sentirono il frastuono crescere.
Il suo cervello sostituì quella patetica canzone di Guetta o chissà chi altro, con la Danse Macabre.
I suoi occhi videro la figura della ragazza farsi sempre più vicina. Aveva un neo sul lato sinistro della bocca, i capelli le sfioravano la base della schiena dove si intravedeva un frammento di un qualche tatuaggio.
Da vicino, era ancora più bella.
La fronte appena imperlata di sudore e i capelli, quelli più corti sul collo, attaccati dal sudore.
Marina, adesso, poteva sentirne l’odore. Una fragranza salina mista a menta e fumo, un drink alcolico che nessuno avrebbe potuto assaporare senza ritrovarsi irrimediabilmente ubriaco dopo un solo sorso. Era come l’acido cloridrico che la professoressa di chimica le aveva fatto usare, quell’unico giorno di laboratorio in quattro anni di frequenza. Era pungente, bruciante e dannatamente pericoloso: se lo sentiva nelle ossa che, se avesse tentato un approccio, non ne sarebbe uscita viva.
Dapprima, Marina rimase abbastanza lontana dalla ragazza sconosciuta, pur rimanendole abbastanza vicina da poterne sentire l’odore. Dopotutto stavano ballando tutti quanti e se le fosse finita, casualmente, contro non si sarebbe posta molte domande. Iniziò a ballare, quindi, dicendosi che avrebbe dovuto interrompere la riproduzione della Danse e focalizzarsi sulla musica della spiaggia.
Il dj aveva diffuso un irritante remix di “Call me” di Blondie quando l’altra ragazza, voltandosi verso Marina, decise di lasciar da parte l’amica e prestare attenzione a lei.
Marina avvertì il calore salirle fin sulle guance ma si incoraggiò a continuare a ballare, ignorando la ragazza che le si era fatta sempre più vicina. Aveva dato la bottiglia di birra all’amica, prima di prenderne un ennesimo sorso, e si era avvicinata a lei, continuando a ballare, e guardandola in viso. Sorrideva, la ragazza, e quando arrivò ad un passo da Marina le chiese, avvicinandosi al suo orecchio: «Posso?». 
   
 
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